Centenario del genocidio armeno, sondaggio: solo il 9 per cento dei turchi ci crede. «Non chiediamo scusa». Tempi.it

Leone Grotti

Un altro 12 per cento ha affermato che il governo dovrebbe esprimere rincrescimento ma senza chiedere scusa. Per il 21 per cento, infine, la Turchia non dovrebbe fare nulla

Secondo un sondaggio pubblicato lunedì in Turchia meno del 10 per cento dei turchi crede che il governo debba riconoscere il genocidio armeno. Quest’anno si celebra il centenario dell’uccisione, a partire dal 1915, di almeno un milione e mezzo di armeni per mano dei turchi ottomani.

SOLO IL 9 PER CENTO. Solo per il 9,1 per cento della popolazione si è trattato di genocidio e solo un altro 9,1 per cento di turchi crede che il governo debba chiedere scusa, pur senza ammettere il genocidio. L’anno scorso, per la prima volta, il presidente Recep Tayyip Erdogan ha espresso le sue condoglianze per i massacri, ma non ha parlato di genocidio, che in Turchia viene ancora negato.

NON CHIEDERE SCUSA. Il sondaggio del Centro per gli studi economici e di politica estera, con base a Istanbul, è stato realizzato tra novembre e dicembre intervistando 1.508 persone. Il 23 per cento ha dichiarato che non tutte le vittime erano armene e che quindi il governo dovrebbe dispiacersi per tutti i cittadini ottomani, non appena gli armeni. Un altro 12 per cento ha affermato che il governo dovrebbe esprimere rincrescimento ma senza chiedere scusa. Per il 21 per cento, infine, la Turchia non dovrebbe fare nulla.

MARTIRI E SANTI. In occasione del centenario, il patriarca armeno-ortodosso Karekin II ha scritto in unalettera enciclica che «il 23 aprile 2015, durante la Divina Liturgia, la nostra Santa Chiesa offrirà un servizio speciale per canonizzare i suoi figli e figlie che hanno accettato il martirio come santi “per la fede e per la patria”, e proclamerà il 24 aprile come Giornata del ricordo dei Santi Martiri del Genocidio».

Armenia, i confini inquieti del gigante russo. Un soldato russo ha ucciso sei membri di una famiglia armena, scatenando giorni di protesta. Linkiesta

Giovanni Zagni

 

Giovedì 15 gennaio, per il terzo giorno consecutivo, migliaia di persone hanno partecipato a proteste in Armenia, chiedendo che la Russia consegni alle autorità del Paese un soldato accusato di aver ucciso sei membri della stessa famiglia. Le manifestazioni mettono alla prova gli stretti rapporti tra il Paese caucasico e l’ingombrante vicino russo, mentre la classe politica locale invita a non strumentalizzare l’omicidio.

Negli scontri di giovedì nella città di Gyumri, la seconda città dell’Armenia, almeno quattordici persone tra poliziotti e manifestanti sono state ferite. In mattinata, centinaia di persone avevano partecipato a Gyumri ai funerali della famiglia, il cui unico sopravvissuto all’attacco, un bambino di sei mesi, è ancora in ospedale.

 

Gli scontri si sono verificati alcune ore dopo, mentre una folla stimata da AP in circa duemila persone si stava dirigendo verso il consolato russo. Altre migliaia di persone si sono radunate davanti all’ambasciata russa nella capitale, Yerevan.

Secondo le prime ricostruzioni, nelle prime ore di lunedì 12 gennaio il soldato semplice Valerij Permyakov, originario della città siberiana di Čita, ha lasciato senza permesso la base russa numero 102 – dove era in servizio da meno di due mesi – portando con sé un’arma automatica e due caricatori. Arrivato a Gyumri, ha ucciso nella loro casa sei membri della famiglia Avetisyan: due nonni, il loro figlio e la moglie, la loro figlia e la nipote Hasmik di due anni. Un bambino di sei mesi, Seryozha, è l’unico sopravvissuto, ricoverato in gravi condizioni dopo aver subito ferite da taglio.

Il soldato sarebbe poi stato arrestato da guardie di confine russe mentre provava a raggiungere la Turchia e riportato alla base di Gyumri, dove si trova tuttora. Gli stivali di Permyakov sarebbero stati trovati sulla scena e l’uomo avrebbe confessato. Non sono chiare le motivazioni del suo gesto: la polizia armena ha detto che Permyakov è entrato in casa Avetisyan – che dista circa due chilometri dalla base – «per caso» e che molto probabilmente non la conosceva, mentre Russia Today chiama gli omicidi «un delitto passionale», e fonti ufficiali armene hanno parlato di problemi mentali del soldato.

Giovedì il procuratore generale armeno Gevorg Kostanian ha promesso che il soldato sarà processato in Armenia e ha chiesto alla Russia di consegnare il militare, ma si sta delineando una disputa su chi abbia la giurisdizione sul caso.

Il vicino ingombrante

L’elemento alla base delle proteste di questi giorni è il fatto che l’autore del crimine non sia un cittadino ma un soldato russo. L’influsso della vicina Federazione Russa è particolarmente forte in Armenia, che continua a ospitarne basi militari – unico tra i paesi caucasici, dopo l’abbandono di quelle in Georgia (2006) e di una stazione radar in Azerbaigian (2013), e uno dei soli quattro rimasti insieme a Bielorussia, Tagikistan e Kyrgyzistan.

Il piccolo Paese caucasico, dopo la fine dell’Unione Sovietica, ha portato avanti una precaria strategia di equilibrio tra le grandi potenze geopolitiche, l’Unione Europea, la Russia e gli Stati Uniti. Dopo negoziati durati tre anni – e subito dopo una visita del presidente armeno a Mosca – a fine 2013 l’Armenia si è tirata indietro da un accordo con l’Unione Europea per scegliere invece, con un repentino cambiamento, l’adesione all’Unione Doganale Eurasiatica.

L’Unione Doganale è un organismo sovranazionale dominato dalla Russia (ne fanno parte anche Kazakistan, Bielorussia e Kyrgyzistan) e rafforzato negli ultimi anni. La decisione è una prova della capacità di ingerenza di Mosca nella politica del paese, dove secondo studi recenti il 40 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà e la ricchezza è concentrata nelle mani di pochissime famiglie. Allo stesso tempo, l’Armenia dipende dalla Russia per questioni energetiche ed economiche, e molti armeni vivono delle rimesse della comunità espatriata nel vicino russo. L’allineamento con la Russia è messa apertamente in discussione solo da poche formazioni politiche di orientamento liberale e filo-occidentale, tra cui il partito Heritage-Zharangutyun, con soli quattro seggi all’Assemblea nazionale.

La base 102, stabilita nel 1995 e non lontano dal confine turco, ospita circa cinquemila soldati delle forze di terra e dell’aviazione. Nel 2010, Armenia e Russia hanno firmato un accordo che prolunga i permessi per la base militare fino al 2044: l’opposizione alla presenza militare russa appare molto ridotta nell’establishment politico armeno e esponenti di tutti i partiti si sono affrettati a buttare acqua sul fuoco dopo l’omicidio di lunedì, dicendo che il crimine deve essere condannato senza strumentalizzazioni e senza tener conto di questioni di politica internazionale. Il sito di informazione in lingua inglese ArmeniaNow ha scritto che «le richieste di un ritiro della base trovano voce solo a livello dei social media».

Storicamente, la Russia è la forza regionale che ha svolto un ruolo di “protettore” dell’Armenia, circondata da Paesi spesso ostili. L’Armenia, ad esempio, non ha rapporti diplomatici con il vicino occidentale, la Turchia, che accusa di continuare a negare i massacri della popolazione armena perpetrati dall’Impero Ottomano durante la Prima guerra mondiale. I rapporti sono pessimi anche con l’Azerbaigian, ai confini orientali.

La questione che maggiormente divise i due paesi è quella del Nagorno-Karabakh, una zona contesa e oggi di fatto indipendente in cui si è combattuta una guerra tra Azerbaigian e Armenia fino al 1994. Il fragile cessate il fuoco è messo a rischio da sporadici combattimenti: a novembre scorso è avvenuto l’episodio più grave da anni, l’abbattimento di un elicottero militare coinvolto in esercitazioni armeno-karabakhe.

A riprova della costante tensione tra i paesi vicini, martedì 12 gennaio il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev si è lasciato andare a una serie di tweet anti-armeni dal suo profilo ufficiale, tra cui un secco: «L’Armenia è un paese povero e impotente».

 

I confini armeni sono protetti dalla Russia in base agli accordi militari tra i due Paesi. L’Armenia si affida alle armi di Mosca per garantire la sua sicurezza in una delle regioni più instabili del mondo – ma gli episodi come quello di Gyumri ricordano che quella protezione ha i suoi costi.

La Settimana di Preghiera per l’Unità dei cristiani torna ad animare la Diocesi di Senigallia. Viveresenigalia.it

L’appuntamento con la Settimana di Preghiera per l’Unità dei cristiani torna ad animare anche la diocesi di Senigallia. Il tema di quest’anno è tratto dal Vangelo di Giovanni “Dammi un po’ d’acqua da bere” (Gv 4, 7).

Nei giorni dal 18 al 25 gennaio 2015, in ogni parte del mondo, cattolici, protestanti, anglicani, ortodossi pregheranno e si confronteranno sull’impegnativo tema dell’unità tra tutti i credenti in Cristo, specialmente in tempi di grandi paure e sfide per le tante confessioni cristiane.

 

A Senigallia, in questa occasione, verrà data attenzione particolare a due realtà cristiane poco note: la Chiesa ortodossa rumena che vive nel nostro Paese e la Chiesa apostolica armena, una delle più antiche della cristianità e duramente provata da terribili vicende storiche. Ci sarà spazio anche per la cultura grazie alla proiezione del film sul genocidio degli Armeni (di cui ricordiamo quest’anno il centenario) ‘La masseria delle allodole’, dei fratelli Taviani.

 

 

Sabato 17 gennaio – ore 18.15 – Chiesa del Porto
Testimonianze da una piccola, antica chiesa: la chiesa apostolica armena
Incontro con  Vahè Vahunì, armeno, a 100 anni dal Genocidio degli Armeni

 

Giovedì 22 gennaio – ore 21.15 – Chiesa del Porto
PREGHIERA ECUMENICA
con il Vescovo Giuseppe e padre Constantin Cornis, parroco della Chiesa Ortodossa Rumena di Pesaro.
Alle ore 19.00 di giovedì 22 gennaio nella chiesa del Porto (e in diretta su radio Duomo Senigallia inBlu)
incontro – intervista con padre Constantin su ‘La Chiesa ortodossa rumena in Italia’

 

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Al Cinema ‘Gabbiano’ di Senigallia, un film dedicato all’Armenia
Mercoledì 28 gennaio alle ore 21 verrà proiettato il film:
La masseria delle allodole, di Paolo e Vittorio Taviani (2007), basato sul romanzo omonimo di Antonia Arslan  e che ricorda il genocidio degli Armeni.
Ingresso gratuito.

 

Dalla Diocesi di Senigallia

 

Armenia, a Gyumri assalto contro il Consolato Generale della Federazione Russa. La Voce della Russia

Nella notte di giovedì un gruppo di manifestanti inferociti ha cercato di sfondare il cordone di polizia intorno all’edificio del Consolato Generale della Russia di Gyumri, la seconda più grande città armena, situata nel nord del Paese.

I dimostranti chiedevano che il militare russo Valery Permyakov venisse consegnato alla giustizia armena perchè sospettato di aver ucciso 6 persone del posto.

I manifestanti hanno lanciato pietre e bottiglie contro la polizia, che ha risposto con i gas lacrimogeni, facendo così arretrare la folla imbufalita. Nei pressi delle mura dell’edificio del Consolato Generale ci sono state schermaglie tra i poliziotti ed alcuni dimostranti. A seguito degli scontro oltre 10 persone sono rimaste ferite.

Armenia: tensione dopo strage in una famiglia, soldato russo presunto killer

Euronews.it 15.01.2015

 

Scontri tra manifestanti e poliziotti in Armenia davanti al consolato russo, a Gumri. Centinaia di persone si erano riunite per chiedere il processo di un militare russo di stanza nella seconda città armena, arrestato martedì alla frontiera con la Turchia.

L’uomo è sospettato di aver ucciso sei persone della stessa famiglia. Ma il soldato non può essere processato in Armenia visto che la base – che aveva disertato – si trova sotto giurisdizione russa.

Giovedì, nella capitale Erevan, di fronte all’ambasciata russa, centinaia di persone hanno manifestato con lo stesso obiettivo: ottenere il processo di Valeri Permiakov in Armenia.

Lunedì scorso Permiakov avrebbe compiuto la strage a colpi di kalashnikov, uccidendo anche un bambino di due anni e ferendo gravemente un neonato. Ai funerali, a Gumri,hanno assistito migliaia di persone tra cui membri del governo.

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TURCHIA. Sondaggio: “Quello degli armeni non fu genocidio”. Nena-news

A pochi mesi dalla commemorazione del centenario del massacro, Ankara appare ancora molto lontana dal riconoscimento delle sue responsabilità

Una “marcia della morte” nel deserto siriano

della redazione

Roma, 15 gennaio 2015, Nena News – Il governo turco non solo non dovrebbe scusarsi per quanto avvenuto nel 2015, ma non dovrebbe neppure riconoscerlo come “massacro sistematico”, perché quello degli armeni non fu genocidio. E’ quanto si evince da un sondaggio condotto tra novembre e dicembre scorsi dal Centro per gli Studi di Economia e di Politica Estera (EDAM) su un campione di 1.508 cittadini turchi, i cui risultati sono stati diffusi martedì scorso in vista della commemorazione del centenario del genocidio armeno il prossimo 24 aprile.

Il sondaggio ha rivelato che solo 9.1 percento dei soggetti intervistati crede che Ankara dovrebbe ammettere di aver perpetrato un genocidio e scusarsi per quelli che comunemente le autorità turche definiscono “i fatti del 1915″, e cioè per il rastrellamento, la deportazione e l’uccisione di circa 1.2 milioni di cittadini armeni dell’allora Impero Ottomano. Un altro 9.1 percento crede invece che il governo debba scusarsi senza però menzionare la parola “genocidio”.

Sempre secondo i risultati diffusi, il 23 percento degli intervistati sostiene che non tutti quelli che morirono nel 1915 furono armeni – secondo gli storici, durante la prima guerra mondiale i “Giovani Turchi” eliminarono anche un gran numero di greci e assiri – e per questo Ankara dovrebbe esprimere il proprio rammarico nei confronti di “tutti i cittadini ottomani” che perirono in quel periodo. Il dodici percento degli interrogati, invece, sostiene che le autorità dovrebbero esprimere il proprio cordoglio per gli armeni morti nel 1915 senza però scusarsi. Il 21 percento, infine, pensa che la Turchia non debba prendere alcuna posizione rilevante sul genocidio armeno.

In vista delle commemorazioni di aprile, le autorità turche si troveranno ad affrontare di nuovo la questione del riconoscimento del genocidio armeno: l’anno scorso l’allora primo ministro Recep Tayyip Erdogan fece una sortita straordinaria, porgendo per la prima volta le condoglianze alle vittime per i massacri di quegli anni; una mossa che il presidente della repubblica armena Serzh Sarkisian non ritenne soddisfacente, dal momento che “Ankara continua a negare di aver perpetrato il massacro sistematico degli armeni e si rifiuta di chiamarlo genocidio”.

Secondo la storiografia e la narrativa turche, circa 500 mila armeni – e altrettanti turchi dall’altra parte della barricata – morirono di fame o combattendo al fianco degli invasori russi durante la prima guerra mondiale. Le foto e le testimonianze delle “marce della morte” invece, in cui centinaia di migliaia di armeni perirono guardate a vista da guardie turche durante i trasferimenti forzati verso le regioni orientali e desertiche dell’allora Impero Ottomano, raccontano una versione diversa. Nena News

La Civiltà Cattolica e il genocidio degli armeni: 7 volumi di documenti Lastampa.it /Vaticainsider

Armeni in Turchia

Una tavola rotonda della rivista dei Gesuiti per non dimenticare, a un secolo di distanza, una strage ancora negata dal governo turco

Marco Tosatti
Roma

 

Sabato 17 gennaio nella sede della Civiltà Cattolica, alle 18, si svolgerà una tavola rotonda intitolata «1915-2015: a 100 anni dal genocidio armeno», moderata da padre Francesco Occhetta sj e a cui parteciperà anche Georges Ruyssens, docente al Pontificio Istituto biblico. Georges Ruyssens è probabilmente uno dei più grandi specialisti del genocidio armeno, compiuto dai «Giovani turchi», e ancora adesso oggetto di una tenace opera di negazionismo da parte del governo di Ankara, a dispetto dell’opinione sicuramente maggioritaria degli storici, alcuni dei quali anche turchi, sulla sua evidenza. Georges Ruyssens ha pubblicato i documenti sul genocidio armeno conservati in Vaticano. Scrive sul suo blog padre Occhetta: «Si tratta di un’opera che possiamo definire colossale. Anni di ricerca silenziosa negli archivi vaticani. La questione armena respira adesso con un polmone della storia rimasto inedito».

 

Lo scopo dei volumi che Georges Ruyssen sta pubblicando è quello di rendere accessibili le fonti di parte ecclesiastica per uno studio sereno degli eventi definiti dalla comunità armena il «Grande Male». La serie è intitolata «La questione armena», e raccoglie in sette volumi i documenti diplomatici conservati nell’Archivio segreto vaticano (Asv), nell’Archivio della Congregazione per le Chiese orientali (Aco) e nell’Archivio storico della Segreteria di Stato (Ss.Rr.Ss.).

 

È veramente un’opera di grandissima ampiezza. I volumi vanno infatti dall’epoca dei massacri hamidiani (1894-1896), così chiamati dal sultano Abdul Hamid, il «sultano rosso», alla ribellione e ai massacri di Van (1908), ai massacri di Adana (1909), e al genocidio armeno (1915); proseguono poi con la rioccupazione del Caucaso dai turchi dopo il ritiro delle truppe russe (1918), l’evacuazione della Cilicia dalla Francia (febbraio, marzo 1922) e la politica kemalista del panturchismo che ha portato all’esodo massivo dei cristiani della Turchia (anni 1920 in poi), per giungere agli eventi luttuosi di Smirne, con il massacro dei greci (settembre 1922). Infine si dà conto dei tentativi per risolvere la questione armena nel seno della Società delle Nazioni (1923-1925). Tutto questo vissuto, raccontato attraverso la lente degli informatori e della diplomazia della Santa Sede.

 

Citiamo per esempio quello che scriveva un cappuccino: «Di fatti in quella stessa notte [cioè il 23 giugno 1915] si procedette ad arresti in massa; il dì seguente si leggeva su tutti i muri, un ordine, che dava agli armeni cinque giorni di tempo, per regolare i loro affari e mettersi nelle mani del governo, uomini, donne, fanciulli ammalati, decrepiti, sacerdoti e suore cattoliche, senza eccezione, per essere internati, in luogo ignoto. Un cordone militare impediva ogni comunicazione col loro quartiere. L’indomani già cominciava la deportazione. Pochissimi poterono non regolare, ma disastrosamente liquidare il loro avere. Si sperò un momento qualche favore pei cattolici, come, (dicessi) a Trebizonda, vana speranza. Il 28 e 29 (ultimi giorni accordati) si spiegò una fortissima propaganda musulmana, cambiando così la base dell’azione. L’esempio di alcuni ricchi fu seguito, e al momento che scrivo, parecchie centinaia di armeni e cinque famiglie cattoliche fecero già la loro domanda d’essere ammessi all’islam. Voci di massacri, vere o sparse ad arte, accentuano questo movimento. Le donne sono quelle che resistono di più. S.E. capirà che non posso entrare in dettagli né emettere appreziazioni implorando il suo aiuto, quello della Santa Sede, delle potenze alleate alla Turchia». (Lettera del Cappuccino Michele Liebl [da Capodistria], missionario austriaco a Samsun, al delegato apostolico Dolci del 30 giugno 1915).

E quello che scriveva monsignor Scapinelli, nunzio apostolico a Vienna, al segretario di Stato, il cardinale Gasparri: «La parola “deportazione” significa: 1) la separazione assoluta dei mariti dalle loro mogli, e delle madri dai loro fanciulli; 2) minacce e lusinghe di emissari turchi, affine di costringere gli uni e gli altri ad apostatare. Gli apostati poi – e ve ne sono molti – sono immediatamente spediti in località esclusivamente musulmane, da dove non si dà più ritorno. 3) Ratto di donne, secondo che per le loro qualità fisiche convengono alla vendita nei harem, o a contentare le basse passioni dei notabili o dei custodi; 4) le piccole fanciulle di diverse località si destinano in qualità di piccole serve di case turche che hanno poi l’obbligo di dar loro la rispettiva educazione musulmana. Ve ne sono giunte perfino a Costantinopoli. Altrove si circondino tutti i fanciulli cristiani, per internarli poi in case turche. […] i superstiti sono costretti ad abbandonare tutto il loro avere, case, possessioni, denaro, e forzati a partire per l’interno, accompagnati per lo più da gendarmi brutali, migrano di villaggio in villaggio, di pianura in pianura, senza tregua, sempre verso destinazione ignota. Moralmente abbattuti pei dolori e le separazioni subiti, il loro organismo non è più atto a resistere alle intemperie e alle privazioni, cosicché ne muoiono molti per istrada. Altri vi sono addirittura massacrati. Così, su conferma, la notizia di un massacro generale di armeni a Van e Bitlis; poi quello di Mardin, dove fu massacrato il Vescovo cattolico insieme con 700 dei suoi fedeli. Di Angora riferisce il testimone protestante sopraccitato, che tutta la popolazione maschile armena, al di sopra di 10 anni, sia sterminata per via di un massacro. Così si potrebbero citare tanti altri esempi. Il fatto seguente, riferito da due testimoni turchi intervistati dal relatore, serva a rilevare le barbarie cui soggiacciono i poveri diportati. In una chiesa abbandonata, sulla via d’Angora, erano rinchiusi e custoditi alla baionetta da 150-200 armeni diportati, fra cui un prete cattolico e due suore».

 

È passato un secolo da quei fatti, che segnarono la fine di una delle comunità cristiane più numerose e attive, insieme agli assiri e a greci in quella regione. E vediamo che ancora, di nuovo, altri cristiani vivono una stagione di persecuzioni proprio in quegli stessi luoghi.

Wegner, il Lawrence degli armeni. Corriere della Sera

Si oppose al genocidio (che compie un secolo) e cercò di risvegliare
le menti europee. Alla Biblioteca Marciana di Venezia una mostra celebra l’eroe

di Gian Antonio Stella

«Mai come in questi giorni ho sentito vicino a me distinto il frusciare della morte, il suo silenzio, il suo freddo sorriso, e spesso mi chiedo: posso io ancora vivere? Ho ancora il diritto di respirare, di fare progetti per anni futuri così fantasticamente irreali, quando attorno a me c’è un abisso di occhi di morti?» Era disperato Armin Wegner, quel 29 marzo 1916 in cui scrisse alla madre da Bagdad quella lettera in cui raccontava l’orrore per il genocidio armeno. Il mondo intero gli era caduto addosso. Solo pochi mesi prima, il 2 novembre, «sotto il caldo sole d’autunno» a Istanbul, aveva travolto i genitori con l’incontenibile entusiasmo per l’avventura che sognava di vivere come infermiere tra le truppe germaniche alleate dei turchi contro l’Impero russo. Una eccitazione dannunziana: «Dormirò con i soldati turchi e mi ciberò di rifiuti come un ratto (…). Ho il remo della mia vita in mano». Era un giovanotto sulla trentina, Armin. Bello, rampollo di una famiglia di rigide tradizioni prussiane, amato dalle donne, fascinoso con quella divisa della Croce Rossa tedesca e la kefiah bianca che gli dava un’aria esotica alla Lawrence d’Arabia. Quella feroce pulizia etnica, compiuta sotto i suoi occhi, lo sconvolse.

E lo spinse a diventare, con le sue lettere, le sue denunce, le sue foto sconvolgenti di deportazioni, marce nel deserto, scheletri di bimbi fatti morire di fame sotto le mura di Aleppo, foto proibite «pena la morte», il principale testimone del genocidio. Rientrato in patria, nel gennaio 1919 pubblicò La via senza ritorno e tentò di scuotere lo stesso presidente Usa Woodrow Wilson scrivendogli sul «Berliner Tageblatt» una possente lettera aperta dove, facendosi intendere pure dai compatrioti tedeschi distratti verso i massacri commessi dall’alleato turco, invocava una patria per quei cristiani sradicati dall’Anatolia «perché a nessun popolo della terra è mai toccata un’ingiustizia quale quella toccata agli Armeni»: «I villaggi furono bruciati, le case saccheggiate, le chiese distrutte o trasformate in moschee, il bestiame rubato; si tolse loro l’asino e il carro, si strappò il pane dalle mani, i bambini dalle braccia, l’oro dai capelli e dalla bocca. Funzionari, ufficiali, soldati e pastori, gareggiando nel loro selvaggio delirio di sangue, trascinavano fuori dalle scuole ragazze orfane per il loro bestiale piacere…».

Il tutto senza che l’Europa cristiana, a partire dalla «sua» Germania avesse un sussulto: «Signor presidente, salvi Lei l’onore dell’Europa!» Era un uomo libero. Così libero, come scrive Anna Maria Samuelli nel libro Armin T. Wegner e gli armeni in Anatolia, 1915 (Guerini e Associati, 1996), che visitando Mosca nel 1927 finì per mettersi contro sia i comunisti, che secondo lui avevano tradito ogni ideale socialista, sia i nazisti, che lo marchiarono come un «intellettuale bolscevico, traditore dei valori nazionali tedeschi». Libero e tedesco, tedesco e libero. Lo dimostrano una struggente mostra fotografica appena aperta alla Biblioteca Marciana di Venezia, i riconoscimenti ricevuti come «Giusto» da armeni ed ebrei, il libro che uscirà verso la fine di aprile da Mondadori scritto da Gabriele Nissim, lo scrittore presidente di «Gariwo, la foresta dei Giusti», che ricerca in tutto il mondo i Giusti di tutti i genocidi.

Aveva fegato, Armin Wegner. Al punto che, dopo la serrata antiebraica del 1933, osò scrivere una lettera a Hitler, recapitata alla Casa Bruna di Monaco (la ricevuta fu firmata da Martin Bormann) supplicandolo di proteggere la minoranza ebraica: «Se la Germania è diventata grande nel mondo, a ciò hanno contribuito anche gli ebrei». E giù un elenco, che iniziava con Albert Einstein e proseguiva con altri grandi ebrei tedeschi, imprenditori e intellettuali e olimpionici e giuristi e ricordava i dodicimila ebrei morti in guerra: come poteva la Germania «togliere ai loro genitori, figli, fratelli, nipoti, alle loro donne e sorelle ciò che si sono meritati nel corso di generazioni, il diritto a una patria e un focolare?» Montò il sangue alla testa, ai nazisti, nel leggere quella lettera che pareva irridere al Führer («Lei è mal consigliato!») e già prevedeva tutto: «Con la tenacità che ha permesso a questo popolo di diventare antico, gli ebrei riusciranno a superare anche questo pericolo — ma la vergogna e la sciagura che a causa di ciò si abbatterà sulla Germania non saranno dimenticate per lungo tempo! Infatti, su chi cadrà un giorno lo stesso colpo che ora si vuole assestare agli ebrei se non su noi stessi?»

Conclusione: «Non come amico degli ebrei, ma come amico dei tedeschi, come rampollo di una famiglia prussiana in questi giorni, quando tutti rimangono muti, io non voglio tacere più a lungo di fronte ai pericoli che incombono sulla Germania». Fino all’appello disperato: «Protegga la Germania proteggendo gli ebrei!». Fu sbattuto in galera, Armin Wegner, per quella lettera straordinaria. Pestato. Frustato a sangue. Torturato. Trasferito in un lager e poi un altro e un altro ancora. Costretto infine ad andarsene in esilio. Inghilterra, Palestina con la prima moglie ebrea Lola Landau e infine a Positano, Stromboli e Roma dove sarebbe morto quasi sconosciuto nel 1978: «La Germania mi ha preso tutto: la mia casa, il mio successo, la mia libertà, il mio lavoro, i miei amici, la mia casa natale e tutto quanto avevo di più caro. In ultimo la Germania mi ha tolto mia moglie; e questo è il paese che io continuo ad amare, nonostante tutto!». Non tornò più a vivere nella patria che l’aveva tradito, Wegner. Mai più. Neppure dopo il 1965 quando, nel cinquantenario del genocidio armeno, la nuova Germania di Ludwig Erhard e Willy Brandt lo riscoprì e gli tributò una serie di onorificenze. Meno importanti, per lui, di quelle ricevute dagli armeni e dagli ebrei, che riconoscono in lui l’esempio di un uomo che salvò un pezzetto dell’onore tedesco.

ARMENI, la strage vista dagli ebrei. Avvenire

Antonia Arslan

Il libro: calpestati e dimenticati
Nel 2015 ricorre il centenario del grande genocidio armeno. Per l’occasione la casa editrice Giuntina ha pensato di pubblicare un libro con quattro testimonianze di ebrei sconvolti, con le loro famiglie e amici, dall’essere stati testimoni della furia omicida e distruttrice dei turchi. Si chiama Pro Armenia. Voci ebraiche sul genocidio armeno (pagine 140, euro 12). Curato da Fulvio Cortese e Francesco Berti, con le traduzioni di Rosanella Volponi, propone interessanti scritti inediti degli anni immediatamente seguenti ai fatti. Pubblichiamo qui ampi stralci della prefazione di Antonia Arslan (nella foto). Quattro testimonianze sul e dal genocidio che in qualche modo ne ricostruiscono la storia, ne chiariscono le peculiarità e ne descrivono gli orrori. Una amara denuncia delle responsabilità, resa col coraggio di chi non rimane in silenzio davanti all’umanità calpestata. Ma soprattutto l’indignazione di chi vede il mondo restare inerme se non indifferente davanti a un crimine tanto efferato.

In ogni testimonianza ritornano, con infallibile puntualità, le stesse tragiche informazioni. E sono informazioni di prima mano, contemporanee allo svolgersi dei fatti. Come in una scena di film, girata più volte da differenti angoli di prospettiva, ma con gli stessi attori che recitano le stesse battute, da ognuno ritroviamo descritta la tecnica delle stragi degli armeni: l’uccisione degli uomini, la deportazione verso il nulla di donne, vecchi e bambini, gli assalti alle carovane, le violenze e gli orrori, i gendarmi avidi e crudeli, l’apocalisse del ferro e del fuoco. Balza agli occhi un’osservazione immediata: a tutti loro appare chiara, con palmare evidenza, la certezza della premeditazione, cioè la volontà precisa, da parte del gruppo di Giovani Turchi a capo del governo ottomano, di pianificare con estrema accuratezza lo svolgersi degli eventi.

Attraverso le tante storie raccontate dai testimoni facenti parte di un popolo, quello ebraico, ahimè più che esperto nel riconoscere i sintomi di pogrom e persecuzioni, il lettore rivive con vivida immediatezza i fatti che condussero all’eliminazione degli armeni dalle loro sedi ancestrali, e la brutalità efficiente dei membri del partito e delle bande di irregolari. Questi si servirono per i loro scopi di ogni astuzia e ogni mezzo possibile, disarmando i soldati di origine armena, annientando gli sporadici tentativi di resistenza, costringendo le donne alle marce della morte, col risultato finale di «estirpare» dalle radici la struttura sociale, culturale e religiosa del popolo armeno.

«In tutta questa guerra di orrori – scrive per esempio Lewis Einstein – questo [l’annientamento degli armeni] deve rimanere l’orrore supremo. Niente ha eguagliato la distruzione, silenziosamente pianificata, di un popolo, né i burocrati tedeschi possono facilmente sfuggire alla loro terribile parte di responsabilità per la loro acquiescenza in questo crimine. Il popolo armeno in Asia Minore è stato virtualmente distrutto».

È la stessa conclusione a cui giunge, con forza definitiva, Aaron Aaronsohn, nel suo appello Pro Armenia: «I massacri armeni sono frutto dell’azione pianificata con cura dai turchi, e i tedeschi certamente dovranno condividere per sempre con loro l’infamia di questa azione ». L’accusa verso i tedeschi in tutte queste testimonianze corre parallela a quella verso i turchi. Nessuno sembra aver dubbi sul fatto che le alte sfere dell’impero tedesco, uomini politici, diplomatici, militari, siano state complici dell’immenso delitto che è stato compiuto contro il popolo armeno: se non attivi partecipanti, perlomeno passivi spettatori di un’infamia contro la quale sarebbero potuti intervenire, vista la loro massiccia influenza sul governo turco – e non lo fecero. Anzi, come nel caso dell’ambasciatore a Costantinopoli Von Wangenheim e di altri tedeschi in posizioni importanti, arrivarono a giustificare i massacri e a favorire una politica di impassibile indifferenza.

Particolarmente interessante è il testo di Aaron Aaronsohn, palpitante testimonianza diretta del capo del famoso gruppo Nili, composto da alcuni, pochi, giovani ebrei, figli di famiglie emigrate dalla Romania verso la Terra Promessa alla fine dell’Ottocento, che dalla loro postazione in Palestina, dunque all’interno dell’impero ottomano, decisero di fornire preziose informazioni strategiche all’intelligence inglese. L’aver assistito impotenti al passaggio delle carovane degli armeni avviati allo sterminio, e la sensazione che dopo gli armeni lo stesso destino poteva toccare agli ebrei, influì potentemente sulla loro decisione.

Le informazioni fornite da Aaron, da sua sorella Sarah e dagli altri membri del gruppo furono preziose per l’esito della guerra in Siria e in Palestina, ma fu proprio la tragedia armena all’origine del loro appassionato impegno politico, come traspare chiaramente dai loro scritti dell’epoca, realistici, efficaci, ricchissimi di dati e di informazioni. Vi si percepisce non solo l’accuratezza emotiva dei testimoni oculari, ma anche l’empatia compassionevole e la fraternità nel dolore verso le disgraziate vittime armene: «I campi sono deserti, intorno al pozzo dei villaggi le ragazze armene non riempiono più le loro brocche. I turchi sono passati là. […] Armeni, fratelli miei, è un ebreo che vi sta parlando. Il figlio di una razza perseguitata, oltraggiata, mal-trattata, come lo è la vostra. […] Armeni, fratelli miei, noi non possiamo aspettarci nulla dai governi, noi abbiamo soltanto le nostre anime…» scrive per esempio con lucida passione, in un articolo da New York del novembre 1915 intitolato Armenia!, il terzo fratello, Alex. Più toccante di ogni parola è però la storia di Sarah. Lei non scrive, soffre e agisce.

Nell’estate del 1915, viaggiando da Costantinopoli verso casa, attraversa tutta l’Anatolia, vede con i suoi occhi ciò che viene fatto agli armeni, e ne rimane intossicata per sempre, tanto da coinvolgere profondamente i suoi fratelli, e da venir colpita per anni da seri disturbi psichici. Ma quando, nel settembre 1917, verrà scoperta, imprigionata e torturata, Sarah non rivelerà niente dell’attività del suo gruppo; si limiterà a inveire contro i suoi torturatori prima di uccidersi, maledicendoli e chiamandoli codardi e bestie selvagge, ma anche affermando la sua vittoria: «Voi siete perduti! La salvezza sta arrivando. Io ho salvato la mia gente, io ho vendicato il sangue degli armeni. Siate maledetti fino alla fine dei tempi!».

Completano il libro alcune pagine del dossier di Raphael Lemkin, il giurista e intellettuale ebreo polacco che inventò nel 1944 il termine «genocidio» e definì nelle sue specifiche caratteristiche il tipo di sterminio che da allora viene chiamato con questo nome. Come è noto, è la definizione di Lemkin che venne quasi per intero accettata dalle Nazioni Unite nella famosa seduta del dicembre 1948, ma va ricordato che egli cominciò a occuparsi di crimini contro l’umanità partendo dal caso armeno, di cui aveva cominciato ad appassionarsi leggendo i resoconti del processo di Berlino allo studente Soghomon Tehlirian, che nel 1921 aveva giustiziato il massimo responsabile del genocidio, Talaat Pascià, il ministro dell’Interno che nel 1915 era stato il principale organizzatore della «pulizia etnica» contro gli armeni.

Ed è proprio con Lemkin, questa figura cruciale e troppo spesso dimenticata della riflessione politica e umanistica del ventesimo secolo, che il tema dell’“invenzione genocidaria”, questo cancro della modernità, viene definito con fredda passione nelle sue infami modalità e conseguenze.

I tweet del presidente dell’Azerbaijan contro l’Armenia. Ilpost.it

Ilham Alivey ha scritto che l’Armenia «è un paese povero che non conta nulla» e altre cose molto dure: i due paesi hanno da anni pessimi rapporti

14 gennaio 2015

Martedì 13 gennaio il presidente dell’Azerbaijan, Ilham Alivey, ha scritto una serie di tweet molto duri contro l’Armenia, paese che confina con il territorio azero a ovest e col quale il suo governo ha pessimi rapporti. Dopo aver scritto 17 tweet sui miglioramenti che il paese ha compiuto nel 2014 – riguardanti la crescita economica, la diminuzione della disoccupazione e dell’inflazione, tra le altre cose – Alivey ha pubblicato diversi messaggi per attaccare l’Armenia e per denunciare la situazione del Nagorno-Karabakh, territorio che si è proclamato indipendente all’inizio degli anni Novanta e che è conteso da Azerbaijan e Armenia.

«Nessuna forza esterna può parlarci con il linguaggio da ultimatum».

«L’Armenia è un paese povero che non conta nulla».

 

«Se l’Armenia non avesse due grandi sostenitori in varie capitali, la guerra in Nagorno-Karabakh sarebbe già stata risolta molto tempo fa».

 

Mercoledì il ministro della Difesa azero ha accusato di nuovo l’Armenia di avere violato decine di volte la tregua in vigore tra i due paesi. Lunedì 12 gennaio il ministro della Difesa armeno aveva detto che la sera prima un gruppo di uomini armati azeri aveva cercato di superare il confine tra i due paesi: un uomo armato e un civile azero sono rimasti uccisi, ha detto il governo armeno. Il ministro della Difesa azero ha negato che fosse avvenuto l’incidente.

Armenia e Azerbaijan hanno combattuto una guerra tra il 1992 e il 1994: la guerra è finita con una tregua, comunque piuttosto precaria, che è stata violata e rinnovata per gli anni successivi. Nel settembre del 2014 ci sono stati nuovi scontri tra gli eserciti dei due paesi per il controllo del Nagorno-Karabakh, i più gravi dal 1994. Ancora oggi l’Armenia controlla circa il 20 per cento del territorio dell’Azerbaijan, tra cui la maggior parte del Nagorno-Karabakh e parecchie altre regioni lì attorno.

Le Kardashian si preparano a visitare l’Armenia. Tio.ch

Le tre sorelle Kardashian si dicono molto eccitate in vista della visita nella loro terra d’orgine

LOS ANGELES – Kim, Khloé e Kourtney Kardashian si preparano in vista del viaggio in Armenia, la terra d’orgine del padre scomparso Robert.

Una fonte ha rivelato a E!News: “Visitare l’Armenia è da sempre nella lista dei desideri di Kim. Tutte loro sono molto eccitate. Vogliono sapere qualcosa di più sulle loro origini”.

In attesa di maggiori dettagli sul viaggio, in programma ad aprile, della comitiva dovrebbero essere anche la piccola North, figlia di Kim e Kanye West, e i tre bambini di Khloé, Mason, Penelope e la neonata Reign, sotto la guida dei cugini che dovrebbero mostrar la loro terra d’origine.

Kanye pare abbia già dato la sua disponibilità mentre non è ancora certa la presenza di Scott Disick, il compagno della sorella minore Kourtney.

Recentemente Kim confessava come visitare l’Armenia fosse uno dei sogni che non era ancora riuscita a realizzare.

“La gente mi chiede spesso informazioni sulle mie origini – raccontava – ma sfortunatamente non sono mai stata in Armenia. Andare lì è un sogno e lo realizzerò sicuramente.”

Il viaggio alla scoperta delle radici passate renderebbe sicuramente orgoglioso il padre della socialite, Robert, morto di cancro nel 2003.

La star dei reality spiegava: “Mio bisnonno era armeno e mia bisnonna era metà armena e metà turca. Mia madre è inglese e io sono per metà armena ma sono stata cresciuta con l’influenza armena. Ho sempre sentito storie sull’Armenia, mangiato cibo armeno e rispettato le festività armene. Mio papà sarebbe orgoglioso se andassimo a scoprire le nostre radici. Ci diceva sempre di essersi rifiutato di rimuovere il suffisso -ian dal nostro cognome al pari di quanto fatto da altri armeni emigrati negli Stati Uniti. Era orgoglioso di essere armeno e uno dei suoi più grandi rimpianti era quello di non averci mandato in scuole armene. Io sono orgogliosa di essere armena e di identificarmi con i miei fan armeni”.