Savall: «Racconterò il dramma degli armeni in un nuovo spettacolo». Il piccolo.gelocal.it

Domani il violoncellista proporrà al “Verdi” di Pordenone il programma “Folias & Canarios” con il suo ensemble

di Alex Pessotto

 

PORDENONE. È il suo primo concerto. Del 2015, non certo della sua vita. Giacchè, Jordi Savall proprio quest’anno festeggia i suoi primi cinquant’anni di attività. E se oggi i concerti su strumenti d’epoca, basati su un approccio scrupolosamente filologico, sono ormai numerosi una buona parte di merito è sua.

 

Il grande musicista sarà domani, alle 20.45, al Teatro Verdi di Pordenone con l’Ensemble Hespèrion XXI impegnato in un programma dal titolo “Folias & Canarios” che prevede, fra le altre, le esecuzioni di musiche di Diego Ortiz, Santiago de Murcia, Marin Marais. In esclusiva per il Nordest, l’appuntamento, che rientra nella stagione del teatro, e, in particolare, nella sua programmazione dedicata al violoncello, sarà anche registrato (e successivamente trasmesso) dalle telecamere di Rai 5, precisamente da “Petruška”, trasmissione condotta da Michele Dall’Ongaro.

 

Maestro Savall, cosa si propone per il 2015? In musica, ovviamente.

«Ci sono progetti discografici e concertistici. Per quanto riguarda quest’ultimi, ad esempio, faremo diversi programmi: sulla musica armena per ricordare la terribile persecuzione di cent’anni fa, sulla guerra di secessione spagnola, sui 400 anni della morte di El Greco (avvenuta per l’esattezza nel 1614), sulla tratta degli schiavi. Insomma, posso dire che ci sono in programma molte cose».

 

Nell’adottare un approccio filologico cosa “si guadagna” e cosa “si perde”?

«Non è tanto un fatto di “guadagnare” o “perdere”. Direi che quando si usano gli strumenti d’epoca e le prassi filologicamente concordi alle varie epoche storiche si è innanzi tutto molto più vicini allo spirito dei compositori che si affronta. Ma ciò vale soltanto se l’artista che suona o canta è un buon artista. Ecco, nella musica “si guadagna” o “si perde” qualcosa soprattutto a seconda della qualità dell’artista che si esibisce».

 

Cosa pensa dei suoi colleghi che prediligono un altro tipo di approccio per le loro esecuzioni, e, quindi, un approccio non filologico?

«La musica può essere fatta con approcci diversi. Ma l’importante è che sia fatta bene. È una questione di gusto personale. E io rispetto coloro che prediligono, anche come ascoltatori, un approccio diverso dal mio. Da giovane, uno dei miei dischi preferiti era quello delle Variazioni Goldberg suonate da Glenn Gould, che certo usava il pianoforte».

 

Quanta strada c’è ancora da fare per ristabilire le prassi esecutive degli strumenti d’epoca?

«Abbiamo avuto grandi direttori che hanno lasciato interpretazioni straordinarie (penso a Toscanini, a Furtwängler, a Kleiber padre e figlio). Oggi ce ne sono altri. E lo stesso può dirsi per quanto riguarda la musica antica. Non si può parlare di “strade”…: ci sono soltanto “vette” nell’ispirazione, nella creatività. E ciò, appunto, vale anche per la musica antica. C’è stato un lungo periodo in cui si è recuperata la prassi esecutiva degli strumenti antichi. Ad oggi, son più di 80 anni che la musica antica si sta sviluppando in una forma naturale come la musica classica e l’evoluzione che avrà sarà la stessa della musica classica grazie a molti artisti certo di livelli diversi: più bravi, meno bravi…».

 

A che punto è la situazione italiana per quanto riguarda la filologia in musica?

«Il pubblico come reagisce ai suoi concerti? Ci sono colleghi che sente particolarmente vicini? Conosco molti gruppi di musica antica in Italia; molti musicisti italiani hanno anche suonato con me. Penso stiano facendo un lavoro serio, lottando contro una condizione difficile che credo sia molto simile a quella della Spagna, un Paese che non ha capito che il suo patrimonio musicale è di grande valore. Il pubblico italiano è un pubblico sempre molto attento, recettivo, esigente e mi fa sentire sempre molto ben accolto, in base a una complicità che è assai piacevole avvertire».

Genocidio armeno: «Giustizia e verità». Avvenire

Daniele Zappalà

Quell’ecatombe aprì il tunnel dei peggiori incubi novecenteschi, come aveva ribadito papa Francesco nel giugno 2013. Ma a un secolo esatto di distanza, il genocidio degli armeni resta in gran parte negato dagli eredi di chi lo perpetrò in territorio ottomano. E nonostante il riconoscimento sia stato firmato da una ventina di Stati, il dramma non pare ancora impresso appieno nella coscienza mondiale.

Se ricordare un genocidio è sempre impresa delicata, tanto più lo saranno le commemorazioni che si sono appena aperte in Armenia e che dureranno per tutto l’anno. Da tempo, si temeva che la dimensione spirituale della tragedia potesse finire eclissata dalle diatribe di stampo più politico e diplomatico attorno al negazionismo turco. Ma questo rischio sarà probabilmente scongiurato, dopo un annuncio di grande portata nei giorni scorsi da parte della Chiesa apostolica armena, antichissima chiesa cristiana vicina all’ortodossia ma contrassegnata per ragioni storiche pure da una profonda congruenza teologica con Roma.

Con la pubblicazione di una lettera enciclica, il patriarca Karekin II, supremo pastore di circa 8 milioni di fedeli, ha annunciato l’imminente canonizzazione di tutte le vittime del genocidio, ovvero circa un milione e mezzo di armeni. La celebrazione è prevista il 23 aprile, alla vigilia di quella che diventerà per i fedeli armeni la “Giornata del ricordo dei santi martiri del genocidio”.

L’enciclica impiega accenti profetici e sottolinea vigorosamente quanto l’esperienza della tragedia resti oggi un patrimonio spirituale vivo. «Siamo posti di fronte al centenario del genocidio degli armeni e nelle nostre anime risuona un’esigenza potente di verità e di giustizia che non si lascerà mai ridurre al silenzio», scrive il patriarca.

Fin da subito, non sono sfuggiti i risvolti anche politici del documento, che si rivolge non solo agli armeni in patria, ma anche alla diaspora diffusa in ogni continente: in Europa, soprattutto in Francia, dove gli armeni sono circa mezzo milione e contano figure di primo piano anche sulla scena politica, oltre che artistica e intellettuale. In assoluto, le comunità estere più numerose si trovano invece in Russia (2,2 milioni) e Stati Uniti (1,3 milioni).

«Ogni giorno del 2015 sarà un giorno di ricordo e di devozione per il nostro popolo, un viaggio spirituale in memoria dei nostri martiri davanti ai quali ci inginocchiamo con umiltà e nella preghiera», si può ancora leggere nell’enciclica, che sottolinea pure la strenua fedeltà al cristianesimo di chi morì: «Offriamo incenso per le anime delle nostre vittime innocenti sepolte senza nome perché hanno accettato di morire piuttosto che ripudiare la loro fede e la loro nazione».

Non manca una rievocazione delle atrocità commesse nel perimetro dell’Impero ottomano, non riconosciute come genocidio dall’esecutivo turco, nonostante qualche segnale recente di disgelo. Il patriarca scrive: «Nel 1915 e nel corso degli anni seguenti, i turchi ottomani hanno perpetrato un genocidio contro il nostro popolo. In Armenia occidentale, sul nostro suolo natale, nella patria armena e nelle comunità armene di tutta la Turchia, un milione e mezzo dei nostri figli e delle nostre figlie hanno subito dei massacri, la fame e le malattie; sono stati deportati e costretti a marciare fino ad essere colti dalla morte».

Se si considera la popolazione mondiale dell’epoca, quella fitta catena di eccidi amputò quasi un ramo su mille dell’umanità. Ma il senso profondo dell’epurazione riguardò pure la stessa presenza del cristianesimo in Medio Oriente, come sottolineano i passaggi che evocano il valore profetico della successiva “resurrezione” del popolo armeno al cospetto del mondo. In proposito, l’enciclica di Karekin II contiene risonanze brucianti con l’attualità, conferendo a quest’inizio di commemorazioni armene uno spessore particolare.

Gli eccidi cancellarono dall’Anatolia anche gli armeni cattolici, che superano oggi il mezzo milione. Il loro patriarcato, fedele a Roma (fu riconosciuto a metà Settecento da Benedetto XIV) pur conservando il rito armeno, non a caso ha sede in quello stesso Libano tornato ad essere negli ultimi anni una porta di fuga per i cristiani perseguitati di tutto il Medio Oriente. Si commemora il passato, dunque, in un 2015 che conserva fosche somiglianze con quello stesso passato.

L’enciclica esprime anche «gratitudine alle nazioni, organizzazioni e individui che hanno avuto il coraggio e la convinzione di riconoscere e condannare il genocidio armeno». Questo ed altri passaggi richiamano alla memoria pure la visita dello scorso giugno di Karekin II in Vaticano, un’occasione nella quale papa Francesco ha molto insistito sul valore profondamente ecumenico di tragedie come il genocidio armeno: «L’ecumenismo della sofferenza e del martirio è un potente richiamo a camminare lungo la strada della riconciliazione tra le Chiese, con decisione e fiducioso abbandono all’azione dello Spirito». E adesso, in vista delle canonizzazioni di aprile, le celebrazioni armene di questo 2015 si aprono proprio all’insegna di un messaggio che pare già di ampio respiro cristiano.

Grande Guerra, pillola 40 Medio oriente: le mani inglesi sul petrolio. Bergamonews

A fine ottobre del 1914, dopo aver firmato un trattato di alleanza segreto con la Germania, entra in guerra anche l’impero ottomano: il 21 novembre gli inglesi conquistano Basra, sull’Eufrate, e mettono in sicurezza i propri rifornimenti di petrolio in Mesopotania.

 

 

di Marco Cimmino

L’impero ottomano, il 2 agosto del 1914, aveva siglato un trattato di alleanza segreto con la Germania. Si trattava di una mossa quasi obbligata per la “Sublime Porta”, che attraversava un periodo di gravi movimenti centrifughi ed aveva la necessità di riaffermare il proprio pieno controllo sul medio oriente, dopo aver perso, un poco alla volta, l’intera Africa settentrionale ed i Balcani.

Questa alleanza va, dunque, letta in chiave antibritannica almeno quanto antirussa (la Russia era il nemico ereditario della “Porta” e nel XIX secolo vi erano state diverse guerre a confermarlo): gli inglesi, dal canto loro, miravano esplicitamente a garantirsi l’accesso al petrolio mseopotamico e non facevano mistero della loro ostilità verso i turchi, soffiando sull’irredentismo arabo. Insomma, prima o poi, in quel settore si sarebbe giunti allo scontro.

La prima azione militare ottomana, senza preventive dichiarazioni di guerra, riguardò un bombardamento navale, turco-tedesco, contro installazioni russe nel Mar Nero, il 29 ottobre del 1914: il 1 novembre, lo Zar dichiarò formalmente guerra alla Turchia, cosa che anche la Serbia fece, il giorno successivo, mentre Francia e Gran Bretagna attesero il 5 novembre. Già il 3 novembre, però, una squadra navale britannica aveva cercato di forzare i Dardanelli, bombardando i forti turchi ed iniziando una campagna che avrebbe, alla fine, portato al disastro di Gallipoli. Il 6 novembre 1914, con lo sbarco ad Al Faw, sulle coste irachene, di un contingente angloindiano, cominciò la prima guerra mondiale anche in Mesopotamia: lo scenario del conflitto andava sempre più allargandosi.

 

Le truppe britanniche avevano lasciato Bombay già il 16 ottobre: si trattava dell’Indian Expeditionary Force “D” (noi abbiamo già incontrato lo IEF “B” in Africa orientale), ossia circa 5.000 uomini, al comando del generale sir Arthur Barrett. All’inizio, stante la neutralità ottomana, questo contingente, protetto dalla divisione navale del Golfo, avrebbe dovuto presidiare la foce dello Shatt-al-Arab, per evitare infiltrazioni turche verso l’oleodotto di Abadan, vitale per l’Inghilterra. Mentre il governo britannico puntava ad una politica di semplice contenimento, a Bombay si premeva, invece, per una più aggressiva strategia di “forward defence”, che portò allo scoppio delle ostilità vere e proprie.

All’insaputa del Foreign Office londinese, Barrett aveva ricevuto l’ordine di conquistare senz’altro la base ottomana di Basra (oggi Basrah o Bassora in italiano), sull’Eufrate, in caso di rottura diplomatica fra Londra ed Istanbul. Senza porre indugi, il 6 novembre, le truppe britanniche mossero verso Basra, al comando del generale Delamain, dopo aver lasciato 600 uomini di presidio sulla costa. Il giorno successivo, dopo aver disperso la debole resistenza turca, egli pose il suo campo fortificato lungo il fiume, 5 chilometri a nord di Abadan: qui, l’11 novembre, venne attaccato da un reparto ottomano, che venne respinto con gravi perdite.

Nel frattempo, allo IEF si aggiunsero circa 7.000 uomini di rinforzo, con qualche cannone da campagna: Barrett, adesso, aveva gli strumenti per risolvere in breve tempo la propria offensiva, anche se a Basra si era radunato un contingente di 4.500 soldati ottomani, al comando di Subhi Bey. Il 19 novembre, sotto un acquazzone che rendeva assai difficile manovrare nel fango, la battaglia per Basra cominciò, con attacchi britannici e contrattacchi turchi, sanguinosamente rintuzzati. Il giorno successivo, mentre Barrett stava mettendo in pratica un piano per sbarrare il fiume e circondare la piazzaforte, uno sceicco arabo gli portò la notizia della ritirata di Subni Bey dalla città. La sera del 21 novembre 1914, quindi, due battaglioni del IEF sbarcarono a Basra, prendendone possesso. Barrett vi entrò da vincitore due giorni più tardi. Le perdite ammontarono a circa 500 uomini per i britannici e a più del doppio per gli ottomani.

 

Con la conquista di Basra, gli inglesi misero in sicurezza i propri rifornimenti di petrolio in Mesopotamia e questo, alla lunga avrebbe avuto un impatto fondamentale sull’andamento della guerra. Naturalmente, la constatazione dell’apparente debolezza difensiva nemica, rafforzò la convinzione del governo indiano circa la necessità di agire con energia nel settore, a dispetto dell’atteggiamento di Londra. Questo, come vedremo, avrebbe comportato tutta una serie di conseguenze per il conflitto in medio oriente.

Curiosità: una strage nella strage, l’olocausto armeno

All’interno della secolare lotta tra impero ottomano e Russia, così come nell’ottica del nuovo nazionalismo turco, propiziato dal movimento dei “Giovani Turchi” e dal colpo di stato effettuato dal loro comitato “Unione e Progresso” (Ittiḥād we Taraqqī) nel 1908, si colloca uno degli episodi più terribili e, colpevolmente, dimenticati della storia del Novecento: Metz Yeghern, il genocidio del popolo armeno. Gli armeni, popolazione cristiana che viveva all’interno dell’impero turanico, erano sempre stati blandamente protetti dallo zar, nei loro sogni di autonomia. Quando la Sublime Porta entrò definitivamente in crisi, essa rivolse contro gli armeni la propria rabbia, dando il via ad una serie di persecuzioni e pogrom, cominciata nel 1894 (la cosiddetta ‘persecuzione hamidiana’) e conclusasi, negli anni 1915-16, con l’olocausto di circa 1.500.000 armeni.

 

In un certo senso, la prima guerra mondiale fu sia l’esca che lo strumento per eliminare la minoranza armena, nella folle visione di una “Turchia dei turchi” che animava il governo di Istanbul: esca, perchè essa portò a galla la debolezza dell’impero, che poteva essere contenuta soltanto con robuste iniezioni di fanatismo nazionalista, e strumento, perché nel caos della guerra, enormi spostamenti di profughi avrebbero destato minor attenzione. Così, centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini vennero assassinati, torturati, deportati nel deserto e lasciati morire di fame e di sete, nel silenzio e nell’indifferenza del mondo, impegnato a combattere la sua guerra mondiale. Incredibilmente, questo spaventoso massacro, che funse da modello per tutti i successivi genocidi novecenteschi, dalla Shoah a Holodomor, l’olocausto ucraino, venne praticamente cancellato dalla storia, tanto che, ancora oggi, la moderna Turchia ne nega l’esistenza. La mattanza cominciò nella notte tra il 23 ed il 24 aprile del 1915, e proprio il 24 aprile è, per la comunità armena, il giorno della memoria.

 

http://www.bergamonews.it/cultura-e-spettacolo/grande-guerra-pillola-40-medio-oriente-le-mani-inglesi-sul-petrolio-19931

‘Metz Yeghern’ armeno: tra Ottomani e Czar la guerra si fa genocidio. Remocontro

‘Metz Yeghern’, il Grande Male. 1-2 milioni di armeni morti. La storia litiga ancora oggi su guerra o genocidio

Gatto randagio è creatura di nobili sentimenti sempre dalla parte delle vittime. Oggi la storia di un centenario tondo. 1915, guerra mondiale, Impero Ottomano multietnico e le bramosie degli Czar russi sui Dardanelli. Il rapporto tra il popolo armeno e la Russia visto come tradimento. Fu tragedia

Quest’anno, cent’anni fa, iniziò il genocidio del popolo armeno. Precisamente tutto ebbe inizio con i primi arresti tra l’élite armena di Costantinopoli, nella notte fra il 23 e il 24 dell’aprile del 1915. Fu il primo genocidio del ‘900. “Metz Yeghern”, il Grande Male… Quasi due milioni di morti, e quel che colpisce, è l’ostinazione con la quale la Turchia non vuole sentirne parlare. Ancora oggi in Turchia parlare del genocidio degli Armeni è considerato un reato, un attentato all’unità nazionale…

“C’era e non c’era”… che strano… iniziano così, le fiabe armene, collocandosi nel tempo e nel luogo dell’indefinito, come indefinita si vorrebbe la sua immane tragedia.

Ma se quello che il genocidio ha voluto distruggere in Anatolia è stata la cultura del popolo armeno, c’è chi è riuscito, con ostinazione e pazienza, a riannodare le fila di un discorso che si voleva muto per sempre. Donne, soprattutto, che hanno combattuto per conservare e preservare il proprio passato e le proprie radici. E chi meglio di loro in grado di tessere ricordi e storie, riallacciando frammenti di un discorso amoroso…

Delle donne che hanno svolto questo prezioso compito, di cercare, scavare, comporre, raccontare, quella che ho incontrato sulla mia strada mi ha stregato dal primo istante… con i suoi occhi scuri, e acuti e immensi, e un profilo intagliato d’ebano. Sonya Orfalian, che è scrittrice e artista visuale, ma, soprattutto, narratrice-tessitrice, vien da pensare ascoltandola. Di quelle persone che riassumono in sé tanti mondi… l’origine armena, la nascita in Libia, la fuga a Roma… insomma una “apatride”, come si definisce, ancora oggi sempre con la valigia in mano.

L’avevo sentita la prima volta narrare del popolo armeno sfogliando un libro di ricette, una sua raccolta che in realtà sono pagine di storia e di letteratura. Adesso la rincontro che quasi m’investe in una folata, mentre arriva “a cavallo del vento”… ora che ha per noi raccolto e tradotto dall’armeno tante belle fiabe, “A cavallo del vento” ( per l’editore Argo), appunto. Nate nella notte dei tempi e tramandate oralmente di generazione in generazione da rapsodi itineranti, gli “ashugh”, sono parte fondamentale dell’immenso patrimonio culturale armeno, eredità preziosa di un popolo disperso che ha rischiato di essere annientato.

Ma, c’era e non c’era… ed è ancora qui, questo popolo, anche attraverso le sue fiabe, con il loro bagaglio di re e castelli, e maghi incantatori, e vecchi conciatori e serpenti d’oro, e re zingari, e zucche e demoni dalle molte teste, mucche fatate, principi e fanciulle bellissime di un mondo lontano lontano…

E’ impegno non da poco, quello della narratrice-tessitrice. Perché irreparabile rimane la perdita che con dolore rincorre le vittime di un genocidio. Perché tradurre, ricorda Sonya, significa anche un po’ tradire… e ad ogni passo se ne sente il peso, ad ogni fiato, c’è il rischio di tradire la parola originaria… Chi usa più la lingua originaria di quelle fiabe? E oggi misurarsi con la lettera morta è sforzo continuo di misurarsi con il senso profondo di quella perdita…

Agli Armeni fu vietato usare la propria lingua e il taglio della lingua fu fra le terribili, impronunciabili violenze che venivano inflitte. Una testimone ha raccontato che per aver trasgredito al divieto, furono così puniti tutti gli adulti di un intero villaggio dell’Armenia antica. E privati del suono della lingua dei padri, non impararono l’armeno i loro bambini, costretti a comunicare con i segni afoni dei gesti. Provate a immaginare quale perdita… lo strazio del vuoto di quel silenzio…

Ho letto che quest’anno, ad aprile, Papa Francesco, accettando l’invito della Chiesa cattolica armena, celebrerà in San Pietro una messa per ricordare i cento anni che ci separano dall’inizio di quel genocidio. Ah, questo Papa…, se il suo ruolo sembra proprio sia stato determinante nella svolta delle relazioni fra gli Stati Uniti e Cuba, chissà che mettendoci, anche qui, lo zampino, non sciolga diplomazie ostinate…

Dall’Armenia il monte Ararat, simbolo nazionale armeno che si trova in territorio turco

Il genocidio del popolo armeno è stato riconosciuto ufficialmente da una ventina di stati. Anche 43 dei 50 stati americani chiedono il ristabilimento della giustizia storica. Tra le organizzazioni internazionali che riconoscono il genocidio, c’è la Commissione ONU per i crimini di guerra, il Parlamento Europeo e il Consiglio ecumenico delle Chiese. In Francia negare il genocidio degli Armeni è considerato un reato. E l’Italia? C’era e non c’era…

“Che dal cielo cadano tre mele… una per chi ha narrato, una per chi ha ascoltato, una per il mondo intero”. Chiudiamo dunque con questo augurio, che è quello con cui la tradizione armena vuole si concluda ogni fiaba. E sono, le mele dell’auspicio, ricorda Sonya Orfalian, simbolo del cerchio, richiamo al sole… sono il melograno, sono il pomo della vita…

Francesca de Carolis

http://www.remocontro.it/2015/01/04/gatto-randagio-metz-yeghern-armeno-ottomani-czar-laguerra-si-fa-genocidio/

L’Armenia diventa membro dell’Unione Economica Eurasiatica. La Voce della Russia

A partire dal 2 gennaio l’Armenia è entrata nell’Unione Economica Eurasiatica, che già include la Russia, Bielorussia e Kazakistan.

Il corrispondente ccordo di integrazione era stato firmato dalle massime cariche lo scorso ottobre.

A seguito dell’adesione nell’Unione Eurasiatica, l’Armenia inizierà i negoziati con i membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) per cambiare i suoi impegni nell’ambito dell’organizzazione.

Al momento l’Unione Economica Eurasiatica comprende la Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Armenia.
Per saperne di più: http://italian.ruvr.ru/news/2015_01_02/LArmenia-diventa-membro-dellUnione-Economica-Eurasiatica-1147/

L’Armenia è euroasiatica

Erevan aderisce ufficialmente alla EEU, l’unione economica e finanziaria creata da Mosca: il prossimo Paese ad entrare nel patto sarà il Kyrgyzstan
L’Armenia è entrato ufficialmente l’Unione economica eurasiatica (EEU), riunendosi dal punto di vista economico e commerciale con Russia, il Kazakistan e la Bielorussia nel progetto guidato da Mosca che ha lo scopo di controbilanciare il peso dell’Unione europea.

Come parte di un accordo firmato lo scorso ottobre, l’Armenia avrà rappresentanza limitata nell’organizzazione fino alla fine del 2015. Tre membri armeni condivideranno il diritto di voto nell’ organo direttivo del sindacato, come riferisce la Commissione economica dell’agenzia di stampa eurasiatica. Anche il Kyrgyzstan è destinato ad aderire all’Unione a partire dal 1 ° maggio prossimo.

L’ingresso dell’Armenia nell’ EEU significa che il Paese dovrà passare gradualmente a un sistema tariffario unificato con gli altri membri dell’Unione, con il 2022 fissato come termine ultimo per il passaggio completo, Erevan dovrà negoziare i propri obblighi anche con l’Organizzazione mondiale del commercio, di cui è membro, e cambierà gli impegni alla luce della nuova adesione al blocco economico degli repubbliche ex sovietiche.

Il governo armeno era orientato a concludere un accordo di libero scambio con l’UE fino a quando, dopo i colloqui con il presidente russo Vladimir Putin, il presidente Serzh Sargsyan nel 2013 ha improvvisamente deciso di passare alla Unione doganale guidata dalla Russia, che è stata un precursore della EEU.

L’economista Alexander Knobel commenta la scelta di campo ricordando che l’Armenia si allontanò dalla prospettiva di integrazione europea dopo che la Russia le ha offerto il prezzo amichevole di 170 o 180 dollari per 1.000 metri cubi per le importazioni di gas naturale.

L’economia armena è fortemente dipendente dalla Russia, il più grande investitore straniero del Paese ed il maggiore partner commerciale, nonché fonte di rimesse di vitale importanza mandate a casa in Armenia dai lavoratori migranti. Erevanha coltivato anche uno stretto rapporto politico con Mosca al fine di garantire se stessa contro i vicini della Turchia e dell’ Azerbaijan. Armenia e Azerbaijan sono stati coinvolti in una disputa territoriale sul Nagorno-Karabakh e distretti circostanti per decenni, e sia la Turchia che l’Azerbaigian hanno eretto er blocchi economici contro l’Armenia, in risposta alla sua occupazione del territorio.

Fonte:The Moscow Times

Armenia: il ponte di Kiev. Osservatorio Balcani e Caucaso

Simone Zoppellaro | Yerevan

Due recenti studi mostrano come oltre il 40% della popolazione armena viva sotto la soglia di povertà, mentre poche famiglie di oligarchi detengono più della metà del PIL del paese

Svegliarsi in Armenia significa rivivere la caduta dell’URSS, un giorno dopo l’altro, sempre lo stesso, per gli ultimi ventitré anni. È come se il tempo, per una oscura maledizione, si fosse fermato a quei giorni, e noi fossimo tutti dei superstiti. Se mai la definizione di post ha avuto un senso, questo è il caso dell’Armenia, che porta ancora visibili sul suo corpo i drammi di quel trapasso, mai del tutto compiuto o esorcizzato.

Lo si percepisce negli ingressi dei vecchi condomini sovietici della capitale, bui e sporchi per l’incuria di anni, dove gli ascensori si bloccano di frequente, anche a causa dei troppi blackout. Lo si vede a Vanadzor, dove le enormi industrie d’epoca sovietica, cupe e spettrali, dominano incontrastate il paesaggio nel più completo abbandono. Lo si percepisce infine, dolorosamente, sui corpi di molti anziani, piegati e sofferenti, che pagano in molti casi l’impossibilità a ricevere cure mediche appropriate in anni in cui in Armenia mancava più o meno tutto, e il gas era disponibile nelle case solo poche ore al giorno.

Gli oligarchi

Un periodo, quello della fine del blocco sovietico e dell’indipendenza, che è corrisposto in Armenia con due eventi particolarmente tragici: il terremoto di Spitak del 1988, dove persero la vita circa 25.000 persone, e la lunga guerra per il Nagorno Karabakh (1988-1994). L’economia, un tempo industriale e florida, ne è uscita inesorabilmente segnata, anche a causa della chiusura dei confini con la Turchia e l’Azerbaijian, nonché della mancata soluzione del conflitto. Eppure, non è mancato chi su tali tragedie ha speculato, creando nel giro di pochi anni – e spesso in maniera tutt’altro che limpida – ingentissime fortune. Si tratta dei cosiddetti oligarchi.

Uno studio del 2007, che aveva destato parecchio scalpore, mostrava come 44 famiglie detenessero più della metà del PIL armeno, e solo 2, addirittura, il 12%. Ora, nonostante la crisi del 2008 abbia colpito duramente l’Armenia – tanto da farle guadagnare nel 2011 il secondo posto fra le peggiori economie al mondo, stando alla classifica stilata dalla rivista americana Forbes – gli oligarchi continuano a prosperare indisturbati, mentre le diseguaglianze all’interno della società armena tendono ad aumentare.

A dimostrarlo sono due studi pubblicati di recente, che hanno trovato ampia eco nella stampa armena. Il primo, i cui risultati sono stati resi pubblici in occasione della Giornata mondiale del rifiuto della miseria, il 17 ottobre, è opera del sociologo Aharon Adibekyan del centro di ricerca Sociometer. Secondo tale studio, il 42% della popolazione armena vive sotto la soglia di povertà, ovvero con meno di 2 dollari al giorno. Per il 10%, con una disponibilità di meno di 1 dollaro al giorno, si può parlare invece di povertà assoluta. La fascia abbiente della società armena si attesterebbe infine al 13%.

I dati paiono confermati dalla ricerca condotta dall’Istituto Nazionale di Statistica armeno in collaborazione con la Banca Mondiale. Secondo quanto esposto da Diana Martirosova il 18 novembre scorso, il livello di indigenza estrema nel 2013 è aumentato dello 0,7% rispetto al 2008, mentre il livello generale di povertà è cresciuto del 4,4%. Anche il coefficiente di Gini, indice usato per misurare la diseguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza, mostra un notevole aumento: si è passati infatti dallo 0,242 del 2008 al 0,271 del 2013. Lo studio ci mostra inoltre come la povertà sia più diffusa nei centri urbani rispetto alle aree rurali del paese.

Emigranti

Al di là dei numeri, le ricerche risultano di notevole interesse perché gettano luce su fenomeni sociali di vasta portata, come quello dell’emigrazione e delle rimesse. Da Yerevan al villaggio più sperduto, una delle scene più comuni nel paese sono le file di persone in coda per cambiare rubli, dollari o euro. In Armenia si possono cambiare i soldi ovunque, dal supermercato al centro commerciale e persino in molti negozi, nonché nelle migliaia di botteghe di piccoli cambisti che svolgono la propria attività quasi in ogni angolo del paese. Stando a quanto riportato da Adibekyan, il 17% delle famiglie armene vive esclusivamente grazie alle rimesse inviate dai propri parenti all’estero, e in primis dalla Russia.

I dati sono impressionanti, specie per un piccolo paese come l’Armenia. Secondo le cifre fornite dalla Banca centrale della Federazione Russa, nella prima metà di quest’anno 583 milioni di dollari sarebbero trasferiti dalla Russia verso l’Armenia. Il fenomeno dell’emigrazione, sempre secondo quanto affermato dal sociologo Adibekyan, riguarderebbe soprattutto la classe media, con l’effetto di polarizzare ulteriormente la società armena. A tali dati si collegano, purtroppo, una serie di fenomeni sociali assai diffusi, come l’abbandono della famiglia da parte di emigrati che, dopo essersi risposati all’estero, lasciano al proprio destino moglie e figli in Armenia.

Il ponte di Kiev

Un’altra questione, sintomo di una sofferenza sociale profonda, è quello dei suicidi, che si stima siano aumentati dal 2003 al 2013 di più del 100%, passando da 377 a 768 casi l’anno. Il ponte detto di Kiev, nella capitale armena, ha la triste fama d’essere il luogo scelto da molti armeni per porre fine al loro destino. Ancor più dolorosa, se possibile, è la questione degli aborti selettivi, messa in luce di recente dal Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione. Secondo quanto riportato, l’Armenia sarebbe il primo paese al mondo per tale pratica, dettata indubbiamente da una disperazione estrema.

Il regista armeno Artavazd Peleshyan, in un documentario del 1972 intitolato Le stagioni, ci ha dato una raffigurazione potente del destino del suo popolo: la lunga sequenza del guado di un pastore in un fiume in piena, che combatte contro i flutti per portare a riva un agnello. Un eroismo semplice, dimesso, lontano dagli occhi di molti, ma non per questo meno commovente. Nella piccola repubblica caucasica, giorno dopo giorno, migliaia di armeni lottano nell’indifferenza di tutti – e persino di alcuni loro connazionali, forse troppo agiati per accorgersene – per la propria sopravvivenza.

La via diritta all’incontro. Anche nel gesto papale per gli armeni. Avvenire

Andrea Riccardi

2 dicembre 2014 ​

Papa Francesco ha portato nel clima degli incontri ecumen ici il suo carisma personale. Non si tratta solo del suo carattere e della sua storia, ma di qualcosa di più. Lo s’è visto nella visita a Istanbul e nel rapporto con il patriarca Bartolomeo. Gli ha detto con franchezza nella chiesa del Fanar: «Incontraci, guardare il volto l’uno dell’altro, scambiare l’abbraccio di pace, pregare l’uno per l’altro sono dimensioni essenziali di quel cammino verso il ristabilimento della piena comunione…». Ciò precede e accompagna il dialogo teologico. Ma soprattutto salva il dialogo teologico dalle derive ideologiche, dalla freddezza diplomatica e dalle logiche politiche. Introduce un senso di fretta. Papa Francesco non persegue una diplomazia ecumenica, ma rapporti veri di comunione. Nelle giornate di Istanbul ha immesso qualcosa di più nei rapporti ecumenici: una svolta umana dal profondo riflesso ecclesiale. Francesco ha fatto entrare nell’incontro ecumenico anche le voci del mondo e del “popolo”. Ha affermato che le Chiese debbono ascoltare i poveri, le vittime della guerra, i giovani che chiedono – in modi e linguaggi diversi – di essere veri discepoli del Vangelo, quindi di essere uniti.

Il discorso di Francesco al Fanar aveva dei toni analoghi alle parole del patriarca ecumenico Atenagora, pronunciate tanti anni fa. Atenagora affermava che l’unità e l’autenticità cristiana delle Chiese non sono esigenze di laboratori teologici o di ambienti ecclesiastici, ma una domanda dei popoli e delle giovani generazioni. Il Papa ha aggiunto che i giovani «ci sollecitano a fare passi in avanti verso la piena comunione»…

E ciò, ha aggiunto Francesco, «non perché essi ignorino il significato delle differenze che ancora ci separano, ma perché sanno vedere oltre, sono capaci di cogliere l’essenziale che già ci unisce». È stata impressionante la sintonia del Papa con il Patriarca ecumenico. Quando i primati delle Chiese, nonostante la storia e le tradizioni diverse, camminano insieme da fratelli, matura in loro qualcosa di profondo. È quanto aveva proposto Atenagora a Paolo VI: camminare come fratelli dopo l’abbraccio di Gerusalemme nel 1964. Bartolomeo ha avuto in proposito parole vere e impegnative: «Non possiamo permetterci il lusso per agire da soli. Gli odierni persecutori dei cristiani non chiedono a quale Chiesa appartengono le loro vittime. L’unità, per la quale ci diamo molto da fare, si attua già in alcune regioni, purtroppo, attraverso il martirio. Tendiamo dunque la mano all’uomo contemporaneo…».

La Chiesa non vive per se stessa, ma per il servizio al Vangelo e per l’uomo e la donna contemporanei. Per questo Bartolomeo, successore di fedeli custodi della tradizione cristiana e orientale e lui stesso uomo della tradizione, ha detto: «A che cosa serve la nostra fedeltà al passato, se questo non significa nulla per il futuro?». Sì, l’incontro di Costantinopoli – come i greci chiamano la città sul Bosforo – non è stato uno scambio di cortesie ecclesiastiche, ma un passo in profondità nell’amicizia tra Chiese, in “uscita” per le vie della contemporaneità. Nella chiesa di San Giorgio al Fanar era presente il mondo con le voci dei giovani, dei colpiti dalla guerra, dei poveri, del mondo. Mi sembra che rientri nell’ecumenismo lo spessore umano della storia e dell’incontro tra uomini.

Un’espressione di questo fatto è l’amicizia personale tra il Patriarca e il Papa, che sembra riscaldare vicendevolmente i loro cuori e le loro parole. Bartolomeo ha avuto verso il Papa non solo parole di stima vera ma anche affettuose. C’è, poi, un evento, piccolo, avvenuto ai margini del viaggio papale e fuori dai riflettori, tanto che quasi nessuno lo ha notato. Solo qualche agenzia turca ne ha dato notizia. Piccolo, ma non secondario alla luce della lezione di umanità dell’ecumenismo, dataci dalle giornate di Istanbul. Merita attenzione. Prima di andare all’areoporto per partire per Roma, papa Francesco ha inserito una visita in un ospedale, quello armeno di Istanbul.

È andato a trovare il patriarca armeno di Istanbul, Mesrob II, non ancora sessantenne, gravemente malato, incapace di comunicare, ricoverato nell’ospedale della sua Chiesa e assistito amorevolmente dalla madre oltre che dai suoi collaboratori. Certo non è stato possibile alcuno scambio di parole con il patriarca, ma solo una preghiera con un abbraccio. Eppure è un evento significativo: un omaggio semplice e profondo alla Chiesa armena, che ha una storia non facile e che, nel 2015, ricorderà il centenario dei massacri degli armeni e dei cristiani nell’impero ottomano, durante la prima guerra mondiale. Incontrare un patriarca sofferente esprime un abbraccio a un’intera comunità.

Per l’ecumenismo di papa Francesco non contano il potere ecclesiastico o il ruolo delle persone, ma «guardare il volto l’uno dell’altro». Anche questo episodio “minore”, diventa illuminante rispetto al cammino che papa Francesco ha imboccato, perché l’amore rientri nei rapporti tra i cristiani, dopo che si era smarrito nei secoli passati e si è freddato in una consuetudine, pur importante, ma non pressata dall’urgenza dell’unità. Le alte parole del Papa al Fanar hanno trovato un’immediata realizzazione.

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‘Il nuovo calendario dell’Avvento’ Leccenews24.it

presentato a Lecce il libro di Antonia Arslan. 

Lecce. Un libro che racconta 25 storie. Storie familiari e fantastiche che attingono a tradizioni diverse, sia occidentali che orientali, seguendo un ritmo musicale sensibile, per declinare quel senso della vita che tutti cercano e che risuona nella voce del verbo attendere.

Si chiama “Il nuovo calendario dell’Avvento” la nuova fatica letteraria di Antonia Arslan, scrittrice italo-armena che nel pomeriggio di oggi è stata ospite presso le Officine Cantelmo a Lecce in un incontro, gremito in ogni ordine di posto, al quale era presente una nutrita rappresentanza delle scuole della provincia. Continua a leggere

Papa Francesco: “Credo che la Siria non fosse in grado di costruire armi chimiche”. Repubblica.it

Le parole di Bergoglio sull’aereo durante il viaggio di ritorno dalla Turchia

Papa Francesco (lapresse) ROMA – L’occasione è il colloquio con i giornalisti durante il viaggio di ritorno dalla Turchia. Prima una stigmatizzazione del traffico di armi, “è terribile, è uno degli affari più forti in questo momento”. Poi Papa Francesco si sofferma sulle motivazioni delle guerre, in particolare dell’attacco alla Siria che si voleva sferrare qualche mese fa. E dice: “L’anno scorso a settembre si diceva che la Siria aveva le armi chimiche: io credo che la Siria non fosse in grado di farsi le armi chimiche. Chi gliele ha vendute? Forse alcuni di quelli che poi l’accusavano di averle?”.

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Sergio Romano nega il genocidio armeno. Corriere della Sera

Ancora un volta ed a differenza della stragrande maggioranza dei suoi colleghi, l’editorialista del Corriere della Sera Sergio Romano, nega la realtà del genocidio armeno e sposa le tesi turche e quelle dello storico  Bernard Lewis che, negli anni novanta, fu addirittura condannato per la sua visione negazionista della storia.

Sul CDS del 08 maggio u.s. ad un replica dell’Ambasciatore della Repubblica d’Armenia in Italia Sergio Romano risponde che i fatti del 1915 non possono essere definite “genocidio”, ignorando che il termine stesso di “genocidio” fu coniato dal giurista ebreo – polacco Raphael Lemkin in chiaro riferimento al crimine commesso contro gli armeni da parte dell’allora governo turco. 

A meno di un anno dal centenario del genocidio armeno la Turchia sta predisponendo enormi somme di denaro per contrastare lo “tsunami” che la travolgerà. Chissà se parte di quel denaro sarà investito anche in italia? 

Noi sicuramente vigileremo.

Di seguito il testo della replica dell’Ambasciatore armeno e la risposta di Sergio Romano. Cds 08.05.2014

MASSACRI DEL POPOLO ARMENO LE RESPONSABILITÀ TURCHE OGGI

Replica dell’Ambasciatore

Nella sua rubrica del 1° maggio lei ascrive alla Armenia posizioni agli antipodi rispetto alla realtà documentata. Il mio non è un j’accuse all’onestà intellettuale dell’autore, né alla sua buona fede. D’altronde il Corriere è stato testimone eloquente del genocidio armeno. Sui protocolli armeno-turchi, la visita in Armenia del presidente turco Gul, del 6 settembre 2008 e non del 2007, fu iniziativa armena. Dopo un anno di mediazione elvetica, il 10 ottobre 2009, e non 2008, a Zurigo furono firmati due protocolli sull’istituzione di rapporti diplomatici e la normalizzazione dei rapporti bilaterali, inclusa l’apertura da parte turca del confine con l’Armenia. Presenti i ministri degli esteri francese, statunitense, russo, svizzero e l’Alto rappresentante Ue che chiesero alle parti (e tuttora chiedono alla Turchia) di ratificare i due protocolli senza precondizioni e in tempi ragionevoli. L’11 ottobre 2009, Erdogan precondizionò la ratifica dei protocolli a una soluzione pro-azera del conflitto del Nagorno- Karabach. Fu l’inizio del siluramento dei protocolli firmati il giorno prima. Contrariamente a quanto sostenuto da lei , i protocolli di Zurigo, i cui testi sono pubblici, non legavano la normalizzazione dei rapporti armeno turchi ai negoziati per il Nagorno-Karabach, ancora in corso sotto l’egida Osce. Invece, le dichiarazioni di Erdogan del 23 aprile scorso ai discendenti degli armeni sono state sorprendenti, anzi di un cinismo sorprendente. Erdogan ha parlato delle sofferenze di tutti i sudditi ottomani, mettendo sullo stesso piano vittime e carnefici. Fino a quando il premier turco definirà il genocidio armeno come un mero incidente della Prima guerra mondiale, con i bonari commenti di alcune voci della stampa internazionale, riuscirà nella sofisticazione del negazionismo di Stato turco. Io non reputo la sua dichiarazione del 23 aprile nient’altro che questo. Altri reputano le dichiarazioni di Erdogan troppo poco e troppo tardi. Bene, il 29 aprile Erdogan ha cinicamente chiesto: se ci fosse stato un genocidio, ci sarebbero ancora degli armeni in questo Paese (Turchia)? Che dire allora degli ebrei in Germania o dei tutsi in Ruanda? Dove lei ritiene non promettente la richiesta del presidente armeno alla Turchia di riconoscere il genocidio e liberarsi dal fardello della Storia, vorrei ricordare che tutti gli armeni attendono questo atto da 99 anni, ora insieme alla società civile turca e a quella parte di comunità internazionale che con atti di verità e libertà hanno riconosciuto il genocidio e invitato la Turchia a seguirli.

Sargis Ghazaryan, Ambasciatore Repubblica d’Armenia in Italia

Risposta negazionista si Sergio Romano

Caro Ambasciatore,
Il nodo della questione resta quindi, per l’Armenia, il riconoscimento del genocidio. Spero che non le spiaccia se la definizione è sempre parsa a me e a altri osservatori o studiosi (fra cui il noto storico anglo- americano Bernard Lewis) storicamente scorretta. È genocida la politica di un governo che si propone la totale eliminazione di un gruppo etnicoreligioso, come accadde per le comunità ebraiche durante il regime nazista. Ma nel caso degli armeni la situazione mi sembra diversa per almeno due ragioni.
In primo luogo la spietata repressione del 1915 colpì gli armeni della Turchia orientale, ma non fu estesa con le stesse modalità alle comunità di Istanbul e Smirne. In secondo luogo, la definizione non tiene conto del momento storico. La guerra era scoppiata da pochi mesi, l’esercito turco si era duramente scontrato con quello russo a Tabriz. Vi erano formazioni armene fra le forze zariste e gli insorti armeni, dopo essersi impadroniti della città di Van, ne avevano proclamato l’autonomia. Non è sorprendente, in tali circostanze, che gli armeni apparissero a Mosca come una pericolosa quinta colonna del nemico.
È molto probabile che al vertice del nazionalismo turco vi fosse il desiderio di cogliere l’occasione per liquidare la questione armena una volta per tutte; e i massacri durante la lunga marcia della morte verso Aleppo sono una delle pagine più sanguinose della storia ottomana. Ma non mi sembra che questo basti per definirli un genocidio e per attribuirne implicitamente la responsabilità morale dei turchi di oggi.