La Shoah è unica, ma dagli armeni ai curdi la storia di un secolo è costellata di stermini (Il Giornale 14.03.24)

«Genocidio», «Shoah» e «Olocausto» e sono tre esempi di parole o espressioni che ormai svolazzano iperleggere, sradicate, intercambiabili, svuotate di peso culturale e storico, voci qualsiasi in un parolaio senza chiaroscuri in cui è calata la comunicazione globale. Persino Liliana Segre, forse perché pressata dai giornalisti, l’altro giorno ha confuso l’unicità della Shoah e dell’Olocausto (i sei milioni di ebrei trucidati dalla Germania nazista) con la categoria storica del genocidio, inteso come volontà di distruggere fisicamente e completamente un gruppo etnico e di farlo sparire anche sotto il profilo culturale.

Fu un genocidio, per esempio, anche quello dei serbi contro i musulmani bosniaci, fu un genocidio quello del Ruanda, della Cambogia di Pol Pot, mentre incredibilmente, non lontano dall’Italia, c’è ancora chi pratica del negazionismo sul genocidio dei turchi contro gli armeni: il primo genocidio del Novecento, appunto, è stato quello degli armeni, quando nel 1915, in piena Guerra mondiale, la Turchia ne fece deportare un milione e mezzo nella lontana Anatolia, dove furono affamati, violentati, decapitati e impalati; stiamo parlando del quaranta per cento della popolazione armena massacrata nel corso di poche settimane.

Adolf Hitler, com’è accertato, prefigurò lo sterminio degli ebrei ispirandosi a quello degli armeni; in un suo celebre discorso del 22 agosto 1939 disse che nell’invadere la Polonia occorreva massacrare «uomini e donne e bambini» senza preoccuparsi di conseguenze future: del resto, si chiese, «chi si ricorda, oggi, dei massacri degli armeni?».

Ottima domanda che, anche a livello storico, ha talvolta prodotto un penosissimo conflitto tra genocidi. Il genocidio degli armeni manca dai libri di scuola turchi, ovviamente, ma anche da quelli tedeschi: questioni diplomatiche. Il quotidiano tedesco Die Welt diede notizia che il Brandeburgo aveva deciso di eliminare ogni riferimento ai massacri ottomani ed era rimasto l’ultimo stato tedesco a parlarne in un testo scolastico; secondo Die Welt, era la conseguenza di pressioni esercitate da Ankara. Non meno triste che il negazionismo turco, a lungo, sia andato a braccetto con quella parte del mondo ebraico ben decisa a sostenere l’unicità dell’Olocausto: Elie Wiesel e le più importanti organizzazioni ebraiche si ritirarono da un convegno internazionale giacché i suoi organizzatori avevano incluso anche il caso armeno nel programma. Nel gigantesco Holocaust Memorial di Washington, per pressioni turche e israeliane, ogni riferimento agli armeni era stato eliminato. Ma c’è anche un’altra realtà, per fortuna: ci sono studi e seminari anche israeliani dove i genocidi non vengono messi in contrapposizione bensì analizzati in parallelo; il vice-ministro degli esteri israeliano Iosi Beilli, in Parlamento, nel 1994, affermò che lo sterminio degli armeni era stato un genocidio punto e basta. In Italia, in compenso, abbiamo avuto l’Unità: nell’ottobre 2006 si scagliò contro la legge francese che tutelava gli armeni in quanto «finisce per relativizzare l’unicità dell’Olocausto». Ancora nell’aprile 2015, una conosciuta giornalista dell”Huffington Post raccontò il governo Renzi aveva preteso di eliminare la parola «genocidio» da una rassegna culturale dedicata al popolo armeno: il titolo della rassegna, fissato a fine dicembre 2015, era «Armenia, a cento anni dal genocidio (1915-2015)», ma divenne «Armenia: metamorfosi tra memoria e identità». Una professoressa della Sapienza disse che «la Turchia è nella Nato e non avrebbe gradito, questo ci hanno spiegato».

L’espressione «genocidio» fu coniata nel 1946 durante il processo di Norimberga, e a voler elencarli tutti, i genocidi, c’è solo il rischio di dimenticarne qualcuno. Oltre ad armeni ed ebrei e zingari e sinti, sempre dimenticati, anche se condivisero l’Olocausto in Cina ci fu la rivolta dei Boxer, i 48 milioni di cinesi caduti sotto il regime di Mao, i 20 milioni i russi eliminati durante il terrore staliniano, il milione di comunisti indonesiani eliminati dal governo tra il 1974 e il 1999, il milione di cambogiani stramazzati sotto il regime di Pol Pot, poi i genocidi africani in Sudan, Rwanda, Burundi, quelli del sudamerica col milione di desaparecidos delle dittature militari, senza dimenticare i curdi e gli iracheni (tra cui 560 mila bambini) morti per la politica di Saddam Hussein. Si parla sempre di «memoria» e di «non dimenticare», ma il rischio, per i più, è non aver neppure mai saputo.

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Chi sono i Ladaniva, il gruppo franco-armeno protagonista dell’Eurovision 2024 (Notiziemusica 14.03.24)

Dall’Armenia alla Francia, dalla Francia alla Svezia, dalla Svezia al mondo intero. Il percorso dei Ladaniva è stato apparentemente lungo e tortuoso, ma potrebbe permettere a questa curiosa band di raggiungere i vertici della musica internazionale grazie a una vetrina prestigiosa come quella dell’Eurovision 2024. Andiamo a scoprire alcune curiosità sulla loro carriera e la loro vita privata.

Chi sono i Ladaniva: membri e carriera

La storia dei Ladaniva nasce a Lilla, in Francia, ma ha radici ben più profonde. È la storia, come molte altre, della ricerca di fortuna lontano da casa da parte di rappresentanti di un popolo a lungo costretto alla diaspora. A formare la band franco-armena sono due membri di grande talento: la cantante di origini propriamente armene Jaklin Baghdarsaryan e il polistrumentista francese Louis Thomas.

L’anima armena del duo è ovviamente rappresentata da Jaklin, nata proprio in Armenia, a Yeghegnadzor, ma cresciuta in Bielorussia, a Minsk, prima di trovare stabilità in Francia quando vi si è stabilità, nel 2014, insieme alla madre.

Proprio qui ha potuto coltivare la sua passione per la musica e i suoi studi, iscrivendosi al Conservatorio locale. Qui ha conosciuto Thomas, originario proprio di Lilla, e con lui ha deciso di costruire un progetto musicale molto originale.

Dopo aver vissuto le prime esperienze dal vivo, hanno dovuto fermarsi durante il periodo della pandemia da Covid a causa delle restrizioni imposte anche dal governo francese. In quei mesi difficilissimi due loro video, per i brani Vay aman e Zepyuri nman, hanno riscosso però un successo straordinario online, grazie soprattutto al supporto della comunità armena, dando impulso alla loro carriera.

Da lì ha poco hanno pubblicato il loro primo singolo, Kef chilini, e nel 2023 hanno fatto il loro esordio discografico con l’omonimo album di debutto, prodotto da un’etichetta belga, la PIAS Recordings.

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Ue, ok a risoluzione per valutare adesione dell’Armenia/ “Se continua con riforme per consolidare democrazia” (Il Sussidiario 13.03.24)

Il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione sulla possibilità di concedere all’Armenia lo status di candidato all’adesione all’UE. “Se il Paese dovesse essere interessato a candidarsi e a  continuare il suo percorso di riforme che consolidano la sua democrazia, questo potrebbe mettere le basi per una fase di trasformazione nelle relazioni tra le due parti”, si legge come riportato da Armen Press nella nota congiunta dei membri dell’organo legislativo.

La questione era già stata discussa nei mesi scorsi. “La Repubblica di Armenia è pronta ad essere il più possibile vicina all’Unione europea”, aveva affermato lo scorso 17 ottobre il Primo Ministro Nikol Pashinyan al Parlamento europeo. Il progetto sottolinea in tal senso che le relazioni UE-Armenia si dovranno basare su valori comuni come la democrazia, lo Stato di diritto, i diritti umani e le libertà fondamentali. L’ampliamento della cooperazione non includerebbe soltanto il partenariato economico, ma anche il dialogo politico, la sicurezza, le relazioni tra le persone e gli altri Paesi.

Ue, ok a risoluzione per valutare adesione dell’Armenia: il progetto

Il progetto del Parlamento europeo, oltre a valutare l’adesione dell’Armenia all’Ue, ribadisce anche la necessità di un accordo di pace tra il Paese e l’Azerbaigian, con un riferimento anche agli eventi che hanno avuto luogo nel Nagorno-Karabakh nel settembre dello scorso anno, quando la popolazione armena che viveva lì da secoli – circa 100.000 persone – sono dovute espatriare a seguito di un’offensiva azera. “L’esercito azero continua a occupare circa 170 km2 del territorio sovrano dell’Armenia”, viene sottolineato. 

È per questo motivo che la risoluzione afferma inoltre che l’UE, in caso di adesione, dovrebbe essere pronta a imporre sanzioni contro qualsiasi persona fisica o giuridica che minacci la sovranità dell’Armenia. La strada per arrivare a un accordo di questo genere tuttavia appare ancora lunga. In merito si attendono nuovi sviluppi nei prossimi mesi.

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Villafranca, Laura Ephrikian presenterà il suo libro “Una famiglia armena” il prossimo 20 marzo (Vetrinatv 13.03.24)

𝗟𝗮𝘂𝗿𝗮 𝗘𝗽𝗵𝗿𝗶𝗸𝗶𝗮𝗻 presenterà il suo libro “𝗨𝗻𝗮 𝗳𝗮𝗺𝗶𝗴𝗹𝗶𝗮 𝗮𝗿𝗺𝗲𝗻𝗮” (𝘚𝘱𝘢𝘻𝘪𝘰 𝘊𝘶𝘭𝘵𝘶𝘳𝘢 𝘌𝘥𝘪𝘻𝘪𝘰𝘯𝘪) a 𝗩𝗶𝗹𝗹𝗮𝗳𝗿𝗮𝗻𝗰𝗮 𝗧𝗶𝗿𝗿𝗲𝗻𝗮 il 𝟮𝟬 𝗠𝗮𝗿𝘇𝗼, ore 𝟭𝟳.𝟯𝟬, presso il 𝗖𝗲𝗻𝘁𝗿𝗼 𝗗𝗶𝘂𝗿𝗻𝗼 “𝗣𝗶𝗽𝗽𝗼 𝗕𝗼𝗻𝗮𝗰𝗰𝗼𝗿𝘀𝗼”. L’evento è organizzato dalla 𝗟𝗨𝗧𝗘 𝗱𝗶 𝗩𝗶𝗹𝗹𝗮𝗳𝗿𝗮𝗻𝗰𝗮 𝗧𝗶𝗿𝗿𝗲𝗻𝗮 con la collaborazione dell’𝗔𝘀𝘀𝗼𝗰𝗶𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗢𝗿𝗶𝘇𝘇𝗼𝗻𝘁𝗲 𝗖𝗼𝗺𝘂𝗻𝗲 e il patrocinio gratuito del Comune. Il libro racconta la vita di una bambina (Laura) nata a Treviso nel 1940, mentre nei cieli d’Europa si incrociavano le scie di aerei militari impegnati in drammatiche operazioni di guerra.

“𝘊𝘰𝘮𝘦 𝘴𝘦𝘮𝘱𝘳𝘦 𝘴𝘪𝘢𝘮𝘰 𝘤𝘰𝘯𝘵𝘦𝘯𝘵𝘪 𝘥𝘪 𝘰𝘳𝘨𝘢𝘯𝘪𝘻𝘻𝘢𝘳𝘦 𝘦𝘷𝘦𝘯𝘵𝘪 𝘤𝘶𝘭𝘵𝘶𝘳𝘢𝘭𝘪 – afferma il Presidente di Orizzonte Comune 𝗥𝗼𝗯𝗲𝗿𝘁𝗼 𝗦𝗮𝗶𝗮 – 𝘦 𝘥𝘪 𝘤𝘰𝘭𝘭𝘢𝘣𝘰𝘳𝘢𝘳𝘦 𝘤𝘰𝘯 𝘭𝘢 𝗟𝗨𝗧𝗘, 𝘤𝘩𝘦 𝘢 𝘝𝘪𝘭𝘭𝘢𝘧𝘳𝘢𝘯𝘤𝘢 𝘰𝘧𝘧𝘳𝘦 𝘶𝘯 𝘰𝘵𝘵𝘪𝘮𝘰 𝘴𝘦𝘳𝘷𝘪𝘻𝘪𝘰 𝘤𝘰𝘯 𝘨𝘳𝘢𝘯𝘥𝘦 𝘥𝘪𝘴𝘱𝘦𝘯𝘥𝘪𝘰 𝘥𝘪 𝘦𝘯𝘦𝘳𝘨𝘪𝘦. 𝘚𝘪𝘢𝘮𝘰 𝘢𝘭𝘵𝘳𝘦𝘴𝘪̀ 𝘤𝘰𝘯𝘵𝘦𝘯𝘵𝘪 𝘥𝘪 𝘰𝘴𝘱𝘪𝘵𝘢𝘳𝘦 𝘯𝘦𝘭𝘭𝘢 𝘯𝘰𝘴𝘵𝘳𝘢 𝘤𝘪𝘵𝘵𝘢𝘥𝘪𝘯𝘢 𝘶𝘯 𝘱𝘦𝘳𝘴𝘰𝘯𝘢𝘨𝘨𝘪𝘰 𝘥𝘦𝘭 𝘤𝘢𝘭𝘪𝘣𝘳𝘰 𝘥𝘪 𝘓𝘢𝘶𝘳𝘢 𝘌𝘱𝘩𝘳𝘪𝘬𝘪𝘢𝘯, 𝘶𝘯𝘢 𝘥𝘰𝘯𝘯𝘢 𝘤𝘩𝘦 𝘥𝘪 𝘴𝘵𝘰𝘳𝘪𝘦 𝘥𝘢 𝘳𝘢𝘤𝘤𝘰𝘯𝘵𝘢𝘳𝘦 𝘯𝘦 𝘩𝘢 𝘥𝘢𝘷𝘷𝘦𝘳𝘰 𝘵𝘢𝘯𝘵𝘦. 𝘚𝘢𝘳𝘢̀ 𝘯𝘰𝘴𝘵𝘳𝘢 𝘰𝘴𝘱𝘪𝘵𝘦 𝘢𝘯𝘤𝘩𝘦 𝘪𝘯 𝘰𝘤𝘤𝘢𝘴𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘥𝘦𝘭𝘭𝘢 𝘮𝘢𝘯𝘪𝘧𝘦𝘴𝘵𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 ‘𝘋𝘰𝘯𝘯𝘦’, 𝘤𝘩𝘦 𝘴𝘪 𝘵𝘦𝘳𝘳𝘢̀ 𝘪𝘭 23 𝘦 24 𝘔𝘢𝘳𝘻𝘰 𝘱𝘳𝘰𝘴𝘴𝘪𝘮𝘪” conclude. “𝘘𝘶𝘢𝘯𝘥𝘰 𝘮𝘪 𝘦̀ 𝘴𝘵𝘢𝘵𝘰 𝘱𝘳𝘰𝘱𝘰𝘴𝘵𝘰 𝘥𝘪 𝘱𝘳𝘦𝘴𝘦𝘯𝘵𝘢𝘳𝘦 𝘪𝘭 𝘭𝘪𝘣𝘳𝘰 𝘥𝘪 𝘓𝘢𝘶𝘳𝘢 𝘌𝘱𝘩𝘳𝘪𝘬𝘪𝘢𝘯 – racconta 𝗚𝗶𝘂𝘀𝗲𝗽𝗽𝗲 𝗣𝗮𝗽𝗮𝗹𝗶𝗮, responsabile della sezione LUTE di Villafranca – 𝘢𝘤𝘤𝘦𝘵𝘵𝘢𝘪 𝘤𝘰𝘯 𝘦𝘯𝘵𝘶𝘴𝘪𝘢𝘴𝘮𝘰. 𝘕𝘰𝘯 𝘴𝘰𝘭𝘰 𝘱𝘦𝘳 𝘲𝘶𝘦𝘭𝘭𝘰 𝘤𝘩𝘦 𝘥𝘪 𝘭𝘦𝘪 𝘴𝘪 𝘤𝘰𝘯𝘰𝘴𝘤𝘦: 𝘢𝘵𝘵𝘳𝘪𝘤𝘦, 𝘱𝘳𝘦𝘴𝘦𝘯𝘵𝘢𝘵𝘳𝘪𝘤𝘦 𝘛𝘝, 𝘴𝘤𝘳𝘪𝘵𝘵𝘳𝘪𝘤𝘦, 𝘮𝘢 𝘢𝘯𝘤𝘩𝘦 𝘦 𝘴𝘰𝘱𝘳𝘢𝘵𝘵𝘶𝘵𝘵𝘰 𝘱𝘦𝘳𝘤𝘩𝘦́ 𝘭𝘦𝘪 𝘦̀ 𝘷𝘪𝘤𝘪𝘯𝘢 𝘢𝘭 𝘮𝘪𝘰 𝘮𝘰𝘯𝘥𝘰: 𝘪𝘭 𝘝𝘰𝘭𝘰𝘯𝘵𝘢𝘳𝘪𝘢𝘵𝘰. 𝘐𝘭 𝘴𝘶𝘰 𝘪𝘮𝘱𝘦𝘨𝘯𝘰 – conclude – 𝘦̀ 𝘢𝘮𝘮𝘪𝘳𝘦𝘷𝘰𝘭𝘦”.

Interverranno, oltre all’autrice, anche 𝗔𝗺𝗲𝗹𝗶𝗮 𝗦𝘁𝗮𝗻𝗰𝗮𝗻𝗲𝗹𝗹𝗶, già docente e dirigente scolastica e 𝗥𝗼𝗯𝗲𝗿𝘁𝗼 𝗦𝗮𝗶𝗮, in qualità di Presidente di Orizzonte Comune. Ephrikian presenterà la sua ultima fatica letteraria anche a Barcellona Pozzo di Gotto, il 25 Marzo alle 17.30 presso l’ITET “E. Fermi”.

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IL FUTURO DIFFICILE DELL’AZERBAIJAN (Il Mulino 13.03.24)

Lo scorso 7 febbraio si sono svolte in Azerbaijan le elezioni presidenziali anticipate per sottolineare che si inaugurava una “nuova era” votando, per la prima volta, in tutto il Paese. E, per questo, il presidente Ilham Aliev ha portato l’intera famiglia a votare a Stepanakert (Khankendi per gli azeri). Si è così conclusa l’esistenza dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, mai riconosciuta ma di fatto sopravvissuta per oltre trent’anni.

Il retroterra storico della vicenda affonda le radici in un’area dove per secoli si sono scontrati tre imperi: persiano, ottomano e zarista. Con vicende intricate e modifiche non solo della geografia, ma anche della composizione demografica ed etnica dei territori interessati. E anche se non si tratta di un “conflitto antico” (il nucleo della questione prende corpo nei primi anni del Novecento) ciò ha permesso alle parti in causa di manipolare la storia per rivendicare i reciproci “diritti ancestrali”.

Restando all’epoca recente va ricordato che, dopo il crollo dell’impero russo nel 1917, le tre nuove repubbliche transcaucasiche (Georgia, Armenia e Azerbaijan) combatterono per ottenere il controllo dei territori ancora oggi al centro della vicenda. E cioè l’enclave armena del Nagorno-Karabakh, l’enclave azera del Nakhichevan e l’area di Zanzegur al confine con l’Iran. Gli azeri riuscirono a scacciare gli armeni dal Nakhichevan, il contrario accadde per Zangezur, mentre, nel Nagorno-Karabakh, gli inglesi furono determinanti nello scontro fra azeri e armeni dopo il ritiro turco, riaffermando l’appartenenza della regione all’Azerbaijan.

Per quanto riguarda il Karabakh, il nuovo potere bolscevico, dopo alterne vicende, riconfermò la sua appartenenza all’Azerbaijan, con una decisione ispirata dall’allora Commissario per le nazionalità, Josep Stalin, probabilmente influenzato anche dalla volontà di coltivare un buon rapporto con la nuova Turchia di Kemal Ataturk. E così, il 5 luglio del 1921, venne dichiarata la nascita della Regione autonoma del Nagorno-Karabakh (Nkao).

Dopo decenni di compressione nel periodo sovietico, con l’arrivo di Mikhail Gorbaciov il dissenso armeno riprese vigore, inviando petizioni e delegazioni al Cremlino e con deliberazioni del Soviet della regione autonoma. Ma, in assenza di risultati concreti, e con l’inizio del processo di dissoluzione dell’Urss, si sviluppò una spirale di tensione e scontri che, nel 1989/90, produsse un vero e proprio conflitto interno all’Unione, coinvolgendo le truppe mandate dal ministero della Difesa sovietico e le forze di polizia speciali istituite dalle due Repubbliche in competizione.

La svolta finale avvenne con il crollo dell’Urss (31 dicembre 1991) e la nascita dei due nuovi Stati indipendenti, Armenia e Azerbaijan, che vennero riconosciuti dalle Nazioni Unite con i confini precedentemente stabiliti. In rapida sequenza, con la dichiarazione di indipendenza del Karabakh (tre giorni dopo quella dell’Azerbaijan), la decisione azera di abolire lo statuto autonomo della regione e il successivo referendum degli armeni del Nagorno sull’indipendenza, iniziò uno scontro militare diretto. E così, un conflitto nato come interno fu internazionalizzato.

La svolta avvenne con il crollo dell’Urss e la nascita dei due nuovi Stati indipendenti, Armenia e Azerbaijan, che vennero riconosciuti con i confini precedentemente stabiliti

Per questo, l’allora Csce (non ancora Osce) decise, nel Consiglio di ministri a Helsinki del marzo 1991, la convocazione di una Conferenza di pace a Minsk, con la partecipazione, oltre ad Armenia e Azerbaijan, di altri dieci Paesi: Bielorussia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Germania, Svezia, Francia, Federazione russa, Turchia, Stati Uniti e Italia.

Ho avuto modo di seguire direttamente questa prima fase perché all’Italia fu dato l’incarico di preparare la conferenza e a me di presiederla. Il compito si dimostrò subito proibitivo. Il numero di Paesi coinvolti rendeva ancor più complicata la regola del “consensus”, mentre alcuni di essi avevano interessi contrastanti. Basti pensare a Russia, Turchia e (per la potente diaspora armena) la stessa Francia.

Soprattutto, si scontravano due principi inconciliabili: l’autodeterminazione e l’integrità territoriale. Perfino i primi passi furono difficili, per la richiesta degli armeni del Karabakh di avere un ruolo formale (l’Armenia sosteneva di non essere parte del conflitto) e della minoranza azera del Nagorno di rappresentare ufficialmente quell’area. Dopo lunghi negoziati a Villa Madama concordammo di definire le due componenti del Karabakh “parti interessate”, con diritto di essere consultate e di presenziare alle riunioni plenarie.

Bastarono poche sessioni per verificare la necessità di svolgere une serie di missioni preparatorie nei Paesi coinvolti e nell’area del conflitto. E fu subito chiaro che, godendo di una maggiore coesione e superiorità militare, la parte armena era interessata principalmente a cambiare con la forza la realtà sul terreno. Così ad ogni missione lo sforzo (con l’assistenza di due eccellenti diplomatici come Mario Sica e Antonio Armellini) fu quello di elaborare proposte di una tregua e una road map per aprire il negoziato. Purtroppo, ad ogni tentativo, corrispondeva una successiva conquista territoriale armena.

La prima volta, dopo aver concordato un breve “cessate il fuoco” per poterci recare a Stepanakert, finimmo bombardati in un bunker ad Agdam (il punto di scambio previsto) e, tornati a Baku, fummo informati che era stata conquistata Shusha, città simbolo delle tradizioni azere e punto strategico per dominare il resto del territorio. Durante la seconda missione apprendemmo che gli armeni avevano preso il controllo del “corridoio di Lachin” per collegare direttamente il Nagorno all’Armenia. La terza volta, dopo aver discusso e concordato con la dirigenza armena a Stepanakert i termini per un possibile inizio del negoziato, una volta rientrati a Roma fummo informati della presa di Agdam e, nel periodo successivo, gli armeni conquistarono ben sette distretti azeri circostanti il Nagorno Karabakh.

In ogni caso, gli sforzi fatti nel 1992/93 produssero le quattro risoluzioni dell’Onu (822,853,874,884) in materia. In tutte e quattro (mai implementate) il Consiglio di sicurezza, sulla base delle mie raccomandazioni come presidente del “gruppo di Minsk” espressamente citate, richiedeva la cessazione delle ostilità e l’adesione delle parti al nostro “Adjusted timetable” (più volte modificato per adeguarlo alle nuove situazioni) nel quale si proponeva, tra l’altro, la restituzione dei distretti azeri occupati, la riapertura delle frontiere, una missione Csce di monitoraggio, il rientro dei rifugiati, un negoziato fra le parti in causa per la definizione dello status finale del Nagorno Karabakh.

In aggiunta a ciò, in maniera del tutto informale, suggerivo ai presidenti Ter Petrosyan e Heydar Alyev (padre dell’attuale presidente azero) il modello altoatesino come possibile “terza via” fra la richiesta di indipendenza (che nessuno avrebbe mai riconosciuto) e l’offerta di ripristinare l’autonomia dell’epoca sovietica (che gli armeni non prendevano nemmeno in considerazione). La proposta, cioè, di un’autonomia che, pur rimanendo all’interno dell’Azerbaijan, avrebbe goduto di un “ancoraggio internazionale” a garanzia del rispetto da parte di un governo dalle discutibili credenziali democratiche.

Non so quanto realistica potesse essere questa ipotesi (alla fine del 1993 l’Italia fu sostituita dalla Svezia). Ricordo però un presidente Ter Petrosian estremamente attento, durante il vertice Csce ad Helsinki nel giugno del 1992, mentre ascoltava il presidente austriaco illustrare la soluzione altoatesina per la quale aveva appena rilasciato all’Onu la “quietanza liberatoria”. Ricordo anche l’atteggiamento tutt’altro che chiuso di Heydar Alyev. E so che, nel dicembre 2018, venni invitato a Baku da Hikmet Hajiyev (consigliere speciale dell’attuale presidente azero) per partecipare a una conferenza con i rappresentanti della comunità internazionale e ribadire la stessa proposta. Proposta che lo stesso presidente rilanciò nei giorni precedenti il conflitto del settembre 2020 e perfino nelle sue prime fasi (interviste a Bbc e a Rai).

La convinzione armena di avere la superiorità militare e l’appoggio russo non ha favorito un atteggiamento flessibile

Certo è che la convinzione armena di avere la superiorità militare e l’appoggio russo non ha favorito un atteggiamento flessibile (Ter Petrosian fu allontanato e i due presidenti successivi furono armeni del Nagorno), così come il passaggio a una co-presidenza del “gruppo di Minsk” (Francia, Russia, Stati Uniti), stabilita nel dicembre del 1994, non sembra aver apportato una maggior efficacia nel negoziato. Sta di fatto che per 24 anni non si è andati oltre i cosiddetti “principi di Madrid” (2007) che si limitavano a riecheggiare le 4 risoluzioni Onu e dei quali, tra l’altro, non è mai stato emesso un testo formale.

Nel frattempo, la situazione geopolitica nell’area è cambiata drasticamente. Così come i rapporti di forza. E la mancata ripresa di un negoziato serio dopo l’elezione del nuovo primo ministro armeno Nikol Pashinian (un attivista della lotta contro la corruzione) ha aperto la strada per un’offensiva militare dell’Azerbaijan. Con il decisivo apporto dei droni turchi, sono stati così conquistati i distretti occupati dagli armeni ripristinando, con la ripresa di Shusha, anche un controllo di fatto dell’interno Nagorno.

Il successivo “cessate il fuoco” si è trasformato rapidamente in una completa resa degli armeni. E, con la Russia impegnata nell’aggressione all’Ucraina, nel settembre dell’anno scorso gli azeri hanno occupato non solo l’intero Karabakh, ma anche alcune posizioni strategiche in territorio armeno. Di lì potrebbero partire per aprire il “corridoio di Zangezur” lungo il confine iraniano, connettendosi così al Nakhichevan. O spingersi perfino oltre, visto che l’appetito vien mangiando e che gli armeni sono militarmente in ginocchio.

Per ora, resta solo il dramma dell’esodo della popolazione armena dal Nagorno Karabakh e la constatazione che, quando nelle crisi internazionali si preferisce la guerra al compromesso ragionevole, spesso si finisce per perdere molto di più di quanto si sarebbe potuto ottenere attraverso il negoziato.

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Aurora’s Sunrise: la rievocazione del genocidio armeno (Taxidrivers 13.03.24)

Aurora’s Sunrise proiettato al Sudestival nella sezione armena, è al contempo un colpo allo stomaco e un esempio di come l’animazione, associata magari ad altri strumenti espressivi, possa sondare territori dell’immaginario davvero impervi e a contribuire a far luce sulle più buie pagine di Storia.

In questo caso trattasi di una delle vicende più dolorose e sconvolgenti del Novecento, lo spaventoso genocidio compiuto ai danni del popolo armeno il cui inizio è datato 24 aprile 1915, ma che avrebbe poi riempito di orrori gli ultimi anni di vita dell’Impero Ottomano e gli esordi stessi della repubblica fondata in Turchia da Mustafa Kemal Atatürk.

Una tragedia dimenticata, anzi, rimossa

Tra gli aspetti più sconcertanti di una pulizia etnica così estesa, che costò la vita a oltre un milione di vittime innocenti e che raggiuse punte di crudeltà particolarmente disumane, efferate, eguagliate forse soltanto dai massacri portati avanti da “banderisti” ucraini nel corso della Seconda Guerra Mondiale o dall’attività dei militari nell’Indonesia degli anni ’60, vi è senz’altro il mancato riconoscimento di tali eventi da parte della Turchia, in tutto l’arco della sua (spesso autoritaria) Storia recente. Caso di “negazionismo” protratto nel tempo che pesa come un macigno sulla coscienza collettiva di tale nazione. Ed è ingenuo anche solo immaginare che possa essere il tetro regime instaurato da Erdoğan a proporre marce indietro sull’argomento…

Alla letteratura, al cinema e all’arte in genere è rimasto quindi in tutti questi anni il compito di vincere l’omertà diffusa a così alti livelli, ricordare e far conoscere i fatti, commemorare le vittime. Solo a livello cinematografico si possono citare diversi capitoli di questa storia parallela, sommersa, più o meno brillanti a livello filmico, ma in ogni caso necessari. Dallo straziante, stratificato Ararat di Atom Egoyan (che ha incidentalmente fatto riferimento alle proprie origini anche in altre opere) a Le Voyage en Arménie di Robert Guédiguian. Passando magari per uno dei film più sottostimati (e al quale non difettano, al contrario, incisività e coraggio) dei Fratelli Taviani, La masseria delle allodole. Ora a tale galleria si è aggiunto un tassello non meno significativo, per i suoi meriti sia estetici che storici ed etici.

Aurora’s Sunrise | La genesi di un piccolo capolavoro

La dolente opera cinematografica della Sahakyan, Aurora’s Sunrise, è in realtà un gioco di scatole cinesi ove confluiscono armonicamente impulsi di varia natura, sia come provenienza che a livello formale. Lo spunto iniziale è offerto da una pellicola che seppe destare clamore e indignazione ai tempi del muto, Auction of Souls (1919) proiettata con successo nei cinema di mezza America per essere poi dimenticata in fretta e sparire dai radar anche fisicamente, materialmente, rimozione cui contribuì senz’altro il mutato quadro politico. Già, perché a interpretare quel film, direttamente ispirato alle sue dolorosissime esperienze, era una vera sopravvissuta al genocidio armeno, il cui nome venne “americanizzato” in Aurora Mardiganian.

Col tempo sono stati ritrovati alcuni brevi spezzoni di quella pellicola, da aggiungere qui al filmato di un’intervista realizzata qualche decennio dopo con la stessa Aurora, ormai anziana. Ma perfettamente in grado di ricordare gli orrori subiti da giovane nelle martoriate terre dell’Anatolia.

Alla ricerca, attraverso l’animazione, dei frammenti mancanti

La meravigliosa operazione compiuta dalla cineasta di Yerevan, Inna Sahakyan, è stata quindi mettere insieme i diversi pezzi del puzzle, ovvero le scarne tracce del film muto da poco recuperate e quella lunga intervista degli anni ’40, utilizzando poi l’animazione per dare forma a quei ricordi della protagonista che non era più possibile associare ad immagini, andate ormai perdute assieme ai rulli di una pellicola all’epoca così popolare.

Con un esito artistico e contraccolpi emotivi a dir poco strepitosi: grazie a un’animazione dal tratto estremamente curato, possente, lirico, attento ai dettagli, prendono forma sullo schermo sia i momenti felici vissuti dalla famiglia di Aurora prima della repressione turca, sia le fasi più crudeli dello sterminio durante il quale quasi tutti i famigliari della ragazza vennero barbaramente uccisi, sia gli alti e bassi del successivo approdo negli Stati Uniti. Ma si può tranquillamente dire che il momento più elevato di tutta la narrazione sia l’allegoria incentrata su quello spensierato teatrino in famiglia, con genitori e fratelli che però malinconicamente si dissolvono, spariscono da quel ricordo gioioso di vita in comune, man mano che nella realtà i militari dell’Impero Ottomano e i banditi curdi (loro complici in quell’abominio) li accompagnano una alla volta verso la morte.

Aurora’s Sunrise | Il documentario e l’animazione

L’ispirata scelta dei disegni, pronti a declinare sia la bellezza che il sopraggiungere del terrore, fa quindi il paio con un’impostazione teorica molto appropriata, tesa cioè a spingere l’animazione non soltanto verso un apprezzabile valore testimoniale ma anche all’iperbolica ricostruzione dei tasselli mancanti, delle immagini perdute. Fondendo quindi tale risorsa espressiva con assai delicate esigenze documentarie. Quasi inevitabile, a questo punto, il parallelo con la poetica del cambogiano Rithy Panh, che proprio in The Missing Picture aveva sperimentato, tramite l’animazione a passo uno, un analogo desiderio di dare nuovamente vita ai “fantasmi” di chi è stato cancellato con inaudita brutalità, in quel caso la propria famiglia massacrata dagli Khmer Rossi.

Aurora’s Sunrise

  • Anno: 2019
  • Durata: 97′
  • Genere: Animazione / Documentario
  • Nazionalita: Armenia – Germania – Lituania
  • Regia: Inna Sahakyan

Il sogno armeno per gli indiani (Osservatorio Balcani e Caucaso 13.03.24)

empre più cittadini indiani emigrano in Armenia in cerca di lavoro ed opportunità: oggi la comunità indiana nel paese conta 20-30mila unità, ed è la seconda dopo quella russa. Per molti di loro, però, realizzare i propri sogni non è facile

13/03/2024 –  Armine Avetisyan Yerevan

Trasferirsi in Armenia, avere un lavoro stabile, guadagnare duemila dollari al mese e poterne risparmiare la metà: questo è il sogno armeno per migliaia di cittadini indiani che si sono trasferiti in Armenia negli ultimi anni. Tuttavia, non per tutti i sogni si realizzano subito.

Amir

Amir, 41 anni, si è trasferito a Yerevan la scorsa estate. Per farlo ha chiesto l’aiuto di un’organizzazione intermediaria, che ha organizzato il trasferimento, vitto e alloggio e gli ha promesso anche un lavoro.

“Ho pagato circa 1500 dollari per il servizio. Mi hanno promesso che avrei lavorato come corriere a Yerevan, che non avrei avuto problemi con la lingua, che un minimo di inglese era sufficiente. Dovevo guadagnare almeno duemila dollari, hanno calcolato che potevo risparmiarne almeno la metà e mandarli alla mia famiglia”, racconta.

Nella sua città natale, Agra, Amir svolgeva diversi lavori manuali, ma riusciva a malapena a provvedere ai bisogni primari della sua famiglia, tra cui l’alloggio.

“Nella mia città è difficile, non si trova un lavoro stabile, pensavo che in Armenia avrei potuto crescere economicamente, ma non posso dire che tutto vada liscio. Non c’è stato nemmeno un mese in cui sono riuscito a guadagnare duemila dollari e, cosa più importante, non ho ancora iniziato a lavorare come corriere, anche qui faccio l’operaio”, racconta.
Amir guadagna in media mille dollari al mese, di cui 250 destinati all’alloggio e circa 300 al cibo. Qualche altra spesa necessaria e i soldi finiscono.

“Riesco a malapena a mettere da parte circa 100 dollari per la mia famiglia. Ma non dispero, penso ancora che riuscirò a trovare un lavoro stabile, ci sono riusciti tanti indiani e ce la farò anch’io”.

Gli indiani sono il secondo gruppo di stranieri più numeroso in Armenia dopo i russi. Nel novembre 2023, in risposta ad una domanda sui migranti indiani, l’ex ministro dell’Economia Vahan Kerobyan ha dichiarato che in Armenia vivono 20-30.000 indiani.

Yerevan, preparazione del tipico chatpati indiano. Foto di A. Avetisyan

I cittadini indiani studiano in Armenia sin dall’epoca sovietica, principalmente nella facoltà di Medicina. Da qualche anno, tuttavia, sempre più indiani vengono per lavorare.
Nel 2017, il governo ha reso più semplice l’ottenimento del visto per i cittadini indiani e il flusso è aumentato. Secondo il Servizio migrazione e cittadinanza dell’Armenia, i permessi di lavoro rilasciati a cittadini indiani sono stati 3.200 nel 2023, 530 nel 2022 e solo 55 nel 2021.

Per entrare in Armenia i cittadini indiani devono ottenere online un visto d’ingresso della durata massima di 120 giorni, con possibilità di estensione per altri 60 giorni. Se sono in Armenia per lavorare, il datore di lavoro deve presentare una domanda elettronica per ottenere il permesso di lavoro e di soggiorno entro i termini legali. La quota annuale è di circa 250 dollari ed è fissato un periodo di un mese per l’esame delle domande.

Rajit

“Non ho ancora il permesso di lavoro”, dice Rajit, 25 anni, il cui nome è stato cambiato su sua richiesta. “Sono qui da un mese, sto solo cercando di capire come trovare lavoro”.

Chef professionista, Rajit si è trasferito in Armenia con l’aiuto di amici che l’avevano preceduto a Yerevan, cosa che gli ha risparmiato la tradizionale procedura di pagamento di un intermediario.

“Venire da soli ha un altro vantaggio. Molti dei miei connazionali sono obbligati a pagare gli interessi sul proprio reddito all’intermediario e non puoi rifiutarti, perché l’intermediario ti prende il passaporto. Ho un amico a Yerevan che ha sofferto molto finché non è riuscito a riavere il passaporto”, dice Rajit.

Rajit vive con quattro amici in una casa in affitto di 40 mq. Rispetto ai suoi connazionali, vivono in condizioni abbastanza buone.

“Se usi un intermediario e paghi l’alloggio, stai in un dormitorio dove possono esserci 10-20 persone in una stanza, e costa 200 dollari, sono tanti soldi. Oggi in quei dormitori vivono molte persone, per questo pochissimi vengono con la moglie”.

Secondo Rajit, chi si trasferisce in Armenia da solo e trova un lavoro, può guadagnare uno stipendio dignitoso. È soddisfatto della vita in Armenia: chi rispetti la legge può vivere molto bene in questo paese.

La questione è anche all’attenzione del governo armeno. Durante una recente visita in India, il ministro del Lavoro e degli affari sociali ha affrontato una serie di temi legati alla cooperazione nel campo dell’occupazione.

È stata sottolineata la necessità di cooperazione nel campo della migrazione di manodopera ed è stata suggerita la possibilità di prendere in considerazione lo sviluppo delle normative necessarie per garantire l’occupazione degli indiani che arrivano in Armenia.

È stata inoltre discussa l’idea di creare una piattaforma che consenta di reclutare forza lavoro indiana e mostrare i posti di lavoro disponibili in Armenia attraverso il Servizio sociale unificato.

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La Russia conferma un memorandum armeno per interrompere il sostegno all’aeroporto di Yerevan (LameziaInstrada 13.03.24)

La settimana scorsa, il segretario del Consiglio di sicurezza dello Stato del Caucaso, Armen Grigoryan, ha confermato in una conferenza stampa che il suo governo aveva notificato a Mosca l’intenzione di effettuare il controllo delle frontiere nel suddetto aeroporto senza l’aiuto degli agenti dell’immigrazione russi. Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha annunciato martedì che gli ufficiali di frontiera del suo paese possono ora svolgere la loro missione all’aeroporto aereo di Yerevan senza il sostegno dei loro omologhi russi.

Peskov ha sottolineato che i dipartimenti competenti dei due paesi stanno ora conducendo i contatti necessari. “È chiaro che i contatti a tutti i livelli possibili continueranno”, ha sottolineato.

Secondo Pashinyan, gli agenti armeni inizieranno a monitorare i confini del suddetto aeroporto senza l’assistenza dei loro omologhi russi dal 1° agosto.

“Il comandante ad interim delle forze di frontiera armene ha ringraziato il comandante della divisione di frontiera russa in Armenia e lo ha informato che forniremo servizio senza la sua assistenza dal 1° agosto 2024”, ha detto il primo ministro armeno in una conferenza stampa. .

Gli ufficiali dell’immigrazione russi sono responsabili del controllo delle frontiere presso l’aeroporto internazionale di Zvartnots in Armenia dal 1992.

Successivamente sono stati organizzati corsi di formazione per gli ufficiali armeni che attualmente sono responsabili del controllo delle frontiere dell’aeroporto insieme ai loro omologhi russi.

Fino al 2024 le autorità armene non avevano avuto osservazioni sul lavoro delle guardie di frontiera russe nel paese.

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Reti e corridoi nel Caucaso meridionale (Osservatorio Balcani e Caucaso 13.03.24)

n un contesto geopolitico in rapida trasformazione, i paesi del Caucaso provano a rilanciare le prospettive di diversi corridoi in grado di razionalizzare e valorizzare i propri territori e le proprie economie. Nonostante i molti progetti, però, le sfide non mancano

13/03/2024 –  Marilisa Lorusso

Si chiamano TRACECA, OBOR, Middle Corridor: corridoi dai differenti autori, tracciati, prospettive di geopolitica o di focus, ma tutti progetti accomunati dalla volontà di razionalizzare tempi, costi, spazi, integrare le tappe intermedie dei trasporti in un quadro collettivo. I territori attraversati valgono in quanto interconnessi e la tecnologia del trasporto moderno e le economie di scala impongono sinergie regionali estese. Nessuno vale per conto proprio, bisogna fare squadra, essere una regione.

Per trent’anni la regione caucasica si è però mossa in controtendenza rispetto a questa logica, pur rientrando appieno in alcuni di questi progetti. Il Caucaso del sud non si è mosso come una regione, ma come tre stati che tutt’al più potevano accordarsi bilateralmente, visto che al suo centro c’era una cicatrice di trincee: il conflitto sul Nagorno Karabakh ha sempre spaccato la regione.

Non solo perché il Nagorno Karabakh era un territorio a statualità non riconosciuta, e quindi intrattabile come partner commerciale, ma anche perché le chiusure dei confini armeno-turco e armeno-azero hanno reso la regione impercorribile nelle sue vie di comunicazione più razionalizzate per brevità e riduzione di costi. I progetti che hanno attraversato il Caucaso – che ha due magistrali di comunicazione, la est-ovest e la nord-sud – sono sempre stati quindi importanti ma a livello più regionale che globale, frutto di accordi bilaterali, per lo più azero-georgiano.

La fine del conflitto, congiunturale alla guerra in Ucraina e a una fase particolarmente positiva dei rapporti azero-turchi, ha aperto una nuova prospettiva che ha attirato gli sguardi internazionali. Finalmente si potrebbe sbloccare il Caucaso, e sia i trasporti est-ovest che nord-sud potrebbero essere incentivati in maniera significativa, con una prospettiva di farne un hub globale.

Il 2020 e successivi eventi

Al momento della firma della dichiarazione trilaterale armena-russa-azera, che nel 2020 dopo 44 giorni di combattimenti decretò il cessate il fuoco della seconda guerra per il Nagorno Karabakh, si è capito che sarebbero state due le direzioni di sviluppo: una via su gomma e su rotaia che da Derbent a Baku, magistrale nord-sud, avrebbe poi virato via Shirvan-Sabirabad, Goradis lungo il confine iraniano fino al Nakhchivan, riaprendo la via diretta e non attraverso il territorio iraniano di Baku e la sua exclave. Qui questa magistrale si sarebbe scissa, divenendo un nuovo canale nord-sud fino a Yerevan, e dando quindi all’Armenia un accesso alla Russia, passaggio alternativo a quello in uso, via Georgia.

L’altra magistrale avrebbe puntato ad ovest, fino a Idir in Turchia, aprendo una via diretta fra Armenia e Turchia di cui avrebbe potuto beneficiare anche l’Azerbaijan, che è in rapporto di alleanza e partnership privilegiata con Ankara. La dichiarazione trilaterale che delineava le nuove rotte di comunicazione le definiva “legami economici e di trasporto”, ma Azerbaijan e Turchia le hanno denominate corridoio di Zangezur, un termine contestato dall’Armenia.

La menzione di un “corridoio” evoca quello di Lachin, un collegamento vitale tra Karabakh e Armenia. La dichiarazione trilaterale del novembre 2020 dipingeva una situazione in cui Lachin, e le rotte di comunicazione che dovevano essere istituite o riabilitate, sotto la supervisione dei caschi blu russi. Tuttavia, dalla massiccia fuga della comunità armena dal Karabakh nel settembre 2023, la situazione è cambiata. Il corridoio con status speciale, Lachin, non esiste più. Non ci può essere una simmetria fra un corridoio armeno (Lachin) e uno azero (Zangezur). Nonostante ciò, nessuna parte ha dichiarato obsoleta la dichiarazione trilaterale, optando invece per reinterpretarla selettivamente in base ai propri interessi.

La Russia insiste sull’attuazione della dichiarazione, mantenendo il controllo sulle rotte di transito. L’Armenia respinge l’idea di corridoi, insistendo sulla sovranità sulle vie di transito. L’Azerbaijan cerca un passaggio senza pedaggio e senza controllo armeno. Baku, se non soddisfatta nelle proprie richieste, può utilizzare una rotta alternativa attraverso l’Iran. Sono in corso lavori di costruzione su una strada che collega l’Azerbaijan e Nakhchivan attraverso l’Iran, inclusa la costruzione di un ponte sul fiume Araz.

Nessun dorma

Sebbene il progetto finale per una rete di rotte del Caucaso meridionale sia ancora in fase di sviluppo, è evidente che le parti, e le rispettive ruspe, non stanno ferme.

L’Armenia ha lanciato il suo progetto Crossroad of Peace, una rete di infrastrutture su ruote e rotaie che attraverserebbe il paese da nord a sud e, in modo cruciale, da est a ovest. A nord, una ferrovia modernizzata Hrazdan-Kayan potrebbe collegare i rami esistenti dall’Azerbaijan alla Georgia e dall’Armenia alla Turchia. Il secondo ramo verso sud farebbe parte di quello che Baku definisce il corridoio di Zangezur.

Quattro reti stradali potrebbero aprire due varchi verso la Turchia – ad Akhurik e Mangara, mentre altre due potrebbero ridurre i tempi di viaggio verso sud, da Sotk e Kornidzor verso l’autostrada esistente nord-sud, oltre all’accesso doppio a Nakhchivan attraverso Angeghakot. Si prevede di aprire controlli doganali verdi con la Georgia e l’Iran. Attorno a questo progetto, o progetti compatibili con esso, le cose sono in pieno svolgimento.

Anche la questione delle dogane con la Georgia sta subendo cambiamenti significativi. Il 26 gennaio, Pashinyan è volato a Tbilisi per il 13° incontro della Commissione intergovernativa per la cooperazione economica e la firma della Dichiarazione di partenariato economico strategico. Questa dichiarazione è stata accompagnata da una discussione sulla fattibilità dell’introduzione da parte di entrambi i paesi di un modello di controllo unificato delle dogane ai punti di attraversamento al confine, che ridurrebbe significativamente il tempo richiesto per le procedure doganali.

Da novembre il punto di attraversamento Mangara al confine tra Armenia e Turchia è di nuovo operativo, pronto ad essere aperto. Sono in corso significativi sviluppi ai confini tra l’Azerbaijan e l’Iran, in particolare ad Astara, con l’inaugurazione, lo scorso dicembre, di un nuovo ponte stradale sul fiume Astarachay e di un posto di controllo al confine. Questo progetto, avviato nei primi anni 2000, migliora la connettività tra Iran e Azerbaijan, facendo parte di un’autostrada che collega Rasht a Baku. Il nuovo ponte, il quinto valico di frontiera tra i due paesi, dovrebbe alleviare la congestione del traffico consentendo il passaggio fino a 300 camion al giorno.

I negoziati con Russia e Azerbaijan per la costruzione della ferrovia Rasht-Astara si sono concluse positivamente, con un previsto completamento entro il 2027. Il vice primo ministro russo Alexey Overchuk ha visitato Baku a gennaio per firmare una roadmap per la cooperazione economica e commerciale, evidenziando il significativo aumento del volume commerciale e del trasporto merci tra i due paesi dal 2017.

Fervono sia le relazioni internazionali che la posa dell’asfalto, e nessuno aspetta la firma della pace per cominciare a disegnare il futuro.

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«In Nagorno Karabakh non c’è nessun esodo. È in atto una pulizia etnica» (L’Espresso 11.03.24)

Il racconto dei membri dell’etnia armena che, dopo l’annessione azera, sono dovuti scappare dal territorio. «Una volta sognavo di andare a Venezia. Oggi di tornare nella mia terra»

Lacrime mute solcano il viso di Nune Kachhatryan mentre contempla l’album di fotografie che ritraggono lei, la sua famiglia, la sua terra: il Nagorno Karabakh. La donna, 55 anni, cittadina dell’Artsakh (nome armeno del Nagorno Karabakh), dopo l’aggressione da parte dell’Azerbaigian a settembre 2023, è fuggita dalla regione caucasica, come hanno fatto gli oltre 120 mila cittadini armeni che l’abitavano, e oggi vive da sfollata in una stanza di hotel a Goris. Le fotografie sono la sola cosa che è riuscita a portare con sé nella fuga. Mezzo secolo di storia privata e collettiva raccolto in diapositive che ricordano a lei, e a chi le guarda, un mondo semplice e laborioso, fiero e antico che oggi non esiste più.

 

«Mentre fuggivo a bordo di un Uaz, con i miei parenti, non riuscivo a guardare davanti a me; continuavo a voltarmi, piangevo e chiedevo perdono alla mia terra perché l’abbandonavo». Le foto che Nune mostra sono la vetrina della sua anima martoriata: «Questo è il giorno del mio matrimonio. Il mio sogno era andare in viaggio di nozze a Venezia; a quell’epoca, però, io e mio marito non potevamo permettercelo, ma ci eravamo promessi che prima o poi avremmo coronato questo desiderio. Oggi, invece, il mio sogno è poter tornare in Artsakh. Un sogno che mai più si realizzerà». Nune ha ragione: dal primo gennaio scorso l’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh ha cessato di esistere e il regime azerbaigiano, a inizio febbraio, ha lanciato l’operazione “Grande Ritorno” che prevede l’assegnazione delle case abbandonate dagli armeni alle famiglie azere. In Nagorno Karabakh, terra storicamente armena ma formalmente parte dell’Azerbaigian, a seguito del collasso dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni ’90, dilagò la violenza tra forze armene e azerbaigiane.

 

Il conflitto provocò la morte di oltre 30 mila persone e vide la vittoria finale degli armeni. Dopo vent’anni di pace, il 27 settembre 2020, le truppe azere hanno attaccato l’autoproclamata Repubblica armena, prendendo il controllo di parte della regione; poi, in violazione agli accordi di cessate il fuoco, dal dicembre 2022 il Karabakh è stato isolato impedendo il transito di uomini e aiuti umanitari. E, dopo nove mesi di assedio, l’esecutivo azero ha lanciato l’offensiva finale che ha costretto all’esodo i cittadini armeni e che è stata definita un’operazione di pulizia etnica dal Parlamento europeo. Il presidente azero Ilham Aliyev, che il 7 febbraio ha vinto le elezioni con il 92% delle preferenze e che è al potere da oltre vent’anni, per riannettere il Nagorno Karabakh ha sfruttato gli effetti collaterali della guerra in Ucraina. A seguito dell’aggressione della Russia, infatti, in Europa si è molto dibattuto su come ottenere l’indipendenza energetica da Mosca: in Baku si è trovato un sodale partner per il rifornimento di gas e idrocarburi. L’escalation militare di settembre, con cui è stata decretata la fine dell’esistenza della Repubblica dell’Artsakh e della presenza armena nella regione, non ha portato però alla fine delle ostilità nel Caucaso meridionale, dove la tensione si sta nuovamente acuendo.

 

Il 13 febbraio scorso, quattro soldati armeni sono rimasti uccisi a seguito di un attacco da parte delle forze azere lungo il confine, i colloqui tra le due ex Repubbliche sovietiche si sono arenati e la leadershipazerbaigiana non fa mistero del suo interesse nei confronti della provincia armena di Syunik per poter così collegare l’exclave azera del Nachicevan con il resto del Paese. Intanto i profughi dell’Artsakh, come un popolo del vento, vivono in alloggi di fortuna e restano sospesi in un limbo, senza più avere un passato e senza sapere se una nuova guerra li travolgerà nel prossimo futuro. Così Nune, dopo avere mostrato le sue fotografie, sprofonda in un silenzio inconsolabile; negli occhi le si legge un misto di ricordi e rassegnazione. Prima di salutare, però, prende un piccolo sacchetto dalla valigia con cui è scappata e con devozione sacrale ne mostra il contenuto. «Questa è una zolla che ho preso dal mio cortile di casa prima di andarmene. L’ho presa per averla sempre con me e perché voglio essere sepolta con questa terra; in modo che, almeno da morta, io possa riposare in pace nella terra del mio Artsakh».

 

La replica dell’ambasciatore della Repubblica dell’Azerbaigian Rashad Aslanov
«Mi preme sottolineare che non esiste, in Azerbaigian, una regione denominata Nagorno Karabakh, bensì esiste la regione economica del Garabagh dell’Azerbaigian. L’Azerbaigian ha recentemente ripristinato la sua integrità territoriale e sovranità, nel quadro del diritto internazionale e delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 1993. Per quasi 30 anni i nostri territori sono stati occupati illegalmente dalle forze armate dell’Armenia, che hanno causato distruzione, rovine, morti, devastazione e oltraggiato il nostro patrimonio storico e religioso. Le forze di occupazione hanno cosparso di mine i nostri territori occupati, causando feriti e uccisioni, che proseguono ancora oggi. Ciò nonostante, con la liberazione dei nostri territori, l’Azerbaigian ha dichiarato con le parole e con i fatti di voler avviare una nuova convivenza pacifica con i residenti armeni.

Questi stessi hanno deciso di abbandonare le nostre terre autonomamente, diffondendo una falsa narrativa di odio e di esodo forzato. Oggi questi residenti sono liberi di fare ritorno in qualsiasi momento, a differenza dei circa 300.000 azerbaigiani, che ancora oggi non possono tornare alle proprie case, nell’attuale Armenia. Gli anni di occupazione sono stati caratterizzati da dolore indicibile per il mio popolo: circa 1 milione di azerbaigiani, tra profughi e rifugiati, non hanno potuto per decenni fare ritorno alle proprie case, neppure per visitare le tombe dei familiari. Sono questi stessi azerbaigiani e i loro discendenti che oggi stanno facendo il grande ritorno nel Garabagh, nelle proprie case.

Vorrei ricordare anche che non è stato l’Azerbaigian a violare gli impegni del cessate il fuoco del 2020: per quasi 3 anni, dopo la firma della Dichiarazione tripartita da parte dei leader di Azerbaigian, Armenia e Federazione Russa, l’Armenia non ha adempiuto agli impegni presi e ha preservato le sue forze armate, 15.000 unità, all’interno dei nostri territori, ha provveduto alla loro rotazione, ha depredato le nostre terre di minerali, e ha continuato a cospargere nuove mine.

L’Azerbaigian in questi anni ha vissuto momenti terribili, basti citare quanto avvenuto a Khojaly nella notte tra il 25 e il 26 febbraio del 1992, e mi spiace che l’articolo non ne faccia menzione: sarebbe corretto raccogliere le testimonianze degli azerbaigiani che hanno sofferto 30 anni di occupazione e hanno vissuto il terrore armeno.

Ma aggi siamo di fronte ad un’occasione storica, la pace nel Caucaso meridionale è davvero vicina, e tutta la comunità internazionale è chiamata a collaborare per questo obiettivo».