Roma-Baku, relazioni pericolose (Irpimedia 12.02. 24)

Dopo l’aggressione all’Ucraina del 2022, in Europa molto si è discusso di come ottenere l’indipendenza energetica dalla Russia. E, in effetti, nonostante i timori e le difficoltà iniziali, i risultati sono arrivati. Tutte le rilevazioni parlano di una drastica riduzione delle importazioni, tanto a livello europeo quanto in Italia, e molti sono i progetti che mirano a una ulteriore diminuzione nei prossimi anni.

Meno noto, però, è che dietro il gas che riscalda le case di italiani ed europei quest’inverno, voltate le spalle a Mosca, ci sia un’altra storia decisamente problematica dal punto di vista dei diritti umani.

È quella dell’Azerbaijan, Paese che nel settembre 2023 ha perpetrato la pulizia etnica – come è stato definito l’esodo forzato degli armeni anche dal Parlamento europeo con una risoluzione adottata il 5 ottobre 2023 – di oltre centomila armeni del Karabakh. Questa regione, a stragrande maggioranza armena dal punto di vista etnico, è dalla fine dell’Unione Sovietica riconosciuta come Azerbaijan, ma è stata conquistata dagli armeni nel ’94 e rioccupata dagli azeri nel 2020 e poi presa definitivamente dall’esercito di Baku nel 2023.

Qui il dittatore Ilham Aliyev ha celebrato lo scorso anno il suo ventennio di dominio incontrastato; un ruolo, questo, che ha ereditato direttamente dal padre, Heydar Aliyev, al potere quasi ininterrottamente dal 1969, quando venne eletto Primo segretario dell’allora Repubblica socialista sovietica dell’Azerbaijan, fino alla sua morte nel 2003.

L’INCHIESTA INTERNAZIONALE SUL REGIME DI ALIYEV
Questo editoriale è parte di #TheBakuConnection, l’inchiesta di 40 giornalisti di 15 testate internazionali coordinata da Forbidden Stories sul regime della famiglia Aliyev. Dal 2014, l’organizzazione internazionale del Consiglio d’Europa ha versato in Azerbaijan 23 milioni di euro per programmi di sviluppo. I giornalisti azeri che hanno cercato di svelare la corruzione nel Paese sono finiti in carcere. Il progetto porta avanti le loro inchieste.

Il Tap e le lezioni dimenticate
Da Muammar Gheddafi a Saddam Hussein, da Tayyip Erdogan a Vladimir Putin, il supporto europeo e americano alle dittature si è spesso rivelato un’operazione azzardata, quando non un vero e proprio boomerang. La vicinanza con l’Azerbaijan e il suo dittatore potrebbe aggiungersi alla lista.

Roma infatti, in questa storia, ha giocato e gioca un ruolo di primo piano. In principio fu il Tap, il Gasdotto Trans-Adriatico che, dopo una lunga e contestata gestazione all’inizio del millennio, è stato realizzato fra il 2016 e fine 2020, anno in cui è entrato in funzione. Oggi è la seconda fonte del gas importato dall’Italia. La dipendenza energetica riguarda anche i prodotti petroliferi. Risultato: oltre il 30% di tutte le esportazioni del Paese caucasico – in primis proprio idrocarburi – arriva in Italia.

Al di là di gas e petrolio, a cementare le relazioni fra Roma e Baku sotto il governo Meloni c’è Leonardo, che ha annunciato di aver «firmato un contratto per la fornitura del C-27J Spartan (un aereo da trasporto militare, ndr) nell’ambito della visita di una delegazione azera in Italia alla presenza di rappresentanti dei Ministri della Difesa dei due Paesi», si legge nel comunicato stampa della società controllata dallo Stato italiano. «La collaborazione tra Italia e Azerbaijan – prosegue la nota – si estende anche ai prodotti dell’industria della Difesa grazie al prezioso contributo offerto dal gruppo di lavoro del ministero della Difesa italiano».

Guido Crosetto, infatti, a gennaio 2023 è stato in visita ufficiale a Baku per rafforzare le «relazioni tra Azerbaijan e Nato e tra Azerbaijan e Unione europea», ha detto Crosetto. Il quale ha aggiunto: «Tale obiettivo è condiviso anche dal presidente del Consiglio, Giorgia Meloni». L’accordo si inserisce in un «ampio programma di ammodernamento delle Forze Armate azere che guardano con sempre maggiore interesse ai prodotti dell’industria italiana».

Il ministro Guido Crosetto incontra a Baku il presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev a gennaio 2023 © president.az
In un’interrogazione parlamentare depositata nel settembre 2023, i deputati del Pd Piero Fassino, Stefano Graziano, Andrea De Maria e Giuseppe Provenzano hanno chiesto al ministro Crosetto se la vendita rappresenti una violazione della legge 185 del 1990, che regolamenta l’export di armi e impedisce – tra il resto – lo scambio commerciale con Paesi in guerra, sotto sanzione o che violano i diritti umani. Dal ministero della Difesa non è al momento pervenuta alcuna risposta.

Ai rapporti commerciali si aggiunge il supporto diplomatico dell’Italia che, in controtendenza rispetto al progressivo allontanamento di molti Paesi europei e degli Usa stessi dalla dinastia Aliyev, ha deciso di dare a Baku un ruolo centrale nel Piano Mattei.

Quest’ultimo, la cui attuazione è prevista da un decreto-legge in vigore dall’inizio di febbraio, ha lo scopo di «rafforzare la collaborazione tra l’Italia e Stati del Continente africano». Il ruolo dell’Azerbaijan in questo quadro? Rifornire l’Italia, il cui nuovo ruolo dovrebbe essere quello di Paese hub per la distribuzione di idrocarburi nel resto dell’Europa. La loro provenienza è sia nordafricana sia, appunto, azera, attraverso il Tap.

La repressione interna
Viene spontaneo chiedersi se, dopo l’esito catastrofico dei rapporti con Mosca, abbia senso nutrire un’altra dittatura che, fra l’altro, sempre più sembra guardare a Vladimir Putin. Mentre le relazioni fra Russia e Armenia sono ai minimi storici, Baku trova una sponda fondamentale a Mosca, come testimonia il fatto che il presidente russo sia stato fra i leader mondiali a congratularsi con Aliyev (e a parlare di progetti di collaborazione futuri) a seguito della vittoria alle elezioni-farsa del 7 febbraio dove il presidente azero in carica si è affermato con il 92% dei voti.

Tanto più che la russa Gazprom è tornata a fornire gas russo alla società statale azera Socar per compensare le richieste crescenti dei partner europei: anche l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri Josep Borrell, rispondendo a un’interpellanza parlamentare a inizio 2023, ha detto che «la Commissione sta guardando attentamente» a questa rinnovata collaborazione. L’Azerbaijan è libero di importare il gas dalla Russia, visto che il Paese non applica le sanzioni, ma questo aiuta la macchina bellica russa che si alimenta con gli introiti del gas. E c’è persino il rischio che possa entrare in Europa, violando le sanzioni, passando proprio dall’Azerbaijan.

LE GUERRE DEL KARABAKH
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Eppure a leggere le dichiarazioni di ministri recatisi a Baku lo scorso anno – dal già citato Crosetto ad Adolfo Urso, il ministro del Made in Italy che ha presenziato alla firma di un nuovo accordo tra AnsaldoEnergia e Azerenerji, il più grande produttore di energia elettrica azero – sembra che non ci sia alcun timore nei riguardi dell’alleato azero.

Ai dubbi sull’opportunità politica di rivolgersi a Baku si aggiunge il fronte delle violazioni interne sui diritti umani. In Azerbaijan è in corso la repressione dei media indipendenti, il Paese è uno degli ultimissimi Paesi al mondo per la libertà di stampa stando agli indici internazionali, e i media internazionali sono spesso intimiditi e attaccati dalla presidenza. Si veda ad esempio il caso di Alexander Lapshin, blogger con cittadinanza ucraina, russa e israeliana, per il quale nel 2021 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato le autorità azere colpevoli di tortura e di tentato omicidio in una prigione a Baku.

Carceri, quelle azere, dove i prigionieri politici sarebbero oltre duecento, secondo le stime di diverse organizzazioni indipendenti. Contestare il potere è reato, le elezioni sono una farsa. Fuori dal Paese, si moltiplicano gli scandali internazionali legati alle finanze e ai patrimoni internazionali della famiglia Aliyev, nascosti in casseforti offshore.

Una parabola, la loro, che dopo l’indipendenza dall’Unione Sovietica e la guerra perduta con l’Armenia nel 1994 – marcata anch’essa da una doppia pulizia etnica, che colpì tanto la popolazione azera che gli armeni – ha visto corrispondere il boom nell’export di gas e petrolio a un riarmo esponenziale, e quindi alla riconquista del Karabakh. In tutto questo, non sono mancate le sperimentazioni di nuove e micidiali armi, basti citare i droni suicidi Harop di produzione israeliana impiegati da Baku in questo contesto fin dal 2016.

La diplomazia del caviale, in Italia e in Vaticano
L’Italia è stata terreno assai fertile per la “diplomazia del caviale” di Baku, una strategia che, grazie alla corruzione di politici e diplomatici, ma anche accademici e giornalisti, ha mirato a proteggere ed espandere gli interessi della dittatura all’estero. Il caso più noto, certificato dall’esito processuale, è quello di Luca Volontè e delle tangenti pagate dall’Azerbaijan a membri del Consiglio d’Europa.

Per mezzo milione di euro, Volontè ha orientato il voto del proprio gruppo parlamentare per fare in modo che votasse contro l’approvazione di un rapporto sulle condizioni di 85 prigionieri politici che avrebbe danneggiato l’immagine di Azerbaijan. Lo ha stabilito l’11 gennaio 2021 la decima Sezione Penale del Tribunale di Milano, che ha condannato Luca Volontè a quattro anni di carcere. Il reato di corruzione internazionale è poi finito in prescrizione nel 2022.

OMBRE SULLE FONDAZIONI: TRA DIPLOMAZIA DEL CAVIALE E INGERENZE DI POTENZE ESTERE
Ricorrono, negli anni, le accuse a varie organizzazioni o media internazionali di aver “coperto” il regime sotto una patina di normalità. È toccato anche alla BBC, quando a fine 2022 ha mandato in onda il documentario Meraviglie dell’Azerbaijan, sponsorizzato dalla compagnia petrolifera BP e sostenuto da una donazione della famiglia presidenziale, ricorda OpenDemocracy.

Poco noto, ma per nulla trascurabile, è poi il ruolo che il Vaticano ha giocato nei piani di Baku. Ancora una volta, milioni di euro riversati da Baku a Roma, ma questa volta, ufficialmente almeno, per progetti culturali. Restauri di chiese, opere d’arte, catacombe, sia in Italia che in Francia, finanziati dalla Fondazione Heydar Aliyev, gestita direttamente dalla famiglia del dittatore.

Investimenti milionari e tanti progetti non troppo trasparenti – se si pensa all’ammontare non reso pubblico di alcuni di questi progetti – spacciati per diplomazia culturale e religiosa, ma determinanti in un’operazione di ripulitura dell’immagine di una dittatura che la Santa Sede si ostina a definire, in tanti comunicati e documenti, tollerante e rispettosa delle minoranze religiose.

Fa pensare il recente, condivisibile rifiuto del Vaticano a una sponsorizzazione di Leonardo all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Perché allora si accettano donazioni e investimenti da una dittatura armata che, oltre a comprare armi dalla stessa Leonardo, compie crimini contro l’umanità dentro e fuori dai suoi confini (da attacchi a giornalisti in esilio fino a presunti crimini di guerra), peraltro contro una minoranza cristiana come quella armena?

Un semplice sguardo ad alcuni dei punti culminanti nelle relazioni fra Vaticano e Baku non può che destare sospetti.

Nel febbraio 2020, la vicepresidente Mehriban Aliyeva, moglie del dittatore, viene ricevuta in Vaticano e insignita dell’Ordine Papale dei Cavalieri-Ordine di Papa Pio IX (Dama di Gran Croce dell’Ordine Piano). Da prima ancora di diventare first lady svolge funzioni importanti per la politica del soft power di Baku, in particolare nel settore dello sport (ad esempio il ruolo nel Comitato olimpico azero) e della cultura (dalla presidenza della fondazione intitolata al fondatore dell’Azerbaijan, il padre di Aliyev, fino a progetti di ristrutturazione di monumenti storici).

Pochi mesi dopo quella visita di Aliyeva, a settembre 2020, scatta l’aggressione di Baku contro gli armeni del Karabakh, 44 giorni di guerra che hanno lasciato sul campo migliaia di morti. Quindi, e siamo a gennaio 2023, c’è stata l’inaugurazione dell’ambasciata azera in Vaticano, a seguito di una serie di visite della coppia presidenziale da Papa Francesco. E ancora una volta, a settembre, una nuova aggressione di Aliyev e la pulizia etnica della popolazione armena indigena del Karabakh.

L’amarezza di tanti prelati e credenti armeni nei confronti del Vaticano, come ci raccontano diverse fonti che per parlare liberamente chiedono di rimanere anonime, è il sintomo di una vicenda che ha visto la Santa Sede assai silenziosa su questo conflitto, sempre lasciato in secondo piano o citato in comunicati e annunci blandi e generici («tacciano le armi e si compia ogni sforzo per trovare soluzioni pacifiche», diceva il Papa il 20 settembre 2023), che è difficile non mettere in relazione con le donazioni milionarie di cui sopra.

Per approfondire
In Azerbaijan il dittatore Aliyev continua ad arrestare i giornalisti indipendenti
12.02.24
Nunziati, Spallino
Mentre la Francia, in primis – in piena crisi diplomatica con l’Azerbaijan – ma anche Germania, USA e istituzioni europee, oltre che sempre più organizzazioni internazionali, denunciano continue violazioni dei diritti umani e il pericolo imminente di una nuova guerra che investa il territorio armeno e potrebbe espandere ulteriormente gli altri conflitti in corso, Roma sembra guardare altrove. Eppure, secondo analisti come Zvi Barel di Haaretz, questo contesto è legato alla situazione in Israele, Iran, oltre naturalmente alla Russia e all’Ucraina, per non parlare delle questioni territoriali aperte nella vicina Georgia in seguito all’occupazione russa.

Difensori della cristianità?
Se è comprensibile l’urgenza di trovare alternative energetiche alla Russia, stupisce però il cortocircuito ideologico che ha trasformato l’Azerbaijan in un alleato. Soprattutto se si pensa a come questo governo ami rappresentarsi come baluardo dell’identità cattolica e della cristianità.

Il cambio di atteggiamento è particolarmente stridente nel caso di Giorgia Meloni. Nel 2016, quando era candidata sindaco di Roma, diceva che era una follia far entrare nell’Unione europea la Turchia, principale alleato dell’Azerbaijan che non riconosce il genocidio degli armeni del 1915. Sui social, Meloni ha però smesso di commemorare l’anniversario del genocidio armeno, che cade il 24 aprile, dal 2021, all’inizio della sua ascesa verso Palazzo Chigi.

I dubbi restano anche guardando ai suoi alleati di governo. Che fine hanno fatto, viene da chiedersi, gli interventi del vicepremier Matteo Salvini in supporto alla causa armena non appena è nato il nuovo governo? Il nulla, almeno a giudicare i fatti che non sono seguiti alle promesse. Se solo lo scorso novembre Palazzo Chigi è stato illuminato di rosso per ricordare i cristiani perseguitati, il silenzio del governo sulla cancellazione della minoranza armena dal Karabakh non ha acceso neppure un lumicino da quelle parti.

Si è passati, senza apparente soluzione di continuità, da anni di veemente propaganda – non priva di tratti xenofobi – di questi stessi partiti contro la Turchia, alleata prossima a Baku e determinante nei suoi recenti attacchi contro gli armeni, a una vicinanza tanto stretta che gli europei di calcio del 2032, senza che nessuno batta ciglio, saranno ospitati da Ankara e Roma congiuntamente. Ma ancora una volta, in tutta evidenza – al pari dell’alleato Viktor Orban, fedelissimo di Aliyev e di Erdogan – l’Italia di Meloni dimostra tutta la sua disponibilità ad applicare quegli stessi “doppi standard” denunciati per anni con strepiti e proteste dai partiti che oggi ci governano.

L’autore di questo articolo, Simone Zoppellaro, è giornalista e ricercatore che da anni segue le vicende che riguardano Armenia e Azerbaijan. È ​​autore dei libri Armenia oggi (2016) e Il genocidio degli yazidi (2017) e collabora con la fondazione Gariwo.

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Chi era Missak Manouchian: immigrato, clandestino e pattugliano eroe antinazista (L’Unità 11.02.24)

e spoglie di Missak Manouchian, resistente comunista d’origine armena in Francia, e della sua compagna Mélinée, a giorni troveranno posto nel Panthéon di Parigi. La cerimonia, da intuire solenne, avrà luogo il prossimo 21 febbraio, ottanta anni dopo la sua esecuzione da parte dei nazisti occupanti l’Esagono. L’annuncio ufficiale è dello scorso 18 giugno dal presidente Emmanuel Macron. Lo stesso onore era stato accordato in tempi recenti solo a Josephine Baker.

Missak Manouchian, dopo l’arresto avvenuto nel novembre 1943, viene fucilato il 21 febbraio 1944, insieme ad altri ventidue compagni di lotta: al Mont-Valérien, nell’Hauts-de-Seine. Con lui, tra gli altri, tutti appartenenti al cosiddetto omonimo “Groupe Monouchian”, trovano la morte anche quattro italiani, a loro volta militanti dei Ftp-Moi (Francs-tireurs et partisans–Main-d’œuvre immigrée): Spartaco Fontanot, Amedeo Usseglio, Cesare Luccarini e Rino Della Negra.

Missak e Mélinée, operanti nei giorni dell’occupazione tedesca, riassumono la memoria di alcune tra le azioni più coraggiose e insieme esemplari del “maquis” francese. Una strada, nel 20° arrondissement parigino, ne segna da molti decenni il ricordo perenne “civile”. La Francia vuol bene ai martiri anti-nazisti.

Charles Aznavour, nella sua amabile autobiografia, consegna parole toccanti e colme di sentimento nel ricordo della famiglia Manouchian, amici, vicini di casa, militanti comunisti, armeni tra gli armeni della diaspora condotti tra mille affanni, stenti e difficoltà materiali in Francia.

Sarà addirittura Mélinée Manouchian a guidare il bambino Aznavour nel suo primo debutto radiofonico vinto con sua sorella Aïda. Anche i genitori di Charles saranno coinvolti nella resistenza accogliendo ebrei ricercati dalla Gestapo e soldati russi e armeni arruolati con la forza nell’esercito tedesco. Sarà Charles personalmente ad occuparsi di sbarazzarsi delle loro uniformi.

Missak Manouchian, nato in Turchia nel 1906, orfano, sfuggito al genocidio degli Armeni operato proprio dai Turchi, giunge da immigrato clandestino a Marsiglia nel 1935. Appassionato di letteratura francese, operaio, aderisce presto, in fabbrica, al Partito comunista francese.

Nel 1940 la sua attività politica gli impone l’obbligo della clandestinità, verrà tratto in arresto l’anno successivo dalla milizia del maresciallo Pétain, quindi consegnato alla Gestapo. L’acronimo Moi corrisponde a Manodopera Immigrata, l’intento politico è consentire l’integrazione degli stranieri attraverso organismi associativi, sportivi e culturali.

Durante l’occupazione nazista della Francia, proprio il Moi diverrà un nucleo di resistenti. Nell’estate del 1943, forte dei suoi 65 attivisti divisi in tre distaccamenti, stranieri o di origine straniera, il Gruppo Monouchian è tra le principali formazioni di resistenza operative a Parigi.

Tra le sue azioni più ardite, l’esecuzione, il 28 settembre 1943, del generale delle SS Julius Ritter, responsabile delle deportazioni per il lavoro coatto di mezzo milione di francesi in Germania. Torturati e sottoposti a un processo privo di garanzie, Manouchian e altri 22 uomini del Ftp-Moi, verranno infine messi a morte.

La propaganda nazista per l’occasione farà affiggere a Parigi, e in molte altre città del paese, un manifesto minaccioso che diverrà noto come “l’Affiche Rouge”, stampato in quasi ventimila copie. L’intento della propaganda dell’occupante è mostrare i “terroristi” da poco trucidati come “ingrati”, “stranieri”, “comunisti”, “rossi”, tra di essi ebrei ed ex combattenti dell’Esercito popolare e volontari della Spagna repubblicana del 1936-1939; i partigiani stigmatizzati come protagonisti della “congiura internazionale comunista e giudea che vuole imporre il terrore”.

Molti di quei manifesti con i volti di dieci tra i fucilati al Mont-Valérien compariranno invece fiori e messaggi pronti a dichiararli “Morti per la Francia” e “Martiri”. Una campagna concepita per screditare la Resistenza, cui si deve la partecipazione attiva del governo collaborazionista di Vichy. Nell’Affiche Rouge c’era modo di leggere: “DEI LIBERATORI? LA LIBERAZIONE! A OPERA DELL’ESERCITO DEL CRIMINE” e ancora figuravano le foto, i nomi e le azioni di 10 partigiani accuratamente scelti (5 ebrei polacchi, 2 ebrei ungheresi, 1 comunista italiano, 1 “rosso” spagnolo, 1 “capo-banda” armeno)”.

Il Panthéon di Parigi accoglie i “grandi uomini che hanno meritato la riconoscenza nazionale”, lì a incarnare “i valori e le virtù repubblicani”Victor Hugo, Émile Zola, Voltaire, Rousseau, e ancora Jean Moulin, protagonista della Resistenza al fianco di De Gaulle, fra i molti altri.

La decisione di Macron di traslare le spoglie di Missak e Mélinée Manouchian serve a ribadire il valore universale dei principi di lotta per la libertà, al di là della nazionalità di appartenenza: si può cioè essere pienamente “citoyennes” per scelta, indipendentemente dal luogo o dalla cultura di nascita. Dall’altra, l’elevazione della Francia a patria universale, luogo delle identità più ampie.

Tra i martiri del Gruppo Manouchian, Spartaco Fontanot, nato a Monfalcone nel 1922, unico italiano a comparire sull’Affiche Rouge, indicato come “Fontanot, comunista italiano, 12 attentati”. Va ancora ricordato Rino Della Negra, ventenne, nato in Francia da genitori originari di Udine, già calciatore dei Red Star di Saint-Ouen-sur-Seine: i tifosi hanno collocato una lapide commemorativa nella tribuna che porta il suo nome nello stadio del sobborgo parigino; infine Amedeo Usseglio; Cesare Luccarini, nato nel 1922 a Castiglione dei Pepoli, Bologna.

Ispirandosi alla lettera che Missak Manoukian invia alla sua compagna di vita Mélinée prima dell’esecuzione, nel 1955, in occasione dell’inaugurazione proprio della via dedicata al “Groupe Manouchian” a Parigi, Louis Aragon, scrive alcuni versi che verranno poi cantati da Léo Ferré. Sempre alla vicenda dell’Ftp-Moi e dell’Affiche Rouge il regista marsigliese di origine armena Robert Guédiguian ha dedicato il film, L’Armée du crime.

Nella lettera d’addio di Missak Manouchian inviata alla moglie leggiamo: “Mia cara Mélinée, amata orfanella, fra qualche ora non sarò più di questo mondo. Verremo fucilati questo pomeriggio alle 15. È una disgrazia, non riesco a crederci ma so che non ti vedrò mai più. Cosa posso scriverti? Tutto in me è confuso e chiarissimo allo stesso tempo. Mi ero arruolato nell’Esercito di Liberazione come soldato volontario e muoio ad un passo dalla Vittoria e dall’obiettivo.  Felicità a coloro che ci sopravviveranno, gusteranno la dolcezza della Libertà e della Pace di domani. Sono certo che il popolo francese e tutti i combattenti per la Libertà sapranno onorare degnamente la nostra memoria.  Nell’ora della morte dichiaro di non avere alcun odio per il popolo tedesco o contro chicchessia, ognuno avrà ciò che merita come castigo e come ricompensa. Ho un profondo rimpianto per non averti resa felice, avrei davvero voluto avere un bambino da te, come hai sempre voluto. Ti prego quindi di sposarti dopo la guerra, sul serio, e di avere un figlio, ne sarei contento ed è questa la mia ultima volontà, sposati con qualcuno che possa renderti felice.  Tutti i miei beni e tutte le mie cose sono per te, per tua sorella e per i miei nipoti. Dopo la guerra potrai far valere il tuo diritto ad una pensione di guerra in quanto mia moglie, perché muoio come soldato regolare dell’esercito francese di liberazione. Con l’aiuto degli amici che mi vorranno onorare farai pubblicare le mie poesie ed i miei scritti che valgono la pena di essere letti.  Mi ricorderai per quanto possibile ai miei parenti in Armenia. Morirò assieme ai miei 23 compagni con il coraggio e la serenità di un uomo che ha la coscienza tranquilla, perché personalmente non ho fatto del male a nessuno e se l’ho fatto l’ho fatto senza odio. Oggi è una giornata di sole. È con lo sguardo sul sole e sulla natura che ho così amato che dirò addio alla vita e tutti voi, carissima moglie mia e carissimi amici. Perdono a tutti coloro che mi hanno fatto del male o me ne hanno voluto fare, a parte a coloro che ci hanno traditi per salvarsi la pelle e a coloro che ci hanno venduto. Ti abbraccio fortissimo, abbraccio anche tua sorella e tutti gli amici vicini o lontani, vi tengo tutti nel mio cuore. Addio. Il tuo amico, il tuo compagno, tuo marito. P.S. Ho quindicimila franchi nella valigia in rue de Plaisance. Se puoi prenderli salda i miei debiti e dai il resto all’Armenia”.

Nel dopoguerra, Mélinée Manouchian ha ipotizzato che nel sospetto che, in quanto stranieri, il suo compagno e gli altri uomini del gruppo potessero essere ritenuti vicini al trotskismo, il Partito comunista francese non abbia messo in atto ogni possibile azione per salvarli.

Sulle facciate d’ogni scuola primaria di Francia una targa ricorda i crimini dei nazisti occupanti, le deportazioni degli ebrei e dei combattenti della Resistenza, precisando ancora che tutto ciò è stato reso possibile “con la complicità del governo collaborazionista di Vichy”.

Qui da noi, figure apicali dell’attuale governo, rifiutano di pronunciare ogni parola che possa mettere in discussione il ricordo dell’infamia fascista o intimamente tacciono quasi infastiditi, anche davanti al chiaro pronunciamento del presidente della Repubblica, forse così nell’attesa di poter finalmente rivendicare con orgoglio la propria storica appartenenza, l’equiparazione tra antifascismo e fascismo.

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L’Azerbaijan sta ripopolando il Nagorno Karabakh (Il Post 11.02.24)

Il 1° gennaio del 2024 è stata ufficialmente sciolta la repubblica separatista del Nagorno Karabakh, un territorio collocato formalmente in Azerbaijan ma che fino a qualche mese fa era governato in maniera indipendente e che per decenni era stato abitato principalmente da persone di etnia armena. A settembre del 2023 l’esercito dell’Azerbaijan aveva riconquistato il Nagorno Karabakh con una breve guerra e costretto circa 120 mila persone armene a lasciare le proprie case, in quella che era stata definita da molti esperti e istituzioni come un’operazione di pulizia etnica.

Ora il governo autoritario azero sta incentivando il ripopolamento del Nagorno Karabakh da parte di persone di etnia azera, in un’operazione che è stata chiamata il “Grande ritorno”: il governo sta regalando appartamenti abbandonati ad alcuni suoi cittadini che sono disposti a trasferirsi nella regione e nelle aree di confine e molti altri si stanno muovendo in maniera indipendente. Fra loro ci sono migliaia di persone che erano fuggite o erano state espulse dall’area fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta a causa delle guerre precedenti per il controllo del territorio. Questi movimenti di popolazione riflettono l’estrema complessità della situazione della regione, su cui da decenni Armenia e Azerbaijan avanzano rivendicazioni territoriali e identitarie.

Le storie di alcuni di coloro che si sono già trasferiti nella regione, tornando in certi casi nelle città in cui erano nati, sono state raccontate in un articolo uscito questa settimana sul quotidiano Süddeutsche Zeitung e anche dal New York Times.

Le guerre tra Armenia e Azerbaijan per il Nagorno Karabakh cominciarono in concomitanza con la dissoluzione dell’Unione Sovietica. La prima, che durò tra il 1988 e il 1993, fu vinta dall’Armenia, che favorì l’istituzione di uno stato indipendente (ma non riconosciuto dalla comunità internazionale e dipendente in tutto dall’Armenia stessa) in Nagorno Karabakh. A seguito di quella guerra, centinaia di migliaia di armeni che vivevano in Azerbaijan furono costretti a lasciare il paese e a trasferirsi in Armenia, e lo stesso avvenne con centinaia di migliaia di azeri che vivevano in Armenia. Anche in Nagorno Karabakh – che è da secoli una regione in cui la popolazione è a maggioranza armena – a causa della guerra alcune decine di migliaia di abitanti azeri dovettero abbandonare le loro case.

Trent’anni dopo, la situazione in Nagorno Karabakh si è ribaltata: dopo una serie di altre guerre, tra cui una nel 2020 e una nel settembre del 2023, l’Azerbaijan ha conquistato militarmente il Nagorno Karabakh e sono stati gli abitanti armeni a dover fuggire in Armenia.

– Leggi anche: Che posto è il Nagorno Karabakh

Si stima che in questi mesi circa 120mila residenti armeni abbiano lasciato la regione. Molti residenti armeni hanno detto di essere fuggiti per paura di subire ritorsioni da parte dell’esercito azero. Benché il presidente azero Ilham Aliyev abbia detto che i diritti degli armeni del Karabakh saranno garantiti, il governo azero ha dimostrato di avere poco riguardo per le condizioni della popolazione armena locale. L’Azerbaijan è anche un regime dittatoriale dove le libertà politiche e civili sono sistematicamente represse. Ilham Aliyev è al potere dal 2003 (in precedenza il paese era stato governato per vent’anni da suo padre, Heydar Aliyev) e la sua retorica nei confronti del Nagorno Karabakh è sempre stata estremamente violenta.

Ufficialmente, Aliyev ha detto che gli armeni che lo desiderano posso tornare ad abitare nella regione, ma il suo viene considerato più che altro uno strumento di propaganda, dato che nessun armeno, anche coloro che sono nati in Nagorno Karabakh, rischierebbe di tornare a vivere in un territorio così ostile nei loro confronti.

Molte case sono ancora distrutte, specialmente nella capitale della regione Stepanakert che è stata bombardata dall’esercito azero. Il governo ha avviato importanti progetti edilizi che dovrebbero poter ospitare decine di migliaia di cittadini e cittadine azere nei prossimi anni. Per esempio, nella città di Lachin, da cui aveva preso il nome il corridoio che collegava la regione all’Armenia, il governo azero ha affidato il progetto di ricostruzione a una società svizzera, che sta costruendo nuovi condomini, un museo “dell’occupazione” degli armeni del Nagorno Karabakh, un teatro e un cinema. In alcuni comuni è già stata prevista la costruzione di moschee: la popolazione armena è a maggioranza cristiana, mentre l’Azerbaijan è uno stato a maggioranza musulmana sciita.

La questione del Nagorno Karabakh è molto complessa: sia la popolazione armena che quella azera vedono il possesso della regione come un elemento fondamentale della loro identità nazionale e in Azerbaijan vivono ancora moltissime persone che si ricordano di com’era viverci prima dello scoppio della guerra, che le ha costrette ad andarsene.

Molti azeri che stanno tornando in Nagorno Karabakh dopo averlo lasciato più di trent’anni fa vivevano nel resto del paese con uno status di “sfollati interni”, in condizioni abitative precarie. Al di là degli obiettivi e della propaganda nazionalista del governo, molti azeri vedono il loro trasferimento in Nagorno Karabakh come un ritorno a casa. Questo sta facilitando il ripopolamento della regione.

In alcune città, specialmente quelle riconquistate dall’esercito già nel 2020, le prime persone azere sono già arrivate, andando ad abitare in case regalate dal governo o decidendo di rimettere a posto in autonomia le case abbandonate dagli armeni. Molti di coloro che hanno fatto domanda per andare ad abitare in Nagorno Karabakh in appartamenti del governo sono persone in pensione che abitavano in quelle città prima di fuggire trent’anni fa a causa dello scoppio della guerra. Un altro fattore è quello della storia familiare: fra le persone intervistate a fine ottobre dal New York Times molte sono figlie di azeri che erano fuggiti alla fine degli anni Ottanta.

Fra le persone già trasferitesi sentite dallo Süddeutsche Zeitung ci sono Wagif Khanlarow e sua moglie, due pensionati che hanno ottenuto una casa nel comune di Füzuli, uno dei territori riconquistati dall’esercito nel 2020. Nell’appartamento dove si sono trasferiti anche le bollette sono a carico dello stato azero, e le persone devono solo portare i loro mobili. Khanlarow era nato e cresciuto lì ma era stato costretto a trasferirsi a Baku, la capitale dell’Azerbaijan, nel 1993. Attaccato alle chiavi dell’appartamento assegnatogli dal governo c’è un portachiavi con scritto «Il Karabakh è l’Azerbaijan. Füzuli 2023.»

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L’Azerbajgian acquista nuovi droni d’attacco dalla Turchia e dichiara che l’Armenia è una “minaccia alla pace nella regione” (Korazym 10.02.24)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 10.02.2024 – Vik van Brantegem] – L’Azerbajgian ha annunciato ufficialmente l’acquisizione dalla Turchia di un numero non specificato droni di nuova generazione. Si tratta di veicoli aerei d’assalto senza pilota (TiHa) Bayraktar Akinci, una nuova generazione di droni armati d’attacco. Secondo le informazioni, i nuovi UCAV (Unmanned Combat Aerial Vehicle-Veicolo aereo da combattimento senza pilota) costruiti dalla compagnia turca Baykar, sono già stati adottati dalle forze aeree azerbajgiane. Allo stesso tempo, l’Azerbajgian dichiara che armare l’Armenia da parte della Francia costituisce una “minaccia alla pace nella regione”. Akinci – una parola turca che significa “incursore” – era il nome di un corpo di cavalleria leggera dell’esercito ottomano, in uso fin dal XVI secolo, prevalentemente per operazioni di ricognizione e nelle imboscate e nelle “piccole mischie”.

Il Presidente della Repubblica di Azerbajgian e Comandante in capo delle forze armate azerbajgiane, Ilham Aliyev e suo figlio Heydar Aliyev hanno visitato, accompagnati da Selçuk Bayraktar, il Presidente del Consiglio di amministrazione e Responsabile tecnologico della società tecnologica turca Baykar, nonché genero del Presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, un centro di addestramento UAV dell’aeronautica militare azera costruito nel 2018 vicino a Salyan in Azerbajgian.

La visita si è svolta alcuni giorni dopo le elezioni presidenziali che si sono tenute lo scorso 7 febbraio [QUI], chiamate – per via dell’occupazione dell’Artsakh dopo l’attacco terroristico del settembre 2023 – l’Elezione della Vittoria (Zəfər seçkisi). Le elezioni si sono svolte, come le precedenti, in un contesto autocratico in cui l’opposizione e i media indipendenti sono repressi. I due principali partiti di opposizione, Musavat e Fronte Popolare, che hanno boicottato le elezioni farsa e le hanno definito “non democratiche” e “non competitive”, come poi è stato confermato anche da una delegazione dell’OCSE. Senza alcuna sorpresa, il Presidente uscente Ilham Aliyev – che ha votato, in abito civile, con la sua famiglia a Stepanakert, la capitale dell’Artsakh occupato – è risultato eletto con il 92,12 % dei suffragi.

Il Presidente azero, rimesso l’uniforme militare, il suo figlio e delle personalità militari di alto livello hanno assistito ad un volo di prova di un drone d’attacco Bayraktar Akinci. Erano presenti tra gli altri il Ministro della Difesa dell’Azerbajgian, il Colonello Generale Zakir Hasanov, il Viceministro della Difesa, Capo del Dipartimento di Sopporto Tecnico-Militare, Agil Gubanov, e il Comandante delle Forze Aeree e delle Difese Aeree, Viceministro della Difesa, il Tenente Generale Ramiz Tahirov.

È interessante notare – osserva il Nagorno Karabakh Observer – che era presente anche il generale turco che lavora per il Ministero della Difesa dell’Azerbajgian come consigliere, Bahtiyar Ersay, che è anche a capo di un contingente di personale militare turco dispiegato in Azerbaigian dalla guerra del Nagorno Karabakh del 2020. Il 17 gennaio 2024, quando il Ministro della Difesa dell’Azerbajgian ha ricevuto un’ampia delegazione turca guidata dal Viceministro della difesa della Turchia e dai capi di numerose aziende di difesa turche, il Maggiore Generale Bahtiyar Ersay era apparso in completo uniforme militare azera dal lato azero al tavolo. Allora, le due parti avevano discusso di un’ulteriore cooperazione militare. compresa la produzione congiunta di armi.

I droni di combattimento Akinci sono in grado di trasportare un armamento più pesante, hanno una maggiore resistenza e possono volare su un’altitudine più elevata. A maggio 2023 un drone Akıncı è volato dall’aeroporto di Çorlu vicino a Istanbul in Turchia, a Baku in Azerbajgian attraverso la Georgia, un volo di 2000 km a circa 500 km/h con un’altitudine di crociera di circa 9.000 metri, per partecipare al Tekonofest-2022. Questa nuova aggiunta all’arsenale dell’Azerbajgian sono messo in servizio per massacrare meglio gli Armeni nella prossima occupazione di territori sovrani dell’Armenia.

La settimana scorsa, l’Azerbaigian ha affermato che l’acquisto di armi di difesa da parte dell’Armenia dalla Francia significava che la Francia e l’Armenia stanno pianificando un attacco imminente all’Azerbajgian. Allora, cosa possiamo dedurre dal flusso costante di armi da Israele, Turchia e Serbia verso l’Azerbajgian?

Selçuk Bayraktar (nella foto sopra a destra, con Heydar e Ilham Aliyev) è l’uomo dei droni di attacco che portano il suo nome e che all’inizio del nuovo secolo ha fatto della Turchia una potenza in fatto di UAV. Nato nel 1979, nazionalista, musulmano devoto (sulla sua pagina Facebook invita di frequente alla preghiera), laurea in ingegneria a Istanbul, due master, uno al Massachusetts Institute of Technology (MIT) nel 1995. Nel 2016 ha sposato la figlia minore di Erdoğan, Sümeyye.
I droni Bayraktar sono prodotti dalla Baykar, l’azienda di famiglia costituita dal padre di Selçuk nel 1994. Oggi la Baykar è il più noto esportatore di armi della Turchia, ed è considerata un’azienda strategica dallo Stato turco, elemento fondamentale del piano per trasformare il Paese in una potenza nell’industria delle armi.
Selçuk Bayraktar è figlio di un ingegnere e di una programmatrice informatica. Suo padre gestiva un’azienda di autoricambi e Selçuk iniziò a progettare droni, usando quel che era disponibile in officina. Grazie alle conoscenze della sua famiglia con ambienti militari vicini a Erdoğan, Selçuk iniziò negli anni Duemila a sperimentare i suoi prototipi di droni nei luoghi in cui operavano le forze armate turche.
Dopo aver accentrato il potere dal 2003, Erdoğan iniziò a investire massicciamente nel settore degli armamenti, con l’obiettivo di rendere il Paese non soltanto indipendente nella fornitura di armi, ma anche capace di esportarne.

Postscriptum

«Kamo, un abitante di etnia armena di Garabagh, spiega in un fluente azero come viene curato da medici, infermieri e assistenti sociali Azeri 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Questo è lo spirito dell’Azerbajgian, trattare tutte le minoranze con il massimo rispetto e cura. Ed è quello che stavamo offrendo agli Armeni di Garabagh: una vita pacifica come cittadini dell’Azerbajgian con tutti i diritti e le garanzie di sicurezza. Sono contento che Kamo abbia deciso di restare» (Nasimi Aghayev, Ambasciatore dell’Azerbajgian in Germania).
«L’odioso cinismo del regime azero non ha limiti. Ha affamato e sottoposto a pulizia etnica tutti i 150.000 nativi Armeni residenti nel Nagorno-Karabakh dopo 3 anni di terrore quotidiano, fame e senza medicine, assistenza, carburante, gas, elettricità. Adesso questo Goebbels Azero usa le restanti meno di 20 persone per la propaganda» (Nara Matinian).

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Nagorno Karabakh: i rappresentanti del popolo dell’Artsakh si uniscono con oltre 150 organizzazioni nella prima dichiarazione ufficiale dopo la guerra e la politica della Russia nell’area – a cura di Enrico Vigna, 29 gennaio 2024

Nagorno-Karabakh, quale futuro dopo il conflitto? (Unimondo 09.02.24)

el settembre 2023, l’Azerbaigian ha lanciato un’offensiva militare su larga scala contro lo Stato separatista autodichiarato di Artsakh, nella regione del Nagorno-Karabakh, internazionalmente riconosciuta come parte dell’Azerbaigian ma contesa con l’Armenia dal 1993. L’azione ha costretto più di 100.000 armeni che vivevano nell’area a fuggire. La repubblica autoproclamata del Nagorno-Karabakh è stata ufficialmente sciolta il 1° gennaio 2024. Dell’epilogo di questo lungo conflitto e degli attuali negoziati di pace, abbiamo parlato con Nadja Douglas, politologa e ricercatrice presso il Centro di studi internazionali e dell’Europa orientale (ZOiS) di Berlino.

Dottoressa Douglas, nella sua pubblicazione del settembre 2023 sostiene che il Nagorno-Karabakh è stato “sacrificato”. Chi ha permesso questo sacrificio e perché?

“All’indomani degli eventi del 19-20 settembre, il Nagorno-Karabakh è stato sacrificato da più parti, in varia misura e per motivi molto diversi. La comunità internazionale non ha reagito con un approccio comune all’uso della forza da parte dell’Azerbaigian per spingere verso una soluzione definitiva tra Azerbaigian e Armenia. La Federazione Russa non è intervenuta a causa della guerra contro l’Ucraina e della necessità di mantenere buone relazioni con l’Azerbaigian come partner per il commercio, il transito e l’elusione delle sanzioni occidentali. Infine, il Nagorno-Karabakh è stato sacrificato dalla stessa Armenia, per la necessità di salvare la propria integrità territoriale. L’Armenia si trova in una posizione molto debole nei confronti dell’Azerbaigian a causa della guerra del 2020 e teme di subire ulteriori aggressioni azere a meno che non si raggiunga un accordo di pace nel prossimo futuro”.

Con la vittoria azera nell’ultima offensiva, si è tornati a parlare del “corridoio di Zangezur”, il tratto di circa 30 chilometri di territorio armeno che separa l’Azerbaigian dalla sua exclave di Nakhchivan. Quali sviluppi possiamo aspettarci?

“Al momento è molto difficile dirlo. L’Azerbaigian ha effettivamente rinunciato, forse in nome dell’accordo di pace, a spingere per il cosiddetto corridoio di Zanzegur. Tuttavia, Baku continua a chiedere una via di trasporto priva di ostacoli che colleghi l’Azerbaigian occidentale con la regione autonoma di Nakhchivan, ricordandolo come un impegno assunto dall’Armenia nell’accordo di pace trilaterale del novembre 2020 con Russia e Azerbaigian. Gli armeni temono che l’Azerbaigian possa imporre una sorta di status exterritoriale del corridoio, tagliando di fatto la regione meridionale del Syunik dal resto del Paese. Attualmente, anche l’Azerbaigian sta cercando alternative attraverso l’Iran. Hanno ancora l’idea di realizzare questa rotta, ma presumo che non cercheranno di ottenerla ad ogni costo”.

A che punto siamo con il processo di pace?

“Entrambe le parti sono piuttosto pragmatiche. L’Armenia vuole questo accordo di pace, soprattutto per mettere in sicurezza i propri confini e per avere un documento che garantisca che l’Azerbaigian non continuerà a fare incursioni militari nel suo territorio. Tuttavia, le prospettive di un accordo di pace sono molto difficili da valutare perché al momento le parti non riescono a mettersi d’accordo se debba essere un accordo mediato o se debba essere realizzato su base bilaterale, cosa che svantaggerebbe l’Armenia…

L’intervista di Ambra Visentin segue su Atlanteguerre.it

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Nagorno Karabakh: all’indomani della pulizia etnica, i rappresentanti del popolo dell’Artsakh si uniscono con oltre 150 organizzazioni nella prima dichiarazione ufficiale (Marx21 09.02.24)

di Enrico Vigna

Dopo i drammatici eventi avvenuti nella Repubblica dell’Artsakh dei mesi scorsi, con la conquista da parte dell’Azerbaigian della Repubblica indipendente auto costituita nella regione del Nagorno Karabakh, che ha creato una situazione ingarbugliata, complessa e molto delicata per gli equilibri dell’intera area caucasica e limitrofala Russia ha riacquistato gradatamente la sua iniziativa strategica e rafforzato la sua posizione con i paesi lì collocati.

Indubbiamentel’anno passato è stato attraversato da situazioni straordinarie per il Caucaso meridionale. Dopo la guerra del Karabakh che era durata 44 giorni nel 2020, con il seguente dispiegamento delle forze di pace russe nell’Artsakh, sembrava che lo status quo non avrebbe avuto scompensi o innalzamenti di tensione e non era avvenuto più nulla di grave. Poi nel settembre scorso gli avvenimenti sono precipitati e hanno creato squilibri, conflitti, minacce e denunce tra i vari attori sul terreno.

Dal 2021, l’UE con la Russia aveva assunto l’iniziativa nella questione del Karabakh, i presidenti azero e armeno Aliyev e Pashinyan si erano incontrati periodicamente a Bruxelles per discutere le condizioni dper il mantenimento della pace. Ma la crisi sempre più profonda nelle relazioni franco-azerbaigiane e l’inasprirsi di quelle azerbaigiano-americane, hanno nuovamente riproposto la Russia come attore principale e equilibratore in tutta l’area.

La piattaforma “3+3” promossa dalla Russia ha raggiunto un nuovo livello. Nel mese di novembre si è svolto un incontro con la partecipazione dei ministri degli Esteri di Russia, Iran, Turchia, Azerbaigian e Armenia.

Alla fine dell’anno, Putin ha riunito i leader dei paesi della CSI a San Pietroburgo e ha creato l’opportunità per un incontro personale tra Aliyev e Pashinyan.

A differenza degli Stati Uniti e dell’UE, che cercano di condurre i negoziati esclusivamente su piattaforme euro-atlantiche, Mosca si caratterizza nel sostenere soluzioni regionali ai problemi regionali. Questo approccio soddisfa l’Iran, che teme l’isolamento dall’area, e si adatta alla Turchia nei suoi aspetti antioccidentali e all’Azerbaigian, che sta sempre più nel solco turco.

In questo scenario il presidente armeno Pashinyan è quello più in difficoltà e a disagio. Continua a cercare un suo ruolo a Bruxelles e Parigi, ma non riesce a trovare una posizione chiara e di prospettiva, per cui è in diplomaticamente nell’angolo.

Nello stesso tempo occorre essere cauti nel leggere solo dinamiche positive o solutive, le conflittualità, anche potenzialmente militari esistono e continueranno ad esistere fino a che non ci sarà un punto di arrivo collettivo e condiviso tra gli attori regionali.

Per ora il perdente della seconda guerra del Karabakh, messo ai lati da Russia e Turchia, è riuscito in qualche modo a vendicarsi, rafforzando la sua posizione interna si in Armenia e trasportando la questione dei negoziati armeno-azerbaigiani fino a Bruxelles.

Anche se Washington e Parigi sono scontenti per molti aspetti, sia Aliyev, che Pashinyan, hanno deciso di partecipare ad alcune piattaforme di proposte europee. Aliyev ha recentemente aperto un interconnettore dalla Bulgaria alla Serbia, attraverso il quale scorrerà il gas azerbaigiano, e questo fa interessare le autorità europee, che accolgono con favore la diversificazione delle forniture di gas e la riduzione del ruolo della Russia nel fornire risorse energetiche all’Europa.

Ma Mosca ha immediatamente risposto aumentando pesantemente il suo ruolo di mediazione costruttiva, avendo organizzato il primo incontro tra Aliyev e Pashinyan dopo il conflitto di settembre. Ma ora per mantenere questo vantaggio, la Russia dovrà aumentare i propri sforzi e proposte solutive, e non è una cosa semplice da attuare. Ma più forte sarà la Russia negli scenari globali e sugli altri fronti, più facile sarà per lei portare avanti la sua agenda programmata nel Caucaso meridionale.

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Più di 150 partiti, organizzazioni pubbliche, organi di stampa e leader degli organi di autogoverno locale della Repubblica dell’Artsakh (Repubblica del Nagorno Karabakh) hanno firmato un appello alla comunità internazionale in occasione del Giorno del Referendum sull’Indipendenza, il Giorno della Costituzione della Repubblica dell’Artsakh e il 75° anniversario dell’adozione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

“Un popolo libero non può rinunciare ai suoi diritti sovrani e sottomettersi al dominio di uno Stato straniero, soprattutto governato per molti anni da un regime autoritario, corrotto e razzista, inebriato dalla sua impunità.

La nostra decisione collettiva di lasciare la nostra Patria – la Repubblica dell’Artsakh (Repubblica del Nagorno Karabakh), le nostre case, le nostre chiese armene, lasciando dietro di noi le reliquie di San Giovanni Battista (Surb Hovhannes Mkrtich) e le tombe dei nostri antenati, che noi proteggono da secoli, è la prova davanti al mondo intero che la libertà è il valore più alto per il popolo dell’Artsakh. Abbiamo preso questa decisione forzata nel mezzo di azioni genocide in corso e di gravi minacce esistenziali incombenti.

Abbiamo preso questa decisione perché coloro che si definiscono paladini e difensori della libertà e dei diritti umani hanno deciso di negarci il nostro diritto a vivere con dignità nella nostra patria e il nostro diritto all’autodeterminazione, puntando così a realizzare una pace immaginaria tra Armenia e Azerbaigian e per il bene dei propri interessi geopolitici.

Ce ne siamo andati perché era l’unico modo per garantire la nostra sicurezza, preservare la nostra dignità umana e nazionale e il nostro patrimonio genetico, smascherare la grande menzogna su cui si basava l’idea politica di una risoluzione unilaterale e forzata del conflitto, costringendo noi e i nostri bambini ad accettare la cittadinanza e a giurare fedeltà al regime che ci odia.

Per più di tre decenni abbiamo difeso con tutte le nostre forze il diritto dei nostri figli alla pace e al libero sviluppo. Ci siamo opposti agli accordi politici che ci sono stati offerti a scapito del nostro diritto sovrano di vivere nella nostra Patria, conquistato a costo di vite umane e di enormi sacrifici di molte generazioni durante i lunghi secoli di lotta per preservare la nostra dignità e identità nazionale. E questa lotta non è finita. Siamo fiduciosi che riconquisteremo la nostra Patria con il potere della verità e della giustizia.

Per coloro che pensano che il mondo possa essere governato dalla menzogna e dalla forza bruta, ripetiamo quanto segue:

La Repubblica del Nagorno Karabakh (NKR) è stata proclamata il 2 settembre 1991 dalle legittime autorità della Regione Autonoma del Nagorno Karabakh (NKAO) e della Regione Shahumyan della Repubblica Sociale Sovietica dell’Azerbaigian, quando le autorità di quest’ultima annunciarono la loro decisione di secedere. dall’URSS. La Dichiarazione politica sulla proclamazione dell’NKR si basava sulle norme giuridiche della legge sovietica allora in vigore e sulla volontà del popolo dell’Artsakh, espressa in un referendum nazionale.

Il nostro diritto all’autodeterminazione fu riconosciuto anche dalle autorità della Russia sovietica e dell’Azerbaigian nel 1920, e divenne la base per la creazione della Regione Autonoma del Nagorno-Karabakh nel 1923, fu sancito nella costituzione dell’URSS, la costituzione dell’Azerbaigian Repubblica Socialista Sovietica e la sua legge “Sulla NKAO”, ed è stata preservata nella Legge “Sulla procedura di secessione della Repubblica Sovietica dall’URSS” del 3 aprile 1990, e si basa anche sulla Carta delle Nazioni Unite e sul Patto Internazionale sulla Diritti civili e politici del 1966.

Il referendum del 10 dicembre 1991 ha confermato che la maggioranza assoluta degli elettori ha sostenuto la decisione di dichiarare l’indipendenza della nostra Repubblica. Il parlamento legittimo, eletto secondo standard democratici e in condizioni di assedio genocida e aggressione armata, ha adottato il 6 gennaio 1992 la Dichiarazione di Indipendenza della Repubblica del Nagorno Karabakh, Artsakh. Migliaia di nostri connazionali hanno pagato con la vita questa scelta.

Nel 1992, tutti gli Stati membri della CSCE/OSCE hanno riconosciuto il diritto dei rappresentanti eletti del Nagorno-Karabakh a partecipare alla conferenza internazionale dell’OSCE incaricata di risolvere il conflitto del Nagorno-Karabakh. Con un referendum nel 2006, il nostro popolo ha approvato la Costituzione della Repubblica, che definisce la procedura per l’elezione dei legittimi rappresentanti del Nagorno-Karabakh e i loro poteri; nel 2017, sempre con un referendum, il popolo ha approvato una nuova Costituzione. Questa Costituzione era e rimane l’unico documento fondamentale attraverso il quale i cittadini della nostra Repubblica sono guidati e obbediti di loro spontanea volontà.

Di conseguenza, noi, cittadini della Repubblica dell’Artsakh, nel tentativo di difendere i nostri diritti legali e il diritto di preservare la soggettività della nostra Repubblica, affermiamo che l’autodeterminato Nagorno-Karabakh non ha preso alcuna parte nella formazione del costituzione e autorità dell’autoproclamata Repubblica dell’Azerbaigian e, al contrario, ne ha dichiarato l’indipendenza. Tuttavia, il neonato Azerbaigian non ha nascosto le sue pretese infondate sul Nagorno-Karabakh.

Fu in tali condizioni che la comunità internazionale registrò l’esistenza di disaccordi sullo status del Nagorno-Karabakh, riconoscendo la natura contesa di questo territorio. Armenia e Azerbaigian sono diventati paesi partecipanti alla CSCE/OSCE a condizione che riconoscano l’esistenza di disaccordi sulla questione del Nagorno-Karabakh e concordino che il futuro status del Nagorno-Karabakh venga determinato in una conferenza di pace sotto gli auspici di la CSCE/OSCE. Entrambi gli stati hanno assunto l’obbligo internazionale di risolvere la questione esclusivamente con mezzi pacifici.

Tuttavia, una volta divenuto uno Stato partecipante alla CSCE/OSCE, l’Azerbaigian ha immediatamente violato il suo obbligo internazionale di risolvere pacificamente le controversie. Baku ha usato illegalmente la forza contro l’NKR come territorio conteso per impedire lo svolgimento di una conferenza internazionale per determinare lo status del Nagorno Karabakh. In quelle condizioni, la popolazione del Nagorno-Karabakh ha esercitato il proprio diritto all’autodifesa. L’aggressione armata dell’Azerbaigian nel 1992-1994 portò alla sua sconfitta con significative perdite territoriali. È importante sottolineare che la linea di contatto tra NKR e Azerbaigian è stata riconosciuta a livello internazionale.

Tuttavia, durante i tre decenni del conflitto, nessuno statista, politico o autorità legale internazionale ha risposto a una semplice domanda: perché l’Azerbaigian e altri Stati che hanno riconosciuto legalmente l’obbligo di seguire lo stato di diritto come principio fondamentale della loro statualità, possono prescindere dall’obbligo di rispettare il diritto all’autodeterminazione del Nagorno Karabakh e dal principio di non uso della forza, entrambi derivanti da tale principio fondamentale?

Questa circostanza ha permesso all’Azerbaigian di mantenere nel suo arsenale politico la strategia di annessione del Nagorno Karabakh attraverso l’espulsione forzata dei suoi popoli indigeni. La politica aggressiva dell’Azerbaigian non ha ancora ricevuto la dovuta condanna internazionale. Gli attori internazionali, contrariamente ai loro obblighi internazionali di assumersi la responsabilità di proteggere la popolazione dal genocidio (Responsabilità di proteggere), purtroppo, non hanno prestato la dovuta attenzione agli avvertimenti contenuti nella Dichiarazione del Parlamento dell’Artsakh del 27 luglio 2023 sui più gravi le gravi minacce esistenziali che affliggono la popolazione dell’Artsakh, non hanno impedito le azioni criminali dell’Azerbaigian, che ha commesso un’altra aggressione militare contro l’NKR nel settembre 2023 ed ha completamente espulso la popolazione armena indigena dell’Artsakh dalla loro patria storica.

Va ricordato che dopo la conclusione della tregua il 9 novembre 2020, il presidente dell’Azerbaigian ha dichiarato che il problema del Nagorno Karabakh non esiste più e che tutti devono fare i conti con le conseguenze della seconda guerra del Karabakh. Nel tentativo di cambiare l’essenza del conflitto, l’Azerbaigian ha introdotto nel suo vocabolario diplomatico una falsa narrativa dell’“occupazione armena delle terre azerbaigiane”, attraverso la quale tenta di mettere a tacere le legittime preoccupazioni sulla sua aggressiva politica genocida.

Non intendiamo compromettere i nostri principi, le nostre convinzioni e i nostri diritti in relazione alla nostra Patria, né di fronte alla forza, né sotto la minaccia di distruzione, né in esilio, né in qualsiasi altra circostanza politica.

L’intero mondo civilizzato si trova oggi di fronte a una scelta: o ripristinare l’ordine internazionale nel Nagorno Karabakh, basato sul rispetto del diritto all’autodeterminazione e degli altri diritti e libertà dei popoli e dei diritti umani, oppure accettare che il blocco, l’aggressione armata, Il genocidio e l’occupazione sono modi legittimi per risolvere i conflitti.

Oggi i leader di molti stati parlano della necessità del ritorno degli armeni nel Nagorno-Karabakh. Tuttavia, crediamo che per il ritorno pacifico, sicuro e dignitoso e la vita del nostro popolo nella loro patria siano necessarie le seguenti indiscutibili condizioni:

Innanzitutto escludiamo il ritorno dei cittadini della Repubblica dell’Artsakh nella giurisdizione dell’Azerbaigian. Le forze armate, la polizia e l’amministrazione azera devono essere completamente ritirate dal territorio della Repubblica dell’Artsakh, compresa la regione di Shahumyan, dove anche l’Azerbaigian ha la piena responsabilità della pulizia etnica del 1992.

In secondo luogo, le forze multinazionali internazionali di mantenimento della pace delle Nazioni Unite dovrebbero essere dispiegate lungo tutto il confine della Repubblica dell’Artsakh e dovrebbe essere creata una zona smilitarizzata.

In terzo luogo, il Corridoio Lachine, riconosciuto a livello internazionale, dovrebbe essere completamente trasferito sotto il controllo e la gestione delle Nazioni Unite.

In quarto luogo, il territorio della Repubblica dell’Artsakh dovrebbe essere consegnato al controllo delle Nazioni Unite per garantire le condizioni per il ritorno di tutti i rifugiati, la formazione di istituzioni democratiche e legali e il ripristino dell’economia. Tutti i rifugiati devono avere pari status, pari diritti ed essere soggetti alle regole comuni del periodo transitorio fino a quando non si terrà un referendum per confermare lo status politico finale del Nagorno-Karabakh, il cui risultato sarà legalmente riconosciuto da tutti gli Stati.

In quinto luogo, dovrebbe essere completamente esclusa la possibilità di procedimenti penali da parte dell’Azerbaigian nei confronti di cittadini della Repubblica dell’Artsakh per qualsiasi accusa durante l’intero periodo del conflitto. Tutti gli armeni arrestati e già condannati in Azerbaigian devono essere rilasciati immediatamente. Siamo pronti a riconoscere la competenza di un tribunale internazionale per indagare su ogni crimine di guerra di cui sono accusati i nostri cittadini, a condizione che allo stesso modo questo tribunale affronti anche tutti i crimini di guerra commessi dai cittadini dell’Azerbaigian e dai suoi mercenari.

Siamo pronti a fare del nostro meglio per contribuire al raggiungimento di una soluzione pacifica al conflitto, che sarà basata sul pieno rispetto del diritto all’autodeterminazione e degli altri diritti umani e libertà dei popoli riconosciuti a livello internazionale.”

I destinatari dell’appello sono: il Segretario generale dell’ONU, il Consiglio di sicurezza dell’ONU, il Presidente in esercizio dell’OSCE, i copresidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE, il Consiglio d’Europa (Segretario generale, Presidente dell’Assemblea parlamentare , Presidente del Comitato dei Ministri), il Presidente del Consiglio europeo, il Presidente del Parlamento europeo, il Segretario generale della CSI, il Segretario generale della CSTO e il Segretario generale della NATO.

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Il diritto di sopravvivere negato all’Armenia (LaStampa 09.02.24)

Due episodi recenti hanno riportato l’attenzione sul conflitto fra l’Azerbaigian e gli armeni, in particolare sanzionando l’espulsione degli armeni dal Nagorno-Garabakh, territorio che essi abitavano da secoli e che oggi rischia di essere inghiottito dal vicino azero. Da una parte il Senato francese (la Francia è una tradizionale protettrice degli armeni), oltre a stabilire che l’Armenia ha diritto alla sua integrità e a condannare l’arresto dei membri del governo del Nagorno-Karabakh – ha chiesto sanzioni economiche per gli azeri, come l’embargo sulle esportazioni di gas e petrolio, cioè della principale fonte di ricchezza del paese.
In risposta a questo documento, che comunque non ha valore vincolante, l’Azerbaigian ha chiesto a tutte le società francesi, compresa Total, di lasciare il paese. Il secondo episodio riguarda la decisione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa di non ratificare le credenziali per l’ammissione al consesso presentate dalla delegazione dell’Azerbaigian, sempre come ritorsione all’espulsione sistematica che essa va conducendo da tempo ai danni degli armeni.
Queste pressioni occidentali sarebbero, secondo il governo azero, una prova della “attuale insopportabile atmosfera di razzismo, azerbaigianofobia e islamofobia” che si respira in Europa. Un tentativo evidente quanto paradossale di rovesciamento della verità, per cui gli europei che difendono gli armeni si ritroverebbero addirittura dalla parte del torto e in certo senso degli oppressori. Ciò che è grave è che queste accuse vengono credute da molti, dal momento che anche qui da noi, come si sa, l’Occidente è dalla cultura woke e perfino dalle Nazioni Unite ormai abitualmente considerato colpevole di ogni cosa. Accusare le istituzioni europee di razzismo e di islamofobia è veramente paradossale, dal momento che ormai da anni le preoccupazioni legislative e le iniziative culturali europee sono tutte volte all’inclusione di ogni minoranza, in particolare delle persone di identità islamica. Le leggi, i provvedimenti scolastici, le organizzazioni e gli eventi culturali fanno a gara per includere e per promuovere iniziative aperte e pacifiche di convivenza.
Al contrario, è semmai l’Azerbaigian che ha cacciato il diverso, cioè i cristiani che abitavano quelle regioni da tempi antichissimi; è l’Azerbaigian che ha distrutto edifici sacri e monumenti di grande valore artistico e religioso, per cancellare ogni traccia della loro presenza. È l’Azerbaigian che guarda all’Armenia, l’unico Paese cristiano in una zona del mondo affollata di Paesi musulmani, come a una presenza disturbante da eliminare.
Ma evidentemente i diplomatici azeri conoscono bene l’Europa: sanno che la nostra opinione pubblica non sopporta di essere accusata di islamofobia, e che l’ignoranza relativa alla situazione armena, presente solo marginalmente nei media, rende quelle accuse credibili. E sanno che in Europa, per realizzare questa sospirata inclusione, cioè per essere considerati buoni, siamo disposti a chiudere un occhio, o anche due, anche su diversità sostanziali come il trattamento che viene regolarmente riservato alle donne. Per noi europei le culture devono essere tutte egualmente accettate e valorizzate, fino al punto che ormai sembra che non riusciamo neppure più a denunciare l’orrore di un paese che ha cacciato uomini, donne e bambini cristiani che abitavano lì da secoli. Così come sembriamo – o forse siamo – indifferenti davanti alle stragi, sempre di cristiani, che abitualmente si verificano nelle chiese in Nigeria. Gli azeri hanno capito le regole del gioco, e le sanno usare a loro favore.

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Azerbaijan, le elezioni più imbarazzanti di sempre (Osservatorio Balcani e Caucaso 09.02.24)

Nonostante lo scontato trionfo dell’attuale presidente Ilham Aliyev, le elezioni presidenziali anticipate del 7 febbraio in Azerbaijan sono state segnate ancora una volta da violazioni, brogli ed atteggiamento aggressivo nei confronti di osservatori e giornalisti indipendenti

09/02/2024 –  Arzu Geybullayeva

La tornata elettorale dello scorso 7 febbraio in Azerbaijan, per il presidente in carica Ilham Aliyev poteva essere un’occasione per provare a conquistare la vittoria senza compiere le solite violazioni e frodi elettorali  . E per i sei milioni di aventi diritto poteva essere forse un’occasione per vivere, per una volta, elezioni eque e libere. Si è rivelata però un’occasione mancata, considerando le innumerevoli violazioni denunciate e documentate, tra cui voto carosello  [elettori che si spostano di seggio in seggio per votare più volte], brogli  comportamenti aggressivi  nei confronti di osservatori e giornalisti indipendenti.

Le elezioni si sono tenute in un contesto in cui “le libertà fondamentali di associazione, espressione e riunione pacifica sono state ristrette”, come si legge in un rapporto  pubblicato lo scorso 23 gennaio dall’Ufficio OSCE per le istituzioni democratiche e i diritti umani (ODIHR). D’altra parte, parlando con i giornalisti, i tanti falsi osservatori  , che sostengono di aver monitorato il voto per conto del leader del partito al potere, non hanno potuto nemmeno citare  il nome di quest’ultimo.

Un’era tutt’altro che nuova

A gennaio, nel corso di un incontro con un gruppo di giornalisti dei media filogovernativi, attentamente selezionati, il presidente Ilham Aliyev, parlando  dei motivi che lo hanno spinto a indire elezioni anticipate, ha affermato che la tornata elettorale si sarebbe svolta in “una nuova era”: per la prima volta nella storia dell’Azerbaijan le elezioni si sarebbero tenute in tutto il paese, compresi gli ex territori occupati, riconquistati dall’Azerbaijan dopo la guerra dei 44 giorni del 2020 e l’operazione militare del 23 settembre 2023. Quindi, le prime elezioni a svolgersi in quei territori, secondo Aliyev, dovevano essere quelle presidenziali. Per avvalorare la sua tesi, Aliyev ha portato la sua intera famiglia a votare a Khankendi (Stepanakert in armeno).

Inizialmente era previsto che le elezioni presidenziali si tenessero ad aprile 2025, dopo le politiche in programma a febbraio 2025 e le amministrative a dicembre 2024.

Tutti e sei i candidati che, oltre al presidente in carica, si sono presentati alle elezioni del 7 febbraio, hanno apertamente espresso il loro sostegno  ad Aliyev, il quale invece durante la campagna elettorale non ha mai partecipato di persona a dibattiti televisivi con altri candidati, né tanto meno li ha appoggiati.

Musavat e il Fronte popolare sono stati gli unici partiti di opposizione ad aver boicottato il voto. Gli altri ventitré partiti presenti nel paese, compreso il partito di governo (Partito Nuovo Azerbaijan, YAP), hanno espresso solidarietà e sostegno ad Aliyev in una dichiarazione  rilasciata nell’ottobre dello scorso anno.

In una sua analisi  del contesto alla vigilia del voto, la ricercatrice Hamida Giyasbayli ha sottolineato che le speranze che il governo azero potesse introdurre alcune riforme dopo la seconda guerra del Karabakh sono state deluse, sollevando anche la questione della “direzione in cui si sviluppa la politica interna” dell’Azebaijan.

Dopo la guerra dei 44 giorni del 2020, la situazione in Azerbaijan è solo peggiorata, dalle intimidazioni  online e offline nei confronti degli attivisti pacifisti  che si erano opposti alla guerra del Karabakh del 2020, alle nuove leggi restrittive  sui media, passando per il perseguimento delle critiche online  e dei giornalisti  attivisti politici  e l’utilizzo delle tecnologie di sorveglianza invadenti  contro i membri della società civile, per citare solo alcune delle misure messe in atto. Ne sono seguiti ulteriori arresti  e repressione contro gli oppositori della leadership di Baku.

L’anno scorso, le autorità hanno arrestato Gubad Ibadoglu, noto economista e professore. La scorsa estate le autorità hanno represso con violenza  le proteste degli abitanti di un villaggio che denunciavano i danni ambientali causati da una miniera d’oro. Poi sono stati presi di mira molti attivisti per i diritti dei lavoratori  , diventando vittime di arresti e intimidazioni  . La situazione è poi ulteriormente deteriorata  con una serie di arresti  contro la piattaforma di informazione indipendente Abzas, a cui hanno fatto seguito l’ennesimo arresto di un esponente dell’opposizione  altre repressioni  .

Nel frattempo, l’elenco degli arresti politicamente motivati ha continuato, e probabilmente continuerà ad allungarsi, considerando l’esito delle elezioni del 7 febbraio. Al tempo della pubblicazione di questo articolo, secondo la Commissione elettorale centrale (CEC), Aliyev è in testa  con il 92,1% dei voti.

Il partito di opposizione Musavat ha chiesto  l’annullamento delle elezioni, parlando di un “ambiente non libero e iniquo”.

Tutto come al solito

Interpellata da OBCT, la giornalista Ulviyya Ali, che ha seguito le elezioni appena concluse, ha affermato di essere stata sottoposta a pressioni da parte dei rappresentanti della commissione elettorale all’interno di alcuni seggi, notando che molti osservatori indipendenti hanno subito simili pressioni. “Da giornalista, sono stata più volte avvertita e mi è stato detto dove stare e cosa filmare”, ha affermato Ali. Un’altra giornalista indipendente, Lida Abbasli, ha dichiarato all’emittente Meydan che le è stato impedito di filmare e che è stata cacciata da un seggio elettorale.

Anche altri giornalisti che hanno seguito il voto hanno raccontato testimonianze simili, subendo un trattamento che, secondo Alasgar Mammadli, esperto di diritto dei media, è illegale. Molti giornalisti sono stati vittime di pressioni, nonostante nella giornata del voto Mazahir Panahov, presidente della CEC, abbia dichiarato che “non dovrebbero esitare a filmare qualsiasi problema”.

Alla vigilia del voto, almeno tre osservatori indipendenti hanno raccontato a OBCT di tentativi di violazione dei loro account su Telegram. Poi è giunta la notizia, riportata dall’emittente Meydan, che l’Università statale di Baku starebbe utilizzando WhatsApp per la propaganda elettorale. Notizia prontamente smentita dall’Università che ha negato di aver coinvolto i suoi studenti nelle attività di propaganda elettorale.

“Lei mi chiede perché sono qui? So perché sono qui”, ha risposto un elettore ottantenne ad un giornalista del servizio azero di Radio Liberty. Nello stesso reportage, una donna ha affermato di aver votato perché se non lo avesse fatto, i suoi figli avrebbero perso il lavoro. “Non raccontarmi favole”, ha risposto la donna quando il giornalista le ha chiesto quali fossero le sue aspettative nei confronti del nuovo presidente. “Sì, certo, nomineranno mio figlio presidente. Vattene. Non parlo più”, ha detto andandosene dopo essere uscita dal seggio elettorale.

Tuttavia, nessuna di queste storie, né le numerose prove di brogli elettorali, sembrano aver sconcertato un gruppo di osservatori internazionali  che hanno spudoratamente elogiato le elezioni. Tra questi spicca Oracle Advisory Group, rappresentato da George Birnbaum, il quale, dopo aver condotto un’analisi del voto  , ha affermato che l’esito  delle elezioni rappresenta una “vittoria della democrazia”. Birnbaum è noto per essere l’uomo dietro alla campagna denigratoria contro Soros che, secondo un’inchiesta condotta da Buzzfeed  “ha finito per scatenare un’ondata globale di attacchi antisemiti contro l’investitore miliardario”. Stando alla stessa inchiesta, Birnbaum sembra aver giocato un ruolo anche nell’ascesa di Orban al potere.

Anche Salvatore Caiata, membro della delegazione italiana, non sembra minimamente infastidito dalle violazioni registrate durante le elezioni. In un’intervista  rilasciata ai media filogovernativi, Caiata ha dichiarato che i cittadini azeri, a differenza degli italiani, sono stati molto attivi il giorno del voto. Ha capito bene la parte dell’attivismo, ma non le motivazioni sottostanti: non è un compito facile organizzare il voto carosello e altri brogli, così come non è facile temporeggiare e impedire agli osservatori indipendenti di fare i loro lavoro, e infine votare se, alla fine di una giornata di lavoro dura e dinamica, si riesce ancora a trovare il proprio seggio elettorale.

Forse questa svista è dovuta al fatto che Caiata è membro di un gruppo interparlamentare di amicizia tra Azerbaijan e Italia  all’interno del partito Fratelli d’Italia (FDI). È probabile che la controparte azera abbia dimenticato di menzionare come l’intera storia delle elezioni in Azerbaijan – amministrative, politiche o presidenziali che fossero – è macchiata di violazioni e frodi elettorali, poiché il paese non è mai riuscito a soddisfare gli standard fondamentali di elezioni libere, eque, democratiche e trasparenti. Gli esponenti di FDI lo avrebbero saputo se avessero prestato maggiore attenzione durante il loro viaggio in Azerbaijan  l’anno scorso per celebrare il centenario della nascita dell’ex presidente Haydar Aliyev.

Date queste premesse, viene da chiedersi perché il presidente Aliyev durante le ultime elezioni abbia fatto ricorso a così tanti meccanismi di controllo? Probabilmente perché, non avendo alcuna esperienza nello svolgimento di elezioni libere ed eque, aveva paura e voleva evitare un risultato inaspettato. Ed è riuscito ad evitarlo. Questo sarà il quinto mandato del presidente Ilham Aliyev e probabilmente non l’ultimo se la salute gli consentirà di candidarsi anche nel 2031, quando compirà 69 anni.

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L’importanza dell’Azerbaigian va oltre il gas. L’analisi di Tzogopoulos (Formiche)

 

Roma: formazione per le Forze di polizia armene (Poliziadistato 09.02.24)

È terminato oggi il primo corso in materia di tecniche investigative antidroga, dedicato a 10 esperti di polizia della Repubblica dell’Armenia ed un secondo corso si avvierà già nella prossima settimana con la partecipazione di altrettanti funzionari di polizia armeni per approfondimenti in materia di ordine pubblico e gestione dei grandi eventi.

I corsi sono il frutto dell’attuazione delle intese raggiunte a dicembre, tra il capo della Polizia Vittorio Pisani e l’omologo armeno Major-General Aram Hovhannisyan, tese a rafforzare la collaborazione bilaterale.

Alla giornata conclusiva per la Polizia di Stato era presente il dirigente superiore Eufemia Esposito; erano inoltre presenti l’ambasciatrice d’Armenia in Italia, Tsovinar Hambardzumyan, il vice direttore generale della Farnesina, ministro plenipotenziario Alessandro Azzoni; in collegamento da Vienna ha partecipato, per l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), la deputy director for operations service, del Conflict prevention centre.

formazione per la polizia armenaL’ambasciatrice Hambardzumyan ed il ministro Azzoni hanno evidenziato l’importanza della cooperazione tra i nostri Paesi – uniti da profondi legami culturali e da significative interlocuzioni a livello politico e di scambi commerciali –  e manifestato grande apprezzamento per l’attività svolta dalla Polizia di Stato, quale interlocutore fondamentale nel processo di riorganizzazione del ministero dell’Interno armeno e della Forza di polizia di quel Paese che, come sottolineato da Małgorzata Alicja Twardowska, è parte di un progetto più ampio di capacity building, finanziato dall’Osce stessa.

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Polizia di Stato: corso in materia di tecniche investigative antidroga tra Italia e Armenia (Reportdifesa)

L’Aia: l’Armenia è il 124° membro della Corte penale internazionale (Euronews 08.02.24)

A ottobre Erevan aveva firmato la ratifica dello Statuto di Roma, entrato in vigore il primo febbraio 2024, che riconosce la giurisdizione della Corte penale internazionale

L’Armenia è ufficialmente il 124° membro della Corte penale internazionale, il principale tribunale per crimini di guerra e contro l’umanità.

La cerimonia si è tenuta giovedì 8 febbraio a L’Aia, dove la Corte ha sede. Il giudice e presidente Piotr Hofmański ha affermato che “la ratifica dello Statuto di Roma da parte dell’Armenia è una decisione significativa” per il Paese e per il tribunale.

La ratifica dello Statuto di Roma

Nell’ottobre 2023, Erevan aveva firmato la ratifica dello Statuto di Roma che riconosce la giurisdizione della Corte: l’ordinamento è entrato in vigore il primo febbraio 2024.

I rapporti con la Russia

La decisione è stata considerata una presa di distanza dalla Russia, storico alleato dell’Armenia, soprattutto dopo che la Corte ha emesso un mandato di arresto per Vladimir Putin. Il tribunale ha accusato il presidente russo di crimini di guerra in Ucraina: le autorità armene sarebbero tenute ad arrestare Putin qualora entrasse in territorio armeno.

In occasione della ratifica dello Statuto di Roma, l’Armenia ha però rassicurato la Federazione russa dicendo che Putin non verrebbe arrestato se si recasse nel Paese.

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