La Filarmonica della Scala all’Auditorium di Roma per l’Armenia (Il Velino 25.08.15)

Sabato 5 settembre la Filarmonica della Scala diretta da Daniel Harding sarà all’Auditorium Parco della Musica di Roma (Sala Sinopoli – ore 21.00), ospite dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con un concerto speciale nel centenario del Genocidio armeno. L’appuntamento rappresenta la tappa italiana del progetto “With you Armenia”, partito da Gerusalemme lo scorso marzo, per commemorare le vittime del massacro della popolazione armena avvenuto nel 1915. Oltre Roma, l’iniziativa include concerti nelle principali sale da concerto del mondo: a New York con Evgeny Kissin e Krzysztof Penderecki in concerto alla Carnagie Hall, a Londra con la Royal Philharmonic Orchestra e Pinchas Zukerman, a Bruxelles con l’Orchestra Nazionale Belga e a Vienna al Musikverein. Il ciclo di concerti ha come finalità quella di sensibilizzare sul tema del genocidio armeno attraverso la musica e la testimonianza d’interpreti e orchestre di fama internazionale. Portavoce di questo messaggio per l’Italia è la Filarmonica della Scala, reduce dal successo a Sarajevo con il Concerto della Pace del 12 luglio scorso per il ventennale della fine del conflitto in Bosnia. Sul podio Daniel Harding, al pianoforte il solista Alessandro Taverna. In programma: il Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra di Ludwig Van Beethoven, la Sinfonia n. 8 di Antonín Dvořák e Waltz di Aram Khachaturian, compositore russo di origine armena.

Papa Francesco sabato proclama martire un’altro vescovo cattolico vittima del genocidio Armeno (Il Messaggero 25.08.15)

CITTA’ DEL VATICANO – Papa Bergoglio proclama martire il primo vescovo siro-cattolico ucciso in Turchia cento anni fa dal fanatismo anticristiano dei Giovani Turchi. Monsignor Flaviamo Melki è una delle vittime del genocidio ordinato dal triumvirato Talat-Enver-Djemal nell’aprile del 1915 con lo scopo di cancellare dall’Impero ottomano la minoranza cristiana. Armeni, siro cattolici, caldei. Il piano ha portato alla morte un totale di quasi 2 milioni di vittime. Il vescovo siro-cattolico verrà proclamato beato la sera di sabato 29 agosto, in Libano, nel corso di una liturgia solenne. Vi prenderanno parte numerosi Patriarchi e capi delle Chiese cristiane d’Oriente provenienti dal Libano, dalla Siria e dall’Iraq. La cerimonia di beatificazione sarà presieduta dal Patriarca siro cattolico Ignatius Youssef III. Il decreto di beatificazione sarà letto dal cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi e inviato di Papa Francesco. Melki fu ucciso in odium fidei il 29 agosto di cento anni fa a Djézireh, nell’attuale Turchia. Era nato nel 1858 in un villaggio vicino a Mardin, una cittadina situata sull’altipiano che guarda la Siria, teatro di uno dei peggiori massacri. Era stato ordinato vescovo di Gazarta nel 1913. Da questa cittadina, nell’estate del 1915, decise di tornare a Mardin dopo aver saputo che in quella città le violenze si sarebbero presto abbattute anche sui suoi fedeli. Fu arrestato dalle autorità ottomane il 28 agosto, insieme al vescovo caldeo della stessa città. Secondo testimonianze oculari riportate da fonti musulmane, i due vescovi furono uccisi dopo essersi rifiutati di abiurare la propria fede e di convertirsi all’islam. Michele Melki fu seviziato a morte e infine decapitato Continua

Nagorno-Karabakh: risale tensione, fino a 9 morti (Swissinfo, 24.08.215)

Risale la tensione nel Nagorno-Karabakh. Fino a nove militari sono morti in recenti scontri tra le forze armate azere e quelle armene.

Baku sostiene che l’esercito azero ha respinto un attacco armeno nella zona di Agdam-Khojavend e che cinque soldati armeni sono morti nei combattimenti e otto sono rimasti feriti. Le autorità dell’autoproclamata repubblica a maggioranza armena dichiaratasi indipendente dall’Azerbaigian nel 1991 riportano invece l’uccisione di quattro soldati azeri e il ferimento di 15.

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Kardashian chi? Ecco da dove viene la famiglia di supermilionari e di fenomeni mediatici ‘famosi per essere famosi’ (Il fatto quotidiano, 24.08.15)

In principio fu Robert Kardashian, avvocato e uomo d’affari di grido, figlio di un imprenditore che si occupava di macellazione e confezionamento della carne, discendente da immigrati armeni scampati al genocidio del 1915 proprio grazie alla fuga negli Usa. Un secolo fa la famiglia si chiamava Kardachoff, alla russa, e dal remoto villaggio di Karakale era arrivata in Germania, da dove partì alla volta delle coste americane. Una storia di emigrazione come ce n’erano tante, all’epoca. Una storia di emigrazione di successo, per giunta, visto che i Kardachoff, poi Kardashian, avevano dimostrato ben presto un certo fiuto per gli affari, grazie aTatos Kardashian, figlio di Sam e Harom, nonno di Robert, che aveva fondato un’impresa di raccolta rifiuti nell’area di Los Angeles.

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Agosto 1915: la guerra alla Turchia e l’Isonzo (Il giornale d’Italia 23.08.15)

Mussolini sul Popolo d’Italia parla della strage degli Armeni. Le nostre truppe guadagnano lentamente terreno contro gli Austriaci

Penisola di Gallipoli, Altura del Cunukbahir. Nella seconda settimana di agosto del 1915 si fronteggiano Impero Britannico (Regno Unito e Nuova Zelanda), guidato da Alexander Godley, e quello Ottomano, condotto da Mustafa Kemal Ataruk. La battaglia, come abbiamo visto, volge a favore dei turchi e i britannici si trovano costretti ad abbandonare il piano di un’offensiva massiccia nella Penisola.

Il 17 agosto sul fronte orientale comincia la grande ritirata russa, che si protrarrà fino a settembre inoltrato: le truppe evacuano la Galizia e la Polonia. Una ritirata che – ne abbiamo parlato – ha una valenza strategica: alla Russia serve del tempo per riprendersi, per riorganizzarsi anche in termini industriali: il problema maggiore per l’esercito russo è infatti la scarsità di armi e munizioni. Di certo non mancano gli uomini, che però restano in buona parte appunto disarmati. Abbiamo anche visto come l’alto comando russo fu costretto a prendere la decisione di adottare la politica della “terra bruciata”: nei territori che via via venivano abbandonati veniva imposta l’evacuazione forzata della popolazione, in modo che non potesse supportare in alcun modo il nemico che avanzava occupando i territori. Continua

Portavoce Turkish Airlines: “Presto saremo main sponsor della Roma”. La comunità Armena insorge (ForzaRoma.info, 22.08.15)

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MAIN SPONSOR – Sarà il marchio della Turkish Airlines a comparire sulla maglia di Totti e compagni, un’operazione da 7 milioni di euro a stagione destinati a salire. A conferma della veridicità della trattativa arrivano anche le parole del portavoce della compagnia aerea Ali Genç rilasciate al quotidiano online aa.com.tr: “L’accordo di sponsorizzazione con la Roma sarà firmato il prima possibile”. Il portale rivela inoltre che è già la quinta volta che Turkish Airlines mostra interesse per la Roma.

LA PROTESTA – Definito l’accordo, non ha tardato arrivare la protesta della comunità Armena di Roma, in una lettera indirizzata alla società, il presidente Nevart Cricorian scrive: “Ci permettiamo, come romani di origine armena, di consigliare alla “nostra” Roma la massima cautela in tale operazione e, laddove la stessa si sia effettivamente conclusa, di mantenere comunque una “distanza” tra sponsor e società evitando per quanto possibile qualsiasi coinvolgimento che vada oltre il normale rapporto commerciale.

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Summer School on Religions, il ritorno a Badia a Passignano di studiosi da tutto il mondo (Gonews 21.08.15)

Isolamento, emarginazione, esclusione. La solitudine del Duemila ha nomi diversi ed è sempre più contaminata da disagi e insofferenze di carattere sociale. Teologi, docenti, antropologi, studiosi, rappresentanti del mondo istituzionale, formativo e religioso provenienti da varie parti del mondo, dal Messico all’Armenia, si incontreranno a San Gimignano e Badia a Passignano per discuterne e dimostrare che il senso della vita può andare oltre le nuove solitudini. La ricetta è il dialogo interreligioso: è questo il tema sul quale convergeranno idee, posizioni, studi messi a confronto dai numerosi relatori della dodicesima edizione della International Summer School on Religions, diretta da Arnaldo Nesti e promossa dal Centro Internazionale di studi sul Religioso Contemporaneo in collaborazione con AIS-Associazione Italiana di Sociologia / Sezione di Sociologia della Religione con i Comuni di Tavarnelle Val di Pesa e San Gimignano. In programma dal 26 al 29 agosto nei Comuni di San Gimignano e Tavarnelle Val di Pesa, la scuola estiva si propone come prestigiosa occasione di approfondimento di respiro internazionale. Significativo per la giunta Baroncelli il ritorno della Summer School nella cornice dove è nata: l’Abbazia millenaria di Badia a Passignano. Il complesso monastico ospiterà infatti una sessione di lavoro della manifestazione dedicata al tema del nodo tra bellezza, arte e spiritualità come risposta alla solitudine sociale. “Siamo contenti – commenta l’assessore alle attività formative dell’Unione comunale Marina Baretta – di ospitare un evento che ha un’evidenza culturale così alta e internazionale con tematiche incentrate sulla spiritualità e sul dialogo interreligioso, lo siamo soprattutto per aver riportato questa manifestazione all’interno della badia che la ospitava già quindici anni fa”. “L’iniziativa – commenta uno dei coordinatori Giuseppe Picone – è costruita grazie al lavoro volontario e alla abnegazione di tante persone e resa possibile dalla generosità dei singoli relatori e di associazioni scientifiche, prima fra tutte Sezione di Sociologia della Religione della Associazione Italiana di Sociologia diretta da Maria Immacolata Macioti e da Comuni di San Gimignano e Tavarnelle. In quattro giornate e in sei intense sessioni l’iniziativa vuol contribuire a combattere questa amarezza che ci inquieta”. Un omaggio speciale sarà dedicato all’Armenia nel centenario del genocidio con una mostra fotografica e un evento musicale ispirato all’incontro tra Oriente e Occidente. Sarà presente anche Sarkis Ghazaryan, Ambasciatore della Repubblica di Armenia. Fonte: Ufficio Stampa Associato del Chianti Fiorentino

Scarica il programma dell’evento

Lo schiaffo del British Museum alla Turchia Una stanza dedicata all’Armenia (Corriere della Sera, 21.08.15)

Dopo le pressioni di diverse associazioni armene, il British Museum ha rinominato la stanza numero 54 della sua prestigiosa collezione, chiamandola ora “Anatolia and Urartu” invece che “Antica Turchia”, come era in precedenza. Urartu, il nome dell’antico regno armeno, era stato proposto dallo stesso Forum of Armenian Associations of Europe, che già nel gennaio del 2013 aveva cominciato a protestare con il British Museum per quel nome dedicato alla Turchia per una stanza che in realtà ospitava manufatti e oggetti artistici dell’antica Armenia. Una petizione aveva anche consentito di raccogliere oltre 12mila firme. L’iniziativa ha visto un’accelerazione nelle ultime settimane grazie a Zepyur Batikian, intellettuale armena, che nella sua pagina Facebook ha lodato la decisione del museo aggiungendo che «questo è il primo passo verso il ripristino della giustizia».

“Di certo preferirei che fosse chiamata Armenia ma questo è il primo passo verso il ripristino della giustizia” ha detto Batikian

(il link dell’articolo)

 

RISCRIVERE LA STORIA  CORRETTAMENTE. QUANDO IL QUIRINALE…

Nel 2007 il “Consiglio per la comunità armena di Roma” inviò una nota di protesta al Quirinale chiedendo che fosse cambiato il titolo della mostra “Turchia, 7000 anni di storia”. Alcuni membri del Consiglio furono ricevuti dal Consigliere culturale del Presidente della Repubblica, ma il titolo non venne ovviamente modificato. Oggi il prestigioso British Museum riscrive in modo corretto la storia di quelle terre. I turchi sono arrivati molto, molto tempo dopo tutte le altre popolazioni che le abitavano.

(leggi qui la nostra lettera al Quirinale)

Azerbaijan: il processo farsa, le maschere e la gabbia di vetro (Osservatorio Balcani 19.08.15)

Sembra ci sia fretta di condannarla. Il processo a carico di Khadija Ismayilova, tra le principali giornaliste investigative azere, in carcere dal dicembre scorso, è iniziato lo scorso 24 luglio e potrebbe chiudersi già questa settimana

C’è la folla assiepata davanti all’ingresso dell’aula giudiziaria: giornalisti, colleghi, amici, osservatori e famigliari. Tutti attendono pazientemente, sperando di riuscire ad entrare. Dalla porta che si socchiude spuntano due persone che guardano cautamente fuori. Poi, rapidamente, lasciano entrare alcune persone e dicono a tutti gli altri che l’aula è piena. Partono urla ma le domande degli astanti rimangono senza risposte, ammutolite dalla massiccia porta di metallo e vetro di questa stanza della Corte di Baku per i crimini gravi.

All’interno una giovane donna viene fatta sedere dentro un cubo di vetro, o “gabbia di vetro”, come alcuni la chiamano. Diversamente dai paesi civili, dove agli accusati è permesso sedere accanto ai propri avvocati, qui avviene solo se richiesto dagli stessi avvocati e accordato dai giudici: benvenuti al processo farsa a carico di Khadija Ismayil, una delle giornaliste investigative più famose del paese, che ha ottenuto numerosi riconoscimenti internazionali per il suo lavoro e il suo coraggio nello svolgerlo.

Negli ultimi cinque anni Khadija Ismayil ha scoperto e reso pubblici gli affari multimilionari legati alla famiglia che governa l’Azerbaijan, il clan Aliyev. Si va da proprietà a Londra, Dubai e nella Repubblica Ceca ad azioni in miniere d’oro e aziende di telefonia a sospetti di corruzione riguardanti tutti i livelli di governo in Azerbaijan. Khadija è riuscita a scoprire ed esporre al pubblico tutto questo grazie ad un meticoloso lavoro di investigazione giornalistica.

Il prezzo

Sapeva che c’era un prezzo da pagare. Dopotutto l’aveva già capito durante il suo lavoro da giornalista: colleghi assassinati, imprigionati, pestati e intimiditi. Ma come ha dichiarato in un’intervista, per lei aveva senso “continuare a lottare per i diritti umani, per quelli che sono stati costretti al silenzio. Se il prezzo per questo è l’arresto, va bene, ne vale la pena”.

Il 5 dicembre del 2014 Khadija Ismayil è stata arrestata con l’accusa di incitamento al suicidio, in base all’articolo 125 del Codice penale. Nel panorama delle accuse utilizzate contro giornalisti, attivisti e dissidenti quella di “incitamento al suicidio” era nuova.

E’ stato il primo atto della farsa che stava per cominciare.

Il secondo atto è stato quello di accusare Khadija di altri reati quali frode, evasione fiscale, abuso di potere. Chi ha una certa familiarità con gli abusi e la fame di potere delle autorità azere può facilmente immaginare ciò che è seguito. Ma anche i migliori ghost writer del regime non si aspettavano l’arrivo del primo eroe.

Tural Mustafayev, l’uomo che aveva dichiarato che Khadija era direttamente responsabile per il suo tentato suicido, ha infatti ritirato l’accusa qualche mese dopo. In un video, reso pubblico nel maggio del 2014, Mustafayev ha affermato di essere stato forzato a denunciare Ismayil contro la sua volontà. Non è stato per colpa di Khadija che ha tentato di porre fine alla sua vita ma perché la sua ragazza di allora voleva lasciarlo: “Sono stato forzato a scrivere quella lettera. Loro [la procura di Baku] mi minacciavano. Dicevano che avrebbero reso pubbliche riprese segrete del mio appartamento se non collaboravo […] Voglio che tutti sappiano che non ho nessuna lamentela nei confronti di Khadija”.

Solo a pochi giorni dalla scadenza dei termini per la carcerazione preventiva è stata annunciata la prima udienza del processo, prevista per il 24 luglio. La confessione di Mustafayev non ha cambiato però nulla, la sua richiesta di essere tolto dalla lista di presunte vittime di Khadija non è stata accettata dal collegio giudicante. Nonostante le varie mozioni in merito sollevate dagli avvocati di Khadija, l’accusa di “incitamento al suicidio” è tutt’ora valida. E così lo sono anche le altre accuse, nonostante tutte le prove portate che dimostrano il contrario.

Dall’inizio del processo nessun testimone comparso davanti alla corte ha coinvolto Ismayil in alcuno dei crimini di cui è stata accusata. Continua

Valter Vecellio. Haigaz chiamava: «Mikael… Mikael…» Armenia 1915. Una testimonianza in un libro di Alessandro Litta Modignani (Tellusfolio.it 18.08.15)

Per capire cosa significa la disperazione (e l’orrore) che sono in quel grido strozzato, «Mikael… Mikael…» evocato nel libro, si deve andare alla pagina 63, capitolo 17. Ma il lettore non abbia fretta di andarci, non c’è bisogno: non è un poliziesco dove l’autore gioca a rimpiattino con chi legge, e dissemina tracce qua e là ben occultate, per vedere chi dà scacco matto e scopre il colpevole. Qui no. Qui c’è solo da aver pazienza; sopportare che pagina dopo pagina il cuore ti si stringa per la pena: lo devi decidere davvero che vuoi andare avanti nella lettura, conoscere un orrore che si dipana pagina dopo pagina: una sofferenza reale, una persecuzione subita e patita, senza scopo o ragione, come del resto sono tutte le persecuzioni, le sofferenze.
«Mikael… Mikael…» è un’invocazione, un urlo disperato; come se ne possa sopravvivere, è un mistero. A chi scrive fa pensare a quel non meno disperato e disperante «Eli’, Eli’, lemà sabactàni?» che si dice sia stato pronunciato da un Figlio che non sa capacitarsi del perché il Padre lo condanna a un martirio così doloroso ed atroce. Che padre può mai essere? E come si fa a parlare di «amore»?
Qui il martirio, l’orrore, non sono imposti da un padre a un figlio; qui è un fratello verso/contro un fratello. Non ha perché, tutto quello che porta a quel disperato «Mikael… Mikael…», o meglio: a voler inforcare gli occhiali della real-politik, della contabilità dei diversi averi, dell’«essere» che si trasforma in potere, forse sì: un perverso perché, un’abominevole logica, la si può individuare. Come la si può individuare, in tempi a noi più vicini, in Tibet, in Cecenia, in quelle insanguinate lande che corrono tra l’Irak e la Libia; in Messico… e prima ancora in Cambogia, Vietnam, nella Cina di Mao e nell’Unione Sovietica di Stalin; in Centro e Sud America, dove non si deve dimenticare che nel «giardino di casa» dello Stato più democratico del mondo, c’era un certo tipo di Cile, un certo tipo di Argentina, un certo tipo di Brasile e Paraguay…; e poi, ancora: El Salvador, il Guatemala, Panama… Milioni di croci, per quelle banane, per quegli ananas.
Torniamo a Mikael, paradigma dell’orrore ignorato solo perché consapevolmente si vuole voltare la testa. Nessuno può dire, a proposito delle persecuzioni e dei massacri subiti e patiti dagli armeni da parte dei turchi: «Non sapevo, lo ignoravo». L’ignoranza non è un qualcosa che assolve, è comunque una colpa. Qui più che mai. perché si sapeva e si poteva sapere; come si sapeva e si poteva sapere degli ebrei, dei rom e di tutti quei «diversi» perseguitati e sterminati perché considerati «perversi».
Alessandro Litta Modignani che ha curato questa tremenda testimonianza (cento pagine appena, ma che fatica, che oppressione, leggerle; ma non sottraetevi a questa fatica, a questa oppressione: conoscere, sapere, è un dovere), pubblicata da Libri-liberi (16 euro, post fazione di David Meghnagi), ci racconta che il protagonista di questa storia, Mikail Mikaelian, «era un uomo semplice e mite». In famiglia lo chiamavano zio, era «un uomo di buona cultura, un medico autorevole e stimato, ma non un vero intellettuale, sicuramente non uno scrittore… fino all’ultimo restò un tipico francese benpensante moderato, convinto sostenitore del generale De Gaulle e del suo partito conservatore. Fu marito, padre, nonno esemplare…». Questo libro, dunque? Una testimonianza, in prima persona; raccolta e curata da Litta Modignani. «Nel centenario del genocidio armeno», annota, «sono fiero di consegnare al pubblico italiano la dolorosa vicenda di Mikaelian, nella consapevolezza che anche questo libro potrà fornire il suo contributo alla conoscenza e all’affermazione della verità».
Non ha avuto vita facile, lo spiega bene Megnagi: «Per non impazzire, Mikaelian aveva messo per iscritto le esperienze patite, con la speranza di poterle un giorno renderle pubbliche. Approfittando delle ‘lunghe notti invernali’ a Harput, l’antica città armena, l’autore aveva redatto un manoscritto di 300 pagine in cui aveva ricostruito la sua vicenda personale e storica… Sfortunatamente il manoscritto andò perduto nelle ‘notti del settembre 1922’, quando era venuto il momento di conquistare ‘la libertà a ogni costo’. Con la morte nel cuore, Michel sogna di rimettere per iscritto le memorie. A Beirut, e poi in Etiopia, dov’era inviato come ufficiale medico dell’esercito francese, tenta di ricostruire i frammenti di un’esistenza spezzata, mettendoli di nuovo per iscritto, in un libro con una dedica straziante alla memoria della madre…».
Ora c’è, quel memoriale. Ringraziamolo Litta Modignani che lo ha curato. È un racconto, una triste epopea costituita da sofferenze, crudeltà, dolore. Da leggere e da meditare, ogni pagina: quelle dove la piccola bimba della zia, sorella più giovane della mamma, muore di fame e di stenti, «aveva due mesi, due mesi di sofferenze. Il suo corpicino era scheletrico. Scavare una tomba nella sabbia in riva al fiume e seppellirla non fu, lo devo ammettere, un compito troppo gravoso. Non piangemmo per questo distacco. Eppure l’amavamo…».La pagina dove si racconta della giovane donna agonizzante, che non ha lacrime per la morte della madre: «perché mai dovrei piangere, adesso che mia madre, morendo, è riuscita a scappare a tutte le odiose torture dei turchi? Io sola conosco la sofferenza che ha dovuto sopportare… centinaia di turchi e di curdi si sono serviti di me… come se io fossi una donna pubblica, per mesi… facevano quelle cose ignobili come animali, e sempre alla presenza di mia madre…». La pagina dove le ragazze, fiere e disperate, preferiscono sfracellarsi da un ponte, piuttosto che vivere una vita da schiava…Continua


 

>>  Haigaz chiamava: «Mikael…Mikael..», Armenia 1915. Una testimonianza (Notizie Radicali)