Gli incerti confini tra Armenia e Azerbaigian (Asianews 12.04.24)

L’assemblea nazionale armena ha tenuto una sessione straordinaria a porte chiuse, richiesta dai partiti di opposizione, per discutere le procedure di demarcazione della frontiera nei territori contesi. Baku ora insiste sulla “restituzione” di otto villaggi nella regione di Tavowš, mentre Erevan sostiene che l’Azerbaigian abbia occupato “totalmente o in parte” 31 sue località.

Erevan (AsiaNews) – Il conflitto per il Nagorno Karabakh è ormai alle spalle da mesi, pur rimanendo in Armenia molta tensione per la gestione dei tanti profughi dell’Artsakh, ma le relazioni con l’Azerbaigian non riescono a raggiungere una vera stabilità, con continue scaramucce di frontiera, accuse reciproche di “provocazioni” e rivendicazioni di paesi, villaggi e terreni. Lo speaker del parlamento di Erevan, Alen Simonyan, ha nuovamente ribadito in questi giorni che “non si parla neanche di cedere altri territori armeni all’Azerbaigian”, rispondendo alle pretese di Baku di consegnare alcuni centri abitati.

L’assemblea nazionale armena ha tenuto quindi una sessione straordinaria a porte chiuse, richiesta dai partiti di opposizione Armenia e Ho l’onore, che rappresentano un terzo dei deputati, per discutere le procedure di delimitazione e demarcazione dei confini tra i due Paesi in eterno conflitto. Le trattative al riguardo non sono mai iniziate, ciò che ha reso finora impossibile la conclusione di qualunque accordo di pace. Il vice-premier Mger Grigoryan ha dichiarato che “finché non si risolveranno i problemi della sicurezza, della convivenza sociale, dei principi del diritto, non si potrà prendere la decisione di cominciare le trattative sulla delimitazione”.

Le opposizioni chiedevano un dibattito aperto al pubblico, ma il partito di maggioranza dell’Accordo Civile ha imposto la segretezza per questioni di “sicurezza nazionale”, obbligando i deputati a consegnare i cellulari ed escludendo dall’aula tutti coloro che non hanno accesso a informazioni segretate. La questione più spinosa riguarda la disponibilità espressa dal governo di Erevan a concedere in fase di trattative una parte della regione di Tavowš nella parte nord-orientale del Paese, che ha come capoluogo la città di Idževan, ciò che le opposizioni ritengono “una violazione delle norme internazionali e della stessa costituzione”. Secondo Baku, nella zona ci sono otto villaggi sotto il controllo armeno che vanno in realtà assegnati all’amministrazione azerbaigiana.

Come ha precisato il vice-premier azero Šakhin Mustafaev, quattro di questi villaggi (Baganis-Ajrim, Ašagy-Askipara, Khejrimly e Gyzylgadžily) “appartengono all’Azerbaigian e devono essere liberati immediatamente”, mentre per gli altri quattro (Jukhary-Askipara – in armeno Verin-Voskepar, Sofulu, Barkhdarly, Kjarki – in armeno Tigranašen) è necessaria una valutazione concordata, pur ritenendo necessaria la loro “liberazione”. Da parte armena si sostiene che l’Azerbaigian abbia occupato “totalmente o in parte” 31 villaggi armeni, e Simonyan ha dichiarato che “noi siamo pronti a restituire le enclave azerbaigiane, solo se Baku ci restituirà la nostra Artsvašen (in azero Baškend), che da sola occupa molto più territorio di tutti i paesini azeri nel nostro territorio”.

Una commissione per le delimitazioni in realtà è stata costituita a inizio marzo, guidata dai due vice-premier Grigoryan e Mustafaev, e ha tenuto sette incontri preventivi, occupandosi di precisare le normative giuridiche del processo di trattative da iniziare. Lo scorso 18 marzo il premier armeno Nikol Pašinyan ha visitato la regione di Tavowš, incontrando gli abitanti dei villaggi di Voskepar, Baganis e Kirants, comunicando loro che “la demarcazione sta passando allo stadio operativo, e dobbiamo fare di tutto perché non ricominci la guerra”. Gli abitanti della zona avevano chiesto al premier di non restituire i villaggi di frontiera all’Azerbaigian, minacciando di bloccare le strade e organizzare una difesa autonoma di tutta la regione.

Nel continuo gioco delle parti, armeni e azeri rilanciano ad ogni occasione dei nomi diversi di centri abitati, già di per sé confusi nelle varianti linguistiche, e zone di confine diversamente calcolate come estensione, tanto che la frontiera in ogni caso risulterebbe un dedalo impazzito tra monti e valli. Spesso questi luoghi e i loro nomi evocano conflitti antichi o altre memorie storiche dei due popoli, nel confine tra cristianesimo e islam e tra Europa e Asia, dove la pace è sempre stata soltanto una speranza per il futuro.

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E la festa continua! (Città nuova 12.04.24)

Di quale festa si tratta? Per scoprirlo, vedere la commedia agrodolce e speranzosa di Robert Guédiguian. In sala dall’11 aprile
Un’immagine dal film “E la festa continua!” (Foto ufficio stampa Lucky Red)

Rose è vicina alla pensione. Lavora come una matta al Pronto Soccorso di Marsiglia, caotica e bellissima “dove non piove mai”, è vedova, ha due figli, uno medico l’altro barista nel locale di famiglia nel quartiere armeno. Già, perché il gruppo è armeno e sogna di fare molti figli per rispondere al genocidio in agguato da parte dei turchi. Rose è una macchina di lavoro e di rapporti: crollano dei palazzi e lei si presenta in una lista civica antigovernativa per difendere il quartiere. È di sinistra, come il fratello Antonio, uno degli ultimi comunisti francesi, ed assiste impaziente al dissidio tra le forze sociali – socialisti, comunisti, ecologisti eccetera – che la dovrebbero appoggiare.

In mezzo a questo dinamismo, c’è la vita familiare: il figlio barista che si innamora di una attrice che fa volontariato, lei che consce un vecchio intellettuale, l’altro figlio che vuole tornare in Armenia….Insomma, la vita di una Francia non parigina, tra macronismo e lepenismo, ma che esiste sempre meno. Dove sono i veri comunisti e dove stanno i veri socialisti?

Ironico, graffiante, intelligente, il racconto svela anche le ansie personali di Rose alle soglie della pensione. Che farà? Finirà tutto? Che vecchiaia avrà? Lei si sente stanca, ma è viva e l’incontro con un suo coetaneo la fa ringiovanire, a dire che la festa della vita non finisce con la pensione. Sarà vero? Il dubbio è lecito.

È bello questo film del regista settantenne che lavora di cesello, presenta una serie di personaggi simpatici, con dialoghi brillanti mai sopra le righe, e due mattatori come Ariane Ascaride e Jean-PierreDar Roussin, al meglio della loro resa. Ma anche tutto il gruppo intorno – che è uno spaccato della Marsiglia periferica e portuale di immigrati e di volontari – è cangiante, vivace. Si brilla per fuggevoli malinconie, piccoli drammi tra innamorati, rapporti padri e figli da ricostruire (i padri sono ormai l’eterno problema del cinema e della società), frustrazioni, ambizioni e sogni. Ma anche tanta voglia di dare amore, e non solo a sé stessi. Il buono del socialismo in Francia non è morto. Da non perdere.

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Le bevande tradizionali plurisecolari dell’Armenia (Apetimemagazine 11.04.24)

Il tour dedicato alle bevande tradizionali nel mondo questa settimana, lascia l’America Latina e approda in Asia occidentale, per la precisione in Armenia, la piccola Repubblica ex sovietica che, nonostante sia popolata da meno di 3 milioni di abitanti, propone diverse bevande tradizionali con una storia plurisecolare.

La posizione strategica di questo Paese è come un ponte che collega due mondi solo apparentemente distanti: oriente e occidente. Si tratta di un territorio che funge da collegamento non solo geografico: l’Armenia infatti si trova incastonata ai piedi del Caucaso tra Georgia, Azerbaigian, Turchia e Iran, ma soprattutto costituisce un ponte culturale. Un territorio che fin dall’antichità è stato abitato da grandi civiltà fra cui l’Impero romano nel periodo della sua massima espansione.

E’ stata terra di conquiste e di ricchezze quasi leggendarie, l’incontro tra la religione ebraica e quella cristiana: il simbolo dell’Armenia, infatti, è il Monte Ararat, anche se oggi si trova in Turchia, luogo sacro dove si è posata l’Arca di Noè una volta che è terminato il diluvio universale.

Volgendo lo sguardo alle bevande tradizionali armene sono due quelle maggiormente diffuse e delle quali parleremo: Mehxoş e Nanə Araq. La prima, prodotta con uva e melograno, sebbene sia simile al vino, richiede una preparazione molto più laboriosa. Il processo prevede infatti due diversi momenti ed il primo riguarda la lavorazione del melograno.

 

La stagione durante la quale crescono i frutti della pianta è fra ottobre e novembre: una volta raccolti vengono subito spremuti. Questo processo si svolge durante le ore più fresche e ventose, cioè dalle 5 alle 7 del mattino e il succo ottenuto viene conservato in un contenitore chiuso e senza ossigeno seppellito nel terreno ad una profondità di due metri o in celle frigorifere, evitando di spostarlo fino alla maturazione delle viti dell’anno successivo.

La stagione in cui matura l’uva rossa è invece tra agosto e settembre. Dopo la vendemmia, gli acini vengono sottoposti al processo di fermentazione: trascorse tre settimane circa in cui si provvede all’agitazione continua del liquido, il prodotto fermentato viene separato dalla polpa ed il succo è miscelato con quello che era stato ottenuto dai frutti del melograno nei mesi precedenti.

Inizia così il periodo definito di “fermentazione rapida” e anche qui la bevanda deve essere collocata in un luogo caldo ma ombreggiato e privo di ossigeno: questo importante passaggio dura circa una settimana durante la quale il succo diventa di colore rosso-bordeaux.

Il liquido filtrato viene poi posto in grandi bottiglie e conservato in un luogo fresco e dopo altri sette giorni viene ulteriormente colato: questo consente al vino di iniziare a maturare. Il profumo e l’acidità del melograno sono predominanti data la maggiore aromaticità dei frutti di questa pianta rispetto all’uva.

Il Mehxoş, attualmente, viene consumato in casa da numerose famiglie e, sebbene possa essere categorizzato come un prodotto vinicolo, in passato veniva utilizzato non solo come bevanda, ma anche come rimedio per le malattie cardiovascolari grazie alle proprietà antiossidanti dei due frutti che lo compongono.

Dato che il melograno ha sempre rivestito un ruolo importante nella cultura gastronomica armena, i locali impiegano i frutti di questa pianta anche per produrre aceto e, per tale motivo, il Mehxoş è presente in numerosi piatti tipici della cucina del Paese.

melograno

La seconda bevanda tradizionale è invece il Nanə Araq che, nonostante il nome che letteralmente significa “vodka alla menta”, è un distillato analcolico che viene estratto dalla pianta fin dall’antichità: si tratta di un liquido limpido, verde, fresco e profumatissimo.

Per la preparazione è necessario un chilo di foglie di menta selvatica che devono bollire in circa 5 litri d’acqua. L’estrazione dell’essenza avviene durante la fase dell’ebollizione: non appena il liquido raggiunge la bollitura il suo vapore viene conservato nel coperchio della pentola.

Ogni 5 minuti le gocce d’acqua che cadono dal coperchio sono raccolte in una tazza: questa operazione richiede molta pazienza e dura 7-8 ore. Il prodotto, che è equiparabile all’acqua aromatizzata, viene poi conservato per diversi giorni in una stanza senza luce affinché fermenti: trascorso questo periodo è pronto per il consumo.

In alcune occasioni se ne aggiungono un paio di cucchiaini alle torte, alle paste e a quasi tutti i dolci tradizionali per aromatizzarli: in alcune regioni del Paese si consuma anche al naturale, in piccole dosi, come cura per le malattie gastrointestinali ed è inoltre un’ottima cura per stabilizzare la pressione sanguigna.

Il Paese vanta inoltre una tradizione plurisecolare nella produzione di distillati, fra i quali alcuni dal profilo aromatico simile a quello del cognac, di vini e nella realizzazione delle antenate delle moderne birre che vantano un cronista d’eccezione quale lo storico Senofonte che a riguardo scrisse: “C’erano barili pieni di grano e orzo, con i chicchi di quest’ultimo che galleggiavano in superficie. La gente afferrava i chicchi, se li metteva in bocca e si dissetava con i raccolti succosi. Quando i greci chiesero il nome del Paese, gli fu risposto che si chiamava Armenia”.

distillati

Quello armeno quindi, come visto, è un territorio ricco di storia, la cui cultura è stata influenzata dai popoli latini, arabi ed orientali: per questo non poteva non portarsi dietro un bagaglio ricco di tradizioni che si riflettono anche nella produzione delle bevande tradizionali realizzate con un ampio ventaglio di materie prime.

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ED ORA I GUERRAFONDAI ATLANTISTI VOGLIONO ATTACCARE L’AZERBAIJAN (Electomagazine 11.04.24)

“Vincenzo io t’ammazzerò. Sei troppo stupido per vivere”. Forse qualcuno ricorda ancora il brano di Alberto Fortis, “Milano e Vincenzo”. Non sappiamo quanti – ai vertici della NATO e dell’Unione europea – si chiamino Vincenzo. Ma la stupidità dilaga. E sono così stupidi, ed anche profondamente ignoranti, da non rendersi conto di ciò che stanno combinando.

La loro ossessione è la Russia, e questo è evidente. In subordine la Cina e l’Iran, nell’ordine che ciascuno preferisce. Ma è Mosca l’obiettivo primario. Dunque qualche genio ha festeggiato perché ormai l’Armenia è stata strappata all’egemonia russa e sta marciando festosa verso lo schieramento atlantisti, pronta ad entrare a pieno titolo nell’Occidente collettivo.

Sino a qui nulla di particolarmente problematico. Le aggregazioni geopolitiche non sono stabili e immutabili. Peccato che, travolti dall’hybris per il successo ottenuto, gli stupidi abbiano subito pensato di riempire di armi Erevan. Dimenticando che l’Armenia ha appena concluso un conflitto con l’Azerbaijan. Ed a Baku non hanno preso proprio bene questo progetto atlantista. Perché armare Erevan significa minacciare Baku. Non è che sia proprio tanto difficile da capire.

Così come non dovrebbe essere troppo difficile da capire che minacciare l’Azerbaijan significa far infuriare la Turchia.  Che, non a caso, ha già replicato assicurando che per ogni arma fornita dagli atlantisti all’Armenia, la Turchia ne fornirà 3 all’Azerbaijan.

Ovviamente i mercanti di armi festeggiano. Insieme ai politici che fungono da procacciatori d’affari. Però gli stupidi gongolanti dimenticano un po’ di cose. In primis la Turchia è un Paese NATO e un conflitto interno all’alleanza sarebbe un regalo a Mosca. Inoltre l’Azerbaijan rappresenta un interesse diretto di Ankara. Non come i palestinesi per i quali Erdogan si batte solo a parole mentre continua a commerciare con Israele. Dunque Baku non deve essere toccata. Ma i cialtroni guerrafondai dimenticano anche che, per sostituire il gas russo, si è fatto ricorso al gas azero. Dunque un conflitto metterebbe a rischio l’approvvigionamento di gas, a partire dall’Italia con il Gasdotto Tap. Certo, ci sarebbe sempre quello algerino, del Paese più filo russo dell’Africa del Nord.

Indubbiamente Fortis potrebbe trovare grandi fonti di ispirazione tra NATO e UE..

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Non escludo il ritorno. La Russia s’è defilata in Armenia, ma resta attore chiave nel Caucaso (Haffington Post 10.04.24

La scorsa settimana si è svolto a Bruxelles un incontro tra la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, il segretario di Stato americano Anthony Blinken, e il primo ministro armeno Nikol Pashinyan, a conclusione del quale è stato annunciato un piano Ue per la “resilienza e crescita” dell’Armenia da 270 milioni di euro. Il piano, che sulla carta è puramente economico (ma che è stato accompagnato da dichiarazioni di sostegno all’integrità territoriale e all’avanzamento della democrazia in Armenia), è inteso a sfruttare un momento di frizioni tra Mosca ed Erevan che si sono approfondite con la breve guerra Armenia-Azerbaigian di settembre 2020 e, ancora di più, con la disfatta armena in Nagorno-Karabakh nel 2023 sotto lo sguardo…

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L’Armenia si allontana dalla Russia e prepara una richiesta di adesione all’Unione Europea (Il Riformista 09.04.24)

L’Unione europea diventa partner di fiducia dell’Armenia che prende sempre più le distanze da Mosca, mentre Washington rafforza la sua cooperazione anche militare con Yerevan. Bruxelles vuole togliere dal cortile di casa della Russia l’ultimo suo alleato della regione caucasica e dare inizio con Yerevan a un più forte partenariato che prevede lo stanziamento di 270 milioni di euro per un Piano di resilienza e crescita per il periodo 2024-27, mentre gli Usa si sono impegnati a stanziare 65 milioni di dollari. Piccole somme, ma ricordiamo che l’Ue aveva già recentemente offerto all’Armenia un programma del valore di 2,6 miliardi di euro. Il vertice di Bruxelles, di venerdì 5 aprile, tra il primo ministro armeno Nikol Pashinyan, il segretario di Stato americano Antony Blinken e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen è da definire storico perché avvia un processo che inevitabilmente sarà destinato a stabilire un nuovo equilibrio geopolitico nel Caucaso meridionale. Il Piano concordato sosterrà l’economia e la società del Paese caucasico, le sue piccole e medie imprese, finanzierà progetti infrastrutturali e commerciali e le esigenze dei centomila armeni costretti a fuggire dal Nagorno Karabakh dopo l’assalto azero del 19 settembre 2023 ed è visto nel contesto di una possibile futura richiesta di adesione di Yerevan all’Ue, perché mirante a sostenere l’allineamento dell’economia e dell’ordinamento armeno agli standard comunitari.

Per consentire che l’Armenia si stacchi dall’orbita di Mosca è necessario sostenere la sua economia di fronte alle crescenti tensioni nella regione per proteggerla da eventuali shock energetici dal momento che la Russia possiede gran parte della sua rete elettrica e delle sue infrastrutture. Bruxelles e Washington riconoscono i progressi sostanziali compiuti da Yerevan dal 2018 con le riforme democratiche del suo sistema giudiziario, sulla lotta alla corruzione e l’impegno preso dal governo Pashinyan teso a rafforzare ulteriormente la democrazia e lo Stato di diritto in linea con i princìpi e gli ordinamenti comunitari.

La Russia sta perdendo terreno nel Caucaso che ha sempre considerato suo cortile di casa; l’Azerbaigian nel 2025 espellerà le forze di pace russe dal suo territorio e l’Armenia ha di fatto sospeso la sua adesione all’alleanza militare dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto) e ha intenzione di abbandonarla presto definitivamente per poi uscire anche dall’Unione economica eurasiatica (UEE) della quale fa parte assieme a Russia, Bielorussia, Kazakistan e Kirgizistan. La leadership armena ha ratificato lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, ha invitato le truppe statunitensi ad addestrarsi nel suo paese e ha rafforzato la cooperazione militare con gli Usa in reazione all’indifferenza mostrata dalla Russia davanti alla minaccia azera e alla mancata garanzia di sicurezza per gli armeni nelle dispute con il suo vicino.

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Pashinyan spera che avere dalla sua parte gli Usa e l’Ue lo metta al riparo dalle intenzioni aggressive di Baku. L’attacco azero del settembre scorso nel Nagorno Karabakh, che ha costretto tutta la popolazione armena a fuggire da quella enclave, è visto a Yerevan con preoccupazione come un primo passo di Baku per altre rivendicazioni territoriali. Si teme infatti che, forte del supporto militare della Turchia, l’esercito azero possa occupare quell’area cuscinetto situata tra l’Azerbaigian e la sua exclave del Nakhchivan a maggioranza azera situata in territorio armeno.

Tra Armenia e Azerbaigian è in corso un processo di dialogo bilaterale che dovrebbe portare alla normalizzazione delle relazioni tra i due paesi dopo trent’anni di conflitto, ma c’è ancora la minaccia di violenza dentro e intorno all’Armenia meridionale, nella regione chiamata Syunik, storicamente nota come Zangezur, ancora teatro di scaramucce tra i due eserciti e dove agli osservatori della missione dell’Ue (Euma) viene negato l’accesso da parte delle guardie di frontiera russe.

Il 7 febbraio, il presidente azero İlham Aliyev si è fatto rieleggere in elezioni farsa per un quinto mandato, forte della vittoria militare dello scorso settembre quando le sue forze occuparono il Nagorno Karabakh con un’operazione lampo, nonostante un negoziato in corso con Ue e Stati Uniti che avrebbe risolto le dispute pacificamente e in maniera equa. L’esercito azero ha di fatto costretto l’intera popolazione armena alla fuga dal Nagorno Karabakh risolvendo così, con la violenza brutale, la disputa decennale riguardante l’enclave armena in territorio azero. Baku ha ritenuto che quello fosse il momento giusto per tornare a mostrare i muscoli a Yerevan, anche perché la sua influenza sulla Russia era aumentata a causa della necessità di Mosca di assicurarsi l’apertura di rotte di transito verso l’Iran, cosa che poteva e che può avvenire solo attraverso l’Azerbaigian. Un punto critico nelle dispute azero-armene è infatti rappresentato dalla riapertura di un corridoio di transito in territorio armeno, al confine con l’Iran, di 43 chilometri rimasto a lungo chiuso, che collega l’Azerbaigian alla sua exclave di Nakhchivan, situata al confine con la Turchia. L’Azerbaigian ha interesse a ricollegare le due parti del suo territorio con rotte che abbiano il minor controllo armeno possibile su di esse. Yerevan dal canto suo non vuole cedere la sovranità o la sicurezza sulla sua zona di confine meridionale che è strategicamente vitale.

L’Azerbaigian insiste affinché siano le guardie di frontiera del Servizio di sicurezza federale russo (Fsb) a controllare i collegamenti ferroviari e stradali di quel corridoio. Il governo armeno teme che vi sia già un accordo tra Baku e Mosca sulla permanenza militare russa su quel confine al quale Ankara avrebbe tacitamento aderito. Per i russi infatti il controllo di quella via di transito è strategicamente importante soprattutto dopo l’invasione dell’Ucraina. Per la Russia, acquisire il controllo di un tratto ferroviario e autostradale che la collega all’Iran e alle rotte verso il Golfo Persico, per la prima volta dopo decenni, è di importanza strategica perché rappresenta la principale linea ferroviaria nord-sud che ha collegamenti con il Medio Oriente e l’Asia centrale, preziosi per sostenere la guerra contro l’Ucraina e la contesa con l’Occidente. Sono forti, dunque, le preoccupazioni a Yerevan sul fatto che l’Azerbaigian non firmerebbe alcun accordo di pace se non avrà ottenuto ciò che vuole nell’Armenia meridionale. L’espansione del conflitto nel Caucaso meridionale rimane dietro l’angolo e per questo l’aspirazione armena di adesione all’Unione europea incomincia ad emergere con sempre maggiore evidenza e non è esclusa la possibilità che l’Armenia presenti formale domanda di adesione e che ottenga anche lo status di “maggiore alleato non-NATO” dagli Usa. Stiamo assistendo a un processo per un nuovo equilibrio geostrategico nel Caucaso meridionale.

La svolta occidentale dell’Armenia (Osservatorio Balcani e Caucaso 09.04.24)

La decisione di Yerevan di allontanarsi da Mosca e orientarsi verso USA e UE non è priva sfide economiche e complessità geopolitiche. In un recente incontro, Washington e Bruxelles hanno promesso aiuti economici, ma il premier armeno Pashinyan sembra deluso

09/04/2024 –  Onnik James Krikorian

In quella che potrebbe rivelarsi una mossa in gran parte simbolica, gli Stati Uniti e l’Unione Europea si sono impegnati a sostenere ulteriormente l’Armenia in un incontro ad alto livello tenutosi a Bruxelles venerdì scorso. In totale il paese, ancora scosso da una guerra devastante con il vicino Azerbaijan nel 2020 e dall’afflusso di 100mila rifugiati di etnia armena dal Karabakh, riceverà 270 milioni di Euro dall’UE e 65 milioni di dollari dagli Stati Uniti nei prossimi quattro anni.

Il vertice era stato annunciato in una dichiarazione congiunta  rilasciata dal primo ministro armeno Nikol Pashinyan e dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen dopo il loro incontro a Granada lo scorso ottobre, e si è svolto nel momento in cui l’Armenia cerca di stringere relazioni più strette con l’UE e di allontanarsi dalla tradizionale dipendenza dalla Russia. A Pashinyan e von der Leyen si è unito il segretario di Stato americano Antony Blinken.

“L’Unione europea e gli Stati Uniti sostengono un futuro stabile, pacifico, sicuro, democratico e prospero per l’Armenia e la regione”, si legge in una nota pubblicata  sul sito web del Dipartimento di Stato americano. “In questo contesto, miriamo ad espandere la cooperazione per rafforzare la resilienza dell’Armenia, anche in settori chiave come le riforme politiche, lo sviluppo economico e il sostegno umanitario”.

La svolta occidentale di Yerevan non è priva di problemi. Azerbaijan, Russia e Turchia hanno criticato l’incontro, avvertendo che potrebbe portare ad un maggiore conflitto geopolitico nel Caucaso meridionale e potenzialmente far deragliare ancora una volta le speranze di un accordo per normalizzare le relazioni tra Yerevan e Baku. Sia von der Leyen che Blinken si sono affrettati a chiamare il presidente azero Ilham Aliyev nel tentativo di dissipare i timori di un sostegno militare.

La scorsa settimana, le tensioni erano già aumentate al confine mentre Yerevan e Baku negoziavano la possibile restituzione di quattro villaggi non enclavi situati all’interno dell’Azerbaijan, ma sotto il controllo dell’Armenia dall’inizio degli anni ’90.

Tuttavia, secondo i media armeni, i membri del partito del Contratto Civile del primo ministro Pashinyan erano insoddisfatti dell’esito dell’incontro e si aspettavano molto di più. Alcuni avevano già espresso preoccupazione per il fatto che qualsiasi allontanamento dall’Unione economica eurasiatica (EAEU, la risposta di Mosca all’UE a cui l’Armenia ha aderito non senza polemiche nel 2013) potrebbe devastare l’economia del paese, dipendente come sarà per qualche tempo da Mosca.

L’Armenia dipende in modo significativo dalla Russia per il gas venduto ad un prezzo ben inferiore a quello di mercato, per le rimesse dei lavoratori migranti e come principale mercato per le sue esportazioni. Sebbene Yerevan cerchi di diversificare la propria economia e trovare nuovi mercati, nella settimana precedente l’incontro di Bruxelles molti commentatori hanno espresso dubbi sulla capacità dei produttori armeni di soddisfare i rigorosi standard di qualità dell’UE. Il paese deve inoltre affrontare ulteriori vincoli dato che due dei suoi quattro confini terrestri rimangono chiusi.

Questa realtà non è sfuggita a Blinken e von der Leyen, che hanno sottolineato l’importanza di sbloccare le vie di trasporto regionali, anche nel contesto del “Crocevia della pace” che Pashinyan ha recentemente resuscitato, e anche se la questione deve ancora essere pienamente discussa con i vicini Iran e Georgia o addirittura con Azerbaijan e Turchia. “Esploreremo anche il trasporto transfrontaliero, se e quando le condizioni lo consentiranno”, ha affermato von der Leyen nel suo discorso  .

Blinken ha ribadito l’importanza dell’integrazione regionale come “chiave per la sicurezza e la prosperità”, mentre il sottosegretario di Stato per gli affari europei ed eurasiatici James O’Brien ha aggiunto in una conferenza stampa  tenutasi successivamente che un accordo finale tra Armenia e Azerbaijan rimane un obiettivo importante. Tuttavia, ha anche lasciato intendere che gli Stati Uniti sperano di vedere i collegamenti di trasporto aggirare Russia, Cina e Iran, aumentando potenzialmente il confronto geopolitico.

“Questa è la strada migliore affinché la regione possa avere sicurezza a lungo termine e sviluppare prosperità, in particolare nuove rotte commerciali che potrebbero andare dal Mediterraneo all’Asia centrale”, ha affermato.

Nel frattempo, sebbene gli Stati Uniti e l’UE avessero precedentemente sottolineato l’importanza di facilitare il ritorno di 100mila armeni fuggiti dal Nagorno Karabakh a fine settembre prima del suo scioglimento, von der Leyen si è invece concentrata sulla loro “integrazione a lungo termine in Armenia”. Pashinyan ha parlato solo di “consentire ai rifugiati di ricostruire la propria vita con dignità attraverso politiche abitative e di attivazione economica”.

Anche se alcuni media dell’opposizione affermano che il primo ministro armeno è rimasto deluso dall’esito dell’incontro, quest’ultimo indica comunque l’approvazione e il sostegno internazionale alla sua leadership in un momento di crescente pressione in patria. “Credo che la nostra visione condivisa di un futuro democratico, pacifico e prospero continuerà a fungere da spina dorsale e stella polare delle nostre relazioni”, ha detto Pashinyan.

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Armenia e Russia, rapporti sempre più tesi (Osservatorio Balcani e Caucaso)

Addio Russia, avanti Azerbaijan: da chi compra il gas adesso l’Europa (Wired 08.04.24)

Addio, Russia. Nel 2023 le importazioni di gas russo in Europa sono crollate: dal 42% del totale nel 2021 al 14% due anni più tardi. In Italia, si è passati da più di 30 miliardi di metri cubi di gas naturale l’anno a meno del 3 miliardi di metri cubi nel 2023, il valore più basso dal 1975. Non solo: l’Europa si avvicina alla fine della stagione del riscaldamento con un record storico delle riserve di gas stoccate. I depositi sono pieni al 59%. Queste condizioni, dicono diversi analisti potrebbero far scendere il prezzo in primavera. Insomma, per il secondo anno di guerra consecutivo in Ucraina gli europei non moriranno di freddo.

Stappiamo uno champagne? Non proprio. Bisogna fare un salto indietro nel tempo, al 2010, e vedere Al Bano Carrisi intonare Felicità nella città di Vank, allora parte della repubblica caucasica de facto autonoma di Artsakh, per capire a chi ci siamo vincolati come europei per sostituire Mosca. Il cantante si esibisce su un palco modesto, che aveva come sfondo le targhe di auto abbandonate. Sono dalla popolazione azera, sfollata durante la prima guerra del Nagorno-Karabakh (1992-1994) quando l’esercito armeno aveva occupato l’enclave all’interno dell’Azerbaijan tradizionalmente abitato dagli armeni.

Oggi la repubblica di Artsakh, detta anche territorio del Nagorno Karabakh, non esiste più, soppressa nel settembre scorso dall’Azerbaijan, in un’operazione di pulizia etnica in piena regola che ha portato all’espulsione di oltre 100mila armeni, proprio mentre le personalità più rilevanti della Commissione europea elevavano lo status dell’Azerbaijan a quello di “partner affidabile”. Baku invia armi all’Ucraina ed è diventata una fonte energetica cruciale per la diplomazia di Bruxelles, impegnata in un percorso di transizione verso fonti rinnovabili che sta portando in piazza i trattori reazionari, ma resta un regime oppressivo senza libertà d’espressione, tanto quanto la Russia del presidente Vladimir Putin.

Un alleato imbarazzante

Il bisogno di diversificazione dal gas russo e la ricerca frenetica di nuovi partner per l’import hanno reso il gas azero uno strumento diplomatico di enorme valore, scrive Francesco Sassi, ricercatore dell’Ispi (Istituto per gli studi di esperto in questioni energetiche e geopolitiche. Per l’Azerbaigian, il congelamento nei prossimi decenni del gas russo è un vera fortuna, che gli ha permesso di investire in notevoli attività di lobbying culturale anche in Italia, dove non mancano intellettuali ed editori disponibili a elogiare il riformismo dell’autoritario presidente azero Ilham Aliyev.

In questo contesto, Baku ha stabilito un rapporto sempre più intrecciato non solo con l’Italia, principale partner commerciale dell’Azerbaijan, ma anche con alcuni Paesi dell’Europa orientale, tra cui Bulgaria, Romania e Ungheria, nell’ottica di diversificazione degli approvvigionamenti russi.

Ma l’Azerbaijan resta una dittatura brutale dove numerosi gruppi politici e artistici hanno sospeso tutte le attività in seguito alle pressioni subite, come riportano gli studi di Cesare Figari Barberis, esperto di Azerbaijan e Georgia al Graduate Institute di Ginevra. L’obiettivo di Baku entro il 2027 è quello di raddoppiare le forniture all’Europa, aumentando i flussi del Southern Gas Corridor, e sostituendo al gas russo avvelenato quello azero, reso presentabile dalla postura geopolitica del suo presidente. Grazie a questa dinamicità diplomatica dell’Azerbaijan, la Cop29, la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico dell’anno prossimo, si terrà a Baku, scelta dopo mesi di battibecchi e veti, in particolare dalla Russia. L’impasse è stata risolta grazie a un accordo tra Azerbaijan e Armenia, che fino a poco tempo fa erano rivali a causa del conflitto nel Nagorno Karabakh.

Il fronte euro-atlantico non sembra turbato né dall fatto che l’Azerbaijan sia un esportatore incallito di combustibili fossili (che costituiscono il 90% dell’export) né che abbia gravissime restrizioni sulla libertà d’espressione, come dimostrato dall’arresto di un ricercatore critico nei confronti dell’industria petrolifera locale. Vedere il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, che ha deriso la quinta vittoria alle presidenziali di Vladimir Putin a metà marzo, avere una cordiale conversazione telefonica con il presidente Ilham Aliyev per la sua ennesima vittoria in elezioni-farsa (certificate da quelli che delle ong hanno definito “fake observers”) e leggere il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, congratularsi con Aliyev nella stessa occasione, sono tutti duri colpi alla retorica sull'”ordine liberale“.

A preoccupare gli osservatori c’è piuttosto la minaccia, da parte di Baku, di complicare il processo di pace con l’Armenia e addirittura di impossessarsi di ulteriori porzioni di territorio armeno dove risiedono degli azeri. La logica vorrebbe che l’Azerbaijan non scherzi troppo col fuoco, considerato il buon momento del suo rapporto con l’Unione europea, che ha preso a cuore l’Armenia in chiave anti-russa. Tuttavia, l’appoggio a Baku della Turchia e il ruolo di mediatore della Russia, interessata a spingere il Caucaso lontano dall’Occidente, potrebbero rendere in futuro la posizione di Aliyev sempre più imprevedibile. Una forza regionale capace di ricattare l’Europa come una Turchia in miniatura?

Le ambizioni di Baku

L’Azerbaijan si sta godendo per ora il suo ruolo di alleato-chiave, approfittando di quella realpolitik che porta l’Unione europea a rivolgersi a chiunque le possa servire a riscaldarsi. Non va dimenticato come una quota rilevante di transito del gas russo verso l’Europa dell’est e centrale passi ancora attraverso l’Ucraina, a un ritmo di 35-40 milioni di metri cubi al giorno, anche se i volumi sono stati ridotti a circa un terzo dei livelli prebellici. Il mero fatto che questi flussi di transito persistano durante la guerra, e possano essere tagliati da Mosca come vendetta per gli attacchi ucraini alle raffinerie russe, costringe i leader europei a non dormire sugli allori.

Intanto gli introiti accresciuti regalano a Baku anche il lusso presentarsi come un Paese con ambizioni green: ha ratificato l’Accordo di Parigi nel 2016, impegnandosi a ridurre le emissioni del 30% entro il 2030, e sta investendo significativamente nelle energie rinnovabili, inclusi parchi eolici nel Caspio e idrogeno verde. Nel lungo termine, l’Azerbaijan ambisce a diventare un hub cruciale sia per le forniture di elettricità e gas naturale verso l’Unione europea, con progetti come la costruzione di un cavo sottomarino nel Mar Nero, supportato anche dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. Se tutto questo sia compatibile con gli slogan su diritti umani e stato di diritto di cui si è riempita la bocca l’Europa negli ultimi due anni, sembra al momento secondario.

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Gli Armeni e la Calabria, Marco Rovinello: «Una presenza che dice tanto sui processi e sui meccanismi migratori» (Avvenire di Calabria 07.04.24)

Abbiamo avuto necessità di chiedere aiuto agli studiosi di Storia per comprendere nel modo più corretto possibile e più vicino alla realtà le vicende che riguardano il popolo armeno, a pochi giorni dal prossimo convegno dell’8 maggio 2024, che avrà luogo presso l’UNICAL su iniziativa della Delegazione regionale della Calabria del Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale, del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria e dell’Ambasciata della Repubblica armena in Italia.

Il Professore Marco Rovinello, docente di Storia Contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Unical, ci condurrà in questo iniziale percorso di preziose scoperte.

Professore, l’Università della Calabria e il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali hanno organizzato per il prossimo 8 maggio, in collaborazione con il MEIC e l’Ambasciata armena in Italia, una giornata di studi dal titolo Gli Armeni. Storia, Cultura, Testimonianze. Ci può presentare l’iniziativa e spiegarne le ragioni?

Sì, certo. L’iniziativa nasce dalla volontà dell’Università e del DISPeS di rispondere al desiderio espresso dal MEIC di approfondire un tema importante della storia e della contemporaneità come quello relativo agli Armeni, e di farlo con gli strumenti propri del mondo scientifico e accademico. È per questo che si è scelto di organizzare un momento di riflessione e di studio su alcuni degli aspetti e dei momenti più importanti del passato e del presente del popolo armeno e delle aree più interessate dalle sue vicende. E, considerata la complessità delle questioni, si è deciso di adottare una prospettiva pluridisciplinare e di invitare a relazionare alcuni dei massimi esperti italiani del tema, facendo sì che questa giornata di studi diventasse anche una preziosa occasione di incontro e confronto fra la comunità scientifica e studentesca dell’Unical e studiosi noti come il prof. Flores dell’Università di Siena, che parlerà del genocidio; i proff. Ferrari e Ruffilli dell’Università di Venezia, che parleranno di Nagorno-Karabakh e dell’esodo degli Armeni dell’Artsakh; il prof. Strano, che analizzerà la presenza armena nell’Italia meridionale. Il rigore scientifico, che vuole essere il tratto distintivo dell’iniziativa, avrà poi un elemento complementare e altrettanto rilevante nella parte pomeridiana della giornata, dedicata alle testimonianze di Boris Ghazarian e di Tehmina Arshakyan, dell’Associazione Armeni di Calabria. Insomma, un esempio credo virtuoso di come l’università possa proficuamente aprirsi alla domanda di cultura del territorio e moltiplicare le occasioni di apprendimento per i suoi studenti, affrontando anche temi delicati in maniera il più possibile interdisciplinare, sempre rigorosamente scientifica e, spero, interessante e coinvolgente anche per i più giovani.

Professore, quando si parla di Armenia il pensiero corre subito a quello che definiamo il loro genocidio. Ci aiuta a comprenderne la nascita e le conseguenze di questa terribile pagina di storia?

La risposta a questa domanda richiederebbe le competenze specialistiche del prof. Flores, oltre a tempo e spazio che una breve intervista non può ovviamente concedere. Per almeno inquadrare la questione del genocidio armeno si deve però senz’altro sottolinearne alcuni aspetti che spesso sfuggono nelle vulgate che circolano in gran numero nel discorso pubblico e, ahimè, non di rado anche nelle ricostruzioni ipersemplicistiche e storiograficamente poco aggiornate proposte da buona parte della manualistica scolastica. Intanto, il genocidio armeno affonda le sue radici ben prima della Grande guerra, in concomitanza della quale si tende invece a parlarne. Tralasciando i pogrom anti-armeni avvenuti in altri paesi, per esempio nell’Impero russo durante la Guerra russo-giapponese del 1905, sin dal tardo Ottocento il governo dell’Impero ottomano avvia infatti politiche riconducibili a logiche di “chirurgia demografica”, che hanno lo scopo precipuo di turchizzare l’Anatolia a scapito delle popolazioni non turche presenti sul territorio. Si tratta di un piano che, nell’idea del sultano, deve anche servire a risolvere il problema di ricollocare i sudditi di nazionalità turca espulsi dalle aree d’Europa perdute dall’Impero a seguito della Guerra russo-turca del 1877-1878 e delle indipendenze conquistate da diversi stati balcanici. Ma è non di meno un atteggiamento coerente con la progressiva tendenza delle classi dirigenti ottomane a perseguire un modello di Stato-nazione d’impronta occidentale, che lascia sempre meno spazio a quel pluralismo etnolinguistico e religioso a lungo caratteristica fondamentale e punto di forza degli assetti socio-economici e politici dell’Impero. E tanto più questa linea si rafforza con la rivoluzione dei Giovani turchi fra il 1908 e il 1913, altro momento in cui gli Armeni sono oggetto di violenze come ad Adana nel 1909. Il primo conflitto mondiale non fa dunque che portare all’estremo questa tensione verso la costruzione e l’affermazione della nazione turca a discapito degli altri popoli da secoli parte del mondo ottomano. Del resto, questo nazionalismo intriso di sospetto e intolleranza nei confronti delle minoranze e dei cittadini di nazionalità nemica si registra anche in tanti altri paesi belligeranti, e si traduce in forme di concentramento forzato, espropriazioni, denaturalizzazioni e altre forme di repressione e discriminazione.

Perché, professore, di questo massacro se ne ha memoria, fino a parlare di “genocidio dell’Armenia” e di altri massacri non più?

Beh, alcuni altri massacri, peraltro non solo novecenteschi, sono ormai pagine di storia ampiamente conosciti, dallo sterminio nazista e dall’Holodomor in Ucraina, fino alle violenze del regime maoista e a quelle connesse all’imperialismo. E, a dirla tutta, il genocidio armeno è, per assurdo, più misconosciuto di altri. Eppure quanto accade agli Armeni durante la Grande guerra non ha eguali nell’Europa di quegli anni, con i massicci arresti dell’élite armena a partire dall’aprile del 1915 e poi la deportazione e l’uccisione di almeno un milione di persone: un massacro che ha prodotto la scomparsa di circa il 90% della comunità armena in Anatolia e che costituisce un tassello importante di quella che è stata chiamata “L’epoca del genocidio”. Un’opera sistematica di distruzione di quel gruppo religioso e culturale la cui storia è peraltro a sua volta, da decenni ormai, oggetto di una battaglia di memorie tutt’ora in corso e dalle pesanti conseguenze non solo sulle vicende nazionali di diversi paesi dell’area ma anche sulle relazioni internazionali (si pensi solo al suo peso nella mancata adesione della Turchia all’Unione Europea).

Qual è il ruolo del Nagorno-Karabakh nella storia di questo Paese?

Anche qui, la questione è tutt’altro che semplice. Con riferimento all’età contemporanea, da non specialista credo si possa comunque affermare senza tema di smentita che la vicenda del Nagorno-Karabakh rappresenta, se non altro, un esempio paradigmatico di alcuni fenomeni di grande rilievo che hanno segnato il Novecento. È infatti la rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917 e la sua affermazione attraverso le guerre civili degli anni successivi, a porre in termini in parte nuovi il problema dell’integrazione dell’Armenia e dell’Azerbaigian nella nascente Unione Sovietica, e quindi della gestione dei rispettivi sentimenti nazionali e confini territoriali. Benché abitata in larghissima parte da armeni, la piccola regione interna del Nagorno-Karabakh viene infine posta sotto il controllo della Repubblica Socialista Sovietica Azera, forse come strumento per meglio gestire le tensioni nella complicata regione del Caucaso, forse per mantenere buoni rapporti con la repubblica turca nata dopo la Grande guerra. Tuttavia, essa non cessa di costituire oggetto delle rivendicazioni armene, dimostrando in maniera evidente quanto sentimenti e movimenti nazionalisti costituiscano un problema costante e centrale nella costruzione e nella gestione dell’identità sovranazionale e dello Stato sovietici. E non è un caso che proprio la mai sopita questione del Nagorno-Karabakh riemerga con forza non appena si va profilando il collasso dell’URSS a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta.

Professore, si può parlare senza tema di smentite di una forte natura verso l’autonomia insita nel popolo armeno?

Probabilmente non piu di quanto non si possa fare con riferimento a diversi altri popoli, confluiti nell’Unione sovietica (si pensi solo agli ucraini). Tuttavia, nella seconda metà degli anni Ottanta quello armeno è fra i movimenti di matrice nazionalista che rivendicano maggiore autonomia per le repubbliche sovietiche periferiche e contestano a Mosca il suo sempre più asfissiante accentramento russificante. E, da subito, questa richiesta si fonde con quella di ottenere la regione da tempo ambita, portando nel 1987 a scontri interetnici fra azeri e armeni. Già a inizio 1988 queste tensioni si trasformano in quella che si usa chiamare la Prima guerra del Nagorno-Karabach: un conflitto segnato da violenti pogrom come quello anti-armeno di Sumgait, in Azerbaigian, e da scontri armati che provocano l’esodo di circa 200.000 armeni e oltre 800.000 azeri. Il che aiuta a comprendere meglio alcune delle dinamiche e delle tensioni alla base della dissoluzione dell’URSS, mostrandone una faccia e delle conseguenze spesso poco note a chi guarda al crollo blocco sovietico e dell’URSS da Occidente, con in mente piuttosto le festose immagini del crollo del Muro di Berlino o quelle più solenni e dimesse del “Discorso di Natale” di Gorbačëv.

La Calabria ospitò gli Armeni. Quando? Restano tracce?

Su questo davvero non posso che rimandare ai lavori e all’intervento del prof. Strano, che peraltro affronta la questione a partire da epoche remote e consente dunque di ragionare sul lungo periodo di una presenza che senza dubbio è risalente. Quello che posso dire io, che in passato mi sono occupato di storia delle migrazioni nel Mezzogiorno ottocentesco, è che storie come quella della presenza armena in Calabria possono probabilmente dirci tanto su processi e meccanismi migratori di epoche per troppo tempo ritenute da certa storiografia come caratterizzate da una sorta di paradigma omeostatico. E forse ancor di più possono insegnarci sui fattori e sulle dinamiche che intervengono nei processi di costruzione identitaria collettiva, di integrazione o, al contrario, di alterizzazione, che segnano la presenza di gruppi di persone alloglotte e di diversa religione/confessione sul territorio della penisola italiana. Chi resta, è percepito e si percepisce straniero, e perché? Chi riesce invece a integrarsi e stempera la sua originaria alterità, magari mediante matrimoni esogamici e interconfessionali oppure attraverso la costruzione di reti di relazioni di carattere prevalentemente professionale? Quali transfer e forme di ibridazione si registrano fra le diverse comunità etno-nazionali e linguistico-religiose residenti in quelle stesse zone, ivi comprese quelle indigene? Attraverso quali canali queste culture comunicano e come esse si appropriano e risignificano i patrimoni culturali e i lasciti altrui? In che modo il carattere strutturalmente transnazionale dei gruppi diasporici s’interseca con questi processi e influisce sulla capacità degli altri di inserirsi a loro volta in processi/dinamiche inter e transnazioali? Come tutto ciò cambia nel tempo, in funzione di fattori, solo per fare qualche esempio, di carattere politico-istituzionale (regimi al potere, statualità, relazioni internazionali, conflitti, etc.), socio-economico (periodi di prosperità, crisi, etc.), tecnologico (disponibilità di mezzi di trasporto e comunicazione migliori, etc.), culturale (livello di alfabetizzazione, diffusione della poliglossia, etc.) o normativo (legislazioni confessionali, discriminatorie, etc.). Ecco, ricostruire la presenza armena in Calabria nel passato e guardare a quella di oggi significa confrontarsi con tutte queste grandi questioni. E forse, più in generale, a far riflettere su cosa significhino anche oggi termini spesso semplicisticamente utilizzati nel discorso pubblico come “migrare”, “ospitare”, “straniero” e così via.

* Presidente del Meic di Crotone ed incaricata dalla delegazione regionale del Meic Calabria per i rapporti con la stampa

In foto: Noraduz, uno dei posti più famosi e tipici dell’ Armenia per la grande presenza di khachkar (Scatto di Giorgio Arconte)

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Iran, Armenia e Azerbiagian: un difficile equilibrio di potere nel Caucaso (Scenari Economici 07.04.24)

L’Iran, estremamente attivo nel settore mediorientale, deve adattarsi a una diversa realtà nel quadrante caucasico, dove la situazione è in rapida evoluzione.

Due importanti sviluppi degli ultimi anni – la riconquista del Nagorno-Karabakh da parte dell’Azerbaigian e l’invasione immotivata dell’Ucraina da parte della Russia – hanno creato nuove aperture diplomatiche per l’Iran. Il mutato ambiente geopolitico ha permesso all’Iran e all’Azerbaigian di appianare quella che per gran parte del periodo post-sovietico era stata una relazione spinosa. Allo stesso tempo, i legami tradizionalmente stretti dell’Iran con l’Armenia sono sempre più tesi. Ma le cose sono sempre in evoluzione.

A marzo, i ministri degli Esteri dell’Iran e dell’Azerbaigian, Hossein Amir-Abdollahian e Jeyhun Bayramov, si sono incontrati a margine della riunione dell’Organizzazione della Conferenza Islamica in Arabia Saudita, concordando il ritorno del personale diplomatico azero a Teheran. Baku aveva ritirato i suoi diplomatici dopo un attacco armato all’ambasciata all’inizio del 2023, che aveva causato la morte di un cittadino azero.

Il riavvio diplomatico si è verificato non molto tempo dopo che Baku e Teheran avevano risolto un’altra tensione, firmando lo scorso autunno un accordo per la costruzione di un collegamento ferroviario noto come corridoio di Aras. Il percorso collegherà l’Azerbaigian continentale alla sua exclave di Nakhchivan attraverso il territorio iraniano. In precedenza, l’Azerbaigian aveva cercato di costruire un percorso più diretto, noto come corridoio Zangezur, ottenendo diritti extraterritoriali dall’Armenia. L’Iran si era opposto a Zangezur perché temeva che avrebbe creato una barriera al commercio iraniano-armeno.

Il corridoio di Aras che collega Azerbaigian e Nackhvan evitando il territorio armeno

Problemi con l’Armenia

Mentre le relazioni tra Iran e Azerbaigian stanno migliorando, quelle tra Iran e Armenia hanno avuto dei problemi.

Lo stesso giorno di marzo in cui i ministri degli Esteri dell’Azerbaigian e dell’Iran hanno ripristinato le piene relazioni diplomatiche, il ministro della Difesa dell’Armenia, Suren Papikyan, si è recato a Teheran per un incontro con gli alti funzionari iraniani, i quali hanno lanciato un fermo monito affinché Yerevan non si avvicini troppo a “partiti extra-regionali”. La frase era un chiaro riferimento alla recente coltivazione di legami di sicurezza di Yerevan con le potenze occidentali, tra cui Francia e Stati Uniti. Il Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan ha riconosciuto le tensioni con Teheran.

Altri fattori geopolitici stanno spingendo Teheran e Yerevan in direzioni divergenti. In primo luogo, le tensioni in Medio Oriente legate al conflitto tra Israele e Hamas hanno sollevato la possibilità di un allargamento della guerra per coinvolgere gli alleati iraniani e forse anche l’Iran stesso. Ciò ha spinto Teheran a coprire i rischi adottando misure per garantire la calma al suo confine settentrionale. Ricordiamo che, comunque, Baku e Washington hanno buoni rapoorti e che nel nord dell’Iran vi è una forte minoranza azera che potrebbe diventare obiettivo di una mobilitazione filo occidentale.

L’Armenia ha anche sperimentato un rapido deterioramento delle relazioni con la Russia, a causa della percezione diffusa tra gli armeni che Mosca non sia stata all’altezza dei suoi impegni di sicurezza con Yerevan durante la fase più recente del conflitto del Karabakh. Di conseguenza, l’Armenia sta cercando di diversificare i suoi partner stranieri, in particolare le potenze occidentali.

L’intenzione recentemente espressa dall’Armenia di richiedere l’adesione all’Unione Europea potrebbe essere un’irritazione duratura nei legami di Yerevan con Teheran, per quanto questa richiesta, in questa fase, appaia irrealistica. Il processo di adesione richiederebbe all’Armenia di apportare importanti cambiamenti per allineare la sua politica estera a Bruxelles. Tra questi requisiti vi sarebbe l’abolizione del regime di esenzione dal visto dell’Armenia con l’Iran e il riorientamento del commercio di Yerevan lontano dall’Unione Economica Eurasiatica guidata da Mosca, con la quale l’Iran ha firmato un accordo di libero scambio.

L’inasprimento delle relazioni armeno-russe contrasta fortemente con il rafforzamento dei legami di Teheran con Mosca, una tendenza guidata in parte dallo sviluppo della rotta commerciale Nord-Sud, che aiuta la Russia a mitigare l’impatto delle sanzioni occidentali. L’espansione di questo tipo di commercio incoraggia una più stretta collaborazione tra Iran e Azerbaigian per facilitare il transito delle merci destinate alla Russia.

Essendo due Paesi pesantemente sanzionati, l’Iran e la Russia sono uniti da un senso di “solidarietà inter-paria”. L’Iran ha fornito alla Russia i droni che quest’ultima ha impiegato contro l’Ucraina. In cambio, l’Iran si aspetta che la Russia svolga un ruolo fondamentale nell’aggiornamento dei suoi sistemi di difesa aerea. Nel 2023, la Russia ha superato la Cina come principale investitore straniero in Iran, anche perché comunque Mosca ha un notevole know-how nel settore energetico. Al contrario, le prospettive di impegno dell’Iran con l’Occidente sono diminuite.

Teheran cerca di bilanciarsi

Nonostante il miglioramento dei legami con Baku e il colpo di mano diplomatico di Yerevan, sarebbe prematuro supporre che Teheran sia intenzionata a modificare la sua politica del Caucaso per schierarsi fermamente con l’Azerbaigian a spese dell’Armenia. L’Iran non considera la geopolitica del Caucaso come un gioco a somma zero. I funzionari iraniani, ad esempio, continuano a sostenere costantemente la sovranità e l’integrità territoriale dell’Armenia. Anche se Teheran persegue la normalizzazione con Baku, i funzionari iraniani sono determinati a fare tutto il possibile per mantenere aperta e fluida la rotta commerciale del Paese verso l’Armenia.

Nonostante l’accordo sul corridoio di transito Aras con l’Azerbaigian, l’Iran vuole diversificare la sua rete commerciale, sperando di sviluppare un’altra rotta ferroviaria attraverso l’Armenia e la Georgia verso il Mar Nero. L’ambasciatore iraniano in Armenia, Mehdi Sobhani, ha recentemente ribadito questi punti, con l’irritazione dei media filogovernativi di Baku.

Per Teheran, le forti relazioni strategiche dell’Azerbaigian con Israele sono  un fattore in grado di scuotere rapidamente le relazioni irano-azere. La volatilità in Medio Oriente, sottolineata dal recente attacco missilistico israeliano contro un consolato iraniano in Siria che ha ucciso due generali iraniani, può portare l’Iran in conflitto diretto con Israele, sconvolgendo la capacità dell’Azerbaigian di essere amico di due nemici.

In questo contesto, anche se l’Iran potrebbe non essere entusiasta della crescente presenza occidentale, in particolare francese, in Armenia, tale presenza aiuta in qualche modo a bilanciare l’influenza azera nel Caucaso. In effetti, il sostegno alla sovranità dell’Armenia è una delle poche cose su cui l’Occidente e l’Iran sembrano essere d’accordo oggi.

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