Uno dei problemi della COP29 in Azerbaijan è stato l’Azerbaijan (Il Post 24.11.24)

Il presidente autoritario del paese ha definito il gas naturale un «dono di Dio» e non è sempre sembrato concentrato sulle priorità della crisi climatica

Ilham Aliyev durante un discorso alla COP29
Ilham Aliyev durante un discorso alla COP29 (Sean Gallup/Getty Images)
Uno degli aspetti più controversi della COP29 che si è appena conclusa è stato il ruolo dell’Azerbaijan, il paese ospite di quella che è la più importante conferenza annuale delle Nazioni Unite per il contrasto al cambiamento climatico.

L’Azerbaijan è un paese produttore di petrolio e gas naturale, oltre che un paese repressivo e autoritario il cui leader, il presidente Ilham Aliyev, è stato accusato di aver usato la conferenza dell’ONU per perseguire obiettivi politici personali, piuttosto che per cercare di trovare un accordo – che alla fine è stato trovato, ma è ritenuto deludente.

Non è la prima volta che un paese autoritario e produttore di idrocarburi ospita la COP: era successo anche l’anno scorso, per esempio. Ma l’interventismo smaccato di Aliyev è risultato particolarmente notevole, al punto che negli scorsi giorni un gruppo di importanti esperti di questioni climatiche – tra cui l’ex segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon e l’ex presidente dell’Irlanda Mary Robinson – ha reso pubblico un appello per chiedere che le prossime COP siano tenute in paesi che sostengono davvero la necessità della transizione ambientale.

Nel discorso d’apertura dell’evento, Aliyev ha detto per esempio che le ampie riserve di petrolio e gas naturale dell’Azerbaijan sono un «dono di Dio». Più del 90 per cento delle esportazioni dell’Azerbaijan e circa il 50 per cento del budget dello stato dipendono dagli idrocarburi. Ma al contrario di altri petrostati come i paesi del Golfo, la maggior parte della popolazione azera non gode della ricchezza generata da gas e petrolio e un quarto della popolazione è in stato di povertà, secondo dati della Banca Mondiale.

Nel corso della Conferenza, inoltre, Aliyev ha spesso adottato posizioni estremamente aggressive nei confronti dei paesi che percepisce come avversari, anche usando pretesti che hanno poco a che vedere con le politiche climatiche: ha accusato la Francia e i Paesi Bassi di colonialismo, con toni molto duri per il leader del paese che ospita la COP. Tradizionalmente il ruolo dei paesi ospitanti è quello di cercare di appianare le differenze e cercare accordi e compromessi, anche perché le decisioni alla COP si prendono di fatto all’unanimità.

Aliyev, tra le altre cose, ha una lunga storia di attacchi politici soprattutto nei confronti della Francia, che considera troppo vicina a un paese rivale, l’Armenia.

Nel 2020 l’Azerbaijan cominciò e vinse una breve guerra contro l’Armenia per il controllo del Nagorno Karabakh, una regione formalmente azera ma abitata da una popolazione per la maggioranza armena: dopo la guerra, negli anni successivi l’Azerbaijan ha rafforzato il proprio controllo sul Karabakh e cacciato quasi tutti gli abitanti armeni, al punto che varie associazioni indipendenti hanno accusato il regime di pulizia etnica.

La COP29 ha anche contribuito a mettere in luce le gravi violazioni dei diritti umani compiute dal regime di Aliyev, che arresta, perseguita e tortura oppositori e attivisti.

I prigionieri politici, secondo ong locali, sono più di 300, e il regime negli scorsi mesi ha fatto arrestare anche numerosi attivisti e ricercatori per l’ambiente. Uno dei casi più noti è stato quello di Gubad Ibadoghlu, un professore azero della London School of Economics autore di ricerche piuttosto critiche sulle politiche ambientali ed economiche del governo. Ibadoghlu è stato arrestato nell’estate del 2023 durante una visita in Azerbaijan con accuse di truffa ritenute pretestuose, ed è tuttora agli arresti domiciliari.

L’Azerbaijan ha però rapporti economici strettissimi soprattutto con l’Europa, che si sono intensificati dopo che i paesi europei sono stati costretti a eliminare le importazioni di gas naturale russo dopo l’invasione dell’Ucraina. Per l’Italia, per esempio, l’Azerbaijan è uno dei primi fornitori di petrolio (15 per cento del totale importato) e il secondo fornitore di gas naturale (16 per cento delle importazioni), secondo le stime del think tank italiano Ecco.

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Escluse le voci del dissenso dalla Cop29, la storia dell’attivista armeno Arshak Makichyan (Economia Circolare 23.11.24)

Ad Arshak Makichyan, attivista per il clima armeno, è stato vietato l’ingresso in Azerbaijan nonostante avesse l’accredito per la Cop29. A EconomiaCircolare.com racconta il suo impegno per denunciare la pulizia etnica degli armeni e la sua vita da apolide a Berlino

Alessandro Coltré

Alessandro Coltré

Giornalista pubblicista, si occupa principalmente di questioni ambientali in Italia, negli ultimi anni ha approfondito le emergenze del Lazio, come la situazione romana della gestione rifiuti e la bonifica della Valle del Sacco. Dal 2019 coordina lo Scaffale ambientalista, una biblioteca e centro di documentazione con base a Colleferro, in provincia di Roma. Nell’area metropolitana della Capitale, Alessandro ha lavorato a diversi progetti culturali che hanno avuto al centro la rivalutazione e la riconsiderazione dei piccoli Comuni e dei territori considerati di solito ai margini delle grandi città.

Per entrare alla Cop29 di Baku – ancora in corso dopo che è stata aggiunta una giornata supplementare, quella del 23 novembre, per cercare di raggiungere l’intesa – non è basta avere un accredito: lo sa bene Arshak Makichyan, l’attivista ecologista armeno a cui è stato vietato l’ingresso in Azerbaijan durante i giorni del summit. In questa decisione Arshak ci vede solo coerenza: rendere inutilizzabile il suo badge è stata un’azione necessaria per mostrare al mondo un Paese pacificato e capace di guidare i negoziati sul clima.

Uno spazio bonificato da qualsiasi voce critica, questo voleva il presidente Ilham Aliyev. Arshak sarebbe stato un intralcio perché da mesi, sui social e nei meeting internazionali, denuncia l’operazione di greenwashing statale messa in piedi dell’autorità azere.  A farlo non è un attivista occidentale o un membro di un’organizzazione non governativa, ma un ragazzo russo-armeno, da due anni privato della cittadinanza russa e costretto a vivere in esilio a Berlino dopo aver protestato contro la guerra in Ucraina.

La Cop è solo greenwashing?

Nella blue zone della Cop29 avrebbe spezzato il silenzio così: “Ogni anno si parla della necessità di costruire negoziati più efficaci nella lotta al cambiamento climatico, e invece siamo finiti al tavolo del regime azero, che sta usando la conferenza sul clima per coprire di verde il genocidio contro gli armeni indigeni dell’Artsakh. Le voci armene devono essere ascoltate alle Cop29, altrimenti questa conferenza non ha alcuna legittimità, è solo greenwashing. Non potrà esserci nessun accordo vantaggioso, nessun documento che farà la storia. Di concreto ci sono le case distrutte e la pulizia etnica delle popolazioni indigene”.

Troncata dalle fondamenta la scenografia del summit, tutti sarebbero rimasti a fare i conti con le ipocrisie della comunità internazionale, complice di aver dimenticato in fretta l’operazione militare del governo azero in Nagorno Karabakh, regione a maggioranza armena, ora definitivamente sotto il controllo di Baku dopo i continui attacchi ai civili e dopo aver generato un esodo di 120mila persone.

“Nel 2022 l’Unione Europea ha firmato nuovi accordi per ricevere forniture di gas azero. In pratica, mentre io protestavo per chiedere l’embargo del gas russo, l’Europa faceva affari con un regime che impediva agli armeni di ricevere medicine e cibo. A volte mi pare tutto surreale, mi sembra di vivere un film brutto con una trama orribile. Invece oggi sono tutti lì, convinti di poter firmare un accordo per salvare il pianeta dalla crisi climatica in uno stato che l’anno scorso ha eseguito una pulizia etnica”.

Arshak non riesce a lanciare l’allarme per il mondo in fiamme senza alzare la voce contro il genocidio del suo popolo. Per questo fa riferimento al blocco del corridoio di Lachin – la via di fuga che collega il Nagorno Karabakh con l’Armenia – avvenuto a partire dal dicembre del 2022 con manifestazioni di attivisti azeri vicini al governo. Quell’anno segna un prima e un dopo nella vita di Arshak.

Leggi anche: Il protagonismo di Italgas alla Cop29 e la scarsa performance dell’Italia

Dalle proteste per l’ambiente in Russia all’esilio in Germania

Da ottobre del 2022 Arshak Makichyan è apolide. Le autorità del Cremlino gli hanno ritirato la cittadinanza russa. La motivazione? Nel 2004 Makichyan dichiarò informazioni false durante la richiesta di cittadinanza. Nel 2004, quando Arshak aveva dieci anni, e la sua unica nazionalità era quella russa. Un processo farsa che serve da esempio per chi non vuole chiamare “operazione speciale” l’aggressione russa all’Ucraina. Su di lui è precipitata una sentenza che colpisce la Russia multietnica, quella che intreccia origini diverse, centinaia di lingue e culture che popolano un Paese oggi in guerra anche contro se stesso. Niente più spazio per quelli come Arshak, russo e armeno, ecologista e convinto pacifista.

“La Russia è passata da un regime autoritario a una dittatura nel giro di due anni. Continuare a protestare pacificamente in Russia ora è quasi impossibile, sicuro non è efficace. Vivo in Germania, e da qui cerco di continuare a fare attivismo contro la guerra. Collaboro alla costruzione di azioni di pressione per denunciare il genocidio degli armeni e i crimini coloniali di un regime che sta distruggendo l’identità armena in ogni sua forma”.

I suoi nonni sono fuggiti dal Nagorno Karabakh, la sua famiglia ha conosciuto la ferocia della pulizia etnica, e oggi da Berlino Mackichan cerca di tenere alta l’attenzione su tutte le pratiche coloniali che soffocano il pianeta e le persone.

Lo fa con manifestazioni, conferenze e picchetti, collaborando con chi si oppone alle dittature fossili. Fa impressione accostare la biografia di un trentenne apolide in lotta per la giustizia climatica e per i diritti del suo popolo agli accordi siglati tra Unione Europea e Azerbaijan per aumentare le importazioni di gas azero. Eppure in pochi mesi del 2022 è accaduto proprio questo: un ragazzo ha perso i suoi documenti, colpevole di aver sfidato i venti di guerra, mentre un gasdotto sporco di sangue è libero di espandersi e di ottenere ogni tipo di cittadinanza.

Ma forse è un esercizio utile: permette di stracciare quella patina che avvolge le ultime ore del negoziato; allontana tutte le possibili costruzioni di un finale edificante. La storia di Arshak ci ricorda che non abbiamo bisogno di alcuna positività tossica. “Cosa dovrei aspettarmi da questo negoziato?” Si chiede ironicamente l’attivista. “La comunità internazionale ha accettato di iniziare la Cop29 lasciando in galera gli oppositori politici, tanti giornalisti e membri di ong”. Durante questi giorni di conferenza sul clima, Berlino è stata attraversata da cortei e da iniziative per diffondere le voci delle vittime del regime azero. “Non è facile ricominciare tutto da zero in un altro Paese, qui a Berlino organizziamo proteste anche per continuare a essere una comunità, è l’unico modo per continuare a fare attivismo contro la guerra”.

attivista armeno Cop29 proteste Berlino
Proteste a Berlino | Foto di Lukas Statmann

Leggi anche: Perché l’industria fossile non deve avere voce nei negoziati per il clima

Una guerra contro la natura

Protestare da solo ha senso soltanto se è un innesco, se genera qualcosa, proprio com’è accaduto nel 2019  a Mosca. Ogni venerdì Arshak ha sfidato da solo il potere putiniano restando per ore sotto la statua di Pushkin – padre della letteratura russa – tenendo un cartello con scritto Climate Strike. Lo sciopero in solitaria è stato ripreso in tante altre città raggiungendo anche le regioni più remote del Paese. Così sono nati i Fridays for future Russia, da un ragazzo russo-armeno che non ha potuto neanche raccontare la sua storia alla Cop29.

“I movimenti ecologisti in Russia sono stati distrutti. La maggior parte delle organizzazioni sono state dichiarate indesiderate o agenti stranieri. Penso che il problema sia anche dovuto alla poca attenzione internazionale su ciò che sta accadendo all’ambiente in Russia. Non sappiamo molto di quello che accade in Asia Centrale, lì ci sono problemi di inquinamento completamente ignorati. Anche nel Caucaso e in altri luoghi si soffre di crisi climatica. Spesso cerco di diffondere i rischi di contaminazione del Lago Bajkal, dove si conserva il 20 per cento dell’acqua dolce superficiale presente sulla Terra. Il suo ecosistema è in pericolo. La Russia sta continuando la sua terribile guerra anche contro la natura“.

attivista armeno Cop29 proteste Russia
Protesta in Russia 2020 | Foto: Fridays For Future Russia

Il badge inutilizzato di Arshak è da “osservatore”, la stessa dicitura che hanno gli uomini della delegazione del governo dei talebani, che liberi di girare per i padiglioni del summit come dei veri diplomatici. Baku ha preferito altri sguardi, non avrebbe tollerato quello di Arshak.

“Invece di perdere tempo a casa di un regime dovremmo iniziare a pensare a cosa possiamo fare per resistere al numero crescente di crisi, tutte interconnesse alla crisi climatica, alle guerre, alla terribile ipocrisia dei Paesi occidentali. Parlare chiaro ci aiuterà a salvarci dal collasso”.

Tra poche ore il mondo volerà via da Baku, congedandosi da una conferenza segnata da grandi assenze, da corpi reclusi e da un popolo costretto all’esodo. Il gas azero continuerà a circolare in Europa e forse la diplomazia climatica dovrà iniziare a parlare di umiliazione. Intanto il badge di Arshak resta lì, senza aver mai conosciuto la fila per l’accredito. Il suo posto è stato preso da  1773 lobbisti del fossile, tutti entrati dalla porta principale.

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Atom Egoyan: non dimenticate il genocidio armeno (La Stampa 23.11.24)

Il cinema serve a risvegliare le coscienze, lo dico anche a nome del popolo armeno, vittima di un genocidio razziale trascurato dai media troppo occupati a coprire altri conflitti e dimenticato dal mondo. Ma il nostro trauma permane, dobbiamo ancora riprenderci». Il pluripremiato regista armeno naturalizzato canadese Atom Egoyan, ospite d’onore del Matera Film Festival insieme a sua moglie Arsinée Khanjian, ha presentato in anteprima nazionale il suo nuovo film “Seven Veils”. Trasposizione cinematografica dell’opera di Richard Strauss Salomè basata sul testo di Oscar Wilde che Egoyan aveva già portato in scena più volte, vede come protagonista assoluta l’attrice Amanda Seyfried, già diretta nel precedente Chloe.

Il trauma delle immagini

«Ho sentito l’esigenza di riattualizzare la storia, perché attuali sono i rapporti e le disfunzioni familiari che racconta. Attuale è anche la figura di donna al centro della storia, una regista alle prese con i suoi demoni e con la direzione dell’opera di quella Salomè che, secondo la versione di Wilde, sceglie da sola di compiere l’azione più brutale, decapitare la testa di Giovanni Battista e baciarla. Un gesto violento che crea uno shock al pubblico imponendo di guardare le cose con gli occhi della protagonista, vittima a sua volta di un desiderio non risolto». Riflette sul trauma delle immagini: «Da quando ho iniziato a fare film, una quarantina di anni fa, mi sono sempre occupato della memoria. Ma se nella metà degli anni Ottanta la tecnologia iniziava a entrare nelle nostre esistenze giusto per registrare i momenti clou della nostra vita, oggi possiamo riprendere qualsiasi cosa in ogni momento e la tecnologia finisce per filtrare tutte le nostre esperienze, che non viviamo più se non attraverso le immagini».

La tecnologia

Un pericolo serio per le nuove generazioni: «Non voglio fare il moralista, né demonizzare la tecnologia – anzi sono curioso di vedere su quali territori sconosciuti ci porterà l’intelligenza artificiale – ma credo sia urgente risensibilizzare e ricentrare i sentimenti. Siamo tutti costantemente traumatizzati da foto e video estremi, i nostri ragazzi a differenza nostra ci sono cresciuti in questo bombardamento continuo di immagini di violenza, ferocia e ipersessualizzazione, dobbiamo fare qualcosa soprattutto per loro». Conclude ricordando come i maestri del cinema italiano lo abbiano da sempre ispirato: «Da Pasolini a Fellini, da Antonioni a Visconti, passando per Bellocchio, che mi sembra prosegua la vostra grande tradizione cinematografica».

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Olivier Giroud mette la sua maglia all’asta: “Aiutiamo i cristiani perseguitati in Armenia” (Sportface 22.11.24)

Olivier Giroud scende in campo al fianco dei cristiani perseguitati in Oriente, in particolare quelli dell’Armenia. L’attaccante francese ex Milan ha annunciato di aver messo all’asta la maglia dei Los Angeles con la quale ha vinto la US Open Cup per offrire un supporto ai “fratelli e alle sorelle” di fede cristiana. “Sono molto orgoglioso e onorato di mettere all’asta questa maglia speciale – ha confidato sui suoi social network prima della vendita avvenuta mercoledì scorso a beneficio di L’Œuvre d’Orient – Ho indossato questa maglia il 25 settembre durante la finale della Coppa degli Stati Uniti. Siamo diventati campioni e quindi questa maglia ha un valore speciale ai miei occhi. Spero che sarete generosi in favore dei nostri fratelli e sorelle cristiani perseguitati in Oriente, e più particolarmente in Armenia”.

I Los Angeles FC vinsero la finale contro lo Sporting Kansas City per 3-1 e l’ex milanista sbloccò il match, realizzando il gol dell’1-0. Giroud è un cristiano praticante, e ha più volte confessato di avere la Bibbia sul comodino come principale lettura. “Ho fede, credo in Dio – le sue parole -. So che nulla ci accade per caso, ma che Gesù ha dei progetti per ognuno di noi”.

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Trenta imprese dell’Armenia in visita nelle Marche (Cronache Marche 22.11.24)

Macerata- Dal 25 al 27 novembre una delegazione armena composta da 30 rappresentanti di imprese nei settori della moda e del fashion sarà nelle Marche per una missioneorganizzata dal Centro per la Cooperazione e lo Sviluppo tra l’Italia e l’Armenia (CCIAM) e
l’Armenian Business Association (ABA L’obiettivo è promuovere la cooperazione bilaterale, esplorare opportunità di mercato e condividere know-how tecnico.

Il programma include visite a realtà produttive locali, con un focus sulla prestigiosa “Shoes Valley”. Momento centrale sarà
la conferenza pubblica del 25 novembre a Macerata, con interventi di rappresentanti istituzionali e associativi italiani e armeni.

Durante l’incontro, interverranno Francesca Orlandi, presidente di LINEA – Azienda speciale della Camera di Commercio per la moda e calzature, sarà presente anche un diplomatico armeno delegato dell’Ambasciata Armena in Italia, e i rappresentanti delle associazioni Armenian Business Association (ABA) e Centro per la Cooperazione e lo Sviluppo tra l’Italia e l’Armenia (CCIAM) Narek Karapetyan e Gohar Ghumshyan.
Nel programma della visita anche un focus sull’acquisizione di materie prime, materiali semilavorati e condivisione di know-how tecnico da parte delle imprese armene.

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Libano: Minassian (patriarca armeno), “Paese può risorgere solo in uno spirito nazionale inclusivo, lontano da calcoli ristretti e interessi personali” (SIR 22.11.24)

In occasione della Festa dell’Indipendenza libanese, che si celebra oggi 22 novembre in ricordo della liberazione nel 1943 dal mandato francese, il patriarca di Cilicia degli armeni, Raphaël Bedros XXI Minassian, ha inviato un messaggio in cui sottolinea che “il Libano può risorgere solo in uno spirito nazionale inclusivo, lontano da ristretti calcoli e interessi personali”. Rilanciato dal sito abouna.org, il messaggio ricorda che questa Giornata cade in un tempo in cui “la nostra patria è tormentata e ferita, ha sofferto e continua a soffrire per gli effetti delle guerre, che hanno distrutto la sua struttura e gravato sui suoi figli. Il sanguinamento dei conflitti continua a lasciare il segno nei nostri cuori e nelle nostre strade, così come lo sfollamento delle famiglie e dei martiri caduti. In questo momento, dobbiamo rinnovare la nostra determinazione e volontà di ricostruire questo Paese dalle macerie del dolore, e di tenere a mente il messaggio di pace e riconciliazione che ci condurrà verso il futuro. Luminoso”. L’indipendenza, per Minassian, “non può essere ripristinata nel suo senso profondo, se lo spettro della guerra e della divisione continua a incombere sui cieli della nostra storia recente”. Citando le parole del servo di Dio, card. Gregorio Pietro XV Agagianian, Minassian ribadisce “lo spirito di dialogo e di unità”, incarnato dal porporato, ed esorta ad “adottare questo approccio che è ciò di cui abbiamo bisogno oggi più che mai per ripristinare la coesione nazionale e intraprendere il cammino di un’autentica riconciliazione”. A riguardo “l’assenza di un presidente della Repubblica – rimarca Minassian – è una ferita aperta nel cuore del paese e un grave ostacolo alla nostra marcia verso la stabilità e la prosperità. L’elezione del presidente non è solo un diritto costituzionale, ma una responsabilità collettiva di tutti coloro che si rendono conto dell’importanza della ricostruzione delle istituzioni statali e della stabilizzazione. La vita costituzionale è la spina dorsale dello Stato, senza la quale ogni sforzo per riformare e rilanciare il paese vacilla”. Da qui l’appello a tutte le forze politiche di “mettere da parte le loro differenze e lavorare insieme per scegliere un presidente che sarà un simbolo per l’unità e il bene di tutti i libanesi. Il Libano ha bisogno di una leadership nazionale inclusiva che lavori per la pace e la comprensione interna, che rilanci le istituzioni statali e attivi il loro ruolo al servizio del popolo”. “Il Libano – conclude – può crescere solo con uno spirito nazionale lontano da calcoli ristretti e interessi personali. Abbiamo bisogno di amare la patria, non per guadagni immediati o benefici privati”.

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Dalla bagna cauda al vitello tonnato, in Armenia si gustano le eccellenze del Cuneese (Cuneocronaca 21.11.24)

CUNEO CRONACA – Yerevan ha ospitato le Giornate della Cucina Italiana, un evento dedicato alla promozione delle eccellenze gastronomiche italiane. Durante la serata principale, tenutasi presso l’Ambasciata d’Italia, è stato servito un menù che ha messo in risalto le specialità del territorio cuneese.

All’evento hanno partecipato l’Ambasciatore Alfonso Di Riso, il Consigliere Andrea Peduto, il Vice Capo Missione Alessandro Liberatori, Direttore dell’Ufficio ICE di Mosca, e Georges Mikhael, Amministratore Delegato dell’aeroporto di Levaldigi (Cuneo Airport), grande sostenitore dell’iniziativa. Tra gli ospiti d’onore anche numerose autorità armene, tra cui il Vice Primo Ministro.

A rappresentare l’Italia sono state due scuole piemontesi: l’IIS Grandis di Cuneo, con il professor Prato e l’allieva Elomri Omaima, e l’IIS Minervini di Caluso, con il professor Fausto Meli e gli studenti Lorenzo Monaco e Iman Echamouti. I loro piatti hanno conquistato anche i palati più esigenti.

Le Giornate della Cucina Italiana a Yerevan fanno parte della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo, un’iniziativa internazionale realizzata grazie al supporto dell’Ambasciata d’Italia in Armenia, dell’Agenzia per il Commercio Estero (ITA), dell’Accademia Italiana della Cucina e di numerosi sponsor della Provincia di Cuneo.

Henrikh Mkhitaryan: un ambasciatore dell’Armenia tra calcio e cultura (News.sport 21.11.24)

Il centrocampista ha rivelato aspetti poco noti della sua vita e il desiderio di rappresentare il suo popolo, sottolineando l’importanza dell’intelligenza dentro e fuori dal campo.


Un calciatore con due lauree

Henrikh Mkhitaryan, intervistato dal Corriere della Sera, ha svelato un lato inedito della sua personalità, raccontando con orgoglio dei suoi successi accademici: “Ho due lauree: una in Sports management e l’altra in Economia.” Un percorso che dimostra come il talento calcistico possa convivere con un forte impegno intellettuale.

Mkhitaryan ha anche parlato della sua capacità di leggere il gioco, collegandola a una visione più ampia: “Ci sono giocatori che vedono le cose prima degli altri. Questa è intelligenza calcistica.”


Ambasciatore culturale

Uno degli obiettivi di Mkhitaryan è portare alla ribalta la cultura armena, facendosi portavoce della sua storia e tradizioni: “Conoscendo me, la gente conosce un po’ l’Armenia. Prima la confondevano con Albania o Romania, ma adesso sanno dov’è. Siamo il primo popolo a riconoscere la religione cristiana.” Inoltre, ha trovato affinità con l’Italia, paese che ama per il suo stile di vita: “Siamo simili agli italiani nel modo di vivere.”


Intelligenza dentro e fuori dal campo

Rispondendo a una domanda provocatoria sull’intelligenza, Mkhitaryan ha chiarito la sua visione: “Non credo si possa essere intelligenti in campo senza esserlo fuori. Si vede subito chi lo è davvero e chi invece finge.” Con queste parole, il giocatore evidenzia come le qualità mentali si riflettano tanto nella carriera sportiva quanto nella vita quotidiana.


Commento personale
Mkhitaryan rappresenta un esempio positivo di come lo sport possa diventare un mezzo per valorizzare la cultura e promuovere il dialogo tra popoli. La sua dedizione sia dentro che fuori dal campo dimostra che il calcio può essere uno strumento di ispirazione non solo per i tifosi, ma anche per chi cerca modelli di crescita personale e culturale.

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Quando “genocidio” viene usato a sproposito. È voler distruggere interamente un popolo (ll Giornale 20.11.24)

Genocidio è voler distruggere interamente un popolo, una nazione, un’etnia, un gruppo religioso oppure una razza: espressione, quest’ultima, ancor oggi in uso. Abbiamo scritto distruggere «interamente» e non «in parte» perché «interamente» fu l’espressione intesa per decenni e adottata in origine dall’avvocato Raphael Lemkin (polacco) che inventò appunto l’espressione «genocidio» nel 1944 per definire il genocidio armeno; lo fece in un suo libro, Axis Rule in Occupied Europe, e l’espressione fu usata per la prima volta durante il processo di Norimberga del tardo 1945: l’intenzione era fornire il diritto internazionale di strumenti idonei a garantire la tutela di un popolo, di una nazione, di un’etnia eccetera. Per comprendere quindi l’espressione «genocidio» in questa attualità dove è grande la confusione sotto il cielo (persino il cielo di San Pietro) andrebbe ricordato che fu pubblicamente Hitler, nel 1939, a dire che in Polonia bisognava ammazzare senza preoccuparsi: «Chi mai si ricorda, oggi, dei massacri degli armeni?». E invece non ne siamo ancora usciti: la nazione di Erdogan nega ancor oggi il genocidio degli armeni e nel 1980, negli Usa, fu promosso un museo sugli olocausti ma le minacce turche per escludere i riferimento agli armeni ottennero soddisfazione; nel 1982, la Turchia fece analoghe pressioni per impedire un convegno a Tel Aviv dedicato alla Shoah che doveva affrontare anche la questione armena; nel 2000, il ministro dell’Istruzione israeliano disse che il genocidio degli armeni sarebbe stato inserito nei programmi scolastici, ma la Turchia, per rappresaglia, non partecipò alla celebrazione per la nascita di Israele; nel 2006 Francia approvò una legge che punisce chi propaga teorie negazioniste sul genocidio, e questo, attenzione, mentre una durissima legge turca oggi incarcera chi solo lo menziona.

A complicare le cose, allora come oggi, fu l’Onu. Tra il 1946 e il 1948 codificò il reato di genocidio, e il passaggio che riguardava «gli atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte» fu scambiata per una volontà di distruggere anche espressamente «in parte», e non per una volontà che banalmente non era stata soddisfatta per intero. Il messaggio nazista tuttavia era stato chiaro: l’Olocausto degli ebrei e dei rom fu delegato a motivazioni esclusivamente razziali, e si parla di etnie destinate perciò non alla sudditanza, come altre, ma alla morte e basta. Di tutti. L’Onu, col tempo, prese peraltro ad associare il reato di genocidio ai crimini di guerra e contro l’umanità, e la confusione fu ancora più grande. Ciascuna nazione, poi, apportava magari delle piccole modifiche alle Convenzione sul genocidio del 1948 (cui l’Italia aderì nel 1967) e la Francia, per esempio, incluse il reato di genocidio tra quelli commessi ai danni di «un gruppo determinato sulla base di qualsiasi criterio arbitrario». Oggi, nel marasma dottrinario, si parla di «genocidio di sviluppo» (se le vittime ostacolano un progetto economico), «genocidio dispotico» (contro gli oppositori), «genocidio retributivo» (tra gruppi che abitano uno stesso spazio) e «genocidio ideologico» (per motivi religiosi o politici).

Ed eccoci finalmente all’oggi, a Israele, i cui metodi di guerra impiegati nella Striscia di Gaza, secondo l’Onu, «hanno le caratteristiche di un genocidio» come affermato nel novembre scorso. Ma, comunque la si pensi, gli israeliani non vogliono distruggere tutti i palestinesi in quanto tali: vogliono distruggere quelli che vorrebbero distruggere Israele o che siano ritenuti complici nel volerlo fare; non è che il Mossad vada in giro per il mondo ad ammazzare tutti i palestinesi, o preveda il loro sterminio come popolo sino ad estinguerne le prevalenze genetiche. Si può certo stra-discutere dell’enorme numero di vittime civili, del rispetto dei diritti umani, di eventuali crimini di guerra: ma «genocidio», orma. è divenuto un termine d’uso comune che sottintende l’omicidio di tanta gente di uno stesso posto.

I nazisti volevano cancellare dal genere umano «tutti» gli ebrei, «tutti» i rom, «tutti» gli omosessuali e «tutti» i disabili e i malati di mente: fu questo il tentativo di genocidio. I nazisti non volevano fare lo stesso con polacchi, ucraini, russi e bielorussi: anche se ne fecero fuori una decina di milioni. Esempi più recenti? L’etnia hutu, in Ruanda, nel 1994, voleva estinguere l’intera etnia tutsi. Ma non è il caso di fare elenchi, sarebbero sterminati e comunque giustamente discutibili. Il problema è che, oggi, c’è chi vorrebbe trasformare l’espressione genocidio nell’equivalente de «l’assassinio di qualsiasi persona o popolo da parte di un governo», traducibili anche come «democìdio». E nonostante il Novecento sia stato già definito come «il secolo dei genocidi», le scienze moderne si stanno ingarellando nel retrodatare tutti i «genocidi» sin dall’alba dell’uomo moderno, quando l’homo Sapiens (teoria diffusa) compì il primo genocidio della Storia spazzando via tutti i Neanderthal, anche se impiegò 10mila anni; sino a tempi teoricamente anche più bui, quando spagnoli e portoghesi fecero fuori (complici le malattie) 70 milioni di nativi americani su ottanta, o, restando al Messico, dissolsero 24 milioni di messicani lasciandone vivi solo un milione; per non parlare della strage di aborigeni in Australia, del solo africano su quattro sopravvissuto nella tratta oceanica dall’Africa alle Americhe. Tutto per scoprire che il peggiore dei reati non è neppure un reato, ed è scandalosamente in uso anche alle scimmie antropomorfe a noi più vicine: e si può chiamare missione di pace, intervento umanitario, operazione di polizia internazionale: ma resta e si chiama guerra.

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Le paure degli armeni dopo la pulizia etnica in Nagorno Karabakh (Internazionale 20.11.24)

Nel 2023, l’invasione del Nagorno Karabakh da parte dell’Azerbaigian ha riportato la regione, abitata da secoli da armeni e già teatro di un sanguinoso conflitto dopo la caduta dell’Unione Sovietica, sotto il controllo del governo di Baku. La guerra ha provocato l’esodo forzato di oltre 120mila persone verso il sudest dell’Armenia. Il paese si trova così ad affrontare un’emergenza umanitaria e finanziaria senza precedenti, dovendo garantire casa, cibo e assistenza sanitaria a migliaia di rifugiati.

Intanto, dopo il cessate il fuoco mediato dalla Russia, i negoziati di pace tra Armenia e Azerbaigian per la definizione del confine tra i due paesi restano molto complicati e una nuova escalation non si può escludere.

Il video reportage di Cecilia Fasciani, Alberto Zanella e Clara Leonardi.

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Da sapere
Trent’anni di guerra

Al momento della nascita dell’Unione Sovietica il territorio del Nagorno Karabakh fu assegnato alla repubblica dell’Azerbagian, anche se abitato in larghissima maggioranza da armeni.

Con la disgregazione dell’Urss, nel 1991, le repubbliche sovietiche diventano stati indipendenti e il 2 settembre la regione annuncia la secessione dall’Azerbagian, autoproclamandosi repubblica dell’Artsakh (non riconosciuta dalla comunità internazionale). Il 26 novembre l’Azerbaigian annulla il regime di autonomia per la regione, dando inizio alla fase più intensa del conflitto per il controllo dell’area, conosciuto come guerra del Nagorno Karabakh (1991-1994), che provoca circa 30mila morti e centinaia di migliaia di profughi, soprattutto azeri, costretti a fuggire dalla regione in Azerbaigian.

Il cessate il fuoco del 1994 firmato a Biškek, capitale del Kirghizistan, è una vittoria per l’Armenia, che prende anche il controllo di una parte dei territori azeri al confine con il Nagorno Karabakh.

Il conflitto rimane latente fino alla “guerra dei quattro giorni”, nel 2016, che si conclude con la mediazione della Russia.

Il 27 settembre 2020 un’offensiva azera scatena la seconda guerra del Nagorno Karabakh, un’intensa escalation militare di 44 giorni che si conclude con la vittoria dell’Azerbaigian. Baku riconquista alcuni territori persi nel 1994 e anche diverse aree della repubblica dell’Artsakh. Il cessate il fuoco è siglato il 10 novembre, sotto la supervisione di Mosca.

Nel 2022 nuovi scontri armati riaccendono le tensioni sui confini. Nell’estate del 2023 Baku blocca le vie d’accesso alla regione, provocando una crisi umanitaria. Il 19 settembre 2023 l’Azerbaigian attacca il Nagorno Karabakh, bombardando la capitale Stepanakert e i territori circostanti. Il giorno successivo arriva la resa armena e si raggiunge un accordo per un cessate il fuoco. Nei mesi successivi la comunità armena terrorizzata abbandona la regione. Centoventimila profughi vengono accolti nella vicina Armenia.

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