Nagorno Karabakh: alle porte dell’Europa gli Armeni espulsi dalle loro terre (Rainews 22.01.24)

Molti paesi attualmente sono in mano agli azeri, numerose città sono state abbandonate e hanno subito saccheggi. Luoghi di culto, in particolare chiese, sono state convertite in moschee; monumenti e croci abbattuti. Sembrerebbe in atto un tentativo di riscrivere la storia, eliminando ogni traccia armena nella regione. Tutto ciò avviene sotto lo sguardo passivo della comunità internazionale.  “Il mondo deve fermare tutto questo. Non è possibile che gli interessi siano più importanti della giustizia. Non è giusto rimanere in silenzio”.

Gli analisti precisano che il “conflitto” in atto tra Azerbaijan e Armenia non è di matrice religiosa, ma piuttosto territoriale, perché l’obiettivo è quello di strappare al popolo la terra e cancellare ogni traccia di una presenza storica“Il Nagorno Karabakh appare sempre più come una “partita” giocata tra Stati Uniti, Russia, Europa e Turchia”. Il Karabakh non esisterà più dal 1° gennaio 2024 e le sue istituzioni saranno presto sciolte. Intanto gli abitanti, nonostante le promesse di protezione dell’Azerbaijan, dopo l’attacco militare del 2023, sono fuggiti per paura di una futura pulizia etnica.

Il popolo armeno è ricco di storia millenaria, ma gran parte è esiliato in tutto il mondo; su 12 milioni di armeni, nove vivono in esilio. Una piccola parte è concentrata in minuscole porzioni del Caucaso che comprende la Repubblica d’Armenia, a dispetto del gigantesco regno antico che si estendeva dal Mar Caspio al Mediterraneo.

Il cristianesimo in Armenia è stato introdotto nel primo secolo dell’era cristiana ad opera degli apostoli Bartolomeo e Taddeo. Ma bisognerà attendere il governatore Tridate III, convertito e battezzato da San Gregorio l’Illuminatore, nell’anno 301, per ufficializzare il cristianesimo di Stato, qualche decennio prima che a Roma.

La tesa situazione nel Caucaso Meridionale preoccupa papa Francesco che più di una volta ha esortato le parti ad arrivare alla firma di un trattato di pace. Inoltre Francesco ha precisato che “è urgente trovare una soluzione alla drammatica situazione umanitaria degli abitanti di quella regione, favorire il ritorno degli sfollati alle proprie case in legalità e sicurezza e rispettare i luoghi di culto delle diverse confessioni religiose ivi presenti”.

Padre Tirayr HakobyanPadre Tirayr Hakobyan
Padre Tirayr Hakobyan

Abbiamo incontrato Padre Tirayr Hakobyan, Archimandrita della Chiesa Apostolica Armena in Europa Occidentale, incontro organizzato dall’Ass. Iscom Roma.

Qual è la situazione attuale in Armenia?

È molto preoccupante, anche per le dichiarazioni che rilascia il presidente dell’Azerbaijan ai mezzi di comunicazione. Il presidente afferma che l’Armenia non esiste, che fa parte dell’Occidente del loro paese. Inoltre dicono che la nostra cultura è la loro cultura. Stanno falsificando la nostra storia; dichiara che le nostre Chiese sono Chiese appartenenti all’Albania del Caucaso e quindi fanno parte della storia dell’Azerbaijan, per cui sono autorizzati a prendersi la nostra terra. Vedo un tentativo di assorbimento del nostro paese e questo è pericoloso, anche perché potrebbe sfociare in un’ennesima guerra dalle conseguenze terribili per il nostro paese già martoriato.

Padre Tirayr mi spieghi meglio…

Io penso che se le potenze mondiali, la comunità internazionale non interverranno in tempo su questo problema, sicuramente ci sarà un’altra guerra con un conseguente genocidio. Gli Armeni non hanno una terra dove fuggire, in qualche modo resistono a questo inferno. Questa guerra sarà tra l’Azerbaijan e la Turchia, che cerca di estendere il suo potere “imperiale” nella regione e nei paesi musulmani dove si parla il turco. Dovete capire che la Turchia gioca un ruolo da protagonista.

Il Nagorno Karabakh non esiste più dal 1° gennaio 2024. Quale è la situazione dei cristiani armeni in quel territorio?

Attualmente nel Nagorno Karabakh non ci sono più Armeni. I 120 mila abitanti sono fuggiti verso l’Armenia, per paura e mancanza di fiducia nel governo dell’Azerbaijan, nonostante questi avessero assicurato protezione. Oggi queste persone vivono in villaggi, cercano lavoro, ma gli aiuti arrivano soprattutto dai nove milioni di armeni sparsi in tutto il mondo. C’è un odio evidente da parte degli azeri verso la cultura e la popolazione armena. Le condizioni da parte del governo dell’Azerbaijan per coloro che volevano rimanere nel Karabakh erano improponibili. Volevano costringere la popolazione armena ad accettare la dipendenza dal punto di vista culturale, politico e sociale del paese, per così rimanere sotto il controllo del regime azero. Le dieci persone che sono rimaste, sono tutti anziani che non potevano intraprendere un lungo viaggio a causa delle precarie condizioni di salute.

Nel Caucaso continua la distruzione del patrimonio armeno-cristiano. Quante chiese, edifici, monumenti cristiani sono stati abbattuti?

Tra chiese e monasteri se ne contano più di 400, invece tra tombe e monumenti più di 1200. Vediamo che l’Azerbaijan vuole riscrivere la nostra storia, togliendo gli scritti, graffiando frasi millenarie impresse nei nostri monumenti, che confermano l’autenticità e la presenza del nostro popolo. Vogliono dimostrare davanti agli occhi di tutto il mondo che i monumenti storici appartengono a loro. Inoltre la Chiesa apostolica armena nel Nagorno-Karabakh ha un patrimonio molto vasto. Erano presenti molte chiese armene risalenti al V e VI secolo, ma sono state completamente distrutte.

Comunità armena in Italia Comunità armena
Comunità armena in Italia

Il mondo condanna la guerra tra Russia e Ucraina, ma poco il dramma che soffre il popolo armeno. Secondo lei, quali sono i motivi per cui mettono a tacere il conflitto? 

Se il paragone che viene utilizzato è quello, per cui la Russia considera l’Ucraina come una parte dell’Unione Sovietica, allora questo può valere anche per l’Azerbaijan nei confronti dell’Armenia in particolar modo con il Nagorno Karabakh. Questo è un pensiero pericoloso perché se loro pensano di recuperare i territori imperiali con questo concetto, il mondo potrebbe diventare un grande caos. Penso che si parli poco del nostro conflitto, in nome della “partita” dei grandi interessi come quello del gas e il petrolio. L’Azerbaijan fornisce queste materie prime all’Europa, ma sono i russi stessi che riforniscono il petrolio, non solo all’Azerbaijan ma anche alla Turchia. Il nostro territorio è diventato transito di merce preziosa, anzi siamo diventati un ostacolato ai loro affari.

Quali sono stati gli aiuti concreti da parte degli Stati Uniti e dell’Occidente nei vostri confronti?

Abbiamo ricevuto ben poco, anzi eravamo fiduciosi che gli Stati Uniti e l’Unione europea facessero pressione sull’Azerbaijan, ma questo non è avvenuto in maniera netta. Chi si è realmente pronunciato in maniera chiara e trasparente è stato il Santo Padre e anche il governo francese di Macron. Entrambi hanno necessità del ritorno in sicurezza e legalità del popolo armeno. Inoltre hanno chiesto che si rispettassero i luoghi di culto delle diverse confessioni religiose ivi presenti. Abbiamo visto che il mondo ha condannato l’invasione della Russia in Ucraina, ma l’Azerbaijan ha fatto lo stesso, e il mondo lo ha accettato in maniera silenziosa. Ma a subire sono centinaia di migliaia di persone, tra uomini, donne, bambini e anziani, costretti a lasciare la loro terra e a rifugiarsi in Armenia. Stiamo rimanendo senza patria, non vogliamo emigrare, ci sentiamo soli!

In che maniera venite incontro ai vostri fedeli?

Cerchiamo di sostenerli dal punto vista materiale e spirituale. Cerchiamo di trovare alloggi per le nostre famiglie, per le donne e i bambini che stanno affrontando questo dramma. Ci sono molte vedove i cui mariti sono stati uccisi in guerra. Mi è capitato di assistere una mamma, senza marito, con tre figli. Oltre al problema emotivo, la donna non riesce a lavorare, né a mantenere e curare la sua famiglia, tantomeno a crearsi un futuro.

Gli aiuti umanitari, diciamo così, non sono arrivati massicciamente. In passato l’UE aveva un capitolo di spesa nel bilancio per aiutare queste famiglie, oggi non c’è più. Mi ricordo i primi anni quando la Russia invase l’Ucraina, le porte dell’Europa furono aperte accogliendo i profughi ucraini in maniera dignitosa. Ma per gli armeni del Nagorno Karabakh le porte sono chiuse.

Padre Tirayr Hakobyanc’è un lume di speranza in cui si possa raggiungere la pace?

Da parte degli armeni c’è l’intenzione di raggiungere la pace, ma devo dire che sono poco fiduciosi. La pace si realizza quando entrambe le parti la desiderano e si concretizza con un accordo firmato. Il problema è che l’Azerbaijan non vuole gli armeni. Agli azeri serve la terra senza che gli armeni siano d’impiccio. Ecco perché non vediamo la luce. L’Armenia chiede agli Stati Uniti e l’Europa di farsi garanti di quest’accordo. Altrimenti, affinché si raggiunga la pace, chiediamo a queste potenze trasparenza e sincerità nei nostri confronti. Ci dovranno dire che questo processo non è possibile semplicemente perché ci sono troppi interessi economici e politici. In ogni caso il nostro popolo ha il coraggio di vivere nonostante il passato genocidio. Oggi potremo sopravvivere solo con la pace. Non vogliamo subire un’altra pulizia etnica davanti agli occhi di tutto il mondo.

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Le pietre perdute del Nakhichevan e il pericolo per il patrimonio dell’Artsakh. Il genocidio armeno infinito (Korazym 22.01.24)

 Segnaliamo che domani, martedì 23 gennaio 2024 alle ore 19.00, presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati in via della Missione 4 a Roma, verrà presentato il libro a cura di Aldo Ferrari e Antonia Arslan Un genocidio culturale dei nostri giorni. Nakhichevan: la distruzione della cultura e della storia armena (Guerini e Associati 2023, 224 pagine [QUI]).

Interverranno i curatori del libro, Antonia Arslan e Aldo Ferrari; l’On. Giulio Centemero, Presidente del Gruppo Parlamentare di Amicizia Italia Armenia; Marco Pizzo, Direttore del Museo Centrale del Risorgimento di Roma. Sarà possibile assistere alla presentazione anche online [QUI].
Il Nakhichevan ha avuto a lungo un ruolo molto importante nella storia e nella cultura dell’Armenia. Però, la millenaria presenza armena è stata completamente cancellata in questa regione che costituisce una repubblica autonoma dell’Azerbajgian. Non solo, gli Armeni hanno cessato completamente di vivere nel Nakhichevan, ma il loro imponente patrimonio artistico – in particolare le celebri croci di pietra (khachkar) di Giulfa, ma anche le numerose chiese – è stato completamente distrutto dalle autorità azere negli ultimi decenni.

Questo libro nel contempo è un chiaro monito per ciò che, purtroppo, sta accadendo in Artsakh, ormai anch’esso privo della sua popolazione armena, con il pericolo per l’importante patrimonio culturale e architettonico ora sotto controllo azero.

Antonia Arslan ha insegnato Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova. Ha dedicato a temi letterari più di una ventina di libri e moltissimi saggi, fra cui: Dino Buzzati bricoleur e cronista visionario; Dame, droga e galline. Il romanzo popolare italiano fra ’800 e ’900; Dame, galline e regine. La scrittura femminile italiana fra ’800 e ’900. Ha tradotto Il canto del pane del poeta armeno Daniel Varujan e ha successivamente curato molte altre opere sul genocidio armeno. La sua grande notorietà come scrittrice è legata in primo luogo alla straordinaria potenza narrativa di La masseria delle allodole (2004) e del seguito, La strada di Smirne (2009). Seguono diversi altri romanzi, fra cui Il libro di Mush (2012) e, ultimo, Il destino di Aghavnì (2022).

Aldo Ferrari insegna Lingua e Letteratura Armena, Storia dell’Eurasia e Storia del Caucaso e dell’Asia Centrale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Per l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) di Milano dirige il Programma di Ricerca su Russia, Caucaso e Asia Centrale. È presidente dell’Associazione per lo Studio in Italia dell’Asia centrale e del Caucaso (ASIAC). Tra le sue recenti pubblicazioni: Quando il Caucaso incontrò la Russia (2015); Armenia. Una cristianità di frontiera (2016); L’Armenia perduta. Viaggio nella memoria di un popolo (2019); Storia degli armeni (con Giusto Traina, 2020); Storia della Crimea dall’antichità a oggi (2022).

Il Coordinamento delle Associazioni e Organizzazioni armene in Italia, salutando con soddisfazione la pubblicazione di questa opera di testimonianza su quanto accaduto in Nakhichevan, ritiene doveroso sottolineare ancora una volta il rischio che la Nazione armena e il suo popolo stanno correndo a causa delle ricorrenti minacce dell’Azerbajgian il cui Presidente, nonostante la conquista del Nagorno-Karabakh (Artsakh), continua a rivendicare territori armeni e dà vita a fantasiose ricostruzioni “storiche”.

Il Coordinamento

  • riafferma con fermezza la necessità che media e istituzioni politiche italiane comprendano l’importanza di preservare l’identità armena nel Caucaso come elemento fondamentale per la salvaguardia della nostra stessa Europa;
  • condanna le interessate lobby italiane pro-Azerbajgian che non hanno alcuna remora nel difendere una delle peggiori dittature al mondo avendo a cuore unicamente i propri interessi;
  • ringrazia tutti coloro che sostengono disinteressatamente la causa armena in questi difficili momenti che vedono il riacutizzarsi di tensioni e conflitti internazionali.

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Le Pietre Perdute del Nakhicevan e il Rischio Nagorno Karabakh. (Stilum Curiae)

L’Armenia e la sua crisi umanitaria alle porte d’Europa (Metropolitanmagazine 22.01.24)

Parliamo oggi della complessa situazione in Armenia e le sue sfide più complesse, tra cui il conflitto del Nagorno Karabakh che sta portando ad una crisi umanitaria le cui conseguenze, forse, arriveranno alle porte dell’Europa.

Purtroppo non se ne parla abbastanza. L’Armenia, nel contesto storico e politico del Caucaso, ha affrontato sfide difficili tra cui il conflitto del Nagorno Karabakh. Quest’area a maggioranza armena è stata al centro di tensioni, culminate nel 2020 con un violento scontro tra Armenia e Azerbaigian, portando a un accordo di cessate il fuoco con il coinvolgimento della Russia.

Ma l’Armenia, situata appena a sud della vasta catena montuosa del Caucaso, è da tempo il punto focale di una serie di conflitti e tensioni. Ma le notizie attualmente sono preoccupanti. Più di 120 mila armeni, tra cui 30 mila bambini, hanno abbandonato il Nagorno Karabakh, costituendo quasi l’intera popolazione. La situazione umanitaria è critica, dopo mesi di assedio senza accesso a acqua e cibo.

Per capire meglio la situazione in Armenia serve un po’ di background:

L’Armenia, situata nel Caucaso meridionale, ha una storia complessa e antica, caratterizzata da periodi di dominio e influenze persiane, bizantine, mongole e ottomane. Nel 1918, l’Armenia dichiarò la sua indipendenza, ma presto prese pare in conflitti territoriali e subì la spartizione tra l’Impero Ottomano e l’Unione Sovietica. Nel 1991, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, l’Armenia ottenne l’indipendenza.

Il Nagorno Karabakh è una regione montuosa a maggioranza etnica armena, situata all’interno dell’Azerbaigian. Dopo il crollo dell’URSS, scoppiarono tensioni etniche e conflitti tra armeni e azeri nella regione. Nel 1994, un cessate il fuoco pose fine alla guerra, stabilendo il controllo de facto dell’Armenia sul Nagorno Karabakh.

Invece nel 2020, il Nagorno Karabakh è tornato al centro dell’attenzione a causa di un violento conflitto tra Armenia e Azerbaigian. Nel novembre dello stesso anno, vediamo un accordo di cessate il fuoco dalla Russia, che ha portato al ritiro delle forze armene dalla regione. Questo accordo ha anche stabilito il dispiegamento di truppe di pace russe nella zona.

Cosa sta succedendo ora?

Attualmente, molte terre sono sotto il controllo degli azeri, e numerose città sono state evacuate e oggetto di saccheggi. Luoghi di culto, soprattutto chiese, sono stati trasformati in moschee; monumenti e croci sono stati demoliti. Sembra esserci un tentativo in corso di riscrivere la storia, cancellando ogni traccia armena dalla regione. Questi eventi si svolgono sotto l’occhio indifferente della comunità internazionale.

 “Il mondo deve fermare tutto questo. Non è possibile che gli interessi siano più importanti della giustizia. Non è giusto rimanere in silenzio”.

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Nagorno Karabakh, c’è ancora molto da fare (Osservatorio Balcani e Caucaso 22.01.24)

La fine del Nagorno Karabakh armeno, dopo gli sconvolgimenti che hanno interessato la regione nel 2023, non ha messo fine alle questioni aperte, sia per la regione contesa che nei rapporti travagliati tra Armenia e Azerbaijan. Una panoramica su situazione attuale e sfide future

22/01/2024 –  Marilisa Lorusso

Per il Nagorno Karabakh si entra nel nuovo anno con il fardello di un 2023 sconvolgente. Da un lato c’è il territorio di quella che è stata la repubblica secessionista armena dell’Artsakh, che si va ripopolando di cittadini azeri con il cosiddetto “grande ritorno”. Nel frattempo, si continuano a trovare armi  .

La riappropriazione del territorio da parte del governo di Baku passa per la messa in sicurezza, per il ripopolamento e, purtroppo, anche attraverso la rimozione della memoria dei precedenti residenti. Sono circolate immagini  della distruzione e della profanazione delle tombe del memoriale dei soldati armeni caduti durante le guerre del Karabakh.

A febbraio in quella che ora è chiamata la zona economica del Karabakh si voterà. In Azerbaijan si tengono infatti, a sorpresa, le elezioni presidenziali anticipate il prossimo 7 febbraio. Sette i candidati, esito scontato a favore dell’attuale capo di stato Ilham Aliyev. Saranno ridottissime le missioni di monitoraggio, l’Unione Europea non parteciperà ad elezioni assolutamente non competitive che appaiono più un rituale che un atto di esercizio di diritti politici e democrazia.

In Karabakh ci saranno ventisei seggi  e 22.000 votanti, composti da 3.700 residenti e 18.000 lavoratori dislocati nell’area, impiegati nel settore edilizio e delle infrastrutture e coinvolti nel “grande ritorno” .

I karabakhi armeni

Dall’altro lato del confine restano gli ex abitanti del Karabakh, i 101.000 armeni circa che si trovano ora in Armenia. Lo stato di protezione temporanea è stato loro garantito da Yerevan come rifugiati, ed è rinnovabile su base annua. Sono state semplificate le procedure per ottenere la cittadinanza e il governo armeno ha recentemente attivato un training per facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro degli sfollati.

Secondo l’Armenia sono ancora 55 gli armeni detenuti come prigionieri di guerra, ma per Baku sarebbero invece 23. Sempre stando ai dati armeni  , 223 persone, di cui 25 civili, sono state uccise a seguito nell’offensiva del 19-20 settembre 2023. Altre 244 persone sono rimaste ferite, tra cui 76 civili.

Risultano ancora disperse 20 persone, tra cui 5 civili. Sarebbero stati documentati oltre 20 casi di profanazione di corpi. La grande fuga dal Karabakh ha avuto un suo ulteriore drammatico conteggio: oltre 70 morti nei pochi e drammatici giorni che hanno portato allo svuotamento della regione, oltre alle circa 270 vittime dell’esplosione di un deposito di carburante.

Il governo e le strutture statuali della repubblica di Artsakh, che avrebbero dovuto disciogliersi al primo gennaio 2024, sono rimaste in essere. Il presidente de facto Samvel Shahramanyan ha annullato il decreto sullo scioglimento  e rimane non chiaro come e cosa verrà fatto dagli organi di questo stato de facto scomparso, il cui parlamento si sarebbe riunito in sessione segreta a fine anno.

Le osservazioni sui Diritti Umani

Il Consiglio d’Europa (Coe), organizzazione di cui sia l’Azerbaijan che l’Armenia fanno parte, ha pubblicato le “Osservazioni sulla situazione dei diritti umani della popolazione colpita dal conflitto fra Armenia e Azerbaijan per il Nagorno Karabakh  ”, frutto del viaggio della Commissaria per i Diritti Umani Dunja Mijatović, effettuato dal 16 al 23 ottobre 2023. La visita ha toccato Armenia, Karabakh e Azerbaijan e aveva lo scopo di identificare una roadmap per indicare le priorità nel percorso di riconciliazione.

Il rapporto offre uno spaccato della situazione nella regione nell’autunno 2023, con il Karabakh già svuotato dalla popolazione armena. Si articola in una ricostruzione delle cause della fuga, riassunte come la combinazione “di paura radicata per la propria vita e il proprio futuro durante le escalation armate e il controllo dell’Azerbaijan derivante da precedenti atrocità irrisolte e atti intimidatori in corso, il senso di abbandono da parte di tutti gli attori interessati, comprese le autorità de facto e le forze di pace russe, l’alto livello di vulnerabilità sperimentato durante il blocco e l’improvvisa riapertura del corridoio di Lachin alla fine di settembre 2023”, che hanno portato i locali ad un esodo in massa ed improvviso.

Si ripercorrono poi le condizioni nel paese di arrivo, l’Armenia, le questioni del diritto al ritorno e gli obblighi dell’Azerbaijan in merito, della bonifica del territorio da mine ed esplosivi, dei prigionieri di guerra e di quanti mancano all’appello, delle violazioni del diritto umanitario.

Si esorta a far accedere al territorio organizzazioni di tutela dei diritti umani e l’impegno ad una autentica riconciliazione, mettendo da parte la retorica dell’odio, che è stata molto attiva per trent’anni e che non è andata stemperandosi dopo il conflitto, continuando ad essere uno dei principali nemici del processo di pace.

Pace o terre irridente

Al rapporto ha risposto il ministero degli Esteri dell’Azerbaijan  . Il ministero prende nota che la Commissaria riconosce che questa è stata la prima visita del Coe, che mai aveva avuto accesso al Karabakh nel periodo di secessionismo armeno. Il ministero, sottolineando quindi che l’Azerbaijan si sta dimostrando collaborativo, ritiene che il report della Commissaria confermi che non vi sia stata pulizia etnica, che infatti non viene menzionata come tale, anche se in più punti del rapporto si ricorda il clima di intimidazione e le oggettive minacce per la sicurezza poste sia dal lungo blocco che c’era stato sia dall’attività militare.

L’Azerbaijan continua a respingere l’accusa di aver attivato un blocco di nove mesi nel periodo precedente all’attacco, appellandosi ai diritti di sovranità ed amministrazione del proprio territorio, che ritiene di aver legittimamente esercitato su Lachin.

Baku si compiace che trovino eco nel report le proprie valutazioni sull’impatto di lungo termine del conflitto per distruzione di infrastrutture e per la questione delle mine, annoso problema che travaglierà probabilmente la regione per altre tre decadi, e altresì che venga riconosciuto che ha attivato dei meccanismi istituzionali e concreti per il reintegro degli armeni che – su base volontaria – hanno deciso di tornare o che sono rimasti in Karabakh.

Il governo azero esprime invece rammarico per il fatto che la posizione degli sfollati azeri non ha trovato sufficiente posto nel report, in particolare “che gli incontri della Commissaria con i sopravvissuti al genocidio di Khojaly perpetrato dall’Armenia, così come con i membri della comunità azera occidentale espulsi dalle loro case nell’Armenia moderna, non siano stati ripresi nel rapporto. Ciò avrebbe garantito una riflessione accurata sulla visita della Commissaria, nonché un approccio più completo alle questioni relative ai diritti umani che il rapporto intendeva trattare, compreso il diritto al ritorno. Ciò è di particolare importanza, poiché la stessa Commissaria ribadisce nelle sue osservazioni che tutte le persone sfollate a causa del conflitto di lunga durata hanno il diritto di tornare alle proprie case o ai luoghi di residenza abituale, indipendentemente dal fatto che siano state sfollate all’interno o oltre frontiera.”

Il cosiddetto “Azerbaijan occidentale” e la sua comunità restano intanto uno dei cavalli di battaglia di Baku nella attuale negoziazione con Yerevan. Gli azeri sfollati dall’Armenia, da territori che secondo il presidente Aliyev sono storicamente azeri, inclusa la stessa capitale Yerevan, dovrebbero poter ritornare, avere diritti culturali e linguistici salvaguardati non meno degli armeni che volessero rientrare in Karabakh.

Certo, definire l’Armenia come Azerbaijan occidentale non è affatto nello spirito di quella riconciliazione tanto auspicata dal Consiglio d’Europa e suona più di ambizioni revansciste territoriali che di pace.

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Cari adoratori del grande Kapuściński, rileggetevi cosa scriveva sul Nagorno-Karabakh (Korazym 21.01.24)

Il giornalista e scrittore polacco Ryszard Kapuściński ( (Pińsk, Polonia orientale, oggi Bielorussia, 4 marzo 1932 – Varsavia, 23 gennaio 2007) è ostinatamente “quasi censurato”. Si vedano i suoi giudizi sui Fratelli musulmani. O la vicenda di Gallina Vasilevna Starovojtova (Chelyabinsk, 17 maggio 1946 – San Pietroburgo, 20 novembre 1998 [QUI]), deputata sovietica ed etnografa russa nota per il suo lavoro nella protezione delle minoranze etniche e nella promozione delle riforme democratiche in Russia, uccisa a colpi di arma da fuoco nel suo condominio, che rese possibile a Kapuściński di raccontare dell’Artsakh.

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 21.01.2024 – Renato Farina] – Gallina Vasilevna Starovojtova! Mi ero dimenticato di questa donna. Mi era apparsa, presenza secondaria e fugace, in un libro di Ryszard Kapuściński del 1995, dove si parlava del Nagorno-Karabakh (in lingua materna, Artsakh). Molto più importante di Galina mi apparve subito l’autore del testo intitolato “La trappola”. Un racconto bellissimo. Giornalismo puro, e sporco di vita, così gonfio di realtà che invece di studiare i personaggi veri che transitavano per quelle pagine, mi ero innamorato dell’inviato speciale arrivato a Stepanakert e che aveva messo in bottiglia e gettato nell’oceano dell’umanità la strepitosa memoria di quel piccolo popolo, “destinato all’annientamento”.

Annientamento? Aveva scritto proprio così Kapuściński: “Gli abitanti del Nagorno lo sono”. Tutto già allora congiurava contro questi Armeni del Bosco Oscuro.  “Uno dei posti più belli del mondo, qualcosa come le Alpi, i Pirenei, il Rodope, Andorra, San Marino e Cortina d’Ampezzo messi insieme. Un cobalto fondo e trasparente. Lo smeraldo intenso. Un’aria cristallina”. Una bellezza pronta per essere sgozzata.
Non sto allontanandomi dal dolore attuale dei centomila Armeni cacciati via dalla propria terra per gettarmi nella letteratura. Ma non ho la forza di disperdere inchiostro nelle effimere cronache di avvicinamenti e allontanamenti diplomatici tra i governi di Armenia e Azerbajgian. Non ho cuore di trafiggervi con interviste spaventose per cinismo di ministri italiani che si rallegrano perché giustizia è fatta, e con l’occupazione il diritto internazionale ha trionfato sui deboli e i vinti.

Condividerle con voi mi parrebbe parte della congiura del silenzio, un analgesico omeopatico per lasciar scivolare la tragedia nell’ovatta delle cose secondarie e sentirsi a posto.

Ma sì. Genocidiuccio di un popoluccio, che sarà mai? Mi faccio schifo da solo a usare queste parole infami. Ma è il modo con cui infilo una spina sotto la mia unghia, e magari la vostra, per saltare su. Galina Starovojtova dove sei? Torna a Stepanakert per favore. Ma non può, l’hanno uccisa!

Leggere Kapuściński oltre a celebrarlo

Seduto sulla riva del lago di Sevan, aspettando l’invasione turca, che arriverà, oh se arriverà, pesco in fondo all’oblio perle del Nagorno-Karabakh. Disseppellendole ho la speranza di suscitare il desiderio di preservare per l’umanità queste genti, cambiando un poco la storia dei miei fratelli e, chissà, dei loro figli e nipoti resistenti in questo Caucaso meridionale che l’inerzia occidentale ha assegna ai Turchi e al loro rinascente impero ottomano, che dal Mediterraneo si dispiegherà presto fino all’Afghanistan e oltre.
Penso: magari rileggendo le opere e i reportage sanguinanti del maggior giornalista d’inchiesta degli ultimi 50 anni, le giovani generazioni di cronisti avranno il coraggio non solo di portarne la statua sulle spalle ai festival per onorarlo, agitando il turibolo e convocando le penne mainstream tutte dello stesso giro.

È lui, l’ho già citato, è Ryszard Kapuścińsk. Cari adoratori di lui – tra cui ci sto anch’io – invece di cullarci nella sua tecnica narrativa, nella prosa che scalda l’immaginazione, proviamo a verificare se i suoi racconti e i suoi giudizi degli eventi fossero veritiere, e durevoli, traendone le conseguenze. Ho scoperto infatti che il viaggiatore polacco è ostinatamente “quasi” censurato. Non tutto, qua e là, che è il modo perfetto per falsificare una persona e la sua opera. La vera fake news non è la panzana sesquipedale, ma la “quasi verità”.

Ad esempio, nella sua ultima opera, In viaggio con Erodoto, aveva scritto testualmente: «Fratelli musulmani, un’organizzazione clandestina di fondamentalisti e terroristi islamici» (pag. 109, Feltrinelli). Questo giudizio, non maturato orecchiando qua e là qualche talk show o ricavandolo da qualche ritaglio di quotidiano, ma sperimentato in corpore vili, constatato toccando il plasma rossiccio e i corpi neri per la morte, non si trova in nessuna citazione a lui riferita. Servirebbe, eccome, per giudicare Hamas e comprenderne la natura non pro-palestinese, ma islamo- terroristica; e così per capire chi sia Erdoğan e la sua politica interna ed estera, e la stoltezza di appoggiarci in Libia a chi aveva ed ha in mano Tripoli, cioè proprio loro: i Fratelli terroristi musulmani (Kapuściński dixit). Non c’è, nelle recensioni, forse per evitare querele, o a causa della cultura woke, è stata abrasa questa frasetta.

Germogli del KGB

Nei mesi scorsi avevo ricordato quanto nel suo volume Imperium (Feltrinelli1995), reportage sul disfacimento  dell’Unione Sovietica – vissuto da Kapuściński a pelle e palle, con cuore e testa, mani e piedi -, aveva scritto sull’Azerbajgian e sulla dinastia degli Aliyev che dominava quello Stato quand’era sovietico, e ne ha conservato il controllo totalitario con l’avvento della Repubblica islamica nazionalista turco-caucasica. Aveva raccontato come questa famiglia, da cui ancor oggi compriamo gas a caro prezzo, fosse un germoglio asiatico del KGB.

Ecco ne “La trappola”, il capitolo di Imperium (Feltrinelli 2013 [QUI]) c’è Galina Storovojtova, deputata sovietica innamorata del Nagorno e della sua gente, che rischiò la vita per consentire a Kapuściński quel racconto meraviglioso. Lui scrisse solo cinque anni dopo i fatti per “non esporre a rappresaglia” chi l’aveva aiutato (pag. 195) e così salvarle la vita. Be’, l’hanno uccisa nel 1998. E chi? Il KGB. Vedi il prossimo Molokano, se non ammazzano anche me prima.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero di gennaio 2024 di Tempi in formato cartaceo.

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Odersp: dal 4 all’11 settembre pellegrinaggio in Armenia e Georgia (GenteVeneta 21.01.24)

Si terrà dal 4 all’11 settembre prossimi il pellegrinaggio in Armenia e Georgia proposto dall’Odersp, l’Opera diocesana per gli esercizi spirituali e i pellegrinaggi.

L’Armenia è la prima nazione ad essersi convertita al Cristianesimo, nel 310 d.C, ed è un paese ricco di monumenti che testimoniano un’antica presenza cristiana, attraversata anche da momenti di “croce”, soprattutto nel secolo scorso.

La proposta, che certamente ha un taglio culturale di spessore, vuole essere soprattutto religiosa, con un’attenzione particolare ad aspetti legati alla fede cristiana. Oltre alle visite ai monumenti si incontreranno le comunità locali, per una testimonianza di fede viva nelle difficoltà che il popolo armeno sta vivendo, con momenti di catechesi e preghiera.

Il termine delle iscrizioni è fissato per il 29 febbraio; il viaggio si terrà con un minimo di 35 partecipanti. Per ogni informazione: www.patriarcatovenezia.it/esercizispirituali-oders/

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I cristiani in Turchia: un segno di speranza per il futuro (RiccardiAndrea 20.01.24)

Viaggio nel Paese musulmano, dove piccole comunità tengono viva la presenza di Cristo

La Turchia è un grande Paese musulmano, giovane, con 86 milioni di abitanti. Ha vissuto una storia novecentesca che ha creato lo Stato nazionale e laico con Atatürk, ma, nel XXI secolo con Erdoğan, ha messo l’islam al cuore della società. La Turchia, però, è stata terra cristiana dalle origini (si pensi alle lettere di Paolo o all’Apocalisse, ai Padri, al monachesimo e ai secoli di vita cristiana, anche sotto l’islam ottomano).

Il cristianesimo in quella terra è ormai alla fine? Fin da giovane sento con passione la realtà cristiana in Turchia, realtà più grande del loro numero. “Residuo” della storia in un Paese islamico? La “Grande Chiesa di Cristo”, il patriarcato ecumenico di Costantinopoli, con sede nel quartiere ex greco del Fanar, è una “piccola barca” che contiene frammenti del passato. Oggi gli ortodossi sono poche migliaia, ma grazie ai patriarchi, dal grande Atenagora fino all’attuale Bartolomeo – qui pulsa un cuore di unità specie tra ortodossi. Dal Vaticano II, ogni papa è venuto in visita. A Istanbul c’è la Chiesa armena (la più grande comunità cristiana in Turchia), scomparsa dall’Anatolia e segnata dal dramma delle stragi durante la Prima guerra mondiale.

Ai confini della Siria vive l’antico mondo dei siriaci, raccolti attorno ai monasteri del Tur Abdin. Una Chiesa, un tempo, un popolo in una società islamica, stretta nel conflitto tra curdi e Turchia, oggi svuotatasi con l’emigrazione. Ma i siriaci restano ancora. Un colto parroco siriaco a Mardin, 13 figli e un po’ più di cento fedeli, ortodossi e cattolici, celebra per tutti e cambia chiesa ogni volta per utilizzarle tutte.

Non lontano, a Adiyaman, nel 2011, è stata riaperta l’unica chiesa (siriaca) per concessione governativa e i cristiani sono riemersi dalla massa islamica. Le chiese del Tur Abdin, tra campagna e montagna, sono aperte e restaurate, con un siriaco come guida. Pochi monaci vivono in due monasteri aperti. Mi dice padre Gabriel: «La mia famiglia emigrava negli Stati Uniti. Volevo restare e sono entrato in monastero. La scelta è tra Dio e il benessere».

La Chiesa cattolica latina ha un rapporto particolare con turchi e immigrati: dalle chiese di Istanbul a quelle sperdute in Anatolia. Attraverso i missionari non dimentica piccole comunità, importanti ai suoi occhi.

Tenere aperta una chiesa è fedeltà ai presenti e speranza che domani ne verranno altri. In questo mondo grandeggia il ricordo del prete romano Andrea Santoro, ucciso mentre pregava nella sua chiesa di Trebisonda sul Mar Nero. Si ricorda pure il vescovo Padovese, anche lui ucciso. Santoro era li per i cristiani, ma pure per i musulmani. Spiegava così il senso della sua missione: «Io credo che ognuno di noi possa diminuire la lontananza di questi mondi». Le ridotte presenze in Turchia ricordano ai cristiani occidentali come la Chiesa sia ovunque fragile, anche in Europa. Affermava il cardinale Martini: «La perennità è assicurata alla Chiesa, non alle Chiese… la loro sopravvivenza è legata alla loro risposta». E concludeva: «Dunque la storia è seria ed è affidata a noi». In Oriente e in Occidente. In Italia come in Turchia. La storia è affidata a noi.

Editoriale di Andrea Riccardi su Famiglia Cristiana del 21/1/2024

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Armenia: necessità di una nuova Costituzione, per il primo ministro (Osservatorio sulla legalità

L’Armenia ha bisogno di una nuova costituzione, ha detto il primo ministro Nikol Pashinyan.

“In un paio di colloqui di lavoro con il ministro della Giustizia ho sostenuto che, a mio avviso, così come secondo alcuni miei colleghi, la Repubblica di Armenia ha bisogno di una nuova costituzione. Non di emendamenti costituzionali, ma di una nuova costituzione. Sto facendo questo opinione pubblica per avviare una discussione più ampia”, ha detto Pashinyan in un incontro con il personale del Ministero della Giustizia.

“L’Armenia dovrebbe avere una costituzione approvata dal popolo attraverso un voto, che non susciti dubbi. Questo è un altro aspetto importante legato alla legittimità”, ha osservato Pashinyan. Secondo lui, l’Armenia ha bisogno di una costituzione che la renda “più competitiva e vitale nella nuova situazione geopolitica e regionale”.

Il primo ministro ha sottolineato che il mondo sta cambiando molto rapidamente, motivo per cui è fondamentale rispondere alla domanda su come l’Armenia vede la propria sicurezza e su come garantirla. Ha osservato che una visione strategica del futuro dovrebbe basarsi sul concetto che l’Armenia “è uno stato sovrano, governato dalla legge, democratico e sociale”.

Pashinyan ha anche sottolineato la necessità di documentare il territorio e i confini dell’Armenia riconosciuti a livello internazionale. L’attuale forma parlamentare di governo si adatta meglio all’Armenia, ha aggiunto.

Nel frattempo, Pashinyan non ha fissato un calendario per lo sviluppo e l’adozione di una nuova costituzione.

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Corridoio di Zangezur: la pace fra Armenia e Azerbaigian si allontana (Scenari Economici 20.01.24)

Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha definito le ultime dichiarazioni del presidente azero Ilham Aliyev sulla delimitazione dei confini e sui collegamenti di transito “totalmente inaccettabili” e un “colpo” al processo di pace. 

“Prometto una ricompensa finanziaria a chiunque trovi il termine ‘corridoio Zangezur’ nell’accordo del 9 novembre”, ha dichiarato Pashinyan a un gruppo di parlamentari il 13 gennaio.
Si trattava di un riferimento ironico alla tesi dell’Azerbaigian, ribadita di recente da Aliyev, secondo cui la disposizione sull’apertura dei collegamenti di transito contenuta nell’accordo di pace mediato dalla Russia che ha posto fine alla Seconda Guerra del Karabakh del 2020 prevede un corridoio senza soluzione di continuità attraverso l’Armenia che colleghi l’Azerbaigian continentale e l’exclave di Nakhchivan, senza controlli doganali o di frontiera armeni. Per dare un’idea più chiara questo è il corridoio di Zangezur, secondo gli azeri:

Questa idea viene chiamata in Azerbaigian “corridoio Zangezur” e Baku ha spinto per questo con vari gradi di intensità dal cessate il fuoco del 2020. All’inizio dell’anno scorso sembrava aver fatto marcia indietro sulla richiesta nel contesto dei colloqui di pace.

All’inizio di ottobre, poco dopo la fulminea offensiva dell’Azerbaigian per impadronirsi dell’intero Nagorno-Karabakh, il progetto del corridoio sembrava non essere più in discussione dopo che si era aperto un percorso alternativo attraverso l’Iran. (Teheran, come l’Armenia, si oppone a gran voce all’idea del corridoio Zangezur).

La questione, che da tempo ispira i timori armeni di un’invasione azera, è ora di nuovo all’ordine del giorno: in un’intervista del 10 gennaio, Aliyev ha dichiarato che se il corridoio non verrà aperto, “l‘Armenia rimarrà in una situazione di stallo eterno. … Se il percorso che ho menzionato non verrà aperto, non apriremo il nostro confine con l’Armenia in nessun altro luogo. Quindi si faranno più male che bene“. Questa se non è una minaccia di guerra, non è neppure una promessa di pace.

Nell’ottobre dello scorso anno, il primo ministro armeno ha presentato un’iniziativa chiamata “Incroci di pace”, finalizzata alla cooperazione regionale. La proposta prevede collegamenti tra l’Azerbaigian continentale e il Nakhchivan con controlli doganali e di frontiera armeni. L’Azerbaigian l’ha liquidata come “PR” perché,  secondo l’accordo del 9 novembre 2020 che ha posto fine alla seconda guerra del Karabakh, il percorso che collega l’Azerbaigian continentale al Nakhchivan deve essere monitorato dalle truppe di frontiera russe. Però la  posizione della Russia in Armenia in questo momento non è tale da permetterle questo ruolo.

Enclave e villaggi

In un’altra parte dell’intervista del 10 gennaio, Aliyev ha chiesto la restituzione delle enclave e dei villaggi di confine che sono stati sotto il controllo armeno fin dalla prima guerra del Karabakh, tre decenni fa.

Pashinyan sembrava appoggiare l’idea di uno scambio di enclavi, con una “mappa concordata” come parte del processo, ma ha detto che se l’Azerbaigian avesse chiesto la restituzione di otto villaggi, l’Armenia avrebbe “sollevato la questione dei 32”.
Si trattava di un riferimento a diverse porzioni di territorio armeno ex sovietico che sono state controllate dall’Azerbaigian fin dalla prima guerra, nonché al territorio all’interno dell’Armenia, stimato in circa 215 chilometri quadrati, che le truppe azere hanno occupato in seguito a diverse incursioni tra il maggio 2021 e il settembre 2022.

L’Armenia e diversi Stati occidentali hanno chiesto il ritiro delle truppe azere dalle terre armene. Baku si è però rifiutata, adducendo come giustificazione la mancata demarcazione dei confini.

Aliyev ha dichiarato esplicitamente di non avere alcuna intenzione di ritirarle nelle sue osservazioni del 10 gennaio. “Non stiamo facendo un passo indietro perché il confine deve essere definito. Tuttavia, la nostra posizione, attualmente contestata dall’Armenia, non prevede alcun insediamento”. Insomma le richieste azere non prevedono nessuna concessione alla controparte, e questo sicuramente non facilita le transazioni diplomatiche.

La delimitazione e la demarcazione dei confini di stato tra Armenia e Azerbaigian, così come l’apertura dei collegamenti di trasporto, rimangono le questioni più contestate tra i due Paesi dopo la presa di possesso del Karabakh da parte dell’Azerbaigian a settembre. La commissione di confine che si occupa delle questioni di delimitazione e demarcazione ha tenuto la sua ultima riunione alla fine dell’anno scorso e la prossima, secondo Aliyev, si terrà questo mese, con all’ordine del giorno la questione dei villaggi di confine nella regione di Gazakh in Azerbaigian.

Sebbene i principi di un accordo di pace siano stati concordati a novembre, sembra che le parti abbiano respinto le rispettive bozze di proposte per l’accordo di pace. In un  momento in cui l’Iran sta reagendo militarmente ai suoi confini, questa contesa non chiusa che vede opposti armeni e turcofoni rischia di allargare i confini dei conflitti regionali, aggiungendo carburante agli incendi bellici mondiali.

Inoltre, le parti non sono d’accordo su chi debba mediare i colloqui. Erevan si oppone alla mediazione di Mosca, mentre Baku ha rifiutato i colloqui avviati dall’UE o dagli USA negli ultimi mesi.

A dicembre, i due Paesi sono riusciti a rilasciare una dichiarazione congiunta e a concordare uno scambio di prigionieri, ma non hanno un piano chiaro per continuare i colloqui bilaterali.

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Esplorazione congiunta armeno-britannica porta alla luce nuove meraviglie sotterranee (Scintilena 20.01.24)

Una squadra internazionale di speleologi ha mappato e documentato diverse grotte nel sud dell’Armenia

In una spedizione durata 12 giorni nel 2019, una squadra composta da speleologi armeni e britannici ha esplorato le grotte e i paesaggi mozzafiato delle regioni di Syunik, Vayots Dzor e Ararat in Armenia.

La spedizione è stata organizzata dal centro di antropologia armeno, dal team speleologico armeno (ASN) e dal Black Rose Caving Club britannico (BRCC).

Il team era composto da Samvel Shahinyan e Smbat Davtyan del centro di antropologia armeno, Tigran Armenyan dell’ASN, e da Alex Ritchie, Carol Smith, Chris Scaife e John Proctor del BRCC.

Durante la spedizione, i membri del team hanno mappato e documentato diverse grotte, tra cui il Dzhogkhk Dzor nella regione di Ararat, il Magellan e il Areni Mek nella regione di Vayots Dzor e diverse grotte vicino al Gnishiki gorge.

Uno dei risultati più significativi della spedizione è stata la riscoperta e l’esplorazione completa della grotta di Dghdghnatsak nella regione di Syunik, che si estende per 578 metri.

Questa grotta è ora considerata la terza più grande grotta in Armenia.

Inoltre, il team ha esplorato altre grotte carsiche nella gola di Vorotan, documentando numerose piccole cavità.

La spedizione ha permesso di ampliare la conoscenza delle grotte armene e di promuovere la collaborazione internazionale nella ricerca speleologica.

I risultati della spedizione saranno pubblicati in dettaglio in futuri articoli scientifici.

La spedizione è stata un esempio di collaborazione tra paesi e discipline diverse, dimostrando l’importanza dell’esplorazione e della ricerca per la scoperta di nuove meraviglie naturali.

La conoscenza acquisita durante la spedizione contribuirà a proteggere e preservare il patrimonio naturale dell’Armenia per le generazioni future.

 

Fonte:

https://www.facebook.com/groups/1812544669096995/permalink/2737970519887734/

 

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