Gaza, perché non si può parlare di genocidio, ma di crimini di guerra e contro l’umanità, commessi anche da Hamas (Il giornale d’italia 29.11.24)

I caratteri tipici dei genocidi sono essenzialmente due, uno è la pianificazione della eliminazione, almeno nelle intenzioni completa, dell’etnia o del gruppo sociale oggetto della campagna genocidaria, l’altro è l’assenza di un rapporto funzionale con una guerra

29 Novembre 2024

Gaza, perché non si può parlare di genocidio, ma di crimini di guerra e contro l'umanità, commessi anche da Hamas

Liliana Segre, fonte: imagoeconomica

Le parole, a volte, diventano clave. Negli ultimi mesi ho fatto appelli per il cessate il fuoco, ho condannato le violenze, ho espresso la più profonda partecipazione al dramma delle vittime innocenti palestinesi e israeliane, ho invocato un rispetto sacrale verso i bambini di ogni nazionalità, di ogni credo, di ogni religione, ho manifestato ripulsa verso lo spirito di vendetta. Eppure, o ti adegui e ti unisci alla campagna che tende ad imporre l’uso del termine «genocidio» per descrivere l’operato di Israele nella guerra in corso nella Striscia di Gaza, o finisci subito nel mirino come «agente sionista». Le cose in realtà sono più complesse e colpisce che alcuni tra i più infervorati nell’uso contundente della parola malata si trovino in ambienti solitamente dediti alla cura, talora maniacale, del politicamente corretto, del linguaggio sorvegliato che si fa carico di tutte le suscettibilità fin nelle nicchie più minute.

Nella drammatica situazione di Gaza non ricorre nessuno dei due caratteri tipici dei principali genocidi generalmente riconosciuti come tali — il Medz Yeghern degli armeni, l’Holodomor dei kulaki ucraini, la Shoah degli ebrei, il Porrajmos dei rom e sinti, la strage della borghesia cambogiana, lo sterminio dei tutsi in Ruanda — mentre sono piuttosto evidenti crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi sia da Hamas e dalla Jihad, sia dall’esercito israeliano. I caratteri tipici dei genocidi sono essenzialmente due, uno è la pianificazione della eliminazione, almeno nelle intenzioni completa, dell’etnia o del gruppo sociale oggetto della campagna genocidaria, l’altro è l’assenza di un rapporto funzionale con una guerra. Anche i genocidi commessi durante le due guerre mondiali (armeni, ebrei, rom e sinti) non ebbero la guerra né come causa né come scopo, anzi furono eseguiti sottraendo uomini e mezzi allo sforzo bellico.

In secondo luogo, l’accusa strumentale del genocidio proietta sull’intero Stato di Israele e su tutto il popolo israeliano — non solo sul pessimo governo in carica — l’immagine del male assoluto. Una demonizzazione ingiusta, ma anche controproducente per le prospettive di pace e convivenza. Ogni riduzione dell’altro a mostro, ogni cancellazione manichea delle sue ragioni — vale per i sostenitori acritici dei palestinesi, ma vale specularmente anche per i sostenitori acritici del governo israeliano — serve solo a perpetuare la guerra, a rinsaldare la trappola dell’odio e ad allontanare il giorno in cui potrà, dovrà sorgere uno Stato di Palestina accanto allo Stato di Israele.

In terzo luogo, la cultura antifascista e antitotalitaria ha avvertito da sempre le implicazioni velenose delle operazioni di negazionismo, riduzionismo, relativizzazione, distorsione o banalizzazione dei genocidi. Di lì passano inesorabilmente le rivalutazioni delle peggiori dittature e le campagne nostalgiche. Da lì parte il sistematico abbassamento degli anticorpi che sorreggono la coscienza democratica dei cittadini. Inquieta che anche alcuni di coloro che meritoriamente si dedicano alla tutela e alla trasmissione della Memoria sembrino non capire che lasciar passare oggi l’abuso del termine genocidio significa produrre una crepa in un argine. E se crolla quell’argine, domani, potrà passare ben altro.

Di Liliana Segre.

Vai al sito

Arte, tecnologia e radici armene: il finissage di AKNEYE getta le basi per il futuro a Venezia (Informazione 28.11.24)

Sabato 23 novembre si è svolto il finissage di AKNEYE presso la sede espositiva utilizzata in occasione della Biennale Arti Visive. L’evento, che ha concluso sei mesi di attività espositiva orientata all’uso delle nuove tecnologie e degli NFT, ha rappresentato un importante punto di partenza per il futuro del gruppo a Venezia, con l’obiettivo dichiarato di ampliare le proprie collaborazioni e la propria presenza nella Città lagunare.

La giornata si è sviluppata in due momenti: una fase aperta al pubblico, che ha visto un’ampia partecipazione, in particolare molti i giovani presenti attratti dall’utilizzo di nuove tecnologie, e una parte riservata a rappresentanti culturali e istituzionali. Quest’ultima ha rappresentato un’importante occasione per AKNEYE per consolidare i rapporti già avviati nel corso di Biennale e per avviare nuovi dialoghi con le diverse personalità del panorama culturale veneziano, tra cui operatori del mondo dell’arte e della cultura, che hanno aderito all’iniziativa, interessati alle possibilità di future collaborazioni.

La cerimonia di chiusura di AKNEYE ha visto la partecipazione di ospiti di rilievo provenienti da Yerevan, tra cui Anahit Badalyan, ideatore del progetto, affiancato dai collaboratori creativi Vigen Badalyan e Narek Gyulumyan. Tra le autorità presenti spiccavano il Vice Ministro dell’Istruzione, della Scienza, della Cultura e dello Sport della Repubblica di Armenia, Daniel Danielyan, e la Direttrice della Galleria Nazionale d’Armenia, Marina Hakobyan. Tra le personalità veneziane presenti all’evento, un’attenzione particolare è stata riservata alla professoressa Silvia Burini, docente di Storia dell’Arte presso l’Università di Venezia e autorevole promotrice di mostre ed eventi artistici, e all’architetto Antonietta Grandesso, Responsabile culturale dello Spazio Thetis all’interno dell’Arsenale storico. Questo luogo, di straordinario fascino, è noto per il suo parco che ospita sculture e opere d’arte di artisti di fama internazionale come Jan Favre, Beverly Pepper, Pinuccio Sciola e molti altri.

Una sorta di fil rouge fra un’arte tutta orientata al futuro e il profondo legame storico tra Venezia e la comunità armena ha caratterizzato la serata. Persino il menù servito durante l’evento ha voluto riprendere a quello della cena del primo ventennio del ‘900, quando venne invitato ufficialmente il primo artista armeno alla Biennale di Venezia.

Era presente anche lo storico e giornalista Advedis Adjan, che abita a Venezia da molti anni ed è uno studioso della storia degli armeni, la sua presenza e testimonianza ha evidenziato il rapporto ultrasecolare tra la Comunità armena e Venezia che ai tempi della Serenissima può essere definita come il primo melting pot della storia.

 

La serata è stata impreziosita dalla live performance “Attraverso l’occhio dell’artista” dell’artista di Sacha Jafri.

Il finissage non è stato solo un momento celebrativo, ma anche una concreta apertura verso il futuro, con la promessa di nuovi eventi e iniziative nella città lagunare. AKNEYE si propone di diventare un punto di riferimento per l’arte contemporanea a Venezia, valorizzando le sue tradizioni culturali e proiettandole in una dimensione tecnologica e innovativa.

Vai al sito

Armenia, il Paese dalla cultura millenaria proiettato al futuro (Quotidiano.net 27.11.24)

L’Armenia è come un millenario albero che affonda le radici negli albori dell’umanità, ed ha rami e fronde rigogliose protese verso il futuro. E in un viaggio in questo Paese ci imbatteremo costantemente queste radici e in questi nuovi germogli.

L’Armenia confina con Georgia, Azerbaigian, Nagorno Karabakh, Iran e Turchia, e con la repubblica autonoma di Naxçıvan, un’exclave dell’Azerbaigian. La capitale è Yerevan e, a 12 chilometri dal centro, allo Yerevan Zvartnots Airport, arrivano voli diretti da Milano e da Roma. Questa città è non solo la porta d’accesso al Paese ma un piccolo affascinante mondo. Vi si può fare tappa e poi esplorare in auto i luoghi vicini.

Notizia recentissima: l’Armenia è Top Country nella lista dei 10 migliori Paesi Best in Travel 2025 di Loney Planet.

La capitale Yerevan

Il monte Ararar – dove secondo la Bibbia Noè approdò con l’Arca dopo il diluvio – fa da sfondo a Yerevan, che per il milione e oltre di abitanti (l’intera Armenia ne conta 3 milioni) è sacro, anche se oggi appartiene alla Turchia. Vanto della città è la Cascade, nel centro cittadino, un’imponente struttura in pietra a terrazze: costruita dal 1976 fino 1991, e poi in una seconda parte dal 2002 al 2009, è larga 50 metri e lunga 302, con giardini, fontane, opere d’arte contemporanea, ed è una meta amatissima sia dai turisti che dai giovani locali. Ci si può salire dall’esterno (consigliabile per ammirare il panorama con l’Ararat sullo sfondo) ma anche dall’interno, con sette scale mobili, che attraversano le sale con le opere d’arte contemporanea che fanno parte del Museo Cafesjian: il Cafesjian Center for the Arts è una collezione eclettica che spazia dalla pittura alla scultura, dalla fotografia alle installazioni.

 

L’arte la fa da padrona anche nel grande giardino antistante la Cascade, con tante sculture fra le quali spiccano quelle di Botero: un guerriero pingue, una donna sdraiata, un grosso gatto oversize sono oggetto di tanti selfie!

Altro fulcro della vita cittadina è Piazza della Repubblica, progettata dall’architetto Alexander Tamanyan (1878-1936), e costruita tra il 1924-1936, quando l’Armenia era una delle 15 Repubbliche socialiste sovietiche. I grandi edifici dalle tonalità rosate, con colonnati e fontane che a sera sembrano danzare a tempo di musica, ospitano fra l’altro il Museo di storia dell’Armenia, assolutamente imperdibile per chi voglia conoscere le radici di questo grande albero chiamato Armenia. Tra i preziosi reperti ce ne sono alcuni curiosi, come la scarpa di pelle più antica che ha 5.500 anni.

Colpisce anche una sorta di rappresentazione, in metallo, del sistema solare (terra, sole e cinque pianeti) che rappresenta simboli astronomici, risalente al XII/XI secolo a.C. Sempre in città, si può visitare la fabbrica di brandy Ararat la cui storia risale al 1887 ed è anche oggi un vanto della nazione.

Se il centro cittadino è pieno di vita, con negozi eleganti, ristoranti, parchi dove passeggiare, c’è un luogo poco turistico da esplorare: è il quartiere di Kond, in collina, con strade strette, i murales, le vecchie auto, le antiche case dai segreti cortili dove si viene invitati a bere un caffè con un dolcetto, fra vecchie foto, bimbi che giocano, e tanta cordialità. E da non mancare un giro al Vernissage Market, un mercato all’aperto di artigianato locale di ottimo livello nel cuore della città, dove in stand ordinati vengono esposti gioielli fatti a mano, ceramiche, tappeti tradizionali, borse di stoffa, oggetti d’arte e anche di antiquariato, e chi si prende un po’ di tempo può trovare veri tesori realizzati localmente.

TUMO e i nuovi “germogli”

Se vediamo l’Armenia come un albero con fronde verdi protese verso l’alto, non si può non citare il settore IT (Information Technology), in costante crescita, che vede impiegate oltre 15mila persone in larga parte sviluppatori di software e ingegneri, un comparto che incide per il 5 per cento del Pil. Gli armeni si definiscono “La Silicon Valley Caucasica” per questo settore all’avanguardia in software, applicazioni e videogame, sicurezza informatica, tablet e altre tecnologie. In quest’ottica, è rilevante TUMO (Center for Creative Technologies) il programma gratuito per ragazzi fra i 12 e i 18 anni specializzato in tecnologia e design, istituito in vari centri e hub.

A Yerevan esiste dal 2011, e Gyumri, la seconda città dell’ Armenia, ha varato un progetto per riconfigurare la città, in passato danneggiata da terremoti. Se l’apprendimento dei media digital ha terreno fertile fra i giovani, è anche perché la cultura in Armenia è qualcosa che si respira fin da piccoli: sin dalle elementari si imparano armeno e russo, (quindi due alfabeti diversi), e poi inglese o francese, ma ci sono anche scuole di italiano e tedesco. Per gli armeni praticare sport e assistere a spettacoli teatrali è abituale fin dalla giovane età, e questa cultura eclettica li porta ad essere cittadini del mondo.

Etchmiadzin, molto più di una cattedrale

A poco più di 20 km da Yerevan sorge quella che è una delle più antiche cattedrali (costruita originariamente tra il 301 e il 303) ed il cuore spirituale dell’Armenia, oltre che sede della Chiesa apostolica armena: la cattedrale di Etchmiadzin, patrimonio dell’umanità Unesco, e recentemente riaperta dopo anni di meticolosi lavori di ristrutturazione, alla riconsacrazione ha partecipato una delegazione di Papa Francesco. E’ venerata come una delle più antiche chiese al mondo, ed è un potente simbolo di fede e continuità per i cristiani, incarnando l’essenza spirituale della Chiesa apostolica armena.

 

Etchmiadzin, recentemente restaurata

Sia l’esterno che l’interno sono imponenti, ben diversa dai monasteri che abbiamo visitato. Conserva molte reliquie che i fedeli venerano mettendosi in ordinata fila: la lancia che trafisse Cristo (lancia di Longino), frammenti di legno ritenuti essere parte dell’ Arca di Noè, reliquie dei santi apostoli Pietro, Andrea, Giuda Taddeo e la mano destra di san Gregorio. L’Etchmiadzin Treasury Museum ospita una collezione inestimabile di manufatti religiosi, manoscritti e antiche reliquie.

Gyumri… che parla italiano

A poco più di 100km da Yerevan, Gyumri conserva edifici storici in tufo che l’hanno resa famosa, e fu la città prediletta dagli zar. Da vedere la fortezza di Sev Berd, la piazza Vardanants e il Museo Dzitoghtsyan della vita urbana e dell’architettura nazionale. Qui vive – ed è possibile incontrare – Antonio Montalto, medico, già console onorario d’Italia, che arrivò a Gyumri nel 1988 in occasione di un drammatico terremoto che uccise 25mila persone. Montalto è rimasto anche dopo l’emergenza, impegnandosi per la popolazione a livello sanitario e non solo, ha aperto un piccolo albergo, una biblioteca italiana e una fabbrica di ceramica che dà lavoro ad oltre 50 persone. Ed è un punto di riferimento (fu incontrato da papa Francesco durante la sua visita nel 2016) per chi vuole conoscere la realtà dell’Armenia.

I monasteri

 

Monastero di Khor Virap

L’Armenia è la prima nazione cristiana del mondo e, fra conosciuti e non, annovera circa 2mila monasteri. Alcuni fra i più famosi e spettacolari sono a un paio d’ore d’auto da Yerevan. Khor Virap, di pietra rossa, su un picco roccioso e sullo sfondo l’Aratat, è famoso perché qui San Gregorio l’Illuminatore fu imprigionato e poi convertì al cristianesimo il re Tiridate III e fu lui a dichiarare l’Armenia cristiana nel 301, facendo del proprio paese il primo stato cristiano della storia.

Il pittoresco monastero di Noravank è incastonato tra imponenti scogliere rosse nella valle di Amaghu, con una straordinaria architettura del XIII secolo della chiesa principale del monastero e le intricate sculture in pietra. Il Monastero di Geghard è patrimonio mondiale dell’UNESCO: scavato nella parete rocciosa della gola del fiume Azat, vanta un complesso di cappelle, grotte e tombe risalenti al IV secolo.

Ecco che i famosi monasteri non sono solo un’attrazione turistica ma un elemento imprescindibile nella vita della popolazione: ci si sposa in chiesa (fino a due volte, in caso di ripensamento) e qui si ricevono i sacramenti, e imbattersi in un matrimonio in una di queste chiese è davvero un’esperienza bellissima. Non lontano dal Monastero di Geghard possiamo visitare il Tempio di Garni, dedicato al dio Mitra, una struttura ellenistica di basalto dai bei colonnati risalente al I sec. d.C. e incastonata nella suggestiva gola del fiume Azat. Davvero ci si incanta di fronte ai colonnati ben conservati del tempio, alle intricate sculture e alla sua imponente presenza, risalenti al I secolo d.C.

Ma la magia non finisce qui, mentre si attraversa l’accidentata Gola di Garni, fermiamoci per una sosta alla Sinfonia delle Pietre, una meraviglia naturale scolpita da millenni di forze geologiche che ora ci appare come un complesso di stalattiti e stalagmiti simili a canne di organo.

Sinfonia delle Pietre nella Gola di Garni

Il lago Sevan, come un mare

Il lago Sevan, a circa 1.900 metri sul livello del mare, in una conca dei Monti Geghama, è uno dei più grandi laghi alpini dell’Eurasia, e per gli Armeni è come un mare. Soprattutto se ammirato dal monastero di Sevanavank, dall’antica architettura in pietra, arroccato in cima a una penisola che domina il lago, e la vista mozzafiato sulle acque azzurre e sulle montagne circostanti fanno di questo luogo qualcosa di unico. Il monastero di Sevanavank era costituito da tre chiese, oggi ne ammiriamo due, la chiesa dei Santi Apostoli e la Vergine Santissima.

Il lago è famoso per l’omonima trota, che essendo in via di estinzione ora è di allevamento ed è comunque molto buona. Affacciato sul lago si trova un curioso edificio, oggi ristorante: è la “Casa degli scrittori” che interessa gli architetti e gli studiosi del modernismo sovietico in Armenia, attualmente da restaurare. In alto, attorno il Lago di Sevan, a 1950 metri cresce l’Olivello Spinoso, ricco di vitamine, in particolare la C, e coi frutti si preparano composte e sciroppi che vengono venduti in loco.

Dalla cantina di 6 mila anni fa a oggi

Secondo la Bibbia Noè con l’Arca approdò sul Monte Ararat dopo il Diluvio universale, poi piantò la vite e ne ricavò il vino. Quindi la tradizione vinicola in Armenia è antichissima, basti pensare che scavi archeologici nella grotta “Areni 1” hanno portato alla luce una vera e propria cantina di oltre 6mila anni fa, con una vasca poco profonda dove si pigiava l’uva, un tino per la conservazione e giare chiamate Kerasi, per la fermentazione, (che alcuni vinificatori hanno ripreso a utilizzare). Pare che questo vino, fosse riservato a scopi rituali.

L’antica cantina di Areni

Si può visitare questa struttura, che è a un paio d’ore di auto a sud-est di Yerevan, e sempre in questo luogo è stata rinvenuta la scarpa di pelle conservata al Museo di Yerevan. Questa è una zona ancora oggi vocata alla vite, e nel vicino villaggio di Areni troviamo la cantina Momik Wine Cube dove assaggiare vini e cucina locale, e conoscere la storia dei vitigni, il più famoso dei quali è l’Areni, uva autoctona con oltre 3 mila anni di storia e mai intaccata dalla filossera. Durante la presenza dell’Unione Sovietica in Armenia (dal 1920 al 1991) si privilegiò la produzione del brandy (produzione ancora oggi molto importante), poi sono stati ripristinati i vitigni autoctoni, circa 350, tra i principali il Sev Areni, prodotto soprattutto in questa zona, poi tra le varietà a bacca rossa ci sono Sireni e Haghtanak e tra quelle a bacca bianca Voskehat e Kangun.

Dalle piccole aziende a una realtà che produce 10 milioni di bottiglie di vino all’anno, e 5,5 milioni di bottiglie di brandy: è Armenia Wine Company, a 26,7 km da Yerevan. Fondata nel 2008, ha grandi impianti moderni, produce vini spumanti e fermi. Si può visitare la cantina, fare degustazioni, pranzare, e soprattutto visitare il Wine History Museum, un magico luogo sotterraneo con grandi sale dove il vino è protagonista. Tutto qui ha un fascino antico, anche se in un contesto moderno molto bello, e colpisce un fregio con grappoli d’uva, che proviene dalle rovine della cattedrale di Zvarnots (patrimonio Unesco) del VII secolo, nel X secolo fu distrutta da un terremoto, riscoperta poi all’inizio del XX secolo, e oggi ne resta un solo piano. E’ a 20 km da Yerevan e sorge in un luogo isolato e molto suggestivo, e facilmente raggiungibile in auto.

Lavash, verdure, frutta disidratata ecco i segreti in cucina

Se in Armenia chiedete il pane, s’intende solo il lavas. È un pane sottile che può ricordare la piadina. L’impasto viene steso come una sfoglia, tirata col mattarello, poi le sfogline la lanciano e la riprendono, allargandole con le mani, una cosa impensabile se non si ha una lunga esperienza!

Poi questa sfoglia viene stesa sopra un cuscino, inumidita, e fatta aderire alle pareti di un forno interrato, cilindrico, con le pareti in terracotta. Le braci sono in fondo e il grande calore fa sì che il pane sia pronto in pochi minuti. Dura a lungo, anche un anno, e basta un po’ di acqua per farlo rinvenire.

Se il pane è un punto fermo della cucina armena, un pasto riserva una serie di altre belle sorprese. A Yerevan (ma non solo) sono numerosi i ristoranti del centro che offrono una cucina davvero eccellente. Si inizia sempre con una tavolata di verdure che da sole sono un vero pranzo, insalate crude e cotte, pomodori saporiti anche in autunno avanzato, melanzane declinate in tante preparazioni, involtini di foglie di vite…  Molto buoni e saporiti i formaggi. Per i nostalgici della pasta italiana ci sono tagliatelle gustose, fatte essiccare con un metodo tradizionale, così come lo sono le zuppe di verdura.

Poi arrosti, grigliate, preparazioni in umido di carne e polpette, buonissime, e pesce arrosto soprattutto trote. E dolci, tipico è il gata, una pasta dolce e farcita con noci, miele, burro e spezie come la cannella. Nella cucina armena troveremo un importante uso di noci, uvetta, frutta disidratata, non solo nei dolci ma anche nelle insalate, un’idea da copiare. Il GUM Market di Yerevan è interamente dedicato alla frutta secca, o disidratata, dove la frutta è protagonista anche di belle composizioni perfette per portare a casa un souvenir.

Tsitsernakaberd

Il memoriale del genocidio armeno si trova alle porte di Yerevan sulla collina di Tsitsernakaberd. Appare come una stele, alta 44 metri, che rappresenta la rinascita degli armeni, costruita nel 1965-67 in memoria di oltre un milione e mezzo di armeni vittime del genocidio compiuto dal governo dei Giovani Turchi nell’Armenia occidentale e in altre aree della Turchia nel 1915-16.

Al centro del complesso ci sono 12 imponenti piloni intorno alla fiamma eterna, che arde in memoria delle vittime. Il muro commemorativo in basalto, che fiancheggia il viale di accesso al memoriale, ha incisi i nomi delle località dove ci furono massacri e deportazioni. Da vedere anche il museo che racconta la storia di quelle persone deportata e uccise, molte le donne vittime in modo crudele di questo eccidio. Ogni anno, il 24 aprile, migliaia di persone commemorano il genocidio.

Oggi 7 milioni di armeni vivono nel mondo (un’icona è stato Charles Aznavour), molti ancora legati alla terra di origine, tanto che nei settori dell’arte e della viticultura troviamo apporti molto importanti, anche finanziari, degli armeni che vivono all’estero. C’è una cosa curiosa da notare: i giovani oggi in Armenia non parlano volentieri del genocidio, quando lo fanno hanno la voce spezzata di chi ricorda una storia che nel passato può anche interessare la famiglia. E a chi domanda: “Ma cosa provi?” rispondono: “Ci hanno insegnato a non dimenticare ma anche a non odiare”. E questa forse è una delle chiavi giuste per capire questo affascinante albero- Armenia dai rami giovani.

Vai al sito

L’Europarlamento tra ipocrisia e giri di valzer (il Roma.net 26.11.24)

Con notevole ritardo rispetto agli eventi che hanno da sempre caratterizzato la politica aggressiva dell’Azerbaijan nei confronti dei suoi vicini Armeni e della enclave armena del Nagorno – Karabakh, il Parlamento Europeo ha lanciato nelle scorse settimane e per la prima volta una denuncia nei confronti del regime azero.

Il governo di Baku è stato finalmente accusato di non rispettare i diritti umani e la risoluzione adottata a maggioranza dagli europarlamentari sollecita l’Unione Europea a riesaminare le caratteristiche della sua significativa dipendenza energetica da quello Stato.

Si tratta di una presa di posizione confusa e tardiva, oltre che contraddittoria e ridicola, assunta senza valutare e soppesare alcunché, in linea perfetta, quindi, con tantissime altre risoluzioni dell’Europarlamento.

Che la Repubblica dell’Azerbaijan sia un regime sostanzialmente e strutturalmente dittatoriale è un dato di fatto che non può essere cancellato dal ricorso ad alcuni aspetti formali di carattere parlamentare – vero e proprio specchietto per le allodole – e che sia da sempre un regime repressivo, sin dalla sua nascita con l’implosione della vecchia Unione Sovietica, è sotto gli occhi di tutti.

Ciò che fa riflettere è questa improvvisa presa di coscienza dell’Europarlamento. Ricordiamo, infatti, che la dipendenza energetica dell’Europa dall’Azerbaijan è stata notevolmente incrementata nel tempo proprio grazie ai fondi dell’Unione Europea e alla costruzione del gasdotto Tap/Tanap e con l’inizio della crisi russo-ucraina del febbraio del 2022 ha assunto caratteristiche e dimensioni rilevantissime, con l’obiettivo di ridurre la dipendenza europea dal gas russo.

L’Azerbaijan ha insomma lucrato e sta lucrando tantissimo da questo rinnovato e potenziato rapporto commerciale con l’Europa e su questo ha, a sua volta, investito moltissimo al fine di consolidare sempre più la sua condizione di partner privilegiato dell’UE. Lo ha fatto tramite una politica di “lobbying” molto forte negli ambienti politici, economici e finanziari di Bruxelles e attraverso un’intensa e continua attività di “soft power” e di potere persuasivo nei confronti delle istituzioni europee, di molte personalità politiche dell’Unione e di tantissimi eurodeputati.

E proprio in quest’ambito non sono mancati anche alcuni casi di corruzione, miranti ad ammorbidire e facilitare il sistema relazionale con il regime azero che è sempre stato fortemente deficitario nel campo del rispetto dei diritti umani e della libertà di espressione.

Ma ora, con l’ultima recentissima guerra contro l’Armenia, la conquista definitiva dell’“enclave” armena del Nagorno-Karabakh da parte dell’esercito azero e il conseguente drammatico esodo forzato di tutta la popolazione armena di quel territorio conteso, l’Azerbaijan ha potuto chiudere vittoriosamente il suo straziante e triste capitolo di guerre e di soprusi nei confronti della minoranza armena, complice il silenzio ipocrita e interessato dell’Europa.

Ed ecco che lo scenario cambia improvvisamente. Un Azerbaijan sempre più vittorioso sul campo e politicamente tracotante, forte del suo tener in pugno l’Europache continua ad avere bisogno del gas azero, essendosi volutamente preclusa quello russo, ha raggiunto oramai tutti i suoi obiettivi politici per quanto concerne i rapporti con Bruxelles e non ha più bisogno di persuadere, di blandire di compiacere e di mostrarsi prodigo per farsi accettare e per far dimenticare il suo deficit in materia di diritti umani.

E proprio ora, guarda un po’, gli eurodeputati si ricordano finalmente che in quel paese la libertà e la democrazia non sono cose scontate e che c’è qualcosa che non va e chiedono di fare marcia indietro. Ma finora dov’erano? Su Marte? L’ipocrisia e il lento suicidio dell’Unione Europea continuano. Non si tratta di dissonanza cognitiva, ma di mala fede mista a stupidaggine.

Vai al sito

Enoturismo in Armenia tra vitigni antichi e paesaggi suggestivi (Italiatavola 26.11.24)

Con una storia millenaria e un legame profondo con la viticoltura, l’Armenia sta vivendo una vera e propria rinascita nel settore vinicolo e del turismo del vino. Un tempo produttore di brandy per diktat sovietico, oggi il Paese guarda al futuro con un ambizioso programma di sviluppo, che punta sulla valorizzazione dei vitigni autoctoni, sull’enoturismo e su nuove infrastrutture per i visitatori.

Enoturismo in Armenia tra vitigni antichi e paesaggi suggestivi

In Armenia i vigneti con sullo sfondo l’Ararat

 

Le radici antiche del vino armeno

Il legame dell’Armenia con il vino risale a oltre 6mila anni fa. Nella grotta Areni 1sito archeologico scoperto nel 2007 ai piedi della gola di Noravank, provincia di Vayots Dzor, gli studiosi hanno portato alla luce una cantina antichissima, risalente a 6.100 anni fa, con strutture per la fermentazione e la conservazione del vino. In questo territorio, dove il racconto biblico narra che Noè uscito dall’Arca dopo il Diluvio universale piantò la prima vite, la viticoltura ha una valenza storica e culturale straordinaria.

Enoturismo in Armenia tra vitigni antichi e paesaggi suggestivi

Nella grotta Areni 1, sito archeologico scoperto nel 2007 ai piedi della gola di Noravank, provincia di Vayots Dzor, gli studiosi hanno portato alla luce una cantina antichissima

 

Nell’antichità il vino era la bevanda più usata dalla popolazione armena e sui bassorilievi degli antichi monasteri non mancano mai tralci di vite, uva e calici, mentre nel complesso di Persepolis in Iran si conserva un bassorilievo di armeni che portano il loro famoso vino a re Dario. Visitare il Wine Historical Museum, ospitato nella cantina Armenia Wine, offre un percorso che racconta la storia di questa bevanda attraverso secoli di cultura e tradizione.

Enoturismo in Armenia tra vitigni antichi e paesaggi suggestivi

Coppa Rituale 2300 aC Museo di Storia di Yerevan Armenia

 

Il boom della viticoltura moderna e il ritorno dei vitigni autoctoni

A partire dal 1991, con il crollo dell’Unione Sovietica, l’Armenia ha iniziato a ricostruire la propria identità vinicola. Durante la dominazione sovietica, il Paese era stato, infatti, destinato alla produzione di brandy, con le sue varietà più nobili estirpate per fare spazio al Kangoun, il vitigno destinato a questo distillato. Al vino doveva provvedere la Georgia.

 

Ma con il ripristino dell’autonomia, gli armeni hanno cominciato a reintrodurre antichi vitigni come il Voskehat, a bacca bianca, e l’Areni, simbolo dei rossi armeni, oggi apprezzati non solo a livello locale ma anche internazionale. In Armenia si contano oltre 300 vitigni autoctoni. Attualmente ne sono coltivati principalmente 35, di cui 20 per produrre vino e il resto come uva da tavola, di cui la qualità più diffusa è la kishmisch.

Enoturismo in Armenia tra vitigni antichi e paesaggi suggestivi

L‘Armenia punta a un programma di sviluppo per la valorizzazione dei vitigni autoctoni

 

Un’enorme crescita del settore vitivinicolo

Dalle 25 cantine che si contavano appena sei anni fa, oggi se ne contano ben 150, e se nel 2008 vi erano soltanto 4 etichette oggi i vini armeni sono 430, segnando un’espansione rapidissima, con rossi corposi con 13,5 di gradazione minima e 12% per i bianchi. In un paese che conta 300 giorni di sole l’anno la produzione vinicola in meno di un decennio è passata da 7 a oltre 13 milioni di litri, e i dati non mostrano segni di rallentamento.

Questo sviluppo è stato accompagnato da un aumento dei turisti, con presenze che sono raddoppiate nello stesso periodo, passando da 1,2 milioni di arrivi nel 2014 a 2,3 milioni nel 2023. Quest’anno si prevede di chiudere il 2024 con oltre 3 milioni di arrivi. Un numero importante e un contributo significativo al PIL nazionale.

 

 

L’enoturismo: una nuova frontiera per l’Armenia

L’Armenia sta investendo fortemente nell’enoturismo, una forma di turismo tematico quasi inesistente fino a pochi anni fa. Iniziative governative, come sgravi fiscali e incentivi per le imprese del settore, hanno favorito la nascita di strutture per l’accoglienza dei turisti, la riconversione delle antiche cantine in sale per degustazioni e ristoro. Alcuni piccoli produttori sono impegnati nell’allestimento di aree di accoglienza per camper tra i vigneti, per un’esperienza immersiva e accessibile a tutti.

Enoturismo in Armenia tra vitigni antichi e paesaggi suggestivi

I vigneti a Vayots Dzor

 

La Conferenza internazionale del turismo del vino, tenutasi a Yerevan a settembre 2024 con il supporto dell’Unwto (Organizzazione mondiale del turismo) e la partecipazione di 25 paesi, ha puntato i riflettori su questo settore in forte crescita, attirando investitori e stimolando progetti di marketing territoriale.

La resilienza dell’Armenia tra sfide geopolitiche e cultura del vino

L’Armenia, nonostante le sfide geopolitiche, continua a puntare sull’enoturismo e sulla propria antica tradizione vinicola. Le recenti tensioni con l’Azerbaijan hanno influito sulla vita di molti cittadini, compresi i produttori vinicoli costretti ad abbandonare le loro terre nel Nagorno Karabakh. Tuttavia, al netto delle difficoltà, la produzione vinicola e l’enoturismo sono in continua espansione, e si stima che nei prossimi anni il settore potrà addirittura quintuplicare.

L’attrattiva dei piccoli produttori e l’influenza della diaspora

La produzione vinicola armena è caratterizzata da numerosi piccoli produttori che lavorano con metodi artigianali per creare vini di nicchia e di qualità, richiamando turisti interessati a degustazioni personalizzate e a scoprire vitigni autoctoni.

 

 

Gli investimenti degli armeni della diaspora hanno portato una ventata di innovazione e capitali al settore contribuendo a finanziare l’impianto dei vitigni e la nascita di molte delle nuove aziende vitivinicole, come la cantina Karas, fondata da Edoardo Ernekyan, un armeno già produttore di vino in Argentina, e l’Armenia Wine Company, di proprietà di due imprenditori armeni, che ha iniziato la produzione nel 2009 e nel 2017 l’ha estesa ai vini organici su 82 ettari. La produzione attuale è di 10 milioni di bottiglie l’anno di cui il 60% parte per l’estero, in particolare Russia, Polonia e resto dell’Europa e poi Usa, Cina e Sudamerica. La cantina produce anche 3,5 milioni di bottiglie di brandy. La previsione futura dell’Armenia Wine Company è di estendere la produzione con il vino da messa da distribuire a tutte le chiede dell’Armenia.

  • Karas Wines | Arevadasht Community, Armavir, Armenia Tel +374 10 493000
  • Armenia Wine Company | 3 Bild., 1Dead-end, 30 Street, Sasunik 0223, Armenia | Tel +374 44 802222

Il futuro del vino armeno: tra tradizione e modernità

L’Armenia guarda al futuro con nuove prospettive, sfruttando le sue antiche tradizioni e il recente boom turistico per diventare una meta enoturistica di spicco. Dai vigneti nella valle dell’Ararat ai vini della regione di Vayots Dzor, dove le uve vengono coltivate a 1800 metri di altezza, fino alle cantine moderne e ospitali, i visitatori possono ora vivere un viaggio che affonda le sue radici nella storia di un Paese che, oltre alle sue bellezze naturali, si impegna a riscoprire e a valorizzare il “nettare degli dei” che tanto ha segnato il suo passato.

Vai al sito

L’amore per Matera del regista armeno Atom Egoyan «Grazie a Pasolini ho scoperto questo luogo di magia» (Corriere della Sera 26.11.24)

«La musica è stata una delle mie ossessioni, in un certo senso lo è ancora. È come un calmante, quando suono amo la fisicità del gesto e il fatto di avere il controllo totale di quello che faccio. L’esito è immediato, quando il mio dito colpisce la corda, il suono è puro e diretto e per ottenerlo non devo spiegare niente a nessuno». Racconta una grande passione e allo stesso tempo, in una frase, Atom Egoyan riassume l’estrema fatica del dirigere, mentre mi mostra polpastrelli che ricordano anche la sua formazione di chitarrista classico. Le sue parole descrivono quello sforzo addizionale che occorre per far capire agli attori cos’ha nella mente e per cercare di vederlo concretizzarsi. 64 anni, il regista armeno naturalizzato canadese è stato da poco presidente di giuria della quinta edizione del Matera film Festival, dove ha ricordato Alberto Moravia e il debito che sente di avere con lui. «Quando avevo solo 28 anni e avevo girato il mio secondo film, Black ComedyMoravia mi ha menzionato in un articolo aprendo la strada alla regia dei miei successivi quattro film nel vostro Paese». L’autore di Il dolce domani (candidato all’Oscar per miglior regia e sceneggiatura), Exotica, Ararat e The captive-Scomparsa, si è affermato agli inizi degli anni Novanta ed è diventato un riferimento in tutto il mondo per cinema, teatro e opera lirica. A Matera ha presentato in anteprima nazionale Seven Veils, che racchiude tutti i suoi mondi. La protagonista Amanda Seyfried è una regista teatrale alle prese con l’allestimento di Salomé, dall’opera originale di Richard Strauss basata sul testo di Oscar Wilde. Rimontando l’opera per espresso desiderio del suo regista in un testamento, la donna si trova a rivivere un trauma familiare che credeva di aver sepolto nel passato. Durante una passeggiata esclusiva con 7 fra i Sassi di Matera, in una mattina fresca e soleggiata Egoyan si lascia andare a riflessioni su fede, sguardo maschile, padri e madri e sulla necessità di osservare le cose in un modo nuovo.

Cosa suscita in lei questo luogo?
«Tutto è iniziato con Pasolini e con La passione secondo Matteo. A impressionarmi fu questa ambientazione che sembrava autentica e biblica, sembrava di essere immersi in quel periodo storico. Quindi sono sempre stato curioso di sapere dove fossero state realizzate queste riprese. Non era in una terra biblica, era Matera, da lì il nome di questa città per me è sempre stato associato a un luogo molto mistico in cui il tempo era sospeso».

All’epoca di Pasolini la città non era ancora stata ristrutturata…
«Allora si aveva davvero la sensazione delle persone che vivevano ancora nei sassi, in montagna, e quindi era perfettamente adatto allo spirito del film in cui tutto era così insolito, dall’uso della musica blues alla scelta di Gesù alle bellissime riprese tra la folla. Piuttosto che essere su Gesù, la telecamera si muove come se fosse qualcuno che cerca di vedere, e in ogni momento c’è Matera sullo sfondo».
Mi mostra le foto di Pasolini sul set del film, scattate in questi giorni con il suo smartphone.
«Vede quanto era elegante, Pasolini? Le racconto una storia. Ho visto Time to Die e ho visto naturalmente anche The passion, di Mel Gibson, che ha prodotto uno dei miei film, Felicia’s Journey. È venuto anche a Cannes ed è stato tutto un po’ folle, ma l’ultima cosa di cui abbiamo parlato è stata Matera. Da bambino amavo Jesus Christ Superstar e la storia di Gesù, ma Pasolini in qualche modo ha colto con maggiore radicalità lo spirito della storia».

L'amore per Matera del regista armeno Atom Egoyan «Grazie a Pasolini ho scoperto questo luogo di magia»

Atom Egoyan mentre esamina alcune pitture rupestri sui Sassi di Matera
(Foto Gor Monton)

Cosa rende questo luogo così straordinario, secondo lei?
«Hanno lasciato le montagne circostanti completamente spoglie, in qualsiasi altro posto nel mondo avrebbero costruito edifici ovunque… Invece qui il luogo è spazialmente autentico».

Lei è un uomo di fede?
«Credo fermamente nella vita di Gesù, sento i suoi insegnamenti molto vicini. Ma non ho bisogno di credere a tutti i dettagli dei miracoli, non ho bisogno di prove. Piuttosto credo che veri miracoli siano nati dalla fede».

Cosa intende dire?
«Quando ascolto la musica di Bach, vedo un film come i Il Vangelo secondo Matteo o quando mi trovo in una chiesa o davanti a un’opera architettonica incredibile, faccio esperienza di Dio».

Quindi Dio è una specie di sensazione?
«Una sensazione che i grandi artisti possano trasmettere, rendere disponibile. E penso che il vero miracolo sia avere la visione e il talento per creare queste opere, questo è il miracolo da cui traggo ispirazione».

Con Seven Veils torna su Salomè che aveva già affrontato a teatro con molto successo in tutto il mondo.
«Stiamo parlando ancora della Bibbia, e questa è una delle prime storie di violenza sessuale in cui vediamo questa donna compiere un’azione straordinaria. È chiaro che sua madre Erodiade, moglie di Erode, le dice di chiedere la testa di Giovanni Battista perché lui l’ha insultata. Ma ciò che è affascinante è che nell’opera di Oscar Wilde è chiaro che non è a causa della madre che Salomè sta prendendo la sua decisione, una metafora molto interessante per il nostro periodo storico. Era il 1996 quando ho curato la prima produzione dell’opera, tra i miei film Exotica e Il dolce domani, ed è stata rimessa in scena diverse volte in tutto il mondo. Quando la Canadian Opera Company mi ha detto che l’avrebbero riproposta, ho pensato a come attualizzarla e a rendere l’idea di emancipazione».

Così ha scelto di mettere al centro una regista donna, interpretata da Amanda Seyfried.
«Ci ho pensato per 15 anni, da quando abbiamo lavorato insieme a ChloeFra seduzione e inganno. Ha a che fare con tanti uomini nella sua vita, che siano il fantasma del padre, quello dell’ex amante che ha diretto la produzione originale, l’attuale marito, l’amante che trova, Giovanni Battista, ma anche gli spiriti di Strauss e Oscar Wilde… Quindi naviga in un mare di influenze maschili, ma sta cercando di affermarsi».

La cosa che trovo speciale è il suo personale modo di navigare nello shock e nel trauma, nei suoi film lo fa sempre in modo deciso ma discreto.
«Quello è un fatto di carattere, io sono così. E quando sai di avere forse l’immagine più scioccante di tutte le opere, una donna che bacia e labbra di una testa grondante di sangue, puoi fare un passo indietro, prendere una certa distanza».

Il suo cinema indaga da sempre l’identità e i traumi familiari, da dove viene questo interesse?
«Da adolescente la prima ragazza di cui mi sono innamorato follemente veniva abusata dal padre. Sul momento non avevo capivo cosa stava succedendo, ma sentivo che il padre si sentiva minacciato da me, che ero un tipo piuttosto innocente. Era un pittore molto famoso in città, e la cosa sconvolgente è che l’ha ritratta in dipinti erotici, l’intera città l’ha vista ma nessuno ha detto niente a riguardo».

Egoyan

Egoyan mentre posa davanti a un emporio con prodotti tipici materani
​(Foto Gor Monton)

Dove è successo?
«A Vittoria, una piccola città molto conservatrice sulla costa occidentale del Canada. Io sono armeno ma nato in Egitto, quindi quando siamo arrivati lì eravamo una famiglia insolita. Anche i miei genitori sono pittori, quindi facevano parte di quella cerchia perché avevano uno studio in città. Insomma, sono cresciuto con questa idea di un ambiente artistico in cui ci sono anche abusi. E ricordo quando ho letto Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, anche quella è una storia di incesto e in realtà è tratta dalla vita di Pirandello stesso perché sua moglie pensava che lui avesse una relazione sessuale con la figlia. La questione è al centro della commedia che ha avuto anche una grande influenza su di me».

Che tipo di persone erano i suoi genitori?
«Erano in bilico fra due mondi, provenivano da una cultura patriarcale mediterranea ma il fatto stesso che quando sono arrivati in Canada non abbiano scelto di vivere a Montreal o a Toronto, dove c’era tutta la comunità armena, significa che volevano prendere le distanza. Mio padre ha fatto del suo meglio, ha provato davvero a essere diverso nei confronti di mia sorella, ma io sono sempre stato consapevole di essere il figlio maschio».

Sua sorella è una pianista.
«È una delle migliori pianiste moderne in Canada. È molto forte ma ha avuto una relazione complicata con mio padre, era un fatto culturalmente molto radicato».

Suo padre era famoso?
«Era un prodigio, fu il primo pittore egiziano a ottenere una borsa di studio completa presso il Chicago Art Institute. È andato in America con molte ambizioni ma non è riuscito ad affermarsi, in casa eravamo sempre consapevoli delle sue frustrazioni, in un certo senso il padre che ho mostrato in Seven Veiles è un mix delle frustrazione del mio e di quello della ragazza di cui mi sono innamorato da giovane».

Ha detto che il cinema ci fa riappropriare dei sentimenti, in che modo?
«Vediamo altri esseri umani sullo schermo, specialmente in primo piano, e crediamo che siano reali. Creare una sorta di distanza da quell’identificazione immediata scatena un’alchimia che è molto complessa e ricca perché ci rende introspettivi: osserviamo altri esseri umani essendo consapevoli di osservarli. Quando guardo Pasolini e la scena di cui parlavo prima, quando vediamo Gesù che fa il discorso sulla montagna, abbiamo la macchina da presa dietro la folla, che da la sensazione di cercarlo e anche se sappiamo che non sei lì, crea l’eccitazione trovarti davvero in quel luogo».

Se le chiedo cosa significa per lei la parola “guarigione”? « Per me è la cosa più vicina che sento spiritualmente quando ascolto un bel brano di musica o quando guardo un bel film o un dipinto… Forse la musica è la cosa più vicina, perché la musica in realtà mi dà più spazio. Quando suono non devo spiegare, convincere, trasferire niente a nessuno… In quella veste non devo combattere tutto il tempo per convincere gli altri, non lotto contro il tempo e con i problemi di produzione. Sono solo con il mio strumento, per me è una liberazione».

L'amore per Matera del regista armeno Atom Egoyan «Grazie a Pasolini ho scoperto questo luogo di magia»

Un momento della passeggiata di Egoyan a Matera

«Anche Gibson ha portato Gesù qui
Ma il Vangelo di Pier Paolo era più radicale»

Perché ha chiamato la sua compagnia Ego Arts?
«Era il nome della galleria di mio padre in Egitto, che firmava così i dipinti. Quando siamo arrivati in Canada abbiamo cambiato il nostro nome, Y-E-G-H-O-Y-A-N, che è impronunciabile, in Ego».

Con “ego” si indica qualcosa che si forma intorno a un centro, qualcosa di cristallizzato…
«Sono le cose che facciamo per civilizzare noi stessi. Non tagliamo teste e non baciamo le labbra perché siamo civilizzati, il padre Erode fa uccidere la figliastra, Salomè, perché è la prima a rompere tutti i codici morali. Fa cose estreme ma allo stesso tempo lei è frutto di un’interpretazione maschile, non sappiamo chi sia davvero. È tutto filtrato da occhi maschili, quelli di Strauss, di Oscar Wilde, di Flaubert o Gustave Moreau… Mi ci voleva un’attrice forte come la Seyfried per proporre qualcosa di diverso».

L'amore per Matera del regista armeno Atom Egoyan «Grazie a Pasolini ho scoperto questo luogo di magia»

II regista armeno naturalizzato canadese davanti a una casa materana

«Il nome Atom? Per i miei c’entra con l’arrivo dell’energia nucleare in Egitto, dove sono nato»

Da dove arriva il suo nome, Atom?
«È una bella domanda, tecnicamente i miei genitori dicono che è legato all’arrivo dell’energia nucleare in Egitto e che questa era il futuro, quindi hanno scelto quel nome. Ma allo stesso tempo un classico nome in antico armeno è “Adom”, dove la “d” nel dialetto orientale si pronuncia “ t”».

C’è qualcosa di biblico, nel suo nome?
«L’Armenia è stato il primo Paese ad aver scelto il Cristianesimo come religione, è quindi molto radicato nella nostra cultura. Però mentre Adam è una parola biblica armena, Adom non lo è».

I suoi progetti futuri?
«Sto lavorando a un’opera teatrale che andrà in scena in Germania nel 2025, e anche a una nuova opera che metterò in scena a Montreal, Jenufa di Leos Janecek. È un’opera molto bella e sono molto emozionato perché è una storia molto interessante, è una delle poche opere classiche scritte da una donna. È basata su un’opera di Gabriella Preissova, una drammaturga. È anche una storia incredibilmente folle, riguarda l’uccisione di un bambino, del resto le grandi opere sono scritte da compositori che amano il dramma, amano il teatro, come Verdi amava Shakespeare. Devono essere storie forti e avvincenti che vengono poi messe in musica, e questo è un ottimo esempio».

Azerbaijan – USA, Aliyev chiama Trump (Osservatorio Balcani e Caucaso 26.11.24)

Il presidente azero Ilham Aliyev non ha mai nascosto le sue preferenze per una vittoria di Trump alle presidenziali USA, dopo non poche divergenze con il presidente uscente Biden. Ora Baku punta a stabilire relazioni fruttuose con la nuova amministrazione

26/11/2024 –  Marilisa Lorusso

Il 20 luglio 2024 il presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev ha partecipato al secondo Shusha Global Media Forum, evento dedicato all’informazione. In questa occasione, ha risposto a diverse domande  di giornalisti ed esperti di media, anche sulle relazioni tra Stati Uniti e Azerbaijan e sulle elezioni americane.

Il Presidente Aliyev ha ricordato che nel 1992 gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni all’Azerbaijan, nonostante il paese si trovasse ad affrontare crisi umanitarie e devastazioni. Inizialmente in difficoltà nel comunicare la propria situazione a livello internazionale – e sentendosi messo all’angolo dalla narrazione dell’attiva diaspora armena – ora Baku invita personaggi globali a testimoniare in prima persona i suoi progressi e le sue aspirazioni, con l’obiettivo di rimodellare le prospettive internazionali.

COP29 è stata pensata come la sua grande vetrina. Aliyev ha lamentato, a Shusha come in altre occasioni, un forte pregiudizio verso il paese, secondo lui fomentato dalla lobby armena e da quelli che addita come i protettori dell’Armenia, in primis la Francia.

Agganciandosi al tema della “disinformazione globale”, ha espresso il suo supporto per Donald Trump, per alcuni elementi di forza del candidato repubblicano uscito poi vincente dalle presidenziali. Secondo Aliyev, Trump, proprio come come l’Azerbaijan, è vittima della disinformazione: “Anche il presidente eletto americano si trova ad affrontare ciò che noi affrontiamo da tanti anni. Trump è stato colui che ha definito ‘false notizie’ il Washington Post e il New York Times. Sono completamente d’accordo con lui. Non solo in questa ma in molte altre affermazioni.”

Direttamente interrogato su come auspicasse l’esito del voto, Aliyev non ha nascosto le sue preferenze e ha ripetuto i punti salienti della campagna del candidato Trump, come la non volontà di andare in guerra (nonostante proprio durante la presidenza Trump Baku stessa fosse coinvolta nel conflitto per il Nagorno Karabakh).

E ha aggiunto “non voglio entrare troppo nei dettagli dell’argomento, come si suol dire – ma un secondo aspetto, che è anch’esso importante […] è una posizione chiara sulla questione dei valori tradizionali. Penso che la maggioranza assoluta del popolo azero non solo condivida questa posizione, ma la promuova attivamente e la metta in pratica.”

Aliyev non ha nascosto la netta preferenza non solo per Trump e per i punti forti della sua campagna, dall’approccio all’informazione “mainstream” alla questione dei valori, ma in generale al partito repubblicano, elogiando il primo mandato del poi (ri)eletto presidente.

“Naturalmente, se si guarda allo sviluppo delle nostre relazioni, con l’amministrazione repubblicana le nostre relazioni sono sempre state molto più produttive, fruttuose e orientate ai risultati. Basta guardare le mie comunicazioni con i leader e i presidenti americani e tutto sarà chiaro. Durante la presidenza Trump, abbiamo goduto di una cooperazione molto fruttuosa basata sul rispetto reciproco e sull’apprezzamento del sostegno reciproco su diversi fronti.”

Le spigolosità

Ci sono questioni che Baku non ha digerito con l’amministrazione uscente. Le sanzioni di cui parlava Aliyev è la Sezione 907 del Freedom Support Act  che ha messo al bando gli aiuti economici diretti all’Azerbaijan da parte del governo americano.

La misura è appunto stata adottata nel pieno della prima guerra del Karabakh, e poi interrotta nel 2001: il Senato ha allora votato a favore della scelta discrezionale del presidente di disapplicare la Sezione 907. Questa contromisura è invece frutto del supporto logistico azero alle operazioni in Afghanistan.

I vari presidenti che si sono succeduti hanno sempre esercitato questa discrezionalità fino al 15 novembre 2023, quando il Senato ha adottato un disegno di legge per sospendere tutti gli aiuti militari all’Azerbaijan, abrogando l’autorità di rinuncia della Sezione 907 per gli anni fiscali 2024 o 2025. Con la seconda guerra del Karabakh quindi l’Azerbaijan si è trovato punto e a capo su questa questione.

Ma non è questa l’unica spigolosità. L’amministrazione Biden si è fatta sentire sulla questione dei diritti umani.

In seguito al Rapporto annuale 2023  della Commissione degli Stati Uniti sulla libertà religiosa internazionale che raccomandava al Dipartimento di stato di includere Baku nella sua Lista di controllo speciale per aver commesso o tollerato gravi violazioni della libertà religiosa, il segretario Antony Blinken ha proceduto ad includervi l’Azerbaijan  .

Il Dipartimento di stato si è poi espresso più volte contro gli arresti di oppositori o critici del governo Aliyev: a giugno per Farid Mehralizade, economista e giornalista finito dietro le sbarre; a luglio il vice portavoce del Dipartimento di Stato, Vedant Patel, ha risposto a una domanda sulle preoccupazioni relative ai diritti umani, compreso il caso del leader della società civile Gubad Ibadoghlu e l’arresto di altri attivisti. Patel ha affermato che gli Stati Uniti avrebbero continuato a mantenere acceso il canale diplomatico su queste questioni.

Ogni volta Baku segnala un forte dissenso verso le critiche, liquidando le varie dichiarazioni contro il proprio operato come frutto di lobby armene, di islamofobia, di azerofobia.

Per questi motivi in una lettera al ministero degli Esteri azero un gruppo di parlamentati azeri ha proposto di recedere da tutta una serie di accordi  con gli Stati Uniti.

Trump 2

Il 6 novembre il Presidente Aliyev ha inviato una missiva di congratulazioni al neo-eletto presidente  che chiarisce su cosa punta Baku in questo ritorno di Trump alla presidenza: “Durante la sua prima presidenza lei è stato molto attento al consolidamento delle relazioni amichevoli e di cooperazione tra l’Azerbaijan e gli Stati Uniti […] la nostra interazione in diversi settori importanti, e in particolare la lotta alle sfide globali e al terrorismo, la promozione della pace e della sicurezza internazionali e la garanzia della sicurezza energetica dell’Europa, è caratterizzato da un dinamico e costante sviluppo crescente. Vorrei sottolineare in particolare il vostro costante e risoluto sostegno alla strategia energetica dell’Azerbaijan. [..] siamo determinati a espandere e approfondire ulteriormente la nostra partnership bilaterale in tutti i settori, compresi quelli politico, economico-commerciale, di sicurezza, di energia, di transizione verde e digitale e altri.”

Aliyev, formato come uomo d’affari, trova sponda in un altro uomo di affari, e spera certo di mettere a tacere le “spigolosità” sollevatesi con l’amministrazione precedente.

Vai al sito

Erodoto si sbagliava, gli armeni non provengono dai Balcani (AGI 26.11.24)

Vai al sito

Appello Parlamentare Bipartisan per il Rilascio dei Prigionieri Armeni dell’Artasakh- Nagorno Karabagh. (Stilum Curiae 26.11.24)

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, offriamo alla vostra attenzione questo messaggio che abbiamo ricevuto dalla Comunità Armena. Buona lettura e diffusione.

§§§

 

COP29 – APPELLO PARLAMENTARE BIPARTISAN PER IL RILASCIO DEI PRIGIONIERI ARMENI

Appello Parlamentare

Premesso che dall’11 al 22 novembre 2024 l’Azerbaigian ospiterà COP29, conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico;

Considerato che l’Italia ha ottimi rapporti commerciali e politici con Baku e intrattiene una proficua collaborazione anche nel campo energetico, il che ci posiziona fra i primissimi partner europei dell’Azerbaigian;

Valutato che è interesse dell’Italia che l’area sud caucasica sia pacificamente stabilizzata e pertanto vengano incoraggiate tutte le azioni che promuovano un aumento di fiducia tra Armenia e Azerbaigian e la firma di un definitivo accordo di pace;

Preso atto che, dopo i recenti conflitti, risultano ancora trattenuti, con differenti motivazioni, a Baku, 23 prigionieri di guerra armeni e altri detenuti le cui famiglie attendono da tempo il ritorno a casa;

Considerato che il loro rilascio rappresenterebbe un segnale positivo nelle relazioni fra i due Paesi e avrebbe ulteriori positive ricadute su tutta l’area regionale e sulla stessa COP29;

i sottoscritti, deputati e senatori della repubblica italiana chiedono al Governo

• di sensibilizzare il partner azero affinché in concomitanza con l’evento COP29 proceda, quale gesto di buona volontà e in segno di amicizia con l’Italia, alla liberazione di tutti i prigionieri e detenuti armeni;

• di curare, qualora necessario anche con mezzi propri, il ritorno a casa degli stessi;

di comunicare ad Armenia e Azerbaigian l’impegno dell’Italia finalizzato al raggiungimento di un accordo definitivo di pace nella regione.

On. Alessandro Battilocchio -FI
On. Brando Benifei- PD Eurodeputato
On. Deborah Bergamini- FI
On. Simone Billi- Lega
Sen. Stefano Borghesi-Lega
Sen. Susanna Camusso-PD
On. Andrea Casu- PD
On. Giulio Centemero- Lega
Sen. Gian Marco Centinaio – Lega
On. Alessandro Colucci- Noi moderati
Sen. Andrea De Priamo- FdI
On. Gianmauro Dell’Olio- 5 Stelle
On. Benedetto Della Vedova – + Europa
Sen. Graziano Delrio – PD
Sen. Gabriella di Girolamo – 5 Stelle
On. Piero Fassino- PD
Sen. Aurora Floridia- Alleanza Verdi e Sinistra
On. Paolo Formentini- Lega
Sen. Mariastella Gelmini- Gruppo Civici d’Italia – UDC- Noi moderati
On. Giorgio Lovecchio- FI
On. Lorenzo Malagola- FdI
On. Stefano Maullu- FdI
Sen. Roberto Menia- FdI
Sen. Elena Murelli- Lega
Sen. Luigi Nave- 5 Stelle
On. Federica Onori- Azione
On. Andrea Orsini- FI
On. Andrea Pellicini- FdI
On. Catia Polidori- FI
On. Emanuele Pozzoli- FdI
On. Erik Pretto – Lega
Sen.    Tatjana Rojc – PD
On. Massimiliano Salini- FI Eurodeputato
Sen. Ivan Scalfarotto – Italia Viva
Sen. Filippo Sensi – PD
Sen. Luigi Spagnolli- Gruppo Per le Autonomie
Sen. Francesco Verducci- PD
Sen. Sandra Zampa – PD
On. Gianpiero Zinzi – Lega

“The Baku Connection”: il complesso asse di interessi tra Francia, Azerbaigian e Armenia (IARI 25.11.24)

C’è un clima di diffidenza tra Parigi e Baku: il sostegno francese alla vicina Armenia ha deteriorato il clima diplomatico tra Francia e Azerbaigian. Negli ultimi anni, il governo azerbaigiano di Ilham Aliyev sta forgiando la sua particolare rivincita sostenendo movimenti separatisti nei territori francesi d’oltremare, mentre allo stesso tempo gioca la sua carta di “amico fedele” dell’Unione Europea, per la quale il suo petrolio e gas sono diventati imprescindibili. Quando è iniziata la guerra sottile dell’Azerbaigian contro Parigi? Cosa possiamo aspettarci in futuro?

Francis Bacon diceva: La diffidenza è la compagna più sicura della saggezza. Un proverbio che viene applicato dallo storico numero 37 di Quai d’Orsay, la maestosa sede del Ministero degli Affari Esteri e dell’Unione Europea francese. Particolarmente in tutto ciò che riguarda l’Azerbaigian, repubblica turcica bagnata dal Mar Caspio, con la quale la Francia mantiene un rapporto deteriorato negli ultimi anni a causa del sostegno francese all’Armeniatradizionale alleata francese nel Caucaso, con la quale i legami diplomatici, culturali (Armenia e membro dell’Organizzazione internazionale della Francofonia dal 2012, e c’è un’importante comunità della diaspora armenia in Francia) e storici risalgono al Medioevo[1].

Dopo la guerra lampo lanciata dall’Azerbaigian contro l’Armenia nel 2022 e 2023, che si è conclusa con l’incorporazione dell’intera regione del Nagorno Karabakh e la dissoluzione del territorio pro-armeno della Repubblica di Artsakh, la Francia ha approfondito il suo rapporto strategico nella difesa e nella cooperazione con Erevan. Questo approccio ha avuto come conseguenza diretta un aumento delle tensioni diplomatiche tra Parigi e Baku.

Il presidente azerbaigiano ha tenuto un discorso incendiario contro la Francia nel corso della 53ª riunione del Consiglio dei Capi delle Agenzie di Sicurezza e dei Servizi Speciali della CSI in Ottobre 2023, in cui ha criticato il ruolo della leadership francese dal 2020 ad oggi, accusandola di minacce infondate e ricatti contro l’Azerbaigian. Ha affermato che la Francia aveva violato il diritto internazionale per 30 anni attraverso il suo alleato, l’Armenia, e ha menzionato i crimini coloniali francesi in Algeria e in Africa. Inoltre, ha criticato la Francia per mantenere ancora oggi delle colonie e per il suo comportamento diplomatico provocatorio e insultante. Questo è stato il primo battibecco tra l’Azerbaigian e la Francia, che ha motivato l’assenza di osservatori francesi nelle elezioni avvenute nel paese caucasico a febbraio 2024, la critica alla qualità della democrazia azerbaigiana da parte del senatore francese Claude Kern, l’espulsione di due diplomatici francesi da Baku sotto accuse non chiarite così come la detenzione di altri cittadini francesi accusati di spionaggio, la chiusura dell’Istituto Francese di Baku e lo smantellamento del gruppo di lavoro per le relazioni interparlamentari tra l’Azerbaigian e la Francia[2]. Questo non ha fermato la determinazione francese di privilegiare l’Armenia come partner strategico nel Caucaso, e la reazione dell’Azerbaigian non si è fatta aspettare, alzando il livello della pressione contro Parigi, questa volta sventolando la bandiera dell’anticolonialismo.

Dividi et Impera

Ricordiamo che la Repubblica Francese non si limita al territorio della Francia metropolitana, l’Esagono: la nazione gallica possiede territori d’oltremare presenti nei quattro emisferi mondiali.

Mappa dei “territori francesi ancora soggetti a decolonizzazione” presentata al congresso delle colonie francesi organizzato dal Gruppo d’Iniziativa di Baku. Fonti. – https://blogs.mediapart.fr/edition/memoires-du-colonialisme/article/110723/le-groupe-dinitiative-de-bakou-contre-le-colonialisme-francais-est-ne-gib / https://azertag.az/fr/xeber/bakou_abrite_le_congres_des_colonies_franchaises_mis_a_jour_video-3100238https://afriquexxi.info/L-Azerbaidjan-un-ami-qui-vous-veut-du-bien#&gid=1&pid=2

Dalla Corsica alla Guadalupa e alla Guyana, dall’Isola di Mayotte alla Nuova Caledonia, la Francia è la nazione con la seconda più grande zona economica marittima al mondo, che le permette di accedere a importanti risorse naturali, zone di pesca e persino a un vettore d’accesso allo spazio, rappresentato dalla base spaziale di Kourou, nella Guyana francese.

Ma, anche se ufficialmente tutti questi territori d’oltremare hanno lo stesso livello di diritti, la situazione di difficoltà economica e la mancanza di opportunità facilitano lo sviluppo di movimenti autonomisti e di proteste contro il percepito governo parigino, lontanissimo e ultracentralista. Dal storico movimento di indipendenza corso agli anni di piombo del terrorismo dell’ETA, il gruppo indipendentista basco, fino ai molto più recenti disordini nella Nuova Caledonia contro le modifiche della legge elettorale. (E nel quale il Governo francese sospetta dell’inferenza di Baku, siccome manifestanti portavano bandiere)

È in questo contesto che è stato creato, sotto l’auspicio delle autorità azere e del Centro di Analisi delle Relazioni Internazionali della Repubblica di Azerbaigian, il Gruppo di Iniziativa di Baku[3] (GIB) contro il colonialismo francese, il 6 luglio 2023. Alla riunione sono stati invitati i principali leader politici e culturali dei movimenti indipendentisti e anticoloniali di Tahiti, Martinica, Guyana e Polinesia Francese. Una reazione avvenuta parallelamente all’incontro tra i ministri della difesa francese e armeno per rinforzare la cooperazione militare e di difesa e alla firma dell’accordo di cooperazione intergovernativa in ambito culturale, scientifico e tecnico tra Parigi ed Erevan.

Il sostegno dell’Azerbaijan ai movimenti secessionisti francesi non è dovuto a una particolare e genuina simpatia per la liberazione democratica di questi popoli, ma rappresenta un’arma utile nella più ampia strategia di indebolimento, guerra ibrida e boicottaggio contro la Francia, alleato chiave del grande rivale geopolitico di Baku, l’Armenia. Anche se il primo passo delle ambizioni azere è stato compiuto in gran parte con la resa del Nagorno Karabakh, il presidente Ilham Aliyev continua a esigere dall’Armenia la cessione di una grande striscia di territorio per creare un collegamento fisico tra la Turchia e l’Azerbaigian attraverso la regione armena di Syunik, richiesta categoricamente respinta dal governo armeno, poiché significherebbe l’erosione di un territorio legittimamente armeno. Abbandonata dal suo tradizionale alleato russo, Erevan trova nell’alleato francese un prezioso aiuto per rafforzare le sue capacità di difesa contro un Azerbaigian che si percepisce militarmente superiore.

Il governo francese ha sospettato di un coinvolgimento azero in Nuova Caledonia, a causa della presenza di magliette con il logo del GIB e di bandiere dell’Azerbaijan nelle proteste antifrancesi, nonché di campagne di disinformazione e screditamento contro l’organizzazione dei Giochi Olimpici del 2024.

Un complesso ménage à quatre geopolitico

Il clima di ostilità tra Azerbaijan e l’Eliseo è il risultato diretto del posizionamento francese a favore dell’Armenia. Proprio per questo motivo, l’aggravamento delle tensioni e le azioni azere contro gli interessi francesi sono intrinsecamente legati all’evoluzione futura del conflitto irrisolto tra Azerbaijan e Armenia e all’esito (o meno) del processo di pace dopo la sanguinosa ripresa della guerra nel territorio di confine del Nagorno Karabakh. Allo stesso tempo, bisogna considerare le azioni dell’UE, che si trova nella scomodissima posizione di sostenere l’Armenia, vista come una nazione affine per standard democratici e prezioso alleato contro la Russia, ma senza poter stringere la vite a Baku, il cui petrolio e gas sono diventati assolutamente vitali per alimentare l’industria in assenza delle risorse energetiche russe.

Nel breve periodo non è prevedibile un alleggerimento delle tensioni franco-azere, come dimostra lo scontro diplomatico più recente tra l’Azerbaijan e la Francia, avvenuto nel contesto della convenzione per il clima tenuta nella capitale azera. In questa occasione, ci fu un durissimo scambio di parole tra il presidente Aliyev, che accusò Parigi di “crimini coloniali” e di “violazioni dei diritti nei cosiddetti territori d’oltremare”, e la ministra dell’ecologia francese, Agnès Pannier-Runacher, che non esitò a considerare tali accuse “inaccettabili e indegne di una presidenza della COP, oltre che una flagrante violazione del codice di condotta delle Nazioni Unite”.

La reazione di Parigi fu immediata, con il ritiro della sua delegazione dalla convenzione.L’unico scenario in cui si potrebbe prevedere un allentamento delle tensioni (almeno da parte azera) sarebbe un allineamento di Parigi verso interessi più favorevoli a Baku. Tuttavia, tale azione comporterebbe inequivocabilmente un tradimento francese nei confronti dell’Armenia. La Francia, dopo aver perso una grande parte della sua influenza in Africa a causa del disastro dell’Operazione Barkhane e dei diversi colpi di stato militari nel Sahel, ha bisogno di rafforzare le sue partnership ad alto valore strategico regionale, come quella con la Grecia nel Mediterraneo orientale e con l’Armenia nel Caucaso. È pertanto prevedibile il mantenimento del grado di tensione e della guerra ibrida tra le due nazioni, tenendo conto che il fattore esogeno che avrà ripercussioni su questa ostilità sarà l’evoluzione, nel medio e lungo termine, del conflitto di frontiera nel Caucaso e delle aspirazioni irredentiste dell’Azerbaigian sul corridoio di Zangezur.

Vai al sito