Chi è Emmanuel Tjeknavorian, il nuovo Direttore Musicale dell’Orchestra Sinfonica di Milano (2duerighe 29.01.24)

A partire dalla Stagione 2024-2025, la Sinfonica designa come suo Direttore Musicale uno dei più grandi talenti di una nuova generazione di direttori d’orchestra, il viennese Emmanuel Tjeknavorian, classe 1995.

 

 

Una scelta coraggiosa, ma non avventata quella di questa importante Orchestra milanese. Credere nei giovani significa infatti darsi l’opportunità di crescere, avanzare. E dare alla città un’ulteriore possibilità di sviluppare turismo culturale internazionale.

In conferenza stampa Emmanuel Tjeknavorian appare subito come un giovane brillante, appassionato, preparato, aperto. Ha radici armene e viennesi.

Se il sangue è armeno, quindi focoso e appassionato, molto vicino al temperamento italico, come musicista si sente viennese poiché Vienna e la musica sono indissociabili ci dice. Basti pensare a Gluck, Mozart, Haydn, Beethoven, Schubert, Brahms, Bruckner, Mahler, Schoenberg e tanti altri, viennesi di nascita o adozione.

Ha iniziato come violinista, per poi avvicinarsi alla carriera di direttore d’orchestra, come suo padre, il suo primo maestro.

Risponde alle domande dei giornalisti in italiano, lingua che sta studiando, in inglese, lingua che padroneggia, tedesco madrelingua, ed anche in armeno a chi, dalla comunità armena, gli augura il benvenuto a Milano, città in cui lui si sente a suo agio.

A chi gli domanda se fare musica nella città della Scala non lo intimorisca, risponde sereno: non dobbiamo avere competitori musicisti, solo colleghi e talvolta amici. Ha infatti il desiderio di creare una grande comunità di giovani e non, amanti della musica.

La musica infatti, come l’amore non ha età. Per questo considera importanti tutti i media, anche i social o le affissioni che fanno conoscere eventi musicali.

Lui stesso è comunicatore musicale. Conduce infatti dal 2017 il suo programma radiofonico mensile “Der Klassik-Tjek” su Radio Klassik Stephansdom, in cui parla con personaggi noti della loro passione condivisa per la musica classica.

Lo vedremo presto sul palco dell’Auditorium di Milano con un programma costituito dalla Faust-Ouvertüre e Prelude und Liebestod da Tristan und Isolde di Richard Wagner e la Suite dal Rosenkavalier e Till Eulenspiegels lustige Streiche di Richard Strauss, venerdì 16 (ore 20) e domenica 18 febbraio 2024 (ore 16), con l’Orchestra Sinfonica di Milano, per l’appuntamento della Stagione Sinfonica intitolato “Amore in musica”. Sabato 17 febbraio invece proporrà un programma boemo dedicato a Bedřich Smetana (Vltava da Má Vlast) e Antonin Dvořàk (Sinfonia n. 8 in Sol maggiore), insieme all’Orchestra Sinfonica Giovanile di Milano.

I suoi debutti nelle principali orchestre internazionali

Nella scorsa stagione Emmanuel Tjeknavorian ha debuttato come direttore con la Filarmonica della Scala, la Radio-Sinfonieorchester di Berlino, l’Orchestra Sinfonica della Radio di Francoforte, la Gürzenich Orchester di Colonia, la Royal Stockholm Philharmonic, l’Orchestra Sinfonica di Milano, l’Orchestre de Chambre de Paris e l’Orquesta Sinfónica de RTVE di Madrid. Inoltre, ha diretto una celebre produzione semi-scenica di Die Fledermaus al Musikverein di Graz con l’Orchestra Sinfonica della Radio ORF di Vienna, così come la Messa in Do maggiore di Beethoven con la Wiener Kammerorchester e la Wiener Singakademie nella prestigiosa Konzerthaus di Vienna.

La stagione in corso invece ha visto il suo debutto come direttore con l’Orchestra Sinfonica Nazionale Danese, la Dresdner Philharmonie, l’Orchestre National d’Île-de-France, l’Orchestra della Toscana, l’Orchestre Symphonique de Mulhouse e la Sinfonieorchester Liechtenstein. E il suo ritorno con i Wiener Symphoniker dopo il suo debutto di grande successo nella stagione 2022/23, con la Württembergisches Kammerorchester Heilbronn, i Grazer Philharmoniker, la Philharmonie Zuidnederland e, ovviamente, l’Orchestra Sinfonica di Milano.

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Tre mostre dedicate al fotoreportage a Castellanza (VA) (Il Fotografo 29.01.24)

Dall’11 febbraio al 3 marzo 2024, Villa Pomini a Castellanza (VA) ospita tre mostre dedicate al fotoreportage che anticipano la 12esima edizione del Festival Fotografico Europeo, a cura di Claudio Argentiero, in scena dal 16 marzo al 25 aprile.

Le esposizioni – con le immagini di Roberto Travan, Giovanni Mereghetti, Reza Khatir e Ugo Panella – sono organizzate dall’Archivio Fotografico Italiano con il patrocinio del Comune di Castellanza, nell’ambito di Filosofarti – Festival di Filosofia. Le tematiche affrontate, dunque, anticipano e incontrano quelle del Festival Fotografico Europeo, la cui finalità è di “affondare lo sguardo oltre le apparenze per dare evidenza all’invisibile – dal punto di vista ecosistemico, sociale, culturale, etico e teologico, attraverso diverse forma di analisi e di espressione artistica – per costruire a livello comunitario forme di vita, di relazioni generative e antropiche”.

Ucraina, dalla parte dei bambini © Ugo Panella
Ucraina, dalla parte dei bambini © Ugo Panella

A Castellanza tre mostre dedicate al fotoreportage

Cosa significa vivere in un Paese da trent’anni in guerra? Quale futuro è possibile immaginare quando la pace è costantemente appesa a un filo? Quali possono essere i sogni, le speranze, i diritti di una comunità intimamente legata alla sua terra, alla sua cultura, a una storia millenaria?

Sono queste le domande a cui prova a dare risposta Roberto Travan attraverso il progetto intrapreso nel 2016 in Nagorno Karabakh, nel Caucaso meridionale. Provincia armena inglobata all’Azerbaijan da Stalin, all’uscita dell’Azerbaijan dall’URSS nel 1992 il Nagorno Karabakh proclama l’indipendenza. Inizia così un lungo conflitto che, tra scontri sanguinosi e fasi di quiescenza, ha provocato cinquantamila morti, più di un milione di sfollati e immense distruzioni. Fino al tragico epilogo, il 26 settembre 2023, quando l’Azerbaijan occupa ciò che resta del Karabakh costringendo oltre 100.000 persone a fuggire in Armenia.

Una situazione pressoché ignorata dalla comunità internazionale e dai media, che Roberto Travan ha voluto portare all’attenzione di tutti.

Iran, oltre il velo © Giovanni Mereghetti
Iran, oltre il velo © Giovanni Mereghetti

Tra le mostre dedicate al fotoreportage allestite a Villa Pomini c’è anche Iran, oltre il velo di Giovanni Mereghetti e Reza Khatir. Fra tradizioni religiose, imposizioni dall’alto, consuetudini millenarie, i due autori indagano l’uso del velo tra le donne iraniane, provando a scoprire quello che c’è dietro. Scrive infatti Giovanni Mereghetti: “Se gli occhi, come sostengono in molti, sono lo specchio dell’anima, attraverso la sottile fessura del niqab ci viene offerta un’opportunità. Quella di imparare a leggerli”.

Infine, in Ucraina, dalla parte dei bambini, Ugo Panella dà testimonianza delle condizioni in cui versa l’Ospedale Nazionale del Cancro di Kiev e della difficile quotidianità dei bambini affetti da patologie tumorali qui ricoverati. Una quotidianità aggravata dalla guerra. Mancano infatti gli antidolorifici, la sala operatoria non ha sempre a disposizione la tecnologia necessaria per affrontare operazioni complicate e i medici devono combattere con la paura delle bombe e dei missili che cadono molto vicino terrorizzando i bambini. Mentre la speranza di arrivare alla pace diventa sempre più flebile.

Info

Villa Pomini
Via Don Luigi Testori 14, Castellanza (VA)

Orari: sabato 15-18.30; domenica 10-12 e 15-18.30

Ingresso libero

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La nuova costituzione armena e le tensioni con l’Azerbaigian (Asianews 29.01.24)

Erevan (AsiaNews) – Come ha affermato il noto politologo armeno Sergej Melkonyan, in un’intervista a Kommersant, l’idea di una nuova costituzione in Armenia, avanzata in questi giorni dal premier Nikol Pašinyan, dipende dalle pressioni dell’Azerbaigian, che insiste per “il rifiuto del revanscismo” da parte degli armeni. Gli azeri vedono infatti un ostacolo insormontabile nella Dichiarazione di indipendenza dell’Armenia, nel cui preambolo richiamato dalla costituzione si parla della “riunione tra l’Armenia e l’Artsakh”.

Secondo Melkonyan, la dirigenza di Erevan sarebbe disponibile a fare delle concessioni su questo punto, e l’esempio sarebbe proprio la modifica alla legge fondamentale, che Pašinyan presenta come necessaria per “costruire un nuovo Paese democratico”. In realtà, non ci sarebbero ragioni così evidenti per cambiare il testo, se non per le preoccupazioni di Baku, che vuole eliminare ogni appiglio per la riapertura del conflitto in Nagorno Karabakh.

Il problema, secondo il politologo e molti altri osservatori, è che l’accordo di pace tra i due Paesi caucasici è decisamente poco credibile, rimanendo ancora una forte tensione, che difficilmente potrà essere placata dalla firma di qualche carta. Come afferma Melkonyan, “ad Aliev l’accordo non serve, lui ha già ottenuto tutto quello che voleva, il Karabakh, il corridoio e le vie di comunicazione, Baku ormai ha il pieno controllo”.

La posizione di forza degli azeri è confermata in questi giorni anche da un episodio denunciato dall’ex-garante per i diritti umani dell’Armenia, Arman Tatoyan, che ha accusato l’Azerbaigian di volersi impadronire di un altro monumento della cultura armena. L’antica chiesa armena di Aričavank nella regione di Širakh, risalente al V secolo, è stata presentata da un canale tv di Baku come un monastero “turco-cristiano” di proprietà dell’Azerbaigian, che in realtà “non esisteva a quei tempi, tanto meno può avanzare diritti su chiese e monasteri”.

Secondo la versione di Baku, quella zona dell’Armenia è da considerare parte del cosiddetto “Azerbaigian occidentale”, in cui vengono inserite diverse zone di altri popoli, dagli armeni ai turchi e ai persiani. Secondo Tatoyan “il vero scopo di queste affermazioni è la totale occupazione dell’Armenia, all’interno della politica non solo anti-armena, ma anche anti-cristiana dell’Azerbaigian”. A queste condizioni, tutte le dichiarazioni sugli accordi di pace appaiono soltanto elementi di controllo sulla situazione generale della regione.

Il complesso monastico di Aričavank fu edificato a partire dal VII secolo fino al XIII, e viene considerato un gioiello dell’architettura medievale armena, con grande ricchezza di decorazioni e bassorilievi. La guerra tra Armenia e Azerbaigian continua a vari livelli, compreso quello dell’appropriazione dell’eredità culturale.

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Istanbul, la paura dei cattolici: «Perché lasciano entrare i terroristi?» (Corriere della Sera

 Il giorno dopo l’attacco terroristico dell’Isis

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L’ingresso

nella chiesa italiana di Santa Maria ad Istanbul una grande bandiera turca copre l’ingresso, all’interno qualcuno ha depositato dei fiori per terra nel punto in cui è caduto Tuncer Cihan, un cittadino turco di fede alevita che frequentava la parrocchia diretta da padre Anton che appartiene all’ordine dei Frati Minori Conventuali. Dalla porticina nera che dà sul giardino è un via vai di persone che vengono a portare una lacrima, un sorriso, una stretta di mano. Non sono solo cattolici ma anche alevi, curdi, atei. Di prima mattina è arrivato anche l’imam della moschea vicina, a dimostrazione che questa è una comunità molto aperta e variegata. «Queste cose non dovrebbero succedere qui, è un posto tranquillo, lo è sempre stato — dice Afsin Hatipoglu, avvocato della chiesa cattolica qui in Turchia -, questi terroristi non dovrebbero essere lasciati entrare nel Paese, siamo circondati da Paesi pericolosi, bisogna aumentare i controlli». Il riferimento è ai tanti combattenti islamici che varcano il confine per combattere la loro guerra di religione. I due che hanno colpito la chiesa di Santa Maria venivano dal Tagikistan e dalla Cecenia. «Sono venuti qui per spargere sangue ma grazie a Dio soltanto una persona è morta» dice Hatipoglu. Accanto a lui padre Anton è chiaramente provato. Arrivato un anno fa qui nel quartiere di Buyükdere, dopo aver passato un quarto di secolo nella più famosa chiesa di Sant’Antonio a Beyoglu, il parroco è amato da tutti. «Non appena c’è un battesimo o un matrimonio la chiesa si riempie e dopo la messa ci si sposta in giardino a bere il caffé o il thé. Mercoledì alla preghiera per l’unità dei cristiani c’erano 130 persone» racconta Giovanna Nipote, 90 anni, nonni e padre italiani che è nata e cresciuta proprio qui. Lei domenica, all’ultimo momento, non è andata a messa. «Mi sarei seduta proprio negli ultimi banchi — dice —, dove quei due terroristi hanno sparato».

Sarebbe potuta essere una strage. «Dopo il secondo colpo – ha raccontato Şükrü Genç il sindaco del distretto di Sariyer – la pistola non ha più funzionato e gli aggressori sono fuggiti. In quel momento c’erano una quarantina di persone nella chiesa». Per terra sono stati trovati sei bossoli, tre vuoti e tre pieni. «È stata la madonna che ci ha protetto – dice sicura Giovanna -, d’altra parte non si chiama chiesa di Santa Maria?». L’idea di un miracolo, della protezione divina arrivata sui fedeli corre di bocca in bocca.

Negli anni ‘30 Buyükdere era un quartiere cristiano, abitato da italiani, greci e armeni. Poi si è trasformato ed è diventato più multiculturale ma è rimasto un posto tranquillo dove in poche centinaia di metri convivono una moschea e quattro chiese, di cui una ortodossa e una armena. Sulla riva del Bosforo le barche dei pescatori giacciono tranquille mentre nel mercato accanto si vende il pesce appena pescato. «Qui siamo tutti amici – dice Hasan, 63 anni, intento a giocare a carte in una sala da té -, non c’è razzismo, non c’è intolleranza, è la prima volta che succede una cosa del genere».

Per ora la chiesa di Santa Maria ha sospeso le attività che riprenderanno giovedì sera, il primo febbraio, con una preghiera collettiva cui parteciperanno membri dell’ambasciata vaticana, i fondatori della chiesa armena e tantissimi abitanti del quartiere che vogliono sentir risuonare la campana che chiama alla messa ancora una volta.

Ma resta la paura per quanto accaduto. La comunità cattolica «è terrorizzata, sconvolta – dice monsignor Massimiliano Palinuro, vicario apostolico di Istanbul — per questo attacco che pone anche degli interrogativi sul futuro della presenza cristiana in questo Paese. Ultimamente si stava respirando un clima di maggiore serenità, speriamo solo che questo evento possa essere isolato».

Ma non sono solo le minoranze ad essere in allarme. Con l’aggressione di ieri è salito a 305 il bilancio dei morti in azioni criminali firmate da cellule dello Stato Islamico: 15 diversi attacchi che, con l’eccezione di quello di ieri, erano stati tutti sferrati in un arco di tempo che va dal giugno 2015 al 31 dicembre 2016. Prima di ieri l’ultimo episodio risaliva infatti alla notte del 31 dicembre 2016, quando un terrorista armato di kalashnikov uccise 39 persone nella discoteca Reyna di Istanbul. La metropoli sul Bosforo appena sei mesi prima era stata teatro di un altro sanguinoso attentato, questa volta all’aeroporto Ataturk. I morti furono 48, ma il sistema di sicurezza non permise ai terroristi di fare irruzione all’interno evitando conseguenze peggiori. Istanbul era anche stata colpita da due attacchi kamikaze che nel centro della città avevano ucciso 13 turisti a gennaio a altre 4 persone nel marzo 2016.

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Nagorno Karabakh. Una risoluzione del Senato francese tutta da imitare (Tamoi.it 27.01.24)

Il parlamento transalpino ha invitato il Governo ad adottare sanzioni avverso l’Azerbaigian per via della condotta anti-umanitaria tenuta nella guerra con l’Armenia. E l’Italia? Sta con l’Azebaigian

Non c’è dubbio. In Italia esiste una certa vasta area della politica conformista che stenta a riconoscere e ad accettare i dettami dell’etica. Il che, tradotto in termini comportamentali, vuol dire che questi suoi esponenti pensano e agiscono in ossequio ai propri interessi e in disprezzo di ogni senso di moralità. La prova di tale deprecabile costume la rinveniamo d’altronde nella quotidianità della vita politica, nei fatti più effimeri, come in quelli che richiederebbero un esercizio di valutazione etica. Un esempio? Il voltafaccia che autorevoli esponenti del mondo politico italiano hanno adottato nei confronti dell’Armenia e del suo popolo vittima, e non lo dimentichiamo, del primo genocidio del XX secolo. Un genocidio che purtroppo perdura tuttora per mano azera anche se sotto forme diverse e con modalità differenti. Vediamo perché.

Che l’Armenia sia stato un Paese con il quale l’Italia ha mantenuto fin dalla sua indipendenza dall’Urss un rapporto privilegiato di amicizia è fuori discussione. La comune fede cristiana adottata fin dal 301 d.C., la condivisione di una identica base culturale, una sostanziale solidarietà di visioni e un riconoscimento dello stesso sistema valoriale sono stati da sempre elementi costitutivi di un collegamento tra i due Paesi che ha trovato la sua essenza in indiscutibili affinità elettive.

Ma tutto è cambiato da parte italiana non appena la classe politica dell’ultima ora (che sia di destra o di sinistra è del tutto ininfluente) ha scoperto – sotto l’influsso delle varie emergenze e crisi energetiche – che il Paese dell’Arca di Noè non aveva nulla da offrire in cambio di questa amicizia (non disponendo di combustibili fossili), contrariamente, invece, al suo vicino di casa, l’Azerbaigian, scopertosi un giorno a galleggiare su ricchi giacimenti di petrolio e di gas. Circostanza che ha comprensibilmente sollecitato l’appetito di quanti fossero interessati al loro sfruttamento o acquisto. Ecco allora che è intervenuto il radicale cambiamento nei rapporti bilaterali.

Italia non più equidistante

Se prima Roma adottava una prudenziale linea di equidistanza rispetto a Yerevan e a Baku –  sollecitata peraltro dall’interesse a garantire un sostanziale equilibrio all’area caucasica, anche nell’ottica di mitigare le tensioni più che trentennali tra i due Paesi – oggi la nostra Capitale non fa mistero della propria simpatia per Baku, e anzi se ne compiace rinnegando, con proditoria inversione di tendenza, perfino verità storiche innegabili. Così Roma si ritrova oggi improvvisamente schierata dalla parte dell’Azerbaigian, ne esalta il diritto alla integrità territoriale e ne riconosce addirittura la democraticità delle istituzioni. Per contro, da parte di queste stesse forze politiche non si ammettono le gravissime violazioni dei diritti umani, le torture e gli eccidi commessi dagli azeri ai danni degli armeni, né il diritto del popolo del Karabagh, peraltro consacrato da fondamentali normative internazionali, ad aspirare ad una indipendenza peraltro resa legittima dalla legge n. 13 del Soviet Supremo del 1990 sulla secessione delle Repubbliche sovietiche e delle loro entità sub-statuali (leggi nel caso: Nagorno Karabagh).

Ebbene, di questo profondo cambiamento di rotta è oggi testimonianza il biasimo espresso dal redattore dell’articolo pubblicato su “Formiche” (“Perché la mossa francese sull’Azerbaigian è un autogol”), a riguardo della risoluzione recentemente adottata all’unanimità dal Senato francese (336 voti contro 1), volta ad invitare il Governo ad adottare sanzioni avverso l’Azerbaigian per via della condotta anti-umanitaria tenuta nella guerra con l’Armenia in disprezzo del popolo del Karabagh. Se, tuttavia, nel caso della Francia si potrebbe eccepire una certa faziosità nel proteggere l’amica Armenia, giungerebbe peraltro quanto mai opportuna – a conferma della condotta anti-giuridica di Baku deplorata dal Senato francese – la notizia del rifiuto opposto dal Consiglio d’Europa ad accettare le credenziali della delegazione azera sulla base delle medesime sostanziali motivazioni: violazione dei diritti umani da parte dell’Azerbaigian e mancanza di rispetto dello stato di diritto.

Merito ai senatori francesi

Questa difesa ad oltranza, e contro ogni evidenza, della riprovevole condotta di Baku svolta da alcuni circoli politici della Capitale – che porrebbe il nostro Paese fuori dal circolo delle Nazioni a più alto indice di civiltà giuridica – non potrebbe trovare altra giustificazione se non nell’abitudine di certe comparse della politica nostrana ad esaltare cinicamente il “mercimonio” come strumento dell’azione, relegando invece a mera scelta opzionale il ricorso a condotte informate all’etica, alla morale e al rispetto di quel nucleo di superiori norme universali che conosciamo come Jus Gentium. In aggiunta, è anche da sottolineare sul tema, come la stessa Corte di Giustizia Internazionale abbia ritenuto di riconoscere con ordinanza del 17 novembre scorso la responsabilità di Baku per la negazione al popolo armeno del Karabagh di diritti fondamentali. Al di là del principio di integrità territoriale – seppure citato dalla Corte in riferimento a zone occupate ma di cui era prevista da parte armena la restituzione in sede di negoziato – i giudici dell’Aja hanno condannato apertamente l’atteggiamento persecutorio di Baku richiamando la sua dirigenza al rispetto del Diritto umanitario.

Diamo, dunque, merito ai senatori francesi per questa loro coraggiosa posizione assunta a difesa del popolo armeno. Non sempre, infatti, si può barattare il diritto con l’interesse economico e l’etica col proprio tornaconto; e in questa prospettiva sarebbe proprio auspicabile che si potesse vedere un comportamento simile da parte dei senatori italiani ormai assuefattisi alla subalternità verso chi detta loro le regole per come comportarsi. Ma i francesi sanno fare le rivoluzioni, lo sappiamo, e quando le fanno, le fanno in nome dei diritti!

Bruno Scapini
già Ambasciatore d’Italia
Presidente Onorario e Consulente Generale
Ass.ne Italo-armena per il Commercio e l’Industria

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Giornata della Memoria: i genocidi non finiscono mai (Latestamagazine 27.01.24)

Oggi 27 gennaio è la Giornata della Memoria, un giorno particolare in cui si commemorano le vittime della Shoah.

Il tragico evento, ricordato anche come Olocausto, ha avuto un giorno a lui dedicato proprio dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 2005.

Si stabilì quella data poiché nel 1945 l’Armata Rossa liberò il campo di concentramento di Auschwitz e tutti i suoi prigionieri.

In tale luogo i nazisti compirono gesti inimmaginabili e, una volta arrivati, i russi si trovarono davanti le testimonianze di una delle più grandi tragedie del secolo scorso.

Sappiamo, però, che questo non fu l’unico evento drammatico avvenuto, e che tentativi di sterminio non solo ci sono stati ma continuano ad accadere.

Secondo l’ONU il genocidio è ogni tipo di atto commesso con l’intenzione di distruggere, in tutto in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.

Ovviamente si tratta di un reato gravissimo, pari al terrorismo e fa parte dei crimini internazionali.

Come abbiamo già scritto, la Shoah non è l’unico genocidio che si ricorda.

Massacro degli armeni

Durante la prima Guerra Mondiale, il popolo armeno fu massacrato dai turchi che deportarono gran parte della popolazione con l’intento di sterminarla.

L’idea era sempre la stessa, creare uno stato monoetnico sia linguisticamente e culturalmente e gli armeni, molto più vicini all’Occidente, erano un ostacolo da dover abbattere.

Nel 1915 si diede avvio a questo terribile piano, prima con la parte della popolazione armena più ricca, poi con tutto il resto. La maggior parte di loro morì e i beni vennero confiscati.

Genocidio dei Balcani

Altro evento da tenere a mente e il genocidio dei Balcani, durante la guerra tra i paesi dell’ex Jugoslavia: Serbia, Croazia, Slovenia, Bosnia- Erzegovina, Montenegro e Macedonia.

Cosa successe? In Serbia, partire dal 1937, si tentò di “ripulire” il territorio dagli stranieri, che in questo caso era la popolazione del Kosovo.

La Serbia, già molto provata da un grande massacro in Croazia, con la disgregazione dell’ex Jugoslavia decise di attuare un progetto per costruire la Grande Serbia.

Ovviamente in questa idea non erano ammessi stranieri.

Nel 1992 ci si sposta in Bosnia, un paese con una popolazione mista e maggioranza dei musulmani. Qui si snodano due eventi: il primo è l’assedio di Sarajevo, durato ben quattro anni, mentre il secondo è il genocidio di Srebrenica.

Durante questo triste evento morirono circa 8000 uomini musulmani, uccisi da serbi. L’accordo fu trovato solo nel 1995, ma il massacro era stato compiuto.

Oggi si può parlare di genocidio? 

Questi sono solo alcuni dei genocidi peggiori della storia, ma c’è la possibilità che l’ennesimo si compia, proprio davanti ai nostri occhi. Sto parlando della guerra tra Israele e Palestina, un evento che, in realtà, è iniziato diversi anni fa.

Sebbene non sia ufficialmente definito tale, ciò che sta accadendo nella Striscia di Gaza è assolutamente disumano. 

Rinchiudere una popolazione in un territorio circoscritto, privarla di elettricità, acqua e cibo, attaccandola continuamente, sembrano dei presupposti più che validi.

L’11 gennaio 2024 è iniziato il processo per genocidio contro Israele accusato dal Sudafrica proprio alla Corte Penale Internazionale dell’Aia. Si sosterrebbe, infatti, che Netanyahu stia violando la Convenzione del 1948, compiendo uccisioni tra civili.

Israele ha smentito immediatamente le accuse, ma ci vorranno diversi anni per stabilire la verità.

Intanto, il bilancio dei morti palestinesi si aggira, secondo i numeri proclamati da Hamas, intorno ai 25.000. Numeri considerevoli.

Insomma, il genocidio è un reato gravissimo, una delle forme di disumanità più grandi. Cercare di eliminare una popolazione perché ritenuta inferiore o di ostacolo è qualcosa di inimmaginabile.

La Giornata della Memoria è stata istituita per ricordare non solo i 6 milioni di ebrei che persero la vita durante l’Olocausto, ma per far sì che una cosa del genere non accada mai più.

Ma siamo sicuri di aver imparato?

Aprire le menti e gli occhi davanti agli eventi che stanno accadendo è fondamentale per poter apportare un vero cambiamento.

Martina Maiorano

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La programmazione Rai per il Giorno della Memoria (Rai.it 27.01.24)

Una giornata di riflessione tra approfondimenti, documentari e testimonianze di chi tramanda una verità ancora difficile da raccontare. Sabato 27 gennaio la Rai dedica una programmazione speciale al “Giorno della Memoria” sulla Shoah.

A partire dagli approfondimenti su Rai 1 con “Uno mattina in famiglia” (in onda alle 8.30), Rai 2 con “TG2 Dossier” (ore 23.20) e Rai 3 con “Agora’ Weekend” (ore 8.00), “Tv Talk” (ore 15.00), “Chesarà” (ore 20.15). In tutti i Tg nazionali, nelle edizioni del Giornale Radio e in quelle regionali della Tgr saranno garantiti servizi, dirette e speciali.

Un’attenzione particolare è dedicata alla produzione cinematografica e documentaristica: Rai 2 in prima serata manderà in onda il film “Un sacchetto di biglie” di Christian Duguay, la storia di due fratelli, Joseph e Maurice, e del lungo viaggio per salvarsi dall’occupazione nazista di Parigi.

Nella notte di Rai 3, “Fuori Orario cose (mai) viste” (ore 01.45) presenta in prima tv due film di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi: “Ritorno a Khodorciur – Diario armeno” e il corto “Io ricordo”. Entrambi hanno come protagonista Raphael Gianikian, padre del regista Yervant e unico testimone vivente, ai tempi delle riprese, del genocidio armeno del 1915, nella Turchia Orientale.

Anche Rai Cultura dedica alla Memoria della Shoah un’ampia programmazione su Rai Storia (in onda da dopo il tramonto e per tutta la notte), su Rai 5 e sul Web.

La programmazione completa nel NewsRai dedicato.

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Nagorno-Karabakh: le testimonianze nella serata “Armenia e Artsakh” (Sanmarinotv 27.01.24)

Alla Sala Montelupo di Domagnano l’incontro “Armenia e Artsakh”, proposto dal Coordinamento delle Aggregazioni Laicali di San Marino. “Dopo aver vissuto tremila anni in questa terra – spiega Teresa Mykhtaryan dell’associazione Il Germoglio -, gli armeni sono stati cacciati via da Turchia e Azerbaigian“. Lo scopo della serata è accendere i riflettori sulla situazione in Nagorno-Karabakh, terra che 120mila armeni sono stati costretti a lasciare. Una serata di ascolto e testimonianza con il giornalista Renato Farina, esperto della materia, e Teresa Mykhtaryan, responsabile armena dell’associazione Il germoglio. “Ci sono centinaia di monasteri e chiese che rischiano di essere distrutti dai turchi”, aggiunge Mykhtaryan. Da San Marino, da sempre attenta alle difficoltà degli altri popoli, partono progetti per aiutare gli armeni del Nagorno-Karabakh: a portarli avanti proprio l’associazione “Il germoglio”. “Cercheremo di aiutare famiglia per famiglia – conclude Mykhtaryan – per farli sentire meno soli. Vorrei che la gente giusta e i cristiani del mondo aiutassero gli armeni a tornare nella loro terra”.

Nel servizio l’intervista a Teresa Mykhtaryan (associazione Il Germoglio)

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TRIESTE 2024 Recensione: 1489 Film di Shoghakat Vardanyan (Cineuropa 26.01.24)

Dal 1° gennaio 2024 la repubblica del Nagorno-Karabakh (o Artsakh) – mai riconosciuta dalla comunità internazionale – ha smesso formalmente di esistere. Poco dopo l’invasione compiuta dall’esercito dell’Azerbaigian nel settembre 2020 il presidente Samvel Shakhramanyan aveva firmato un decreto in cui prometteva di sciogliere tutte le istituzioni statali di un territorio storicamente appartenente all’Armenia, assegnato all’Azerbaigian durante l’era sovietica. E alla fine del settembre 2023 l’intera popolazione di questa regione è fuggita oltre il confine con l’Armenia. Un conflitto ai margini dell’Europa rimasto per poche ore tra le news internazionali, fino a quando una settimana dopo è scoppiato il conflitto a Gaza e gli occhi sono tutti puntati su Israele.

Girando esclusivamente con la camera del suo telefono, la studentessa di giornalismo Shoghakat Vardanyan ha raccontato l’angoscia che ha attanagliato la sua famiglia alla scomparsa del fratello Soghomon a pochi giorni dall’inizio del conflitto, mentre stava finendo il servizio militare obbligatorio. 1489, il codice assegnato al cadavere di un anonimo “disperso in azione”, è il titolo del suo documentario d’esordio, vincitore di due premi, tra cui quello per il miglior film, all’IDFA di Amsterdam a novembre e ora in programma al Trieste Film Festival.

“Non è nella lista dei caduti. Deve rivolgersi all’Istituto Militare Mamikonyan”. Con questa telefonata comincia la febbrile ricerca del 21nne studente di musica. Il dubbio s’insinua nella mente dei genitori di Shoghakat. “Parli al passato di lui” è il rimprovero della giovane donna al padre Kamo. “E’ la paura a parlare. Il male sta distruggendo i miei sogni. Ho costruito un nido per la mia famiglia e ora arrivano i barbari a invadere la mia vita”. L’obiettivo della regista si muove bypassando qualsiasi sintassi cinematografica e scopriamo una madre che cuce cuscini per i ragazzi al fronte, prega o legge un libro sul divano per distrarsi da quella idea fissa. Un padre artista che lavora l’argilla e dipinge, e ha costruito una casa spaziosa e luminosa in quell’enclave difeso con le unghie e con i denti (la guerra per il diritto alla autodeterminazione della popolazione armena che vive lì è iniziata nel 1988).

Quando va in caserma a chiedere notizie del figlio, Kamo si sofferma sui fregi di un antico portale in pietra che raffigura l’albero della vita e racconta dell’eroe della mitologia armena Sanasar. La sua sensibilità d’artista rifiuta l’idea di quella violenza, di suo figlio affamato e infreddolito, nascosto in un bosco, inseguito dal nemico. La sua ossessione per l’immagine e il segno lo spinge a disegnare su un pezzo di carta il presunto itinerario della ritirata del battaglione a cui apparteneva Soghomon. Sono questi i momenti visivamente più suggestivi del documentario. Se le immagini delle vecchie riprese di un Natale in famiglia e la lettura del biglietto dei desideri per l’anno nuovo di Soghomon (“che io possa servire il Paese senza incidenti”) spingono lo spettatore ad un coinvolgimento emotivo indulgente, la regista non ci risparmia la cruda visione dei resti del fratello, quando viene finalmente ritrovato a 9 km da Hadrut, in direzione di Jebrayil.

Da questa tempesta emotiva ripresa in diretta e continuata per due anni, Shoghakat Vardanyan ha distillato i 76 minuti di 1489, aiutata al montaggio da Tigran Baghinyan e Armen Papyan. Un racconto intimo, nudo e crudo, tremolante ma fermo, incurante delle leggi della compostezza e del pudore e delle regole che si imparano a scuola di cinema, e che ci dice di mille guerre, passate, presenti e future.

1489 è autoprodotto da Shoghakat Vardanyan.

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Vicario d’Anatolia: mons. Zohrabian venerabile, ‘testimonianza attuale nelle persecuzioni’ (Asianews 26.01.24)

Papa Francesco ha promulgato il decreto che riconosce le virtù eroiche del vescovo turco. Per mons. Bizzeti occasione di gioia come “riconoscimento” della storia di un popolo. La sua famiglia sterminata durante la prima guerra mondiale, ma la sua storia “va oltre il genocidio armeno”. Anche oggi chi testimonia il Vangelo incontra “difficoltà, resistenze”. Dopo 14 anni a febbraio i vescovi turchi dal papa per la visita ad limina.

Roma (AsiaNews) – “La sua è una testimonianza ancora attuale, una figura che a maggior ragione oggi va meditata, perché in questo periodo storico si stanno ripetendo eventi e condizioni analoghe” a quelle dell’epoca in cui è vissuto mons. Cirillo Giovanni Zohrabian. È quanto sottolinea ad AsiaNews mons. Paolo Bizzeti, vicario d’Anatolia, commentando il riconoscimento delle virtù eroiche del vescovo di origine turca autorizzato da papa Francesco il 24 gennaio. Il suo esempio, prosegue, indica che allora come ai giorni nostri “chi vuole vivere seguendo i valori del Vangelo incontra difficoltà, resistenze e persecuzioni. E questo – avverte – dovrebbe far riflettere, perché se testimoniare la carità” diventa fonte di attacchi e di emarginazione “è un brutto segno non solo per i cristiani, ma per l’intera società”.

La decisione del pontefice “é fonte di grande gioia” per tutta la Chiesa locale e i fedeli, sottolinea il prelato, perché ne valorizza e riconosce la missione “non solo per la Turchia, ma in tutto il Medio oriente” sancendo il “valore eroico” della sua vita. Perché è forte anche ora il rischio “di dimenticare il passato, la storia di sacerdoti, religiosi e laici che hanno testimoniato il Vangelo” anche a rischio della vita o subendo gravi persecuzioni. “Ricordare personalità come la sua – afferma – rappresenta anche per i giovani una occasione per riportare alla memoria le vicende di cristiani dell’ultimo secolo” e una storia recente in cui non mancano episodi dolorosi e controversi.

Il servo di Dio Cirillo Giovanni Zohrabian, dell’Ordine dei frati minori cappuccini e vescovo di Acilisene (in Turchia), è nato con tutta probabilità il 25 giugno 1881 a Erzerum, in una famiglia povera e dalla profonda tradizione cristiana. Nel 1894 entra nell’ordine presso il convento di Istanbul e, concluso l’anno di noviziato, fa la professione temporanea il 14 luglio 1899 e quella solenne tre anni più tardi, il 14 luglio 1902. Destinato alla missione di Trebisonda, il futuro vescovo si dedica al ministero pastorale, spirituale, all’insegnamento, alla visita agli ammalati e ai numerosi villaggi della zona. Allo scoppio della Prima guerra mondiale è bloccato a Istanbul e non può fare ritorno alla missione, mentre la famiglia viene sterminata nel contesto del genocidio armeno.

Conclusa la grande guerra si occupa delle centinaia di ragazze armene orfane e, nel 1920 a Trebisonda, apre le porte della chiesa e del convento ai greci del Ponto espulsi dalla loro terra. Per questo viene cacciato dalla città e arrestato all’arrivo a Istanbul nel marzo 1923. Sottoposto a tre giorni di torture viene condannato a morte con false accuse, ma è liberato all’ultimo e si rifugia in Grecia, dopo essere stato espulso dal proprio Paese. Anche in terra ellenica si prende cura dei profughi armeni, costruendo chiese e scuole. Il 21 novembre 1938 viene nominato vicario patriarcale dell’Alta Gezira, in Siria e, l’8 giugno 1940 vescovo titolare di Acilisene ricevendo il 27 ottobre successivo l’ordinazione episcopale a Beirut.

La dedizione agli altri, la generosa missione gli valgono però l’ostracismo del governo greco che prima lo sorveglia, poi lo caccia. Da ultimo si dirige in Siria, dove svolge una intensa azione pastorale e assistenziale, costruendo scuole, chiese e case per i sacerdoti e impartendo lezioni private a numerosi studenti. Problemi di salute, legati anche alle torture subite, lo spingono a dimettersi dalla sede vescovile il 12 giugno 1953 e stabilirsi a Roma, dove prende parte di persona ai lavori del Concilio Vaticano II e dove muore il 20 settembre 1972, dopo aver trascorso gli ultimi anni al convento romano “San Fedele”.

Per capire e valorizzare la figura del vescovo, spiega mons. Bizzeti, “non dobbiamo fermarci alla strage degli armeni. Perché egli è stato perseguitato ovunque sia andato” dalla Turchia alla Grecia, a dimostrazione che “gli uomini che praticano il Vangelo, ricalcando le orme degli apostoli, risultano sempre scomodi”. “Migliaia di persone – prosegue – hanno beneficiato della sua opera, ma sembra che vi sia molta intolleranza verso chi opera per il bene e questo è di particolare attualità. Anche oggi vediamo le persone che si industriano ad aiutare i poveri e i bisognosi, ma finiscono per essere attaccate o accusate”. La comunità cristiana ha accolto con gioia la notizia, perché “attraverso una persona e la sua testimonianza” vi è il “riconoscimento” della storia di un popolo: “Ai primi del ‘900 – ricorda il vicario apostolico – il 20% della popolazione in Turchia era cristiana, mentre oggi siamo a meno dello 0,1%”, ma in questa terra “il cristianesimo è presente da 20 secoli e prima di altre religioni”. Infine, mons. Bizzeti sottolinea come “dopo 14 anni” ai primi di febbraio, proprio in concomitanza col primo anniversario del devastante sisma in Turchia e Siria, i vescovi del Paese “verranno ricevuti dal papa per la visita ad limina. Sarà un momento assai significativo”.

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