Dopo la guerra del Karabakh, il presidente dell’Azerbaigian Aliyev pronto per assicurarsi un quinto mandato (Euroactiv 05.02.24)

Mercoledì (7 febbraio) l’Azerbaigian terrà le elezioni anticipate per la leadership, con il presidente Ilham Aliyev pronto ad assicurarsi un quinto mandato sull’onda di popolarità alimentata dalla schiacciante vittoria del suo esercito sui separatisti armeni del Nagorno-Karabakh.

Definendo la vittoria “un evento epocale senza precedenti nella storia dell’Azerbaigian”, Aliyev ha dichiarato il mese scorso che per la prima volta nel paese si terranno le elezioni presidenziali su tutto il suo territorio.

“Le elezioni segneranno l’inizio di una nuova era” per il Paese, ha affermato.

L’operazione lampo ha visto l’intera popolazione di etnia armena, composta da oltre 100.000 persone, fuggire in Armenia.

Aliyev ha risposto alle critiche occidentali con una retorica rabbiosa, e lo scorso autunno ha snobbato i colloqui di pace con l’Armenia a cui avrebbero dovuto partecipare leader tedeschi e francesi.

Giovedì ha accusato la Francia di “aggiungere benzina sul fuoco” nella instabile regione del Caucaso perseguendo una “politica anti-azerbaigiana”.

Il presidente Aliyev ha anche minacciato di ritirarsi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, l’organo di controllo dei diritti del Consiglio d’Europa, dopo aver rifiutato di invitare i suoi osservatori a monitorare le elezioni di mercoledì.

Il voto, che Aliyev ha annunciato un anno prima del previsto, è stato boicottato dai principali partiti di opposizione della nazione ricca di petrolio.

“Nel Paese non ci sono le condizioni per lo svolgimento di elezioni libere ed eque”, ha affermato Ali Kerimli, leader del partito di opposizione Fronte Nazionale.

I sostenitori hanno elogiato Aliyev per aver trasformato una repubblica, una volta considerata un luogo arretrato frutto del crollo dell’Unione sovietica, in un fiorente fornitore di energia per l’Europa.

L’Azerbaigian accusa la Francia: “Se invia armi sarà responsabile di un conflitto con l’Armenia”

Il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, ha criticato con forza l’Unione europea e ha avvertito che la decisione della Francia di inviare aiuti militari all’Armenia potrebbe scatenare un nuovo conflitto nel Caucaso meridionale dopo l’offensiva lanciata da Baku il mese scorso.
La …

 

Un esercizio futile

D’altro canto, i critici accusano Aliyev di aver schiacciato l’opposizione e soffocato i media indipendenti.

“Nel Paese tutti i diritti fondamentali vengono violati, i partiti di opposizione non possono funzionare normalmente, la libertà di riunione è limitata, i media sono sotto la pressione del governo e il dissenso politico viene represso”, ha detto Kerimli.

L’analista indipendente Najmin Kamilsoy ha affermato che il clima elettorale in Azerbaigian è stato caratterizzato da una “colossale asimmetria a favore di Aliyev, unita all’eliminazione di tutti i potenziali oppositori mediante la repressione”.

“C’è una totale assenza di concorrenza – una situazione di stallo prolungato”, ha detto.

Negli ultimi mesi, le autorità di Baku hanno intensificato la repressione nei confronti dei media indipendenti, arrestando diversi giornalisti critici che hanno denunciato corruzione ad alti livelli.

“L’intenzione è molto chiara. Non vogliono voci di opposizione”, ha detto Giorgi Gogia, direttore associato di Human Rights Watch per il Caucaso.

Gocia ha definito le prossime elezioni “un esercizio futile” con un risultato prevedibile poiché “non esiste una sfida legittima o praticabile da parte dell’opposizione alla leadership del presidente Aliyev”.

Aliyev, 62 anni, è stato eletto presidente per la prima volta nel 2003 dopo la morte di suo padre Heydar Aliyev, ex ufficiale del KGB e leader dell’era comunista che aveva governato l’Azerbaigian dal 1993. È stato rieletto nel 2008, 2013 e 2018 in elezioni che sono state denunciate dai partiti di opposizione come truccate.

Nel 2009, Aliyev ha modificato la Costituzione del Paese in modo da poter candidarsi per un numero illimitato di mandati presidenziali, una mossa criticata dai difensori dei diritti che affermano che potrebbe diventare presidente a vita.

Nel 2016, l’Azerbaigian ha adottato controversi emendamenti costituzionali che hanno esteso il mandato del presidente da cinque a sette anni.

Consolidando il potere decennale della sua famiglia, il presidente ha nominato sua moglie Mehriban Aliyeva primo vicepresidente.

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Elezioni presidenziali in Azerbaijan, verso riconferma per la “dinastia” degli Aliyev (Skytg24)

OPINIONI Emanuele Franz: «La pace tra Occidente e Oriente è possibile» (Diarioweb

Una spedizione che sembra venuta da un’altra epoca, lunga migliaia di chilometri e durata quasi un mese di esplorazioni tra terra e mare, all’inseguimento di una storia della vecchia mitologia quasi del tutto dimenticata. Così il filosofo e saggista Emanuele Franz ha raccolto il materiale per il suo ultimo libro, «Alla ricerca del vello d’oro. Spedizione in Colchide del terzo millennio. 3400 chilometri via terra e mare» (Audax Edizioni), tra Georgia e Armenia, territori di confine tra Oriente e Occidente, oggi più che mai al centro dell’attenzione e delle tensioni geopolitiche. «Una bella ricerca di un argonauta del nostro tempo», come l’ha definita il filosofo Marcello Veneziani, più attuale di quanto possa apparire, animata dalla convinzione tanto antica quanto moderna che tra i due lati del mondo si possa ritrovare la pace e l’unità a lungo smarrite. Il DiariodelWeb.it lo ha intervistato.

Emanuele Franz, come nasce il suo ultimo libro?
Il vello d’oro è uno dei temi principe della storia delle religioni, la branca della quale io mi occupo. Ma la maggior parte degli storici lo considera una mera invenzione. Io ho voluto condurre una ricerca sul campo, sui luoghi del mito, cioè la Colchide, nell’attuale Georgia.

Ci ricorda di cosa tratta questa leggenda?
Giasone era un principe greco che reclamava il trono del padre Pelia. Questi accettò di cederglielo solo nel caso in cui avesse superato una prova impossibile: trovare il vello d’oro, il mantello magico di un ariete volante, dotato di poteri soprannaturali come la proprietà di guarire ogni malattia. Lo aiutò la strega Medea, che drogò il serpente che custodiva il vello d’oro su una quercia.

Cosa ha scoperto nella sua ricerca?
Ho analizzato gli scritti degli antichi e ho trovato molti elementi in comune con il cristianesimo: il serpente che custodisce un albero sacro è un concetto che richiama l’Eden; lo stesso nome Giasone è la forma ellenizzata di Gesù. Oltretutto la Chiesa georgiana è una delle più antiche del mondo: sarebbe stata fondata dall’apostolo Andrea nel I secolo d.C., pochi secoli dopo il mito in questione.

Per raggiungere questi territori ha compiuto un pellegrinaggio piuttosto avventuroso.
Sì, ho viaggiato per 3400 km senza prendere un aereo, facendo sopralluoghi, visitando antiche chiese, rintracciando elementi geografici, in cerca di corrispondenze con le descrizioni dei poeti. Ho dovuto attraversare il Mar Nero su una nave commerciale, in mezzo ai container, perché nessuna agenzia di viaggi voleva vendermi un biglietto: molte compagnie hanno addirittura soppresso la tratta per via della guerra.

Dunque qual è l’odierna situazione della Georgia, confinante con la Russia in guerra?
I georgiani hanno un risentimento verso il loro passato: hanno una religione molto radicata, eppure sono stati annessi alla Russia anticlericale fino agli anni ’90. E non perdonano a loro stessi che Stalin fosse nato proprio in Georgia. Il desiderio di indipendenza e il sentimento anti-russo sono forti, ma sono fomentati dagli Stati Uniti.

Poi ha attraversato anche il confine con l’Armenia, una nazione in forte tensione con l’Azerbaigian, sempre sull’orlo di una nuova guerra.
I media la delineano come un luogo pericoloso, da evitare. Eppure la polizia non mi ha neanche chiesto dove andassi, non ho incontrato nemmeno una pattuglia, una tranquillità indescrivibile. Ho chiesto alla guida come mai la stampa sollevasse tutto questo allarmismo sull’Armenia e mi ha risposto che a loro dicono di non andare in Europa.

C’è la volontà di affossare questi luoghi?
Evidentemente sì, un po’ dal punto di vista turistico, un po’ perché queste comunità, con la loro cristianità atavica, rappresentano una minaccia per una visione del mondo che vuole eliminare il senso del trascendente.

Questo eterno scontro tra Occidente e Oriente, oggi come allora, sembra la storia che si ripete.
Quella zona geografica è cruciale: controllarla significa gestire gli scambi culturali e di risorse. Per questo è sempre stata un cuscinetto bombardato e spinato, perché rappresenta proprio uno spartiacque tra due mondi, il punto di saldatura di un’unità indoeuropea agognata, che secondo me già al tempo degli antichi greci si voleva recuperare.

Davvero questo incontro tra Est e Ovest è impossibile o esiste un terreno di dialogo, persino in un momento di conflitto?
Sono molto speranzoso: per me è possibile trovare un punto in comune. Gran parte delle guerre hanno origini ideologiche o religiose. E io credo che ci sia una matrice, precedente alla differenziazione delle religioni, che la mistica riesce a penetrare. Gli stessi culti attuali hanno ereditato elementi dei miti antichi, appunto.

Dietro alla punta dell’iceberg delle nostre differenze c’è una parte sommersa che ci unisce, insomma.
Secondo me sì. Si tratta indubbiamente di un lavoro difficile ma sicuramente possibile. Per me tutte le diverse religioni e i diversi popoli, proprio come i tessuti di uno stesso organismo, dovrebbero concorrere a un’unità superiore. Naturalmente la pace non deve rappresentare la soppressione delle singole specificità: se diciamo a un fegato di smettere di fare il fegato, allora sopravviene la morte.

Il vello d’oro simboleggiava proprio questa unità, dice lei.
L’interpretazione materialista sostiene che i montanari usassero come setacci le pelli dei montoni, che quindi si riempivano di pagliuzze d’oro: da qui sarebbe nata la leggenda. Ma è un po’ riduttivo, perché gli stessi storici antichi, come Diodoro, lo definivano come un tesoro declamato in tutto l’universo. Era presieduto militarmente e giustificava spedizioni che attraversavano il Mar Nero.

Facciamo un po’ di spoiler: alla fine il tesoro l’ha trovato o no?
Credo di aver trovato tutti gli elementi per affermare che il vello esiste. Elementi iconografici, ad esempio: in Georgia esiste un culto ossessivo del mantello divino che non esiste nelle altre Chiese ortodosse. Che penso andrebbero approfonditi anche dal punto di vista archeologico.

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I libri di NRW: La tragedia di Sumgait (Nuovedradici 03.02.24)

L’imminente crollo dell’Unione Sovietica fece accendere la miccia dei conflitti sociali, spesso degenerati in conflitti etnici. Ma quello che successe a Sumgait, nella repubblica sovietica dell’Azerbaijan
è l’orrore infinito che ha pochi precedenti nella Storia: il genocidio degli armeni del 1915 in Turchia, il rastrellamento dei ghetti da parte delle SS naziste. Samuel Shahmuradian, in questo 
La tragedia di Sumgait, pubblicato da Guerini e Associati, ha lavorato su documenti ufficiali e soprattutto ascoltato la testimonianza diretta dei sopravvissuti. Ne emerge un quadro di feroce persecuzione perpetrato da duemila giovanissimi azeri protagonisti di una caccia all’uomo nei quartieri armeni, culminata in stupri omicidi e violenze di ogni tipo anche sui bambini. I morti riconosciuti ufficialmente furono trentadue, secondo fonti armene millecinquecento. La cronaca è quella di un massacro. Una folla fanatizzata attraverso un’opera di disinformazione, distribuzione di alcool e armi bianche, e persone inermi massacrate dai propri vicini con i quali, fino al giorno prima, avevano convissuto in modo pacifico. Le testimonianze tragiche dei sopravvissuti sono un drammatico appello alla responsabilità individuale e pubblica e restituiscono una traccia delle motivazioni e dei meccanismi con cui un uomo può essere spinto contro un altro uomo nella maniera più brutale. Tuttavia i Giusti al tempo del male ci sono stati anche a Sumgait, ed è in nome della verità dei fatti che sorge l’imperativo di valorizzare quegli episodi nei quali azeri vicini di casa, compagni di scuola, colleghi di lavoro, hanno saputo dire «no». Di fronte alla violenza devastante che si abbatteva sugli innocenti, hanno reagito, si sono opposti, non hanno voltato le spalle, come la madre azera che ha salvato un’intera famiglia e con il suo esempio ha evitato al figlio di commettere l’indomani gli stessi crimini. Fabio Poletti

Samuel Shahmuradian
La tragedia di Sumgait
1988 Un pogrom di armeni nell’Unione Sovietica
2013 Guerini e Associati
pagine 208 euro 18,50

 

Per gentile concessione dell’autore Samuel Shahmuradian e dell’editore Guerini e Associati pubblichiamo un estratto dal libro La tragedia di Sumgait

IRINA: La gente gridava: «Sappiamo che siete in casa. Aprite!». Indossavano tutti degli abiti scuri. Forse era un’uniforme? Quando hanno cominciato a sfondare la porta mio cognato ha detto: «Andate sul balcone». Mia sorella Karina ha detto a suo marito Igor: «Diciamoci addio». Lui le ha risposto: «Che cosa dici? Vai sul balcone». Ha anche sorriso. Mio marito Edik era paralizzato. Ha guardato me e i bambini. Avevamo il presentimento che quelle fossero le nostre ultime parole, i nostri ultimi minuti.
Karina e i suoi bambini, io e due altre ragazze siamo andate sul balcone. Abitiamo al primo piano. Nella strada non c’era gen- te, solamente dei passanti. Ci siamo messe a gridare: «Aiuto! Ci ammazzano!». Gli azeri non reagivano. Una donna russa ha alzato la testa e ha chiesto: «Che cosa posso fare?». Le ho detto: «Telefonate! Chiamate qualcuno». Non so se lei l’ha fatto.
KARINA: Io ho gridato: «Butto giù i bambini. Prendeteli e portateli da qualche parte perché non li ammazzino». Le persone guardavano come se stessero assistendo a uno spettacolo.
IRINA: Volevamo passare sul balcone della vicina. Mia cognata Jasmina è riuscita per prima. Volevo seguirla ma non ci sono riuscita. Ho preso il mio bambino e mi sono appoggiata contro il muro, ma il bambino ha rischiato di cadere perché la sua maglia si è impigliata e io mi sono girata indietro. Karina mi ha detto: «Se non riesci a passare tu io non lo potrò mai, perché sono incinta di sette mesi». In quel momento è venuta mia cognata Irina. Ha preso il bambino e l’ha portato sul balcone vicino. Poi è tornata indietro per aiutare gli uomini. Aveva in mano un coltello. Sette persone sono rimaste nell’appartamento. Mio suocero aveva una scure.
La porta del balcone che dava sulla sala della vicina azera era chiusa. Noi abbiamo bussato. Lei si è avvicinata e ha agitato la mano per farci capire che non ci avrebbe lasciato entrare. Noi l’abbiamo minacciata di rompere il vetro. Allora ha aperto. Ha cominciato a gridare per cacciarci. Anche i suoi due figli di quattordici anni si sono messi a urlare: «Uscite altrimenti vi uccidiamo noi stessi!». Abbiamo domandato se potevano dare rifugio almeno ai bambini promettendo che ce ne saremmo andate. Si sono rifiutati e hanno cacciato Karina e i suoi bambini. Io mi sono nascosta in un angolo. Mi hanno trovata e mi hanno buttata fuori con mia figlia.
KARINA: Non sapevo che cosa fare. Stavano uccidendo i nostri e io mi trovavo con due bambini sulla scala vicina alla nostra. Al secondo piano qualcuno ha aperto. Ho chiesto di entrare. Mi ha risposto: «No!». Categoricamente. Sono salita al quarto piano. Ho bussato a una porta. Un uomo mi ha aperto. Ero pronta a mettermi in ginocchio davanti a lui. Era un caucasico. Mi ha la- sciato entrare.
IRINA: Ogni volta che bussavo a una porta mi rispondevano: «No! Vattene!». Eravamo l’unica famiglia armena del caseggiato. Sono salita al quarto piano. Un uomo mi ha aperto e mi ha portato nel bagno dove ho trovato Karina e i suoi bambini. L’uomo ha chiuso la porta perché non andassimo sul balcone. La vasca da bagno era piena d’acqua. L’ho vuotata e mi sono seduta sul fondo per calmare mia figlia che non smetteva di piangere.
Dal cortile venivano delle grida. Era un vero incubo. Abbiamo sentito Ira urlare: «Oh! Mamma!». Poi abbiamo saputo che l’avevano bruciata viva, nuda. Forse hanno finito sua madre sotto i suoi occhi. Più tardi un russo che abita nel caseggiato vicino ci ha raccontato come sono morti i nostri. Hanno spogliato mia suocera, di cinquantadue anni, e l’hanno picchiata selvaggiamente all’entrata del caseggiato. Anche dei bambini di dodici e tredici anni l’hanno picchiata a colpi di bastone. Poi l’hanno gettata in cantina. Mio marito Edik è stato picchiato a colpi di bastone e di pala. Poi l’hanno bruciato al punto che non era più riconoscibile. Abbiamo potuto identificarlo unicamente grazie a pezzi dei suoi pantaloni e alle sue scarpe. Ira è stata bruciata viva, completamente nuda. Il russo ci ha detto: «L’hanno spogliata, le hanno versato addosso benzina e hanno appiccato il fuoco. Igor, il marito di Karina, era steso a terra morto nel cortile, coperto di ferite, le gambe metà ridotte in cenere e il viso cosparso di bruciature di sigarette. Hanno trascinato lo zio Misha Ambartsumian, che si trovava quel giorno a casa, lungo la strada dove gli tiravano delle pietre. Lui si è seduto e si è messo la testa fra le mani. Uno di loro aveva una pala appuntita e con quella gli ha spaccato la testa. Poi l’hanno bruciato».
Quando è tornato il silenzio, verso le ventuno, il caucasico ha aperto la porta del bagno e ci ha condotto nella stanza dove si trovavano sua moglie e i suoi tre bambini. Ha detto a uno dei suoi figli: «Non dire mai a nessuno che abbiamo nascosto degli armeni». Dopo un lungo silenzio gli abbiamo chiesto di parlare. Ma lui ha risposto: «Non vi posso dire niente. È spaventoso». E poi ha aggiunto: «Ho paura di tenervi qui a casa mia fino al mattino e che i vicini vi vedano e mi denuncino. Se potete adesso andate». Karina ha proposto di andare a casa di suo fratello che abita in un altro quartiere della città e che ha come vicini dei buoni amici russi. Lei se ne è andata e io sono rimasta con i bambini.
Circa un’ora e mezzo dopo è arrivato un veicolo. Il caucasico è andato sul balcone e ha detto: «È per te». Ma io avevo paura e temevo fossero ancora i banditi. Sono andata alla finestra e ho visto mia cognata scendere con dei militari. Sono uscita con i bambini, ma le mie gambe vacillavano al punto che al terzo piano ho dovuto sedermi. Dieci soldati armati sono saliti per le scale. Hanno preso i bambini e mi hanno aiutata a camminare. Uno di loro mi ha detto: «Hai tanto sofferto, ma adesso è finita. Esci, vai direttamente sul camion e non guardarti attorno». Ma io non ho potuto impedirmi di guardare il mio balcone: le finestre erano spaccate e brandelli di vestiti pendevano dappertutto. Vicino al caseggiato qualcosa bruciava. Ho pensato fossero dei mobili che finivano di consumarsi. Non sapevo che erano Ira e mio marito… Era freddo, cadeva una pioggia sottile. I soldati mi hanno detto: «Ti avevamo detto di non guardare». Poi siamo partiti in direzione dell’ufficio del Comitato di Partito.

© 2012 Edizioni Angelo Guerini e Associati
Dall’originale La tragédie de Soumgaït. Un pogrom d’Arméniens en Union Soviétique
© November 1991, Éditions du Seuil
English edition © 1990 by Samuel Shahmuradian and Zoryan Institute

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Il destino del patrimonio culturale e religioso armeno nel Nagorno Karabakh-Artsakh (Alleanzacattolica 03.02.24)

Chiese, monasteri e cimiteri armeni rischiano la distruzione da parte delle truppe azere, le cui intenzioni sono state più volte esplicitate dallo stesso presidente Aliyev

di Emanuele Aliprandi (*)

Nei giorni scorsi Alleanza Cattolica ha ospitato uno scambio di lettere con l’ambasciatore dell’Azerbaigian presso la Santa Sede, S.E. Ilgar Mukhtarov, incentrato sulla situazione nel Nagorno Karabakh (Artsakh) e sulla tolleranza religiosa nel suo Paese.

Ma quale è effettivamente la situazione del patrimonio culturale e religioso armeno nel Nagorno Karabakh dopo l’ultima guerra combattuta nella regione?

Sgombriamo subito il campo da un equivoco: quella tra armeni e azeri non è stata e non è una guerra di religione nel senso stretto del termine. Tuttavia, nel trentennale conflitto che ha martoriato il Caucaso meridionale il peso del simbolo religioso non è insignificante e assume connotati ben precisi, sia sotto il profilo politico che storico.

Come noto, la guerra scatenata dall’Azerbaigian nel settembre 2020, durata 44 giorni e costata quasi 10.000 morti a entrambe le parti, ha determinato – in conseguenza dell’azione bellica e del successivo accordo tripartito di tregua – la perdita di vasti territori della Repubblica armena de facto del Nagorno Karabakh (Artsakh).

Al riguardo, una delle prime preoccupazioni ha riguardato la sorte del vasto patrimonio culturale e religioso armeno finito sotto controllo dell’esercito dell’Azerbaigian.

I precedenti non inducevano infatti all’ottimismo: nel Nakhjivan, ad esempio, decine di chiese e monasteri armeni, nonché le migliaia di medioevali khatchkar (croci di pietra), sono finiti sotto i colpi di piccone delle autorità azere.

Stessa sorte è subito toccata a molti beni armeni nell’Artsakh. Alcune chiese, come la cattedrale del S.mo Salvatore o la “chiesa verde” a Shushi, sono state deliberatamente bombardate nel corso del conflitto. Cessato il fragore delle armi, è cominciato un processo di rimozione storica del patrimonio armeno.

Lo annunciò lo stesso presidente dell’Azerbaigian, Aliyev, nella cittadina occupata di Hadrut, allorché (giugno 2021) dichiarò che da ogni manufatto andavano eliminate tutte le iscrizioni e le caratteristiche armene.

Questa operazione è stata portata avanti con una metodologia ben precisa: la ridenominazione dei siti armeni, chiese comprese, la cancellazione di tutti i tratti distintivi architettonici (dalle iscrizioni alle tipiche cupole armene, oltre ai khatchkar) e la stesura di una nuova storia di appartenenza, che attribuiva i manufatti religiosi non agli armeni, ma alla minuscola comunità cristiana degli udi, che peraltro si sviluppò lontano dalla regione dell’Artsakh, con la quale non ebbe alcun contatto.

Non a caso, dopo il nuovo attacco azero del settembre 2023, l’esodo di tutta la popolazione armena e la conquista azera di tutto il Nagorno Karabakh, tra le prime azioni intraprese vi è stata l’abbattimento della grande croce illuminata che dominava la conca della capitale Stepanakert e la rimozione della croce sul campanile della cattedrale.

Tale meccanismo di “dearmenizzazione” trova le sue ragioni in due fattori: da un lato la leadership azera punta a cancellare la radicata presenza armena nel territorio per giustificare il possesso di quelle terre, dall’altro cerca di annullare la millenaria storia degli armeni, contrapponendola a un’altra, che si basi su una narrazione unicamente azerbaigiana.

Sotto quest’ultimo profilo, non devono dunque sorprendere i continui richiami alle “storiche terre dell’Azerbaigian” (peraltro nato nel 1918…) e l’ambizione di Aliyev di conquistare la stessa Armenia: d’altronde, solo pochi anni fa l’autocrate presidente azero minacciava di «far roteare la sacra spada di Allah su Erevan [la capitale dell’Armenia, NdA]» e ancora in questi giorni rivendica la regione del Syunik (Armenia meridionale) per poter creare un collegamento tra la Turchia e l’Azerbaigian. Che poi era il disegno dei genocidiari  Giovani Turchi un secolo fa.

Prima che sia troppo tardi, prima che altri lutti e distruzioni si abbattano su questa martoriata terra, prima che chiese e monumenti armeni vengano distrutti o “restaurati”, è pertanto necessario che la comunità internazionale intervenga a protezione del patrimonio armeno. O sarà troppo tardi.

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Oggi si festeggia: San Biagio (Dentrosalerno 03.02.24)

San Biagio, o San Biagio di Sebaste (III secolo – Sebaste, 316), è stato un vescovo cattolico e santo armeno. Vissuto tra il III e il IV secolo a Sebaste in Armenia (Asia Minore) è venerato come santo dalla Chiesa cattolica e dalla Chiesa ortodossa. Era medico e venne nominato vescovo della sua città. A causa della sua fede venne imprigionato dai Romani, durante il processo rifiutò di rinnegare la fede cristiana; per punizione fu straziato con i pettini di ferro, che si usano per cardare la lana. Morì decapitato. San Biagio muore martire tre anni dopo la concessione della libertà di culto nell’Impero Romano (313). Una motivazione plausibile sul suo martirio può essere trovata nel dissidio tra Costantino I e Licinio, i due imperatori-cognati (314), che portò a persecuzioni locali, con distruzione di chiese, condanne ai lavori forzati per i cristiani e condanne a morte per i vescovi.


San Biagio/ Oggi, 3 febbraio 2023, la Chiesa celebra il vescovo martire armeno (Il Sussidiario)

3 febbraio . Biagio, il mal di gola e le candele: la storia del santo guaritore (Avvenire)

Ode a Galina Staravojtova, che diede la vita per la libertà degli Armen (Korazym 02.03.24)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 02.02.2024 – Renato Farina] – Dopo aver inviato questa, proprio questa lettera a Tempi [QUI], che voi spero stiate leggendo – e se leggete queste mie parole, è già un miracolo di libertà che i discendenti di Luigi Amicone consentono accada, grazie! -; spedita la rubrica, dicevo, ho raccolto nel fagotto coperte bianche come la neve, tessute di candida lana dei nostri agnelli Molokani, e mi sto dando alla macchia per valli precipitose e monti grinzosi verso l’Artsakh, accompagnato da Griselda, la mia dolce mucca, con la quale, sfiorando sentieri sconosciuti agli azeri, e ignoti anche al KGB di Baku e a quello di Mosca, raggiungerò piccoli tumuli di fieno conservati in luoghi ombreggiati, perché si nutra e mi dia latte in attesa dei germogli fragranti della primavera caucasica.

Ci arriveremo intatti? Che importa. Conta la verità, e che Iddio conservi un piccolo resto, scalcinato eppure Suo, tutto e solo Suo. Anche i nemici lo sono, e vorrei essere degno di essere infimo imitatore dei monaci martiri di Tibhirine. Ma figuriamoci, che paragone esagerato.

Scusatemi se mi appoggio a immagini epiche, che mi fanno impropriamente somigliare a un guerriero della compagnia dell’anello (di sicuro non all’elfo).  Non sono fatto per esercitarmi in eroismi di alcun tipo né per offrire incanti bucolici di tipo funebre. Non ho fucile, neppure ad uso letterario: sarebbe risorsa patetica contro i puntatori satellitari dei droni azeri di marca israeliana. Puf, e sarei, saremmo, tutti fulminati, come nel 2020, quando i soldatini armeni finirono maciullati dalla supertecnologia di Erdoğan e Netanyahu, divisi su Hamas ma ahimè uniti contro i Cristiani eredi di San Gregorio l’Illuminatore. Non cerco la bella morte mia né quella brutta dei nemici. Ma desidero e chiedo al Dio-Amore pace e verità. Questa è oggi la realtà. Equivale ad essere destinati allo sterminio, perché di pace e verità non interessa un fico secco all’astuto dittatore Ilham Aliyev, che ci perseguita fiancheggiato dai suoi alleati Turchi, e da altri insospettabili tra cui Russia e  Italia, nonché dalla neutralità pelosa dell’Occidente.

Fa un po’ ridere, se non fosse grottesco, ripetere qui, credendoci, le proposte di Baku per consentire il rientro nelle loro case, godendo di libertà religiosa e sicurezza, dei centomila e più cacciati dalla loro patria dopo essersi caricati sulle spalle le ossa dei defunti. Non è realistico credere alle promesse date senza pegno da chi ha già dichiarato che l’intera Armenia è Azerbajgian Occidentale, e la capitale armena è atavicamente azera. Lindsey Snell, giornalista americana senza collare e con sguardo puro, vede, legge, giudica: «L’Azerbajgian non vuole la pace, vuole il Syunik (regione sud orientale della Repubblica di Armenia)». E poi vorrà ancora e ancora. Fino a dove? Fino a completare un grande arco senza soluzione di continuità del nuovo impero ottomano, partendo da Tripoli fino all’Afghanistan uzbeko e quindi alla Cina.
Se una trattativa a vasto raggio dovesse partire per ridare stabilità al mondo, sarebbe precipuo per il mantenimento di un equilibrio il riconoscimento dell’Armenia e del Nagorno-Karabakh come statualità sovrane e neutrali, intercapedini pacifiche tra Europa e Asia. Oppure ci avete già venduti ai Turchi e ai Turcomanni destinando noi Armeni e Molokani a diventare i loro giannizzeri? Se lo fate, lo diventerete voialtri. Anzi, lo siete già diventati, se ci trattate come una pedina sacrificabile per tirare a campare in vista del futuro mondo green.

Ho scritto tomba. Ma non parlavo della sepoltura che ci aspetta tutti, e nel caso specifico, e per me interessante, quella del Molokano. Mi riferivo a una dimora funeraria lontana dal Caucaso, e dai monti pietrosi attraversati dai cammellieri mercanti e dagli invasori mongoli e persiani e tartari sui loro cavalli e i carri. Parlo del sepolcro di lei, di Galina Vasileva Starovojtova, a San Pietroburgo. Ella fu deputata alla Duma di Mosca, dove fu eletta in rappresentanza dell’Armenia, quindi – dopo la fine dell’Urss -, proprio dell’oblast dell’ex Leningrado.

Era stata Galina nel 1990 a condurre – come ho raccontato nella precedente missiva dal lago di Sevan, Tempi N. 1, gennaio 2024 [QUI] – Ryszard Kapuściński (Pinsk, 1932 – 2007) il più grande reporter degli ultimi 50 anni, a Stepanakert, capitale del Nagorno-Karabakh-Artsakh.

Era il 1990, quando il giornalista polacco violò l’assedio degli Azeri e superò il blocco dell’esercito sovietico, travestendosi da pilota del piccolo aereo che doveva condurre la deputata sovietica tra i suoi elettori Armeni di Stepanakert, che era strangolata dai due eserciti (di Baku e di Mosca), mentre i suoi abitanti erano destinati – secondo Kapuściński – «all’annientamento».

Il reporter aspettò cinque anni, infine nel 1995 apparve il racconto di quel viaggio pazzesco, essendo l’autore convinto che giunta la democrazia nella Federazione Russa, avendo prevalso incredibilmente gli Armeni nella guerra con gli Azerbajgiani, sarebbero state impossibili «ritorsioni». Be’, si sbagliava.
Ci fu una tremenda vendetta. Perché Galina Starovojtova insisteva. Non stava con gli Armeni e con altre minoranze dell’ex Urss per convenienza politica, ma perché aveva appreso l’essenziale, che solo giustifica il dare la vita in politica: il diritto delle persone e dei popoli alla libertà, cioè a essere sé stessi. Non per questioni di irredentismo nazionalistico: esigeva l’autodeterminazione di Armeni e Ceceni e Abkhazi per il bene che ne sarebbe derivato a ogni «famiglia spirituale» (Jacques Maritain) se ciascuna avesse potuto abitare un nido sovrano guidato dalle rispettive classi dirigenti, in splendida armonia polifonica e non digrignando i denti l’una contro l’altra. Quello che aveva scoperto con i suoi studi di antropologia sul Nagorno-Karabakh e il Caucaso e con quelli di diritto internazionale, in base alla Costituzione sovietica e alle Carte dell’ONU, assegnava l’ovvia prerogativa all’indipendenza repubblicana.

Cominciò insieme a Sakharov (non un pericoloso terrorista ma un liberale a tutto tondo, Premio Nobel per la Pace) a esigere da Gorbaciov la presa d’atto della realtà e del buon diritto degli Armeni dell’Artsakh sin dal 1988, cercando un buon compromesso. Respinto!

Lei che aveva sostenuto Gorby nel cambiamento, da ragazza prodigio della politica russa (era nata sugli Urali nel 1946), ora gli chiedeva fosse coerente con gli ideali della perestroika e della glasnost. Restò delusa. Si schierò allora con Eltsin. Il quale dopo i primi anni cedette piano piano ogni potere ai servizi segreti sovietici, che non erano mai stati liquidati.

E dalla parte di chi si schierò il vecchio sistema riemerso con prepotenza? Non pretendo qui di scrivere un trattato sui nuovi equilibri post-sovietici. Lei, Galina, deputata di immenso genio intellettuale, politico, umano, femminile di San Pietroburgo aveva stravinto le elezioni nel 1995 battendo tutti. Da quelle parti stava costruendo la sua ascesa Vladimir Putin, espressione apicale del KGB.

Nel 1998 Galina fu assassinata nell’androne del suo condominio a colpi di pistola, il suo segretario ferito. I killer, legati al KGB, furono presi, condannati e sono liberi da un pezzo. I mandanti? Mah.

La Starovojtova si stava battendo ancora per il definitivo status di indipendenza dell’Artsakh e per l’autonomia della Cecenia, non voleva guerre. A Baku regnava sin dagli anni 70 la dinastia degli Aliyev. Heidar, padre di Ilham, l’attuale autocrate, era nel 1998 Presidente dell’Azerbajgian islamo-nazionalista, dopo essere stato ai tempi dell’URSS, vice di Breznev e capo del KGB caucasico. Nel 2003 passò lo scettro e l’odio per gli Armeni al figlio. Che dire? J’accuse. E sto accorto.

(La Starovojtova è sepolta nel cimitero Nikolskoe della Lavra Alexander Nevsky di San Pietroburgo. Il monumento raffigura una bandiera russa a brandelli e, a quanto pare, utilizza come base le piastrelle del pavimento su cui cadde assassinata. Amen).

Il Molokano

Foto di copertina: Galina Starovojtova nell’aula della Duma.

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Nagorno Karabakh, come la Russia ha riacquistato gradatamente la sua iniziativa strategica nella regione (L’Anitidplomatico 02.03.24)

Dopo i drammatici avvenimenti nella Repubblica dell’Artsakh dei mesi scorsi, con la conquista da parte dell’Azerbaigian della Repubblica indipendente auto costituita nella regione del Nagorno Karabakh, che ha creato una situazione ingarbugliata, complessa e molto delicata per gli equilibri dell’intera area caucasica e limitrofala Russia ha riacquistato gradatamente la sua iniziativa strategica e rafforzato la sua posizione con i paesi lì collocati.

Indubbiamente l’anno passato è stato attraversato da situazioni straordinarie per il Caucaso meridionale. Dopo la guerra del Karabakh che era durata 44 giorni nel 2020, con il successivo dispiegamento delle forze di pace russe nell’Artsakh, sembrava che lo status quo non avrebbe avuto scompensi o innalzamenti di tensione e non era avvenuto più nulla di grave. Poi nel settembre scorso gli avvenimenti sono precipitati e hanno creato squilibri, conflitti, minacce e reciproche accuse tra i vari attori sul terreno.

Dal 2021, l’UE con la Russia aveva assunto l’iniziativa nella questione del Karabakh, i presidenti azero e armeno Aliyev e Pashinyan si erano incontrati periodicamente a Bruxelles per discutere le condizioni per il mantenimento della pace. Ma la crisi sempre più profonda nelle relazioni franco-azerbaigiane e l’inasprirsi di quelle azerbaigiano-americane, hanno nuovamente riproposto la Russia come attore principale e equilibratore in tutta l’area.

La piattaforma “3+3” promossa dalla Russia ha raggiunto un nuovo livello. Nel mese di novembre si è svolto un incontro con la partecipazione dei ministri degli Esteri di Russia, Iran, Turchia, Azerbaigian e Armenia.

Alla fine dell’anno, Putin ha riunito i leader dei paesi della CSI a San Pietroburgo e ha creato l’opportunità per un incontro personale tra Aliyev e Pashinyan.

A differenza degli Stati Uniti e della UE, che cercano di condurre i negoziati esclusivamente su piattaforme euro-atlantiche, Mosca si caratterizza nel sostenere soluzioni regionali ai problemi regionali. Questo approccio soddisfa l’Iran, che teme l’isolamento dall’area, e si adatta alla Turchia nei suoi aspetti antioccidentali e all’Azerbaigian, che sta sempre più nel solco turco.

In questo scenario, il presidente armeno Pashinyan è quello più in difficoltà e a disagio. Continua a cercare un suo ruolo a Bruxelles e Parigi, ma non riesce a trovare una posizione chiara e di prospettiva, per cui è diplomaticamente condizionato.

Nello stesso tempo occorre essere cauti nel leggere solo dinamiche positive o solutive, le conflittualità, anche potenzialmente militari, esistono e continueranno ad esistere fino a che non ci sarà un punto di arrivo collettivo e condiviso tra gli attori regionali.

Per ora il presidente armeno, il perdente della seconda guerra del Karabakh, messo ai lati da Russia e Turchia, è riuscito in qualche modo a vendicarsi, rafforzando la sua posizione interna in Armenia e trasportando la questione dei negoziati armeno-azerbaigiani fino a Bruxelles.

Anche se Washington e Parigi sono scontenti per molti aspetti, sia Aliyev, che Pashinyan, hanno deciso di partecipare ad alcune piattaforme di proposte europee. Aliyev ha recentemente aperto un interconnettore dalla Bulgaria alla Serbia, attraverso il quale scorrerà il gas azerbaigiano, e questo interessa le autorità europee, che accolgono con favore la diversificazione delle forniture di gas e la riduzione del ruolo della Russia nel fornire risorse energetiche all’Europa.

Ma Mosca ha immediatamente risposto aumentando il suo ruolo di mediazione costruttiva, avendo organizzato il primo incontro tra Aliyev e Pashinyan dopo il conflitto di settembre. Ma ora per mantenere questo vantaggio, la Russia dovrà aumentare i propri sforzi e proposte solutive, e non è una cosa semplice da attuare. Ma più forte sarà la Russia negli scenari globali e sugli altri fronti, più facile sarà per lei portare avanti la sua agenda programmata nel Caucaso meridionale.

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APPELLO di oltre 150 partiti, organizzazioni pubbliche, organi di stampa e leader degli organi di autogoverno locale della Repubblica dell’Artsakh (Repubblica del Nagorno Karabakh) hanno firmato un appello alla comunità internazionale in occasione del Giorno del Referendum sull’Indipendenza, il Giorno della Costituzione della Repubblica dell’Artsakh e il 75° anniversario dell’adozione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

“Un popolo libero non può rinunciare ai suoi diritti sovrani e sottomettersi al dominio di uno Stato straniero, soprattutto governato per molti anni da un regime autoritario, corrotto e razzista, inebriato dalla sua impunità.

La nostra decisione collettiva di lasciare la nostra Patria – la Repubblica dell’Artsakh (Repubblica del Nagorno Karabakh), le nostre case, le nostre chiese armene, lasciando dietro di noi le reliquie di San Giovanni Battista (Surb Hovhannes Mkrtich) e le tombe dei nostri antenati, che noi proteggono da secoli, è la prova davanti al mondo intero che la libertà è il valore più alto per il popolo dell’Artsakh. Abbiamo preso questa decisione forzata nel mezzo di azioni genocide in corso e di gravi minacce esistenziali incombenti.

Abbiamo preso questa decisione perché coloro che si definiscono paladini e difensori della libertà e dei diritti umani hanno deciso di negarci il nostro  diritto a vivere con dignità nella nostra patria e il nostro diritto all’autodeterminazione, puntando così a realizzare una pace immaginaria tra Armenia e Azerbaigian e per il bene dei propri interessi geopolitici.

Ce ne siamo andati perché era l’unico modo per garantire la nostra sicurezza, preservare la nostra dignità umana e nazionale e il nostro patrimonio genetico, smascherare la grande menzogna su cui si basava l’idea politica di una risoluzione unilaterale e forzata del conflitto, costringendo noi e i nostri bambini ad accettare la cittadinanza e a giurare fedeltà al regime che ci odia.

Per più di tre decenni abbiamo difeso con tutte le nostre forze il diritto dei nostri figli alla pace e al libero sviluppo. Ci siamo opposti agli accordi politici che ci sono stati offerti a scapito del nostro diritto sovrano di vivere nella nostra Patria, conquistato a costo di vite umane e di enormi sacrifici di molte generazioni durante i lunghi secoli di lotta per preservare la nostra dignità e identità nazionale. E questa lotta non è finita. Siamo fiduciosi che riconquisteremo la nostra Patria con il potere della verità e della giustizia.

Per coloro che pensano che il mondo possa essere governato dalla menzogna e dalla forza bruta, ripetiamo quanto segue:

La Repubblica del Nagorno Karabakh (NKR) è stata proclamata il 2 settembre 1991 dalle legittime autorità della Regione Autonoma del Nagorno Karabakh (NKAO) e della Regione Shahumyan della Repubblica Sociale Sovietica dell’Azerbaigian, quando le autorità di quest’ultima annunciarono la loro decisione di secedere. dall’URSS. La Dichiarazione politica sulla proclamazione dell’NKR si basava sulle norme giuridiche della legge sovietica allora in vigore e sulla volontà del popolo dell’Artsakh, espressa in un referendum nazionale.

Il nostro diritto all’autodeterminazione fu riconosciuto anche dalle autorità della Russia sovietica e dell’Azerbaigian nel 1920, e divenne la base per la creazione della Regione Autonoma del Nagorno-Karabakh nel 1923, fu sancito nella costituzione dell’URSS, la costituzione dell’Azerbaigian Repubblica Socialista Sovietica e la sua legge “Sulla NKAO”, ed è stata preservata nella Legge “Sulla procedura di secessione della Repubblica Sovietica dall’URSS” del 3 aprile 1990, e si basa anche sulla Carta delle Nazioni Unite e sul Patto Internazionale sulla Diritti civili e politici del 1966.

Il referendum del 10 dicembre 1991 ha confermato che la maggioranza assoluta degli elettori ha sostenuto la decisione di dichiarare l’indipendenza della nostra Repubblica. Il parlamento legittimo, eletto secondo standard democratici e in condizioni di assedio genocida e aggressione armata, ha adottato il 6 gennaio 1992 la Dichiarazione di Indipendenza della Repubblica del Nagorno Karabakh, Artsakh. Migliaia di nostri connazionali hanno pagato con la vita questa scelta.

Nel 1992, tutti gli Stati membri della CSCE/OSCE hanno riconosciuto il diritto dei rappresentanti eletti del Nagorno-Karabakh a partecipare alla conferenza internazionale dell’OSCE incaricata di risolvere il conflitto del Nagorno-Karabakh. Con un referendum nel 2006, il nostro popolo ha approvato la Costituzione della Repubblica, che definisce la procedura per l’elezione dei legittimi rappresentanti del Nagorno-Karabakh e i loro poteri; nel 2017, sempre con un referendum, il popolo ha approvato una nuova Costituzione. Questa Costituzione era e rimane l’unico documento fondamentale attraverso il quale i cittadini della nostra Repubblica sono guidati e obbediti di loro spontanea volontà.

Di conseguenza, noi, cittadini della Repubblica dell’Artsakh, nel tentativo di difendere i nostri diritti legali e il diritto di preservare la soggettività della nostra Repubblica, affermiamo che l’autodeterminato Nagorno-Karabakh non ha preso alcuna parte nella formazione del costituzione e autorità dell’autoproclamata Repubblica dell’Azerbaigian e, al contrario, ne ha dichiarato l’indipendenza. Tuttavia, il neonato Azerbaigian non ha nascosto le sue pretese infondate sul Nagorno-Karabakh.

Fu in tali condizioni che la comunità internazionale registrò l’esistenza di disaccordi sullo status del Nagorno-Karabakh, riconoscendo la natura contesa di questo territorio. Armenia e Azerbaigian sono diventati paesi partecipanti alla CSCE/OSCE a condizione che riconoscano l’esistenza di disaccordi sulla questione del Nagorno-Karabakh e concordino che il futuro status del Nagorno-Karabakh venga determinato in una conferenza di pace sotto gli auspici di la CSCE/OSCE. Entrambi gli stati hanno assunto l’obbligo internazionale di risolvere la questione esclusivamente con mezzi pacifici.

Tuttavia, una volta divenuto uno Stato partecipante alla CSCE/OSCE, l’Azerbaigian ha immediatamente violato il suo obbligo internazionale di risolvere pacificamente le controversie. Baku ha usato illegalmente la forza contro l’NKR come territorio conteso per impedire lo svolgimento di una conferenza internazionale per determinare lo status del Nagorno Karabakh. In quelle condizioni, la popolazione del Nagorno-Karabakh ha esercitato il proprio diritto all’autodifesa. L’aggressione armata dell’Azerbaigian nel 1992-1994 portò alla sua sconfitta con significative perdite territoriali. È importante sottolineare che la linea di contatto tra NKR e Azerbaigian è stata riconosciuta a livello internazionale.

Tuttavia, durante i tre decenni del conflitto, nessuno statista, politico o autorità legale internazionale ha risposto a una semplice domanda: perché l’Azerbaigian e altri Stati che hanno riconosciuto legalmente l’obbligo di seguire lo stato di diritto come principio fondamentale della loro statualità, possono prescindere dall’obbligo di rispettare il diritto all’autodeterminazione del Nagorno Karabakh e dal principio di non uso della forza, entrambi derivanti da tale principio fondamentale?

Questa circostanza ha permesso all’Azerbaigian di mantenere nel suo arsenale politico la strategia di annessione del Nagorno Karabakh attraverso l’espulsione forzata dei suoi popoli indigeni. La politica aggressiva dell’Azerbaigian non ha ancora ricevuto la dovuta condanna internazionale. Gli attori internazionali, contrariamente ai loro obblighi internazionali di assumersi la responsabilità di proteggere la popolazione dal genocidio (Responsabilità di proteggere), purtroppo, non hanno prestato la dovuta attenzione agli avvertimenti contenuti nella Dichiarazione del Parlamento dell’Artsakh del 27 luglio 2023 sui più gravi le gravi minacce esistenziali che affliggono la popolazione dell’Artsakh, non hanno impedito le azioni criminali dell’Azerbaigian, che ha commesso un’altra aggressione militare contro l’NKR nel settembre 2023 ed ha completamente espulso la popolazione armena indigena dell’Artsakh dalla loro patria storica.

Va ricordato che dopo la conclusione della tregua il 9 novembre 2020, il presidente dell’Azerbaigian ha dichiarato che il problema del Nagorno Karabakh non esiste più e che tutti devono fare i conti con le conseguenze della seconda guerra del Karabakh. Nel tentativo di cambiare l’essenza del conflitto, l’Azerbaigian ha introdotto nel suo vocabolario diplomatico una falsa narrativa dell’“occupazione armena delle terre azerbaigiane”, attraverso la quale tenta di mettere a tacere le legittime preoccupazioni sulla sua aggressiva politica genocida.

Non intendiamo compromettere i nostri principi, le nostre convinzioni e i nostri diritti in relazione alla nostra Patria, né di fronte alla forza, né sotto la minaccia di distruzione, né in esilio, né in qualsiasi altra circostanza politica.

L’intero mondo civilizzato si trova oggi di fronte a una scelta: o ripristinare l’ordine internazionale nel Nagorno Karabakh, basato sul rispetto del diritto all’autodeterminazione e degli altri diritti e libertà dei popoli e dei diritti umani, oppure accettare che il blocco, l’aggressione armata, Il genocidio e l’occupazione sono modi legittimi per risolvere i conflitti.

Oggi i leader di molti stati parlano della necessità del ritorno degli armeni nel Nagorno-Karabakh. Tuttavia, crediamo che per il ritorno pacifico, sicuro e dignitoso e la vita del nostro popolo nella loro patria siano necessarie le seguenti indiscutibili condizioni:

Innanzitutto escludiamo il ritorno dei cittadini della Repubblica dell’Artsakh nella giurisdizione dell’Azerbaigian. Le forze armate, la polizia e l’amministrazione azera devono essere completamente ritirate dal territorio della Repubblica dell’Artsakh, compresa la regione di Shahumyan, dove anche l’Azerbaigian ha la piena responsabilità della pulizia etnica del 1992.

In secondo luogo, le forze multinazionali internazionali di mantenimento della pace delle Nazioni Unite dovrebbero essere dispiegate lungo tutto il confine della Repubblica dell’Artsakh e dovrebbe essere creata una zona smilitarizzata.

In terzo luogo, il Corridoio Lachine, riconosciuto a livello internazionale, dovrebbe essere completamente trasferito sotto il controllo e la gestione delle Nazioni Unite.

In quarto luogo, il territorio della Repubblica dell’Artsakh dovrebbe essere consegnato al controllo delle Nazioni Unite per garantire le condizioni per il ritorno di tutti i rifugiati, la formazione di istituzioni democratiche e legali e il ripristino dell’economia. Tutti i rifugiati devono avere pari status, pari diritti ed essere soggetti alle regole comuni del periodo transitorio fino a quando non si terrà un referendum per confermare lo status politico finale del Nagorno-Karabakh, il cui risultato sarà legalmente riconosciuto da tutti gli Stati.

In quinto luogo, dovrebbe essere completamente esclusa la possibilità di procedimenti penali da parte dell’Azerbaigian nei confronti di cittadini della Repubblica dell’Artsakh per qualsiasi accusa durante l’intero periodo del conflitto. Tutti gli armeni arrestati e già condannati in Azerbaigian devono essere rilasciati immediatamente. Siamo pronti a riconoscere la competenza di un tribunale internazionale per indagare su ogni crimine di guerra di cui sono accusati i nostri cittadini, a condizione che allo stesso modo questo tribunale affronti anche tutti i crimini di guerra commessi dai cittadini dell’Azerbaigian e dai suoi mercenari.

Siamo pronti a fare del nostro meglio per contribuire al raggiungimento di una soluzione pacifica al conflitto, che sarà basata sul pieno rispetto del diritto all’autodeterminazione e degli altri diritti umani e libertà dei popoli riconosciuti a livello internazionale.”

I destinatari dell’appello sono: il Segretario generale dell’ONU, il Consiglio di sicurezza dell’ONU, il Presidente in esercizio dell’OSCE, i copresidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE, il Consiglio d’Europa (Segretario generale, Presidente dell’Assemblea parlamentare , Presidente del Comitato dei Ministri), il Presidente del Consiglio europeo, il Presidente del Parlamento europeo, il Segretario generale della CSI, il Segretario generale della CSTO e il Segretario generale della NATO.

Dicembre 10, 2023       Da Iniziativa Italiana per il Karabakh

A cura di Enrico Vigna, IniziativaMondoMultipolare/CIVG

Al Museo Civico di Bari l’evento “San Biagio: un santo, una storia, un popolo” (Baritoday 01.02.24)

Sabato 3 febbraio dalle ore 10,30 presso il Museo Civico di Bari (strada Sagges, Barivecchia) si svolgerà l’evento dal titolo “San Biagio: un santo, una storia, un popolo” dedicato alla vicenda di San Biagio (Vescovo e Martire d’Armenia del III secolo d.C) e alla sua ricezione in Terra di Bari.

L’incontro è stato fortemente voluto dalla Presidenza della Commissione Consiliare alla Cultura del Comune di Bari e dalla Comunità Armena di Bari. Dopo i saluti introduttivi del presidente della commissione cultura Dott. Giuseppe Cascella, della delegata del Sindaco per l’emergenza sanitari, dott.ssa Loredana Battista e del dott. Dario Rupen Timurian della Comunità Armena di Bari, alcuni importanti relatori si alterneranno per spiegare al pubblico l’importanza del culto di San Biagio e dei Santi Armeni nel nostro territorio attraverso i secoli, dal punto di vista storico, artistico e scientifico.

Il primo intervento vedrà come protagonista il prof. Ado Luisi, noto antichista dell’Università di Bari che introdurrà l’udito alla tradizione agiografica latina e orientale; il prof. Nicola Cutino si occuperà del tema della ricezione della figura di san Biagio in Terra di Bari ed il prof. Carlo Coppola, studioso di cose armene, farà un excursus tra i Santi armeni in Italia nell’antichità e nella contemporaneità. Seguiranno due interventi tra arte e scienza: la dott.ssa Siranush Quaranta che illustrerà alcuni elementi artistici legati al tema di San Biagio in Puglia, e il prof. Nicola Quaranta, otorinolaringoiatra barese di fama internazionale, rappresentante dell’illustre Società Italiana di Otorinolaringologia e Chirurgia Cervico-Facciale, racconterà i rapporti otorinolaringoiatra e il suo patrono san Biagio.

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Armenia aderisce alla Corte dell’Aia. Preoccupazione di Mosca (Osservatorio sulla legalità 01.02.24)

Novità dall’Armenia, che ha aderito alla Corte Penale Internazionale, con sede all’Aia, e che sembra abbia trovato una pace de facto con l’Azerbaijan.

Il 1° febbraio, l’Armenia è diventata il 124esimo membro a pieno titolo della CPI dopo aver presentato ufficialmente alla corte i documenti che confermano la ratifica da parte di Yerevan dello Statuto di Roma, fondamento della CPI.

Ricordiamo che questa è la Corte che ha emesso un mandato d’arresto internazionale contro Putin, quindi l’adesione è stata commentata dal Cremlino. “In generale, questo è il diritto sovrano dell’Armenia”, ha detto il portavoce del Cremlino. “Ma d’altra parte, per noi è importante che tali decisioni non incidano negativamente sia de jure che de facto sulle nostre relazioni, che apprezziamo e vogliamo sviluppare” ha detto ai giornalisti il ​​portavoce del Cremlino Dmitry Peskov.

I procedimenti di adesione a questi organismi internazionali sono lunghi, quindi non vi è relazione temporale fra la vicenda Putin e la scelta armena, anche se la Corte penale internazionale ha affermato che anche la parte armena ha presentato documenti che confermano che “l’Armenia accetta retroattivamente la giurisdizione della Corte penale internazionale dal 10 maggio 2021”, presumibile data in cui è stata presentata la richiesta. Pertanto il procedimento verso Putin, sebbene successivo alla richiesta, fa parte di quelli di cui l’Armenia accetterà le decisioni.

Nel frattempo il presidente azero Ilham Aliyev ha dichiarato che “Tra l’Azerbaigian e l’Armenia esiste una pace di fatto, poiché negli ultimi mesi la situazione al confine è stata pacifica. Ma deve ancora essere firmato un trattato di pace per portare questo processo alla sua logica conclusione, e Anche l’Armenia dovrà rinunciare alle sue rivendicazioni territoriali nei confronti dell’Azerbaigian”.

Inoltre, Aliyev ha detto, Baku e Yerevan possono raggiungere la pace se l’Armenia modifica la sua Costituzione e altri documenti legali, ponendo fine alla sua disputa territoriale con l’Azerbaigian, spiegando che la Dichiarazione di Indipendenza dell’Armenia richiede direttamente l’aggiunta della regione del Karabakh dell’Azerbaigian all’Armenia e la violazione del integrità territoriale del suo vicino.

Il leader azero ha lodato come un passo positivo il processo di avvio delle discussioni interne in Armenia sugli emendamenti alla Costituzione che, secondo lui, “potrebbero aprire la strada alla conclusione del processo di pace il più presto possibile”.

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Ode a Galina Starovojtova, che diede la vita per la libertà degli armeni (Tempi 01.02.24)

C’è una dimora funeraria lontana dal Caucaso, e dai monti pietrosi attraversati dai cammellieri mercanti e dagli invasori mongoli e persiani e tartari sui loro cavalli e i carri. Parlo del sepolcro di lei, di Galina Vasileva Starovojtova, a San Pietroburgo. Ella fu deputata alla Duma di Mosca, dove fu eletta in rappresentanza dell’Armenia, quindi, dopo la fine dell’Urss, proprio dell’oblast dell’ex Leningrado.

Era stata Galina Vasileva Starovojtova nel 1990 a condurre – come ho raccontato nella precedente missiva dal lago di Sevan – Ryszard Kapuściński (1932-2007) il più grande reporter degli ultimi 50 anni, a Stepanakert, capitale del Nagorno-Karabakh-Artsakh. Era il 1990 quando il giornalista polacco violò l’assedio degli azeri e superò il blocco dell’esercito sovietico, travestendosi da pilota del piccolo aereo che doveva condurre la deputata sovietica tra i suoi elettori armeni di Stepanakert, che era strangolata dai due eserciti (di …

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