TURCHIA. Sondaggio: “Quello degli armeni non fu genocidio”. Nena-news

A pochi mesi dalla commemorazione del centenario del massacro, Ankara appare ancora molto lontana dal riconoscimento delle sue responsabilità

Una “marcia della morte” nel deserto siriano

della redazione

Roma, 15 gennaio 2015, Nena News – Il governo turco non solo non dovrebbe scusarsi per quanto avvenuto nel 2015, ma non dovrebbe neppure riconoscerlo come “massacro sistematico”, perché quello degli armeni non fu genocidio. E’ quanto si evince da un sondaggio condotto tra novembre e dicembre scorsi dal Centro per gli Studi di Economia e di Politica Estera (EDAM) su un campione di 1.508 cittadini turchi, i cui risultati sono stati diffusi martedì scorso in vista della commemorazione del centenario del genocidio armeno il prossimo 24 aprile.

Il sondaggio ha rivelato che solo 9.1 percento dei soggetti intervistati crede che Ankara dovrebbe ammettere di aver perpetrato un genocidio e scusarsi per quelli che comunemente le autorità turche definiscono “i fatti del 1915″, e cioè per il rastrellamento, la deportazione e l’uccisione di circa 1.2 milioni di cittadini armeni dell’allora Impero Ottomano. Un altro 9.1 percento crede invece che il governo debba scusarsi senza però menzionare la parola “genocidio”.

Sempre secondo i risultati diffusi, il 23 percento degli intervistati sostiene che non tutti quelli che morirono nel 1915 furono armeni – secondo gli storici, durante la prima guerra mondiale i “Giovani Turchi” eliminarono anche un gran numero di greci e assiri – e per questo Ankara dovrebbe esprimere il proprio rammarico nei confronti di “tutti i cittadini ottomani” che perirono in quel periodo. Il dodici percento degli interrogati, invece, sostiene che le autorità dovrebbero esprimere il proprio cordoglio per gli armeni morti nel 1915 senza però scusarsi. Il 21 percento, infine, pensa che la Turchia non debba prendere alcuna posizione rilevante sul genocidio armeno.

In vista delle commemorazioni di aprile, le autorità turche si troveranno ad affrontare di nuovo la questione del riconoscimento del genocidio armeno: l’anno scorso l’allora primo ministro Recep Tayyip Erdogan fece una sortita straordinaria, porgendo per la prima volta le condoglianze alle vittime per i massacri di quegli anni; una mossa che il presidente della repubblica armena Serzh Sarkisian non ritenne soddisfacente, dal momento che “Ankara continua a negare di aver perpetrato il massacro sistematico degli armeni e si rifiuta di chiamarlo genocidio”.

Secondo la storiografia e la narrativa turche, circa 500 mila armeni – e altrettanti turchi dall’altra parte della barricata – morirono di fame o combattendo al fianco degli invasori russi durante la prima guerra mondiale. Le foto e le testimonianze delle “marce della morte” invece, in cui centinaia di migliaia di armeni perirono guardate a vista da guardie turche durante i trasferimenti forzati verso le regioni orientali e desertiche dell’allora Impero Ottomano, raccontano una versione diversa. Nena News

La Civiltà Cattolica e il genocidio degli armeni: 7 volumi di documenti Lastampa.it /Vaticainsider

Armeni in Turchia

Una tavola rotonda della rivista dei Gesuiti per non dimenticare, a un secolo di distanza, una strage ancora negata dal governo turco

Marco Tosatti
Roma

 

Sabato 17 gennaio nella sede della Civiltà Cattolica, alle 18, si svolgerà una tavola rotonda intitolata «1915-2015: a 100 anni dal genocidio armeno», moderata da padre Francesco Occhetta sj e a cui parteciperà anche Georges Ruyssens, docente al Pontificio Istituto biblico. Georges Ruyssens è probabilmente uno dei più grandi specialisti del genocidio armeno, compiuto dai «Giovani turchi», e ancora adesso oggetto di una tenace opera di negazionismo da parte del governo di Ankara, a dispetto dell’opinione sicuramente maggioritaria degli storici, alcuni dei quali anche turchi, sulla sua evidenza. Georges Ruyssens ha pubblicato i documenti sul genocidio armeno conservati in Vaticano. Scrive sul suo blog padre Occhetta: «Si tratta di un’opera che possiamo definire colossale. Anni di ricerca silenziosa negli archivi vaticani. La questione armena respira adesso con un polmone della storia rimasto inedito».

 

Lo scopo dei volumi che Georges Ruyssen sta pubblicando è quello di rendere accessibili le fonti di parte ecclesiastica per uno studio sereno degli eventi definiti dalla comunità armena il «Grande Male». La serie è intitolata «La questione armena», e raccoglie in sette volumi i documenti diplomatici conservati nell’Archivio segreto vaticano (Asv), nell’Archivio della Congregazione per le Chiese orientali (Aco) e nell’Archivio storico della Segreteria di Stato (Ss.Rr.Ss.).

 

È veramente un’opera di grandissima ampiezza. I volumi vanno infatti dall’epoca dei massacri hamidiani (1894-1896), così chiamati dal sultano Abdul Hamid, il «sultano rosso», alla ribellione e ai massacri di Van (1908), ai massacri di Adana (1909), e al genocidio armeno (1915); proseguono poi con la rioccupazione del Caucaso dai turchi dopo il ritiro delle truppe russe (1918), l’evacuazione della Cilicia dalla Francia (febbraio, marzo 1922) e la politica kemalista del panturchismo che ha portato all’esodo massivo dei cristiani della Turchia (anni 1920 in poi), per giungere agli eventi luttuosi di Smirne, con il massacro dei greci (settembre 1922). Infine si dà conto dei tentativi per risolvere la questione armena nel seno della Società delle Nazioni (1923-1925). Tutto questo vissuto, raccontato attraverso la lente degli informatori e della diplomazia della Santa Sede.

 

Citiamo per esempio quello che scriveva un cappuccino: «Di fatti in quella stessa notte [cioè il 23 giugno 1915] si procedette ad arresti in massa; il dì seguente si leggeva su tutti i muri, un ordine, che dava agli armeni cinque giorni di tempo, per regolare i loro affari e mettersi nelle mani del governo, uomini, donne, fanciulli ammalati, decrepiti, sacerdoti e suore cattoliche, senza eccezione, per essere internati, in luogo ignoto. Un cordone militare impediva ogni comunicazione col loro quartiere. L’indomani già cominciava la deportazione. Pochissimi poterono non regolare, ma disastrosamente liquidare il loro avere. Si sperò un momento qualche favore pei cattolici, come, (dicessi) a Trebizonda, vana speranza. Il 28 e 29 (ultimi giorni accordati) si spiegò una fortissima propaganda musulmana, cambiando così la base dell’azione. L’esempio di alcuni ricchi fu seguito, e al momento che scrivo, parecchie centinaia di armeni e cinque famiglie cattoliche fecero già la loro domanda d’essere ammessi all’islam. Voci di massacri, vere o sparse ad arte, accentuano questo movimento. Le donne sono quelle che resistono di più. S.E. capirà che non posso entrare in dettagli né emettere appreziazioni implorando il suo aiuto, quello della Santa Sede, delle potenze alleate alla Turchia». (Lettera del Cappuccino Michele Liebl [da Capodistria], missionario austriaco a Samsun, al delegato apostolico Dolci del 30 giugno 1915).

E quello che scriveva monsignor Scapinelli, nunzio apostolico a Vienna, al segretario di Stato, il cardinale Gasparri: «La parola “deportazione” significa: 1) la separazione assoluta dei mariti dalle loro mogli, e delle madri dai loro fanciulli; 2) minacce e lusinghe di emissari turchi, affine di costringere gli uni e gli altri ad apostatare. Gli apostati poi – e ve ne sono molti – sono immediatamente spediti in località esclusivamente musulmane, da dove non si dà più ritorno. 3) Ratto di donne, secondo che per le loro qualità fisiche convengono alla vendita nei harem, o a contentare le basse passioni dei notabili o dei custodi; 4) le piccole fanciulle di diverse località si destinano in qualità di piccole serve di case turche che hanno poi l’obbligo di dar loro la rispettiva educazione musulmana. Ve ne sono giunte perfino a Costantinopoli. Altrove si circondino tutti i fanciulli cristiani, per internarli poi in case turche. […] i superstiti sono costretti ad abbandonare tutto il loro avere, case, possessioni, denaro, e forzati a partire per l’interno, accompagnati per lo più da gendarmi brutali, migrano di villaggio in villaggio, di pianura in pianura, senza tregua, sempre verso destinazione ignota. Moralmente abbattuti pei dolori e le separazioni subiti, il loro organismo non è più atto a resistere alle intemperie e alle privazioni, cosicché ne muoiono molti per istrada. Altri vi sono addirittura massacrati. Così, su conferma, la notizia di un massacro generale di armeni a Van e Bitlis; poi quello di Mardin, dove fu massacrato il Vescovo cattolico insieme con 700 dei suoi fedeli. Di Angora riferisce il testimone protestante sopraccitato, che tutta la popolazione maschile armena, al di sopra di 10 anni, sia sterminata per via di un massacro. Così si potrebbero citare tanti altri esempi. Il fatto seguente, riferito da due testimoni turchi intervistati dal relatore, serva a rilevare le barbarie cui soggiacciono i poveri diportati. In una chiesa abbandonata, sulla via d’Angora, erano rinchiusi e custoditi alla baionetta da 150-200 armeni diportati, fra cui un prete cattolico e due suore».

 

È passato un secolo da quei fatti, che segnarono la fine di una delle comunità cristiane più numerose e attive, insieme agli assiri e a greci in quella regione. E vediamo che ancora, di nuovo, altri cristiani vivono una stagione di persecuzioni proprio in quegli stessi luoghi.

Wegner, il Lawrence degli armeni. Corriere della Sera

Si oppose al genocidio (che compie un secolo) e cercò di risvegliare
le menti europee. Alla Biblioteca Marciana di Venezia una mostra celebra l’eroe

di Gian Antonio Stella

«Mai come in questi giorni ho sentito vicino a me distinto il frusciare della morte, il suo silenzio, il suo freddo sorriso, e spesso mi chiedo: posso io ancora vivere? Ho ancora il diritto di respirare, di fare progetti per anni futuri così fantasticamente irreali, quando attorno a me c’è un abisso di occhi di morti?» Era disperato Armin Wegner, quel 29 marzo 1916 in cui scrisse alla madre da Bagdad quella lettera in cui raccontava l’orrore per il genocidio armeno. Il mondo intero gli era caduto addosso. Solo pochi mesi prima, il 2 novembre, «sotto il caldo sole d’autunno» a Istanbul, aveva travolto i genitori con l’incontenibile entusiasmo per l’avventura che sognava di vivere come infermiere tra le truppe germaniche alleate dei turchi contro l’Impero russo. Una eccitazione dannunziana: «Dormirò con i soldati turchi e mi ciberò di rifiuti come un ratto (…). Ho il remo della mia vita in mano». Era un giovanotto sulla trentina, Armin. Bello, rampollo di una famiglia di rigide tradizioni prussiane, amato dalle donne, fascinoso con quella divisa della Croce Rossa tedesca e la kefiah bianca che gli dava un’aria esotica alla Lawrence d’Arabia. Quella feroce pulizia etnica, compiuta sotto i suoi occhi, lo sconvolse.

E lo spinse a diventare, con le sue lettere, le sue denunce, le sue foto sconvolgenti di deportazioni, marce nel deserto, scheletri di bimbi fatti morire di fame sotto le mura di Aleppo, foto proibite «pena la morte», il principale testimone del genocidio. Rientrato in patria, nel gennaio 1919 pubblicò La via senza ritorno e tentò di scuotere lo stesso presidente Usa Woodrow Wilson scrivendogli sul «Berliner Tageblatt» una possente lettera aperta dove, facendosi intendere pure dai compatrioti tedeschi distratti verso i massacri commessi dall’alleato turco, invocava una patria per quei cristiani sradicati dall’Anatolia «perché a nessun popolo della terra è mai toccata un’ingiustizia quale quella toccata agli Armeni»: «I villaggi furono bruciati, le case saccheggiate, le chiese distrutte o trasformate in moschee, il bestiame rubato; si tolse loro l’asino e il carro, si strappò il pane dalle mani, i bambini dalle braccia, l’oro dai capelli e dalla bocca. Funzionari, ufficiali, soldati e pastori, gareggiando nel loro selvaggio delirio di sangue, trascinavano fuori dalle scuole ragazze orfane per il loro bestiale piacere…».

Il tutto senza che l’Europa cristiana, a partire dalla «sua» Germania avesse un sussulto: «Signor presidente, salvi Lei l’onore dell’Europa!» Era un uomo libero. Così libero, come scrive Anna Maria Samuelli nel libro Armin T. Wegner e gli armeni in Anatolia, 1915 (Guerini e Associati, 1996), che visitando Mosca nel 1927 finì per mettersi contro sia i comunisti, che secondo lui avevano tradito ogni ideale socialista, sia i nazisti, che lo marchiarono come un «intellettuale bolscevico, traditore dei valori nazionali tedeschi». Libero e tedesco, tedesco e libero. Lo dimostrano una struggente mostra fotografica appena aperta alla Biblioteca Marciana di Venezia, i riconoscimenti ricevuti come «Giusto» da armeni ed ebrei, il libro che uscirà verso la fine di aprile da Mondadori scritto da Gabriele Nissim, lo scrittore presidente di «Gariwo, la foresta dei Giusti», che ricerca in tutto il mondo i Giusti di tutti i genocidi.

Aveva fegato, Armin Wegner. Al punto che, dopo la serrata antiebraica del 1933, osò scrivere una lettera a Hitler, recapitata alla Casa Bruna di Monaco (la ricevuta fu firmata da Martin Bormann) supplicandolo di proteggere la minoranza ebraica: «Se la Germania è diventata grande nel mondo, a ciò hanno contribuito anche gli ebrei». E giù un elenco, che iniziava con Albert Einstein e proseguiva con altri grandi ebrei tedeschi, imprenditori e intellettuali e olimpionici e giuristi e ricordava i dodicimila ebrei morti in guerra: come poteva la Germania «togliere ai loro genitori, figli, fratelli, nipoti, alle loro donne e sorelle ciò che si sono meritati nel corso di generazioni, il diritto a una patria e un focolare?» Montò il sangue alla testa, ai nazisti, nel leggere quella lettera che pareva irridere al Führer («Lei è mal consigliato!») e già prevedeva tutto: «Con la tenacità che ha permesso a questo popolo di diventare antico, gli ebrei riusciranno a superare anche questo pericolo — ma la vergogna e la sciagura che a causa di ciò si abbatterà sulla Germania non saranno dimenticate per lungo tempo! Infatti, su chi cadrà un giorno lo stesso colpo che ora si vuole assestare agli ebrei se non su noi stessi?»

Conclusione: «Non come amico degli ebrei, ma come amico dei tedeschi, come rampollo di una famiglia prussiana in questi giorni, quando tutti rimangono muti, io non voglio tacere più a lungo di fronte ai pericoli che incombono sulla Germania». Fino all’appello disperato: «Protegga la Germania proteggendo gli ebrei!». Fu sbattuto in galera, Armin Wegner, per quella lettera straordinaria. Pestato. Frustato a sangue. Torturato. Trasferito in un lager e poi un altro e un altro ancora. Costretto infine ad andarsene in esilio. Inghilterra, Palestina con la prima moglie ebrea Lola Landau e infine a Positano, Stromboli e Roma dove sarebbe morto quasi sconosciuto nel 1978: «La Germania mi ha preso tutto: la mia casa, il mio successo, la mia libertà, il mio lavoro, i miei amici, la mia casa natale e tutto quanto avevo di più caro. In ultimo la Germania mi ha tolto mia moglie; e questo è il paese che io continuo ad amare, nonostante tutto!». Non tornò più a vivere nella patria che l’aveva tradito, Wegner. Mai più. Neppure dopo il 1965 quando, nel cinquantenario del genocidio armeno, la nuova Germania di Ludwig Erhard e Willy Brandt lo riscoprì e gli tributò una serie di onorificenze. Meno importanti, per lui, di quelle ricevute dagli armeni e dagli ebrei, che riconoscono in lui l’esempio di un uomo che salvò un pezzetto dell’onore tedesco.

ARMENI, la strage vista dagli ebrei. Avvenire

Antonia Arslan

Il libro: calpestati e dimenticati
Nel 2015 ricorre il centenario del grande genocidio armeno. Per l’occasione la casa editrice Giuntina ha pensato di pubblicare un libro con quattro testimonianze di ebrei sconvolti, con le loro famiglie e amici, dall’essere stati testimoni della furia omicida e distruttrice dei turchi. Si chiama Pro Armenia. Voci ebraiche sul genocidio armeno (pagine 140, euro 12). Curato da Fulvio Cortese e Francesco Berti, con le traduzioni di Rosanella Volponi, propone interessanti scritti inediti degli anni immediatamente seguenti ai fatti. Pubblichiamo qui ampi stralci della prefazione di Antonia Arslan (nella foto). Quattro testimonianze sul e dal genocidio che in qualche modo ne ricostruiscono la storia, ne chiariscono le peculiarità e ne descrivono gli orrori. Una amara denuncia delle responsabilità, resa col coraggio di chi non rimane in silenzio davanti all’umanità calpestata. Ma soprattutto l’indignazione di chi vede il mondo restare inerme se non indifferente davanti a un crimine tanto efferato.

In ogni testimonianza ritornano, con infallibile puntualità, le stesse tragiche informazioni. E sono informazioni di prima mano, contemporanee allo svolgersi dei fatti. Come in una scena di film, girata più volte da differenti angoli di prospettiva, ma con gli stessi attori che recitano le stesse battute, da ognuno ritroviamo descritta la tecnica delle stragi degli armeni: l’uccisione degli uomini, la deportazione verso il nulla di donne, vecchi e bambini, gli assalti alle carovane, le violenze e gli orrori, i gendarmi avidi e crudeli, l’apocalisse del ferro e del fuoco. Balza agli occhi un’osservazione immediata: a tutti loro appare chiara, con palmare evidenza, la certezza della premeditazione, cioè la volontà precisa, da parte del gruppo di Giovani Turchi a capo del governo ottomano, di pianificare con estrema accuratezza lo svolgersi degli eventi.

Attraverso le tante storie raccontate dai testimoni facenti parte di un popolo, quello ebraico, ahimè più che esperto nel riconoscere i sintomi di pogrom e persecuzioni, il lettore rivive con vivida immediatezza i fatti che condussero all’eliminazione degli armeni dalle loro sedi ancestrali, e la brutalità efficiente dei membri del partito e delle bande di irregolari. Questi si servirono per i loro scopi di ogni astuzia e ogni mezzo possibile, disarmando i soldati di origine armena, annientando gli sporadici tentativi di resistenza, costringendo le donne alle marce della morte, col risultato finale di «estirpare» dalle radici la struttura sociale, culturale e religiosa del popolo armeno.

«In tutta questa guerra di orrori – scrive per esempio Lewis Einstein – questo [l’annientamento degli armeni] deve rimanere l’orrore supremo. Niente ha eguagliato la distruzione, silenziosamente pianificata, di un popolo, né i burocrati tedeschi possono facilmente sfuggire alla loro terribile parte di responsabilità per la loro acquiescenza in questo crimine. Il popolo armeno in Asia Minore è stato virtualmente distrutto».

È la stessa conclusione a cui giunge, con forza definitiva, Aaron Aaronsohn, nel suo appello Pro Armenia: «I massacri armeni sono frutto dell’azione pianificata con cura dai turchi, e i tedeschi certamente dovranno condividere per sempre con loro l’infamia di questa azione ». L’accusa verso i tedeschi in tutte queste testimonianze corre parallela a quella verso i turchi. Nessuno sembra aver dubbi sul fatto che le alte sfere dell’impero tedesco, uomini politici, diplomatici, militari, siano state complici dell’immenso delitto che è stato compiuto contro il popolo armeno: se non attivi partecipanti, perlomeno passivi spettatori di un’infamia contro la quale sarebbero potuti intervenire, vista la loro massiccia influenza sul governo turco – e non lo fecero. Anzi, come nel caso dell’ambasciatore a Costantinopoli Von Wangenheim e di altri tedeschi in posizioni importanti, arrivarono a giustificare i massacri e a favorire una politica di impassibile indifferenza.

Particolarmente interessante è il testo di Aaron Aaronsohn, palpitante testimonianza diretta del capo del famoso gruppo Nili, composto da alcuni, pochi, giovani ebrei, figli di famiglie emigrate dalla Romania verso la Terra Promessa alla fine dell’Ottocento, che dalla loro postazione in Palestina, dunque all’interno dell’impero ottomano, decisero di fornire preziose informazioni strategiche all’intelligence inglese. L’aver assistito impotenti al passaggio delle carovane degli armeni avviati allo sterminio, e la sensazione che dopo gli armeni lo stesso destino poteva toccare agli ebrei, influì potentemente sulla loro decisione.

Le informazioni fornite da Aaron, da sua sorella Sarah e dagli altri membri del gruppo furono preziose per l’esito della guerra in Siria e in Palestina, ma fu proprio la tragedia armena all’origine del loro appassionato impegno politico, come traspare chiaramente dai loro scritti dell’epoca, realistici, efficaci, ricchissimi di dati e di informazioni. Vi si percepisce non solo l’accuratezza emotiva dei testimoni oculari, ma anche l’empatia compassionevole e la fraternità nel dolore verso le disgraziate vittime armene: «I campi sono deserti, intorno al pozzo dei villaggi le ragazze armene non riempiono più le loro brocche. I turchi sono passati là. […] Armeni, fratelli miei, è un ebreo che vi sta parlando. Il figlio di una razza perseguitata, oltraggiata, mal-trattata, come lo è la vostra. […] Armeni, fratelli miei, noi non possiamo aspettarci nulla dai governi, noi abbiamo soltanto le nostre anime…» scrive per esempio con lucida passione, in un articolo da New York del novembre 1915 intitolato Armenia!, il terzo fratello, Alex. Più toccante di ogni parola è però la storia di Sarah. Lei non scrive, soffre e agisce.

Nell’estate del 1915, viaggiando da Costantinopoli verso casa, attraversa tutta l’Anatolia, vede con i suoi occhi ciò che viene fatto agli armeni, e ne rimane intossicata per sempre, tanto da coinvolgere profondamente i suoi fratelli, e da venir colpita per anni da seri disturbi psichici. Ma quando, nel settembre 1917, verrà scoperta, imprigionata e torturata, Sarah non rivelerà niente dell’attività del suo gruppo; si limiterà a inveire contro i suoi torturatori prima di uccidersi, maledicendoli e chiamandoli codardi e bestie selvagge, ma anche affermando la sua vittoria: «Voi siete perduti! La salvezza sta arrivando. Io ho salvato la mia gente, io ho vendicato il sangue degli armeni. Siate maledetti fino alla fine dei tempi!».

Completano il libro alcune pagine del dossier di Raphael Lemkin, il giurista e intellettuale ebreo polacco che inventò nel 1944 il termine «genocidio» e definì nelle sue specifiche caratteristiche il tipo di sterminio che da allora viene chiamato con questo nome. Come è noto, è la definizione di Lemkin che venne quasi per intero accettata dalle Nazioni Unite nella famosa seduta del dicembre 1948, ma va ricordato che egli cominciò a occuparsi di crimini contro l’umanità partendo dal caso armeno, di cui aveva cominciato ad appassionarsi leggendo i resoconti del processo di Berlino allo studente Soghomon Tehlirian, che nel 1921 aveva giustiziato il massimo responsabile del genocidio, Talaat Pascià, il ministro dell’Interno che nel 1915 era stato il principale organizzatore della «pulizia etnica» contro gli armeni.

Ed è proprio con Lemkin, questa figura cruciale e troppo spesso dimenticata della riflessione politica e umanistica del ventesimo secolo, che il tema dell’“invenzione genocidaria”, questo cancro della modernità, viene definito con fredda passione nelle sue infami modalità e conseguenze.

I tweet del presidente dell’Azerbaijan contro l’Armenia. Ilpost.it

Ilham Alivey ha scritto che l’Armenia «è un paese povero che non conta nulla» e altre cose molto dure: i due paesi hanno da anni pessimi rapporti

14 gennaio 2015

Martedì 13 gennaio il presidente dell’Azerbaijan, Ilham Alivey, ha scritto una serie di tweet molto duri contro l’Armenia, paese che confina con il territorio azero a ovest e col quale il suo governo ha pessimi rapporti. Dopo aver scritto 17 tweet sui miglioramenti che il paese ha compiuto nel 2014 – riguardanti la crescita economica, la diminuzione della disoccupazione e dell’inflazione, tra le altre cose – Alivey ha pubblicato diversi messaggi per attaccare l’Armenia e per denunciare la situazione del Nagorno-Karabakh, territorio che si è proclamato indipendente all’inizio degli anni Novanta e che è conteso da Azerbaijan e Armenia.

«Nessuna forza esterna può parlarci con il linguaggio da ultimatum».

«L’Armenia è un paese povero che non conta nulla».

 

«Se l’Armenia non avesse due grandi sostenitori in varie capitali, la guerra in Nagorno-Karabakh sarebbe già stata risolta molto tempo fa».

 

Mercoledì il ministro della Difesa azero ha accusato di nuovo l’Armenia di avere violato decine di volte la tregua in vigore tra i due paesi. Lunedì 12 gennaio il ministro della Difesa armeno aveva detto che la sera prima un gruppo di uomini armati azeri aveva cercato di superare il confine tra i due paesi: un uomo armato e un civile azero sono rimasti uccisi, ha detto il governo armeno. Il ministro della Difesa azero ha negato che fosse avvenuto l’incidente.

Armenia e Azerbaijan hanno combattuto una guerra tra il 1992 e il 1994: la guerra è finita con una tregua, comunque piuttosto precaria, che è stata violata e rinnovata per gli anni successivi. Nel settembre del 2014 ci sono stati nuovi scontri tra gli eserciti dei due paesi per il controllo del Nagorno-Karabakh, i più gravi dal 1994. Ancora oggi l’Armenia controlla circa il 20 per cento del territorio dell’Azerbaijan, tra cui la maggior parte del Nagorno-Karabakh e parecchie altre regioni lì attorno.

Le Kardashian si preparano a visitare l’Armenia. Tio.ch

Le tre sorelle Kardashian si dicono molto eccitate in vista della visita nella loro terra d’orgine

LOS ANGELES – Kim, Khloé e Kourtney Kardashian si preparano in vista del viaggio in Armenia, la terra d’orgine del padre scomparso Robert.

Una fonte ha rivelato a E!News: “Visitare l’Armenia è da sempre nella lista dei desideri di Kim. Tutte loro sono molto eccitate. Vogliono sapere qualcosa di più sulle loro origini”.

In attesa di maggiori dettagli sul viaggio, in programma ad aprile, della comitiva dovrebbero essere anche la piccola North, figlia di Kim e Kanye West, e i tre bambini di Khloé, Mason, Penelope e la neonata Reign, sotto la guida dei cugini che dovrebbero mostrar la loro terra d’origine.

Kanye pare abbia già dato la sua disponibilità mentre non è ancora certa la presenza di Scott Disick, il compagno della sorella minore Kourtney.

Recentemente Kim confessava come visitare l’Armenia fosse uno dei sogni che non era ancora riuscita a realizzare.

“La gente mi chiede spesso informazioni sulle mie origini – raccontava – ma sfortunatamente non sono mai stata in Armenia. Andare lì è un sogno e lo realizzerò sicuramente.”

Il viaggio alla scoperta delle radici passate renderebbe sicuramente orgoglioso il padre della socialite, Robert, morto di cancro nel 2003.

La star dei reality spiegava: “Mio bisnonno era armeno e mia bisnonna era metà armena e metà turca. Mia madre è inglese e io sono per metà armena ma sono stata cresciuta con l’influenza armena. Ho sempre sentito storie sull’Armenia, mangiato cibo armeno e rispettato le festività armene. Mio papà sarebbe orgoglioso se andassimo a scoprire le nostre radici. Ci diceva sempre di essersi rifiutato di rimuovere il suffisso -ian dal nostro cognome al pari di quanto fatto da altri armeni emigrati negli Stati Uniti. Era orgoglioso di essere armeno e uno dei suoi più grandi rimpianti era quello di non averci mandato in scuole armene. Io sono orgogliosa di essere armena e di identificarmi con i miei fan armeni”.

Famiglia sterminata da un soldato Unico sopravvissuto, un neonato. Unionesarda

Un’intera famiglia composta da 6 persone è stata uccisa a colpi di kalashnikov in Armenia.

E’ ricercato il sospetto autore di una strage avvenuta a Gyumri, in Armenia. Valeri Permiakov, soldato russo, è accusato di aver ucciso a colpi di kalashnikov sei membri di una famiglia; l’unico sopravvissuto è un bimbo di sei mesi, che però è stato gravemente ferito da una serie di coltellate ed è in gravi condizioni. Sul luogo della carneficina sono stati ritrovati degli stivali militari con all’interno il nome del soldato sulle cui tracce si è messa la polizia. Risulta che Permiakov abbia abbandonato la base russa in Armenia in cui prestava servizio senza più dare notizie di sé.


 

Fermato il russo sospettato di strage in Armenia. Voce della Russia 13.01.2015

 

Le guardie di frontiera hanno fermato il militare russo sospettato di uccisione di una famiglia di 6 persone nella città armena di Gyumri.

Il militare, che si chiama Valery Permiakov, è stato fermato mentre cercava di varcare il confine armeno-turco.

Secondo i dati della polizia, lunedì mattina a Gyumri, seconda città dell’Armenia situata nel nord-ovest del paese, dove è dislocata la base n.102 delle forze armate della Russia, con un fucile d’assalto è stata uccisa un’intera famiglia, compresa una bimba di due anni.

È sopravvissuto soltanto un bambino di 6 mesi che però è stato ferito al petto e ora si trova in rianimazione in gravi condizioni.
Per saperne di più: http://italian.ruvr.ru/news/2015_01_13/Fermato-il-russo-sospettato-di-strage-in-Armenia-2343/

 

Venezia, le mostre del 2015 iniziano con un tributo ad Armeni ed Ebrei. Genteveneta

Questo nuovo anno non si sa se porterà la tanto sospirata ripresa economica, ormai assente da parecchi anni e a ogni inizio anno invocata. Ma per chi desideri arricchirsi culturalmente, Venezia nel 2015 offrirà molte possibilità di ammirare mostre e opere d’arte di primaria importanza, ribadendo ancora una volta il ruolo centrale della nostra città a livello internazionale nel settore delle arti e della cultura.

Si comincia già il 9 gennaio 2015 con l’inaugurazione presso la Libreria Sansoviniana in Piazzetta San Marco di “Armin T. Wegner, un giusto per gli Armeni e per gli Ebrei”. Si tratta di un’esposizione che consta di 24 pannelli con 80 fotografie scattate dall’Ufficiale tedesco Armin T. Wegner, testimone oculare del genocidio degli Armeni perpetrato nel 1915. 

Giunge così a Venezia una mostra itinerante che ha già toccato 90 città in Italia e all’estero, ora arricchita di un nuovo contributo che mette in risalto il rapporto di Wegner con l’ebraismo e la sua resistenza al nazismo (in mostra saranno proposti il testo della lettera inviata da Wegner a Hitler e un estratto dell’intervista con Martin Rooney sul rapporto tra Wegner e l’ebraismo). La rassegna resterà visitabile fino al 3 febbraio. 

Si continua poi a febbraio 2015 con la Collezione Peggy Guggenheim, che quest’anno omaggia il grande pittore statunitense Jackson Pollock: prima dal 14 febbraio al 6 aprile 2015 con l’esposizione di “Alchimia”, uno dei primi dipinti realizzati da Pollock con il ”dripping” (tecnica dello sgocciolamento inventata dallo stesso artista americano) e recentemente restaurato; poi dal 22 aprile al 14 settembre 2015 sarà la volta di “Murale. Energia resa visibile”: dagli Usa arriva infatti l’opera più grande mai realizzata da Jackson Pollock, appunto il suo celebre Murale di ben 6 metri di lunghezza. In contemporanea, sempre dal 22 aprile al 14 settembre 2015, si terrà la prima retrospettiva dedicata al fratello Charles Pollock con opere concesse dall’Archivio Charles Pollock di Parigi e dall’American Art-Smithsonian Institution.

Il 6 marzo a Palazzo Ducale si inaugura la mostra “Henri Rousseau. Il Candore Arcaico”, dedicata al grande pittore francese di fine Ottocento, le cui opere rappresentano una significativa esperienza nella cultura figurativa dell’avanguardia francese.
Il 12 aprile aprono in contemporanea una mostra a Palazzo Grassi e una a Punta della Dogana, entrambe fiori all’occhiello del magnate francese François-Henri Pinault.

Palazzo Grassi accoglierà una grande retrospettiva dedicata all’opera di Martial Raysse, uno dei più significativi pittori francesi degli ultimi sessant’anni, vincitore del Praemium Imperiale 2014. La mostra sarà la prima monografica dedicata all’artista al di fuori della Francia dal 1965 e raccoglierà più di 300 lavori (pitture, sculture, installazioni al neon e video), di cui circa la metà mai esposti al pubblico. Questa esposizione fa parte del programma di mostre monografiche dedicate ai maggiori artisti contemporanei – inaugurato da Palazzo Grassi nell’aprile 2012 con Urs Fischer e proseguito nel 2013 con Rudolf Stingel – che si alternano alle esposizioni tematiche con opere della Pinault Collection.

In contemporanea a Punta della Dogana sarà inaugurato “Slip of the Tongue”, un progetto espositivo inedito, curato dall’artista danese ma di origine vietnamita Danh Vo, in collaborazione con Caroline Bourgeois (che si occupa anche dell’esposizione precedente).

A maggio poi, in laguna, come di consueto, apre la Biennale d’arte, in questa 56a edizione diretta dal curatore Okwui Enwezor.
Infine, anche se non avrà luogo a Venezia, non si può non citare la mostra “Carpaccio, Vittore e Benedetto da Venezia all’Istria”, che apre a Palazzo Sarcinelli a Conegliano il 7 marzo.

Marco Monaco

1915: 1.5 milione di martiri Armeni. La Stampa

Un secolo fa il “triumvirato” a capo del governo turco si preparava a dare il via al genocidio degli armeni (e delle altre minoranze cristiane dell’Impero). La tragica ironia della storia vuole che esattamente un secolo più tardi quelle stesse regioni vedano in atto una nuova persecuzione contro i cristiani, condotta nel nome dell’islam da fondamentalisti armati e finanziati dai Paesi del Golfo, con la complicità di Ankara e dell’occidente.

 

marco tosatti

 

Un secolo fa il “triumvirato” a capo del governo turco si preparava a dare il via al genocidio degli armeni (e delle altre minoranze cristiane dell’Impero). La tragica ironia della storia vuole che esattamente un secolo più tardi quelle stesse regioni vedano in atto una nuova persecuzione contro i cristiani, condotta nel nome dell’islam da fondamentalisti armati e finanziati dai Paesi del Golfo, con la complicità di Ankara e dell’occidente. Nel genocidio armeno, il primo del secolo dei genocidi, morirono centinaia di migliaia di persone. E i cento anni dall’inizio di quella tragedia saranno segnati dalla più grande canonizzazione di massa mai verificatasi.

 

La Chiesa apostolica armena la cui sede è in Armenia, a Echmiadzin proclamerà il martirio di un milione e mezzo di uomini, donne e bambini uccisi nel 1915 e negli anni seguenti. Lo annuncia Aleteia, citando una lettera enciclica del patriarca della Chiesa Apostolica Karekin II. La cerimonia si svolgerà il 23 aprile. IL 24 aprile 1915 ebbe inizio il genocidio, con arresti, violenze e devastazioni compiute a Costantinopoli. Le celebrazioni si estenderanno per tutto l’anno, ha sottolineato Karekin II , specificando che “ogni giorno del 2015 sarà un giorno di ricordo e di devozione al nostro popolo, un viaggio spirituale al memoriale dei nostri martiri”.

 

“Nel 1915 e negli anni successivi – ricorda il patriarca nella sua lettera –, un milione e mezzo di nostri figli e figlie ha subito la morte, la fame, la malattia; è stato deportato e costretto a camminare fino alla morte”.

 

Il patriarca ricorda anche che la Turchia – dai tempi del laico Ataturk fino all’islamico Erdogan – non solo non riconosce il genocidio, ma compie un’opera attiva di negazionismo. Karekin II ha parlato di “negazione criminale della Turchia”. “Il sangue dei nostri martiri innocenti e le sofferenze del nostro popolo gridano per avere giustizia”, ha scritto il patriarca, che cent’anni dopo la tragedia denuncia i “santuari distrutti, la violazione dei nostri diritti nazionali, la falsificazione e la distorsione della nostra storia”.

 

Nei giorni scorsi la Grecia ha impedito l’ingresso nel Paese al “Talat Pasha Committee”, un gruppo nazionalista turco che voleva protestare contro una legge approvata dal parlamento greco in settembre, che rende più pesanti le pene per chi è colpevole di negazionismo verso i genocidi e i crimini di guerra. Talat Pasha è ritenuto uno dei maggiori ideatori e organizzatori del genocidio armeno. Per la sensibilità armena rappresenta quello che per gli ebrei potrebbe essere Hitler o Himmler. Il Comitato voleva protestare contro la legge, ma all’arrivo ad Atene è stato obbligato a riprendere il primo volo per la Turchia.

 

http://www.lastampa.it/2015/01/10/blogs/san-pietro-e-dintorni/milione-di-martiri-armeni-pMKQd5IYuHq0tSZNwBuRYL/pagina.html

Savall: «Racconterò il dramma degli armeni in un nuovo spettacolo». Il piccolo.gelocal.it

Domani il violoncellista proporrà al “Verdi” di Pordenone il programma “Folias & Canarios” con il suo ensemble

di Alex Pessotto

 

PORDENONE. È il suo primo concerto. Del 2015, non certo della sua vita. Giacchè, Jordi Savall proprio quest’anno festeggia i suoi primi cinquant’anni di attività. E se oggi i concerti su strumenti d’epoca, basati su un approccio scrupolosamente filologico, sono ormai numerosi una buona parte di merito è sua.

 

Il grande musicista sarà domani, alle 20.45, al Teatro Verdi di Pordenone con l’Ensemble Hespèrion XXI impegnato in un programma dal titolo “Folias & Canarios” che prevede, fra le altre, le esecuzioni di musiche di Diego Ortiz, Santiago de Murcia, Marin Marais. In esclusiva per il Nordest, l’appuntamento, che rientra nella stagione del teatro, e, in particolare, nella sua programmazione dedicata al violoncello, sarà anche registrato (e successivamente trasmesso) dalle telecamere di Rai 5, precisamente da “Petruška”, trasmissione condotta da Michele Dall’Ongaro.

 

Maestro Savall, cosa si propone per il 2015? In musica, ovviamente.

«Ci sono progetti discografici e concertistici. Per quanto riguarda quest’ultimi, ad esempio, faremo diversi programmi: sulla musica armena per ricordare la terribile persecuzione di cent’anni fa, sulla guerra di secessione spagnola, sui 400 anni della morte di El Greco (avvenuta per l’esattezza nel 1614), sulla tratta degli schiavi. Insomma, posso dire che ci sono in programma molte cose».

 

Nell’adottare un approccio filologico cosa “si guadagna” e cosa “si perde”?

«Non è tanto un fatto di “guadagnare” o “perdere”. Direi che quando si usano gli strumenti d’epoca e le prassi filologicamente concordi alle varie epoche storiche si è innanzi tutto molto più vicini allo spirito dei compositori che si affronta. Ma ciò vale soltanto se l’artista che suona o canta è un buon artista. Ecco, nella musica “si guadagna” o “si perde” qualcosa soprattutto a seconda della qualità dell’artista che si esibisce».

 

Cosa pensa dei suoi colleghi che prediligono un altro tipo di approccio per le loro esecuzioni, e, quindi, un approccio non filologico?

«La musica può essere fatta con approcci diversi. Ma l’importante è che sia fatta bene. È una questione di gusto personale. E io rispetto coloro che prediligono, anche come ascoltatori, un approccio diverso dal mio. Da giovane, uno dei miei dischi preferiti era quello delle Variazioni Goldberg suonate da Glenn Gould, che certo usava il pianoforte».

 

Quanta strada c’è ancora da fare per ristabilire le prassi esecutive degli strumenti d’epoca?

«Abbiamo avuto grandi direttori che hanno lasciato interpretazioni straordinarie (penso a Toscanini, a Furtwängler, a Kleiber padre e figlio). Oggi ce ne sono altri. E lo stesso può dirsi per quanto riguarda la musica antica. Non si può parlare di “strade”…: ci sono soltanto “vette” nell’ispirazione, nella creatività. E ciò, appunto, vale anche per la musica antica. C’è stato un lungo periodo in cui si è recuperata la prassi esecutiva degli strumenti antichi. Ad oggi, son più di 80 anni che la musica antica si sta sviluppando in una forma naturale come la musica classica e l’evoluzione che avrà sarà la stessa della musica classica grazie a molti artisti certo di livelli diversi: più bravi, meno bravi…».

 

A che punto è la situazione italiana per quanto riguarda la filologia in musica?

«Il pubblico come reagisce ai suoi concerti? Ci sono colleghi che sente particolarmente vicini? Conosco molti gruppi di musica antica in Italia; molti musicisti italiani hanno anche suonato con me. Penso stiano facendo un lavoro serio, lottando contro una condizione difficile che credo sia molto simile a quella della Spagna, un Paese che non ha capito che il suo patrimonio musicale è di grande valore. Il pubblico italiano è un pubblico sempre molto attento, recettivo, esigente e mi fa sentire sempre molto ben accolto, in base a una complicità che è assai piacevole avvertire».