Agenzia Fides – Liturgia al Santo Sepolcro per commemorare il Genocidio armeno. (9 mar 2015)

Gerusalemme (Agenzia Fides) – A Gerusalemme, il principale evento dedicato al centenario del Genocidio armeno si svolgerà il prossimo 24 aprile, presso la Basilica del Santo Sepolcro. Si tratterà di una liturgia commemorativa e ad essa presenzierà anche il Presidente d’Israele Reuven Rivlin. La notizia è stata diffusa dai media armeni e proviene da Georgette Avagian, a capo del Comitato nazionale armeno d’Israele.
Nei suoi interventi ufficiali (compresa la conferenza all’Onu dello scorso 29 gennaio) il Presidente Rivlin ha in più occasioni fatto riferimento al Genocidio armeno, ufficialmente non ancora riconosciuto da Israele. Lo scorso 13 maggio, il Parlamento israeliano aveva discusso in una seduta plenaria la questione, su sollecitazione di una mozione presentata da Zehava Gal-On, portavoce del Partito di sinistra Meretz, nella quale si chiedeva al governo israeliano di riconoscere il Genocidio armeno prima dell’inizio delle commemorazioni programmate in tutto il mondo nel 2015 (vedi Fides 14 maggio 2014). Intanto, lo scorso 4 marzo, i cento anni dal “Grande Male” sono stati commemorati in una sessione dell’Assemblea del popolo siriano – il parlamento di Damasco -, con un’iniziativa promossa in particolare dalla parlamentare siriana cristiana Maria Saadeh. (GV)

Gonews.it – Il primo genocidio del ‘900 ignorato per quasi un secolo. Antonia Arslan e il massacro degli armeni per Vincincontri. (8 mar 2015)

Il genocidio degli Armeni è il primo genocidio del ‘900. Questo lo sfondo storico che ha caratterizzato la serata di venerdì 6 marzo nell’incontro con la scrittrice Antonia Arslan a Vinci al Teatro della Misericordia. Quello attuato cent’anni fa ad opera dei Giovani Turchi non è un orrendo massacro, ma un vero e proprio genocidio perché pianificato e studiato per motivi essenzialmente politici e di logica di potere, un modello poi ripreso in epoche successive. Se nel corso dei decenni questo genocidio è stato volutamente dimenticato o ancora oggi viene negato dal Governo turco, i motivi hanno avuto origine diversa ma tutti hanno ignorato la verità dei fatti. Ne è prova che anche nei libri di storia delle nostre scuole solo da 5 o 6 anni si accenna a questa tragedia che ha causato circa un milione e mezzo di morti. La pubblicazione del libro di Antonia Arslan “La masseria delle allodole” nel 2004 ha fatto breccia su un muro di omertà e di opportunismo, venendo a contribuire notevolmente alla divulgazione di questa vicenda. Stampato in trentadue edizioni, tradotto in quattordici lingue ed onorato da vari premi letterari, “La masseria delle allodole” con la forza di un romanzo che, apparentemente innocuo, parla di lontane storie familiari reali ha avuto un effetto dirompente. La strada è stata, poi, percorsa dai fratelli Taviani che nel 2007 hanno girato il film omonimo “La masseria delle allodole”, moltiplicando la conoscenza della tragedia. Tra poco più di un mese, il 24 aprile ricorrerà il centesimo anniversario del genocidio. Lo stesso Papa Francesco, al quale il cantante novantenne di origine armena Charles Aznavour ha chiesto in questi giorni un’udienza, ha stabilito una celebrazione per gli Armeni il 12 aprile. La conferenza di Vincincontri, durante la quale è stato accennato anche al viaggio svolto proprio un anno fa da alcuni parrocchiani di Vinci in Armenia, è stata caratterizzata da un coinvolgimento pieno dei partecipanti alle sollecitazioni fornite da Antonia Arslan. Ecco perché la serata si è conclusa con un applauso interminabile!

Giornale del Popolo – Gli adoratori della croce nelle foto di Elio Ciol (7 mar 2015)

Un raffinato percorso fotografico, attraverso i paesaggi, la cultura, le pietre dell’Armenia e i suoi straordinari simboli cristiani. Continua

”Armenia. Il Popolo dell’Arca” (rassegna stampa 6 mar 2015)

A Roma, l’Armenia, l’Arca e il genocidio di un popolo (Artemagazine)

Reperti archeologici, codici miniati, illustrazioni e documenti, raccontano il paese del monte Ararat a 100 anni dal massacro

ROMA – Un patrimonio archeologico straordinario, una storia millenaria, un popolo fiero, ancora ferito da uno dei genocidi più crudeli dell’epoca moderna. Al Salone Centrale del Complesso del Vittoriano, dal 6 marzo al 3 maggio arriva Armenia. Il Popolo dell’Arca allestita in occasione del centenario del massacro armeno, perpetrato dai Turchi ai danni della popolazione civile e che contò l’uccisione di almeno 30 mila persone. Continua


Armenia, in mostra 3.000 anni di storia del popolo dell’Arca Al Vittoriano in occasione del centenario del genocidio (Ansa.it)

Una terra di cui poco si sa, ma ricca di storia e di cultura. Un popolo che nel corso della storia ha sofferto molto, riuscendo inesorabilmente a rialzarsi. Alla millenaria civiltà armena e alla capacità di resilienza del suo popolo è dedicata la mostra ”Armenia. Il Popolo dell’Arca”. Continua


L’Armenia svela i suoi tesori nella mostra ‘Il popolo dell’Arca.(Adnkronos)

Un lungo percorso, tra reperti archeologici, codici miniati, opere d’arte e illustrazioni, per svelare la civiltà armena dalle sue origini alla modernità. Questo l’obiettivo della mostra ‘Armenia. Il popolo dell’Arca. Continua


L’Armenia svela i suoi tesori nella mostra ‘Il popolo dell’Arca (liberoquotidiano.it)

L’esposizione è in programma al Complesso del Vittoriano da domani al 3 maggio. Per Louis Godart, consigliere del Presidente della Repubblica per la conservazione del patrimonio artistico, è “un omaggio ad un popolo che è un baluardo ai confini dell’Occidente contro tutte le barbarie”. La mostra, curata dall’Unione Armeni d’Italia, è realizzata n occasione del centenario del genocidio del 191. Continua


Armenia, il popolo dell’Arca, in mostra la resistenza di una civiltà.

“I tre pilastri su cui si fondano i valori fondamentali della nostra società europea, il mondo classico, quello cristiano e l’illuminismo sono oggi sempre più a rischio: basti vedere quello che è stato fatto dai terroristi dell’Isis ai capolavori del museo di Mosul. L’Armenia ci insegna che occorre resistere a queste barbare minacce, con la forza del pensiero e quella dell’anima”. Continua


Armenia. Il popolo dell’arca

Presso il Complesso del Vittoriano la straordinaria e ricca storia dell’Armenia si mette in mostra. Continua


http://roma.repubblica.it/cronaca/2015/03/03/foto/


 

Complesso del Vittoriano

 Salone Centrale
Roma
dal 6 marzo al 3 maggio
tutti i giorni dalle ore 9.30 alle ore 18.30
venerdì, sabato e domenica fino alle 19.30
ingresso gratuito

Armenia. Il popolo dell’arca

Il Fattoquotidiano.it – Milano, nel Giardino dei Giusti ci sono sei nuovi alberi. (6 mar 2015)

di Gianni Barbacetto

“Chi salva una vita salva il mondo intero”, è scritto nella Bibbia. Del resto, anche il Corano dice: “Chi uccide un solo uomo innocente, uccide tutta l’umanità”. Il gentile che salva la vita a un ebreo, a rischio della sua, è detto Giusto tra le nazioni e gli è dedicato un albero nella Foresta dei Giusti, a Gerusalemme. Ma il lavoro e la passione di Gabriele Nissim, scrittore milanese, ha fatto nascere Gariwo, l’associazione che ha promosso il Giardino dei Giusti di Milano, in cui viene ricordato chi, dopo la Shoah, si è dato da fare per salvare e soccorrere uomini in altri contesti tragici, dal genocidio armeno a quello del Ruanda, dai massacri in Cambogia a quelli in Bosnia.

La tenacia di Nissim ha ottenuto che da tre anni si celebri la Giornata europea dei Giusti. Oggi, 6 marzo, a Milano, sul Monte Stella, saranno ricordati con un albero piantato e un cippo altri sei Giusti. Non si è fatto in tempo a onorare Ahmed Merabet, il poliziotto francese di origine algerina ucciso a Parigi mentre proteggeva la redazione di Charlie Hebdo, e Lassana Bathily, il musulmano francese che lo stesso giorno ha salvato decine di ebrei nel supermercato kosher. I nuovi alberi sono dedicati a Razan Zaitouneh, avvocatessa siriana attivista dei diritti civili, rapita nel 2013 vicino a Damasco da gruppi estremisti jihadisti; Ghayath Mattar, giovane pacifista siriano che offriva fiori ai soldati in segno di dialogo e si batteva per i diritti umani e la libertà e che è stato arrestato e ucciso in Siria nel 2011; Mehmet Gelal Bey, turco ottomano, sindaco di Aleppo, che si è opposto alle direttive del suo governo che imponevano l’eliminazione del popolo armeno nel genocidio del 1915; Alganesh Fessaha, attivista umanitaria italoeritrea che ha rischiato la vita per soccorrere i perseguitati in Africa e ha aiutato i migranti e i loro familiari a Lampedusa dopo il tragico naufragio del 2013.

Non solo. Un albero sarà piantato anche in onore degli uomini e delle donne della Guardia Costiera italiana che rischiano la vita, al largo delle coste italiane, per salvare i naufraghi in fuga dalla fame e dalla violenza. Un’ultima pianta, infine, ricorderà Rocco Chinnici, il magistrato palermitano creatore del primo pool antimafia, ucciso da Cosa Nostra nel 1983: tra i Giusti entrano così anche i testimoni della legalità e della lotta antimafia.

Cerimonie in onore dei Giusti avranno luogo anche a Firenze, Roma, Bitonto (Ba), Rimini, Bellaria-Igea Marina, Seveso e altre città italiane. Iniziative di Gariwo anche in altri Paesi d’Europa. A Praga ci sarà un convegno dedicato al centesimo anniversario del genocidio armeno e al Giusto Armin T. Wegner. A Varsavia, la Festa dei Giusti, al museo di storia degli ebrei polacchi che sorge nel cuore dell’ex ghetto della capitale e racconta la storia della presenza millenaria degli ebrei in Polonia. A Düsseldorf, cerimonia musical-letteraria in onore di Armin T. Wegner, Giusto per gli ebrei e per gli armeni che tentò invano di denunciare la persecuzione degli ebrei in Germania, e di Dogan Akhanli, che si è battuto per la verità sull’omicidio del giornalista Hrant Dink in Turchia. In Israele, incontro presso la Open University of Israel a Ra’anana con Gabriele Nissim, Pietro Kuciukian e Yair Auron in cui sarà annunciata la nascita di Gariwo-Israele.

Poi, il 10 marzo, a Neve Shalom-Wahat el Salam (“Oasi della pace” in ebraico e in arabo), il villaggio abitato da arabi palestinesi ed ebrei israeliani, avrà luogo la cerimonia di dedica degli alberi per gli armeni che salvarono gli ebrei dall’Olocausto, per i soccorritori del genocidio in Ruanda, per i giusti ebrei israeliani e arabi musulmani.

@gbarbacetto

Bergamonews.it – Medz Yeghern, Bergamo ricorda il centenario del genocidio degli Armeni. (6 mar 2015)

Sabato 7 marzo alle 15.30, all’Auditorium “Lottagono di piazza San Paolo a Bergamo, l’Ufficio diocesano di Bergamo per l’Ecumenismo, la Comunità cristiana evangelica e il Rinnovamento dello Spirito ricordano “Medz Yeghern”, il “Grande Male” in occasione del centenario del genocidio degli Armeni. “Medz Yeghern” il “Grande Male”: così gli Armeni definiscono e ricordano il genocidio che li devastò nel 1915.

Una parola “Yeghern” che indica non solo il male fisico, ma anche il dolore spirituale, la tortura. Storicamente il genocidio si concretizzò in più riprese, ma il momento più grave avvenne tra il dicembre del 1914 ed il febbraio del 1915, con l’aiuto dei consiglieri tedeschi, alleati della Turchia nella prima guerra mondiale.

Esso fu pianificato il genocidio degli Armeni. L’eliminazione sistematica prese l’avvio nel 1915, prima con la soppressione dell’esercito armeno e poi con lo sterminio della comunità di Costantinopoli ed in particolare della ricca ed operosa borghesia, con crocifissioni, decapitazioni ecc…

Nelle altre città venne diffuso un bando che intimava alla popolazione armena di prepararsi per essere deportata. La maggior parte degli Armeni morirà di stenti durante il cammino, a causa della mancanza di cibo ed acqua; altri verranno abbandonati nel deserto mesopotamico, altri ancora bruciati vivi, rinchiusi in caverne.

Il programma di sabato 7 marzo prevede alle 15.30 un momento di preghiera della comunità cattolico-armena in memoria del genocidio Momento ecumenico, alle 16 elementi per una conoscenza storica del genocidio degli Armeni, a cura di Ani Balian, Consigliera della Unione Armeni d’Italia, e alle 17.30 proiezione del documentario “Hushèr” di Avedis Ohanian.

Il Giornale – La strage degli armeni. Un popolo cristiano prigioniero dell’islam.

Al Vittoriano di Roma è possibile ammirare la cultura del “popolo dell’Arca” che è un bastione dell’Occidente Ma viene abbandonato a se stesso

Renato Farina

 

Il genocidio degli armeni, è stata la prima immensa strage del 900. Ci appartiene. Forse gli armeni sono un indizio del nostro destino. Furono eliminati per odio religioso e razziale dai musulmani turchi. Quest’anno se ne celebra il centenario, nella data simbolica del 24 aprile.

La stupefacente mostra che si inaugura domani al Vittoriano, nella corpo stesso dell’Altare della Patria, è insieme di oro e di sangue. Ci sono tesori antichi e la voce di italiani che denunciarono la strage sin da pochi mesi dopo gli eccidi di Anatolia e Cilicia. Un milione e mezzo di morti. Paolo Kessisoglu (quello di Luca e Paolo: è figlio di sopravvissuti del genocidio scampati in Italia) leggerà le pagine di Filippo Meda, Antonio Gramsci, del console d’Italia a Trebisonda, Giacomo Guerrini.

Preme subito dirlo. Non è una mostra sul genocidio. Le testimonianze al proposito occupano solo una delle sette sezioni. Domina da ogni parte il monte biblico Ararat, dove si arenò – dicono oramai anche gli archeologi – l’Arca di Noè. Insomma: l’Armenia non è il luogo del Diluvio Universale, ma della rinascita dopo la tragedia. E prima ancora che diventassero cristiani, quando nacquero come popolo, tramandarono nel settimo secolo avanti Cristo di essere discendenti di Noè, da Iafet, che diede il primo vino al mondo attraverso gli armeni. E il distillato Ararat, che se ne ricava, ha un profumo uguale e diversissimo dal cognac. Sa di miele di roccia ma di albicocca. Fu da qui che i romani la portarono in Italia, ed in Veneto si chiama ancora «armellino». Venezia in particolare ha mescolato la sua laguna con le acque caucasiche e orientali di questi cristiani a cui fu donata un’isola, san Lazzaro, dove stamparono i loro libri meravigliosi con quell’alfabeto che a solo guardarlo induce a pensare il dolore del mondo.

Non è una mostra sul genocidio, ma lo spiega. Si capisce perché li odiano. Perché li vogliono distruggere. Gli armeni non si sottomettono, non possono farlo. C’è un fuoco dentro questo popolo. Da loro sgorga una bellezza nell’arte, nella lingua, nei libri, nelle loro liturgie insopportabile per chi sia convinto che fuori dal Corano non c’è salvezza.

Ma visto che è il centenario non possiamo prescindere da quell’abisso di male. Eppure la croce armena è fiorita. Non è mai scolpita, disegnata, colorata, senza contenere un germoglio (una parte della mostra è dedicata a questo susseguirsi di strane croci). Come si dice in un testo liturgico tradotto sin dal 1816 in italiano si spiega perché: «Fin dal principio dei tempi apparve la Croce fiorita nel Paradiso piantato da Dio: segno di consolazione a Set, e pegno di speranza al padre Adamo». Gli armeni non riescono a non vedere, a differenza degli ebrei di cui condividono il marchio della persecuzione, spuntare un fiore dal male assoluto. Si racconta che Komitas, il genio musicale armeno, sopravvissuto per miracolo al genocidio, dopo quella tragedia sia rimasto in silenzio: per vent’anni, fino alla morte. Bisogna romperlo quel silenzio. Parlare dell’Armenia.

Gli armeni! Che ne sappiamo? Poco. A Venezia c’è la loro meravigliosa biblioteca dove stanno monaci dalle grandi barbe. Nei film americani sono figure simpatiche di numerosa famiglia. È un popolo dalla schiena diritta. Sono stato in Armenia e ne ho studiato (poco) la storia. Il sole è accecante, la terra arida, che si dischiude su acque di laghi turchese. Nella capitale Erevan c’è il monumento dell’orrore, avvolto di pietà, perché gli armeni coltivano anche il perdono. Popolo grande, ma l’Armenia è ridotta a un fazzoletto di terra, meno di 30mila km quadrati, inferiore alla decima parte dell’Italia, in realtà meno del 90% del territorio che storicamente le apparterrebbe, ma è di dominio turco. Che bella gente quella armena. Chiedono che la Turchia chiami le cose con il loro nome, omicidio l’omicidio, genocidio il genocidio. Il Parlamento italiano, nel 2000, all’unanimità ha riconosciuto il genocidio armeno. Ma ora, per non turbare la Turchia, il governo italiano è molto timido sul tema. Sulla verità non lo si dovrebbe mai essere. Per ragioni strategiche dovremmo tollerare una Turchia che non riconosce l’orrore della propria storia? Tirarci in Europa una realtà di menzogna?

Bisogna ricordare. Ricordiamolo a noi stessi, mettiamolo nell’agenda del nostro governo. Nel cuore del Caucaso c’è un piccolo Stato cristiano. Noi non lo sapevamo – non sappiamo mai niente di importante – ma è l’ultima propaggine dell’Europa e dell’Occidente. Anche se le cartine della geografia dicono Asia, questa è Europa. Prima che noi diventassimo cristiani, loro lo erano già. È un cristianesimo che non è cattolico latino ma non si è mai separato aspramente da Roma: c’è dai tempi del Vangelo. Gli armeni hanno avuto la sfortuna di essere abitanti di un territorio troppo strategicamente decisivo: tra il Mar Nero e il Mar Caspio, difesi dalle montagne a Nord e Sud. Chi possiede questa terra ha in mano il perno dell’Asia e dell’Europa. I romani avevano già preso sotto di sé questa regione con Pompeo, nel 69 avanti Cristo. Data dal 301 la decisione di dichiarare il cristianesimo religione di Stato, primi al mondo. Arrivarono mongoli, turchi, arabi, persiani e poi ancora turchi, a divorarsela, quindi i comunisti sovietici: ma questo punto di cristianesimo e di occidente, di valore dato all’individuo e al popolo che lo difende, ha tenuto. Si rifugiavano sulle montagne o fuggivano all’estero, portando con sé i loro libri e trascrivendoli. La loro cultura è infinita. Non solo nel senso della quantità, ma in quello strabiliante della forza dell’identità. Questi sanno chi sono. Per questo sono un patrimonio imperdibile proprio per noi che non sappiamo più chi siamo ma guardando loro abbiamo nostalgia. Ora questo popolo, che ha ritrovati magri confini, è circondato dall’Islam. Ha preservato una roccaforte di straordinaria bellezza tra i monti azeri, il Nagorno Karabakh, ma muore praticamente di fame e di solitudine. Scrive lo storico armeno Leonzio nel medioevo: «Ormai secche le rose e le violette armene». Ma rifioriscono ogni volta.

– – – Al Vittoriano in Roma la mostra Armenia. Il popolo dell’Arca . Da venerdì 6 marzo al 3 maggio aperta al pubblico

Avvenire – Armeni, la lezione del genocidio. (4 mar 2015)

Un protagonista della diaspora Herman Vahramian  nasce a Teheran il 29 novembre 1939 da genitori armeni. Artista, architetto, intellettuale, editore, è stato una delle voci più interessanti della diaspora armena in Italia e in Europa. È stato anche, a lungo, nostro collaboratore sviluppando acute analisi di geopolitica culturale. È morto a Milano nel 2009 dopo lunga malattia. Si era trasferito in Italia definitivamente nel 1965, a Roma, laureandosi architetto nel 1972. Subito dopo si trasferisce a Milano e fonda l’I/Com (Istituto per la ricerca e la diffusione delle culture non-dominanti); nel 1981, a Monaco di Baviera, l’Istituto Musicam; nel 1985 fonda le edizioni Oemme che pubblicano studi sul patrimonio artistico e culturale armeno. Nel 1995 nasce Pietro, suo figlio, a cui Vahramian dedica la sua ultima fatica, un singolare testamento spirituale e una consegna delle memorie che ora trova forma nel volume Libro per Pietro. Memorie per un figlio edito da Medusa in questi giorni (pp. 224, euro 18), dal quale anticipiamo un brano sul genocidio armeno.

 

Apartire dall’VIII secolo il Medio Oriente divenne teatro di genocidi. Il genocidio e la “soluzione finale”, in quanto elementi risolutivi di una controversia politica e territoriale, divennero la regola. Persiani, georgiani, armeni, greci bizantini ecc. subirono numerosi massacri e/o genocidi – che ridussero di nove decimi il novero della popolazione vivente su quei territori. In epoca moderna, invece, i territori abitati dagli armeni divennero una sorta di “laboratorio sito in periferia”, assai proficuo per l’Occidente al fine di giungere, per mezzo del genocidio, alla soluzione finale di un problema, specialmente se le vittime si presentavano “ben pasciute” – come appunto accadde con gli ebrei europei. Nel 1932 Hitler a Vienna affermò: «Armenizzeremo i giudei». Il “lardo armeno” – compreso il petrolio di Baku e tutti i beni armeni sparsi nell’impero ottomano e lungo la Via della Seta – servì al governo turco-ottomano per finanziare la Prima grande guerra mondiale. La prima legge turca che cercava di “digerire” i beni depredati agli armeni risaliva al 13 settembre 1915. Più avanti nella storia, il “lardo ebraico” servì alla Germania per finanziare la Seconda guerra mondiale.

Le condizioni erano invero eccellenti. L’impero ottomano, ormai in declino, aveva varcato la soglia della trasformazione da vasto impero (comprendente segmenti di Caucaso, Anatolia, Grecia, Balcani, Mesopotamia, svariati litorali mediterranei ecc.) a Stato-nazione di dimensioni ben più ridotte. In questo sistema-nazione non vi era posto per elementi etnici che venivano considerati estranei. Inoltre le rivendicazioni indipendentiste armene, che si aggiungevano a quelle greche e poi curde, irachene, nestoriane, siriane, libiche, balcaniche e arabe in genere, rappresentavano una seria minaccia per la sopravvivenza territoriale della Turchia, ormai ridotta a una misera cosa. A quel punto, su ispirazione germanica e inglese, venne concepito, organizzato e messo in atto il primo tentativo dell’era contemporanea di genocidio su vasta scala – che fu, a dir poco, assai ben riuscito. Nel giugno 1915 Talaat Pascià, uno dei turchi che organizzarono il genocidio armeno, ebbe a dire: «Per volontà divina non ci sono più gli armeni». «Il massacro degli armeni è considerato come il primo genocidio del XX secolo» (sottocommissione Onu dei Diritti umani, 1973).

I massacri sistematici di armeni, perpetuati nell’arco dell’ultima decade del XIX secolo, sfociarono, a partire dal 1915 e fino a tutto il 1918, in un genocidio che sterminò tutti gli armeni che vivevano nel territorio della cosiddetta Armenia occidentale (vale a dire nell’odierna Turchia). La penisola anatolica (in greco anatolì, ossia “oriente”) venne svuotata dell’elemento armeno, ebreo, greco, mesopotamico, persiano ecc., “salvando” – sottoforma di “turchi di montagna” – i soli curdi, la cui sopravvivenza, come è noto, è oggi pure seriamente minacciata (35mila morti nell’ultima guerra civile).

Nel seno di uno Stato-nazione i cosiddetti “elementi estranei” da sempre contribuiscono allo sviluppo e alla creazione della ricchezza, così come alla sua multiculturalità. Vedi l’esempio degli ebrei d’Europa (quanta povertà ha causato agli europei lo sterminio degli ebrei? Qualcheduno, munito di carta e penna, forse un giorno dovrebbe pur iniziare a fare un calcolo di questo tipo). Sarebbe impossibile paragonare la Istanbul di oggi alla Costantinopoli multirazziale e tollerante di un tempo, oppure Izmir alla Smirne greco-turco-armena, o Tbilisi a Tiflis, e poi Gerusalemme e soprattutto Beirut (ma che bella guerra civile interconfessionale…), Baku, Baghdad, Erevan, Algeri, Sarajevo alle città che furono nel loro passato. In tutti questi luoghi è penetrato come un vento sinistro il nazionalismo più torvo, più cieco, più aberrante, e spesso e volentieri assassino. Vietnam, Ruanda, Bosnia, Cecenia, Kurdistan, Cambogia, Darfur, Ossezia del Sud… Massacri o genocidi? La definizione è labile, la demarcazione incerta. Nel primo caso sono esclusi donne e bambini, nel secondo invece sono compresi. Diecimila, centomila, un milione e mezzo, quattro milioni di vietnamiti, cinque milioni di zingari e ancora sei milioni di ebrei sono tanti o pochi? Dipende… Comunque sia, stranamente, le immagini dei morti che ci sono arrivate e quotidianamente ancora ci arrivano attraverso i mass media – sotto qualsiasi cielo – sono simili tra loro, e inoltre i morti risultano del tutto indifferenti alla diffusione delle immagini dei loro cadaveri.

Viceversa, la memoria storica che si crea nella mente dei sopravvissuti, strano a dirsi, non rimane affatto indifferente. Basti come esempio l’accapponarsi della pelle in cui incorre un qualsiasi persiano contemporaneo – dopo quasi tredici secoli – di fronte all’“arabo” (in Iran la parola “arabo” definisce solo gli arabi sauditi; gli altri per i persiani sono iracheni, libanesi, siriani, libici ecc.); gli “arabi” di oggi sono pur sempre i discendenti di quegli arabi-islamici che in Iran fra il VII e il IX secolo si macchiarono di un genocidio quasi totale.

Storicamente, dopo ogni soluzione finale resta un solo problema: il sopravvissuto. Da sempre politica, economia e potere sono anche questione di maggioranze e minoranze. Oggi che massacri e genocidi stanno diventando a poco a poco dei fatti comuni, quotidiani, da consumare comodamente seduti in poltrona con l’ausilio dei vari telegiornali serali, qual è il futuro che si prepara, quando ai sopravvissuti armeni, ebrei, bosniaci, ceceni, zingari, vietnamiti, ruandesi si aggiungeranno i tanti che nel mondo possono candidarsi come possibili oggetti di nuovi genocidi?

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http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/armeni-la-lezione-del-genocidio.aspx

La Regione Ticino – A Villa Heleneum le fotografie di Elio Ciol raccontano l’Armenia attraverso le sue croci. (4 mar 2015)

A Villa Heleneum le fotografie di Elio Ciol raccontano l’Armenia attraverso le sue croci.

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Sul Genocidio Armeno, L’Ambasciatore a FQ: “Rompiamo l’indifferenza” (3 mar 2015)

Di Giulia Di Stefano il 3 marzo 2015

Un piccolo Stato ai piedi del biblico monte Ararat, dove secondo l’Antico Testamento si arenò l’Arca di Noè, un fazzoletto di terra da 30 mila metri quadrati tra Turchia, Georgia, Azerbaigian e Iran. La Repubblica di Armenia, costituitasi all’indomani dello scioglimento dell’ex Unione Sovietica, conta oggi al suo interno circa tre milioni di abitanti. Ma gli armeni, in tutto il mondo, sono almeno il doppio. Perché il popolo di questa antichissima terra, da sempre crocevia culturale e commerciale tra oriente e occidente e culla del Cristianesimo, è un popolo che ha sempre teso a “trascendere i propri confini territoriali pur essendo fortemente legato al suo territorio”, come ci spiega col suo tono pacato e sorridente, Sargis Ghazaryan, il giovanissimo ambasciatore della Repubblica di Armenia in Italia.

Il 24 aprile di quest’anno ricorrerà il centenario del genocidio armeno, un fatto troppo spesso dimenticato dai mass media, che rappresentò tuttavia il primo sterminio su base etnica del ’900 ed aprì letteralmente la strada alla ben più conosciuta tragedia ebraica della shoah. Furono circa un milione e mezzo gli armeni massacrati dall’Impero ottomano che, all’ombra dello scoppio della prima Guerra mondiale, si propose l’intento di cancellare la presenza armena dal suolo turco. Oggi le Nazioni Unite, l’Europa e decine di paesi nel mondo, tra cui l’Italia, riconoscono ufficialmente lo sterminio del 1915 ma all’appello manca proprio la Turchia, il cui governo continua a negare l’esistenza di questo genocidio. In occasione di questa importante ricorrenza, l’Ambasciata armena in Italia e le numerose associazioni presenti nel nostro Paese, come l’Unione Armeni d’Italia e Assoarmeni  stanno organizzando svariate iniziative, per non dimenticare e per diffondere la conoscenza della storia del popolo armeno. Per saperne di più, abbiamo fatto una chiacchierata con l’Ambasciatore Sargis Ghazaryan, classe ’79, nato a Vanadzor, in Armenia, e residente in Italia dal ’91, quando iniziò i suoi studi prima a Venezia e poi a Trieste.

Ambasciatore cosa vuol dire essere armeni oggi fuori e dentro la Repubblica d’Armenia?

Significa testimoniare ogni giorno, con i nostri atti e pensieri, la resilienza del nostro popolo, quella resilienza che determinò la sopravvivenza per la prima generazione del genocidio, poi il racconto per la seconda generazione e infine la ricostruzione da parte della terza. Tutte le generazioni dei sopravvissuti al genocidio e dei loro discendenti hanno dimostrato questa resilienza con una grande voglia di riscatto. Credo che il riscatto sia stata la risposta più eclatante e in un certo senso anche più inaspettata all’intenzione genocidaria, che ha comportato la nascita e la rinascita della Repubblica di Armenia. Con il genocidio si volevano eliminare tutti gli armeni e invece oggi essere armeno è sinonimo di un’identità globale e a-geografica, siamo cittadini del mondo ma legati alla nostra terra di origine. Negli ultimi venti secoli la società armena è sempre stata una società di confine, che mediava tra oriente e occidente. La Repubblica di Armenia e la diaspora sono in qualche modo i due polmoni di uno stesso organismo, sono complementari.

C’è attualmente un fenomeno simile all’aliyah per gli ebrei, ovvero un’immigrazione di ritorno da parte degli armeni verso la Repubblica di Armenia?

Esiste, ed è un fenomeno relativamente recente, riferibile al ventesimo secolo. In particolare dagli anni ’90 in poi, con l’indipendenza della Repubblica d’Armenia dall’ex Unione Sovietica, c’è stato un fenomeno di rimpatrio soprattutto da parte dei giovani armeni nati nei vari angoli del mondo. Il Novecento si è aperto con un trauma per noi e si è sviluppato poi con la voglia di cancellare quel trauma: i giovani tornano oggi in Armenia per realizzare i propri sogni e progetti, le loro start up con strumenti di venture capital, fondanolì aziende globali che capitalizzano sulle reti globali armene. Missione degli organi dello stato armeno è proprio agevolare questo ritorno e contaminazione continua.

Il popolo armeno quindi ha una forte identità, anche se disperso per il mondo. Non si può dire però che la sua storia, e soprattutto il genocidio che subì nel 1915, abbia ricevuto sempre la giusta attenzione da parte dei governi e dell’opinione pubblica internazionale. Perché secondo lei?

Ogni genocidio cerca di nascondere se stesso. Il metodo genocidario, che prevede l’eliminazione parziale o totale di un certo gruppo etnico, viene celato spesso da altri importanti fatti storici. Così è stato per il genocidio armeno, messo a punto durante la Grande Guerra, e poi per la persecuzione nazista contro gli ebrei durante la seconda Guerra mondiale: le crisi globali sono servite da alibi e da filtro dietro il quale nascondere gli stermini di massa. Nel 1915 le potenze alleate accusarono il governo dei Giovani turchi di crimini contro l’umanità con una dichiarazione congiunta. Il termine “genocidio” ancora non esisteva perché fu coniato nel ’43, prima del processo di Norimberga ai nazisti, dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin. Lo stesso Lemkin, per determinare la fattispecie di reato del genocidio, prese ad esempio i criteri metodologici usati dai Giovani Turchi contro gli armeni.

Durante il genocidio armeno i crimini ottomani venivano quindi classificati come crimini di “lesa umanità” e io credo che in termini etici non ci sia espressione più grave: un crimine di lesa umanità è un atto dove viene lesa l’umanità della vittima, quella del carnefice e quella dell’umanità intera. Nel ventennio fra le due guerre scese però un oblio sul genocidio armeno, autoimposto dalle potenze europee perché intanto era nata una Repubblica sulle ceneri dell’Impero ottomano e ci fu un calcolo di cinica contingenza geopolitica. Questo però ci portò dritti dritti alla seconda grande tragedia del ‘900, in termini temporali, ovvero il genocidio degli ebrei. Poco prima di iniziare l’invasione della Polonia, il 22 agosto del 1939, a Obersalzberg Hitler fece un discorso allo Stato maggiore dell’Esercito tedesco, per incitare i suoi generali a non avere pietà nemmeno dei civili durante l’attacco. Concluse il suo discorso domandandosi cinicamente: “dopotutto, chi si ricorda ancora dell’annientamento degli armeni sotto l’Impero ottomano?”.

Quanto pesa, su questo oblio, il negazionismo che ancora oggi porta avanti la stessa Turchia?

Oggi ci sono quasi trenta paesi al mondo che riconoscono il genocidio armeno, anche l’Italia, dal 2000, è tra questi paesi virtuosi che hanno preferito non chiudere gli occhi. Poi ovviamente le Nazioni Unite, il Parlamento Europeo e tutte le maggiori organizzazioni internazionali delegate alla protezione dei diritti umani chiamano il genocidio armeno con il proprio nome. La Turchia è la grande negazionista ma per Turchia intendo il governo turco e non il popolo né la società civile turca o l’opinione pubblica. Anzi, nel contesto generale della richiesta di maggiore libertà d’espressione, per cui attualmente la società civile e molti intellettuali turchi si battono, la questione del riconoscimento del genocidio armeno viene messa al centro.

Fino a qualche anno fa, chi parlava del genocidio armeno in Turchia veniva arrestato e processato, in forza dell’articolo 301 del codice penale turco, ovvero di vilipendio alla Turchia. Vari esecutivi turchi negli ultimi 30 anni hanno tentato di riportare il dibattito del genocidio su un piano storico. Per noi però il genocidio non è solo quel fatto storico oramai riconosciuto quasi universalmente dalla comunità degli storici mondiali, ma è un fatto storico che produce effetti politici: finora ne sono testimonianza l’ostilità turca nei confronti della Repubblica d’Armenia, i tentativi armeni falliti di normalizzazione dei rapporti bilaterali e nell’apertura dei confini da parte turca. Credo che questa continua negazione da parte delle istituzioni turche sia ormai riferibile a un vero tabù, uno stereotipo che si è venuto a creare in questi cento anni durante i quali intere generazioni turche sono state cresciute con libri di storia in cui vigeva “l’armenofobia”, in cui l’armeno era il capro espiatorio di tutti i mali e veniva rappresentato come il traditore dell’Impero ottomano. Noi ci auguriamo che adesso i risultati cui è arrivata gran parte della società civile turca, in termini di riconoscimento del genocidio, influenzino anche l’opinione pubblica. Siamo convinti, come lo erano i tedeschi negli anni ’50, che la verità rende liberi. Rende liberi i discendenti dei carnefici ma allo stesso modo i discendenti delle vittime.

Questa verità di cui lei parla passa attraverso la memoria e la conoscenza della storia: cosa state organizzando per ricordare il centenario del genocidio qui in Italia?

Come diceva il premio Nobel per la Pace, Elie Wiesel, sopravvissuto ad Auschwitz, l’ultimo atto di un genocidio è la sua negazione, che rende il crimine perfetto e quindi replicabile. Noi, nell’anno del centenario del nostro genocidio, vorremmo veramente rompere questo circolo vizioso che culmina con la negazione, l’indifferenza, i silenzi. Il ‘900 è stato anche il secolo delle indifferenze, nonostante lo sviluppo senza precedenti dei mezzi di comunicazione di massa. Il negazionismo si combatte attraverso una giusta informazione e soprattutto attraverso gli strumenti dell’istruzione, per creare gli anticorpi nelle giovani generazioni contro questi crimini. Allo stesso tempo vorremmo raccontare la civiltà armena, vorremmo parlare di ciò che rischiava di scomparire e che non è scomparso, i nostri codici, la nostra cultura, i venti secoli delle comunità armene in Italia, contaminazioni, integrazioni del popolo armeno.

Dal 6 marzo al 3 maggio si svolgerà a Roma, nel complesso del Vittoriano, la mostra “Armenia, il popolo dell’Arca” : sarà un itinerario affascinante attraverso i 3 mila anni di storia della civiltà armena, le sue metamorfosi, le interazioni con le altre civiltà e poi il genocidio, raccontato attraverso gli scritti di italiani che riconobbero da subito questo crimine, come Luigi Luzzatti, Filippo Meda, Antonio Gramsci. Il 23-28 marzo, sempre a Roma, in collaborazione con l’ex discoteca di Stato, l’Icbsa (Istituto per la conservazione dei beni sonori e audiovisivi) e l’Ais (Associazione italiana sociologia) organizziamo una settimana di tavole rotonde, presentazioni di libri e una rassegna cinematografica sul Novecento armeno. Si tratta di un dibattito culturale, un’azione tesa a raccontare l’Armenia e gli armeni e sconfiggere l’indifferenza. Molto importante sarà anche il padiglione armeno presente alla Biennale di Venezia, che quest’anno porta il titolo “Armenità”. Il padiglione, curato da Adelina Cuberyan von Furstenberg, è il racconto dell’identità armena, attraverso le opere di 19 artisti di origine armena e provenienti da tutto il mondo.
Giulia Di Stefano