Sarkissian: “Per la Siria la soluzione non deve essere militare” (Famiglia Cristiana 23.01.16

23/01/2016  Parla il primate degli Armeni di Siria, monsignor Sarkissian: “La situazione è tragica e non vedo soluzioni a breve scadenza, ma la via d’uscita può essere solo politica. Dobbiamo lavorare tutti uniti per trovare la pace”.

«Quanto unisce l’ecumenismo del sangue!». Monsignor Shahan Sarkissian, vescovo di Aleppo e primate degli Armeni in Siria, in Italia per qualche giorno, invitato dalla Comunità di Sant’Egidio, in occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, è convinto che solo uno sforzo congiunto potrà riportare la pace nel suo Paese.

«Uno sforzo che deve vedere insieme cristiani e musulmani, uniti contro il terrorismo. Perché non esiste un terrorismo islamico o cristiano. Bisogna far capire che terrorismo e islam non sono la stessa cosa. Il terrorismo non ha religione, non ha cultura, non ha credo. È violenza totale, non ha niente di umano, non ha niente di religioso».

Monsignor Sarkissian parla di una «tragedia continua», che lascia Aleppo «senza acqua, senza elettricità, senza comunicazioni, senza benzina. C’è bisogno di tutto: di dare da mangiare alla gente, di assistenza sanitaria, di rimettere porte e finestre alle case e alle scuole quando finisce il bombardamento, di educazione. Stiamo aiutando i ragazzi ad acquistare quello che è necessario per studiare e stiamo pagando gli insegnanti».

Ma la situazione, dopo cinque anni di guerra, è disastrosa. «Si vive nella paura e non si vede una soluzione in tempi brevi. Anche se da uomo religioso non posso che avere speranza. Guardando ora la città non si può avere idea di cosa era prima Aleppo. La guerra ha cambiato molte cose. Un giorno forse dovremo parlare di tutti i cambiamenti che si sono verificati, non solo quindi della distruzione del Paese, degli edifici, ma forse anche della mentalità. Non ricordo che prima della guerra ci fosse questa nozione di “ghetto”: cristiani e musulmani stavano insieme, da cittadini».

E poi c’è la paura dell’Isis. «Anche se», sostiene il vescovo, «nei media Occidentali si esagera il potere dello Stato Islamico. L’Isis non è così forte, anche se ha compiuto atti terroristici». In questa situazione, continua il vescovo, «sperimentiamo la fratellanza ecumenica tra le Chiese, non solo al più alto livello, cioè tra i vescovi e i rappresentanti delle varie confessioni religiose, ma anche tra la base, nella gente comune. E la stessa cosa vale anche per i cristiani e i musulmani». Ed è da qui che bisogna ripartire perché «ci deve essere una soluzione, ma la soluzione non deve essere militare, ma politica. Bisogna riunire insieme nello stesso posto i rappresentanti siriani, Governo e opposizione, e tutti devono imporsi di raggiungere la pace. I siriani possono trovare la soluzione tra di loro e ricostruire il Paese. Credo che non ci sia altra soluzione. La Comunità internazionale può fare pressione su tutte le parti, non solo su alcune, perché si siedano al tavolo. Tutti. Certo, non i terroristi. Non si può discutere di pace con i terroristi e non li si può collocare né con l’opposizione, né con il Governo. Il terrorismo deve solo essere estirpato dalle radici».

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‘Qui ho visto che non siamo soli di fronte alla guerra in Siria’ Il vescovo armeno di Aleppo Shahan Sarkissian (Comunità Sant’Egidio 23.01.16)

Venerdì 22 gennaio, nel cuore della Settimana di Preghiera per l’Unità dei cristiani, l’arcivescovo armeno di Aleppo, Shahan Sarkissian, ha partecipato alla preghiera serale della Comunità di Sant’Egidio a Santa Maria in Trastevere. Al termine della preghiera, il vescovo ha rivolto queste parole alla Comunità riunita per la preghiera:

Care sorelle e fratelli in Cristo,

rendiamo grazie all’Onnipotente che ci ha creati. Aver vissuto con voi questo momento di preghiera, essere qui con voi mi incoraggia come rappresentante del popolo siriano.

Io conosco la Comunità di Sant’Egidio da molto tempo. Come ha detto il mio fratello durante la sua omelia, quando ha parlato del nostro rapporto fraterno al servizio del bene, io credo che il cristianesimo e la fede cristiana siano qualcosa che entra nel cuore di ciascuno. E quando è cominciata la guerra in Siria un giorno ho incontrato il mio popolo, la mia comunità cristiana e dopo la celebrazione dell’eucarestia gli ho detto: Oggi cominciamo a pregare davvero. Avevo vissuto questa esperienza con la Comunità di Sant’Egidio quando sono venuto qui con il precedente catholicos di Cilicia degli armeni. Vengo da un paese dove la guerra continua e talvolta la gente pensa che questa guerra continuerà sempre e che non c’è nessuna soluzione.

La Comunità di Sant’Egidio mi ha invitato a venire qui per visitare questo paese e parlare della nostra situazione. So che c’è molta gente che conosce meglio di me la situazione del Medio Oriente ma ho visto, prima a Napoli e poi questa  sera qui con voi, che voi siete con noi e noi non siamo soli. Non siamo abbandonati.

Preghiamo sempre per la pace in tutto il mondo ma particolarmente per la Siria e per Aleppo.

Questa mattina ho cominciato i miei incontri con i padri missionari cattolici. Non vi racconterò tutta la giornata ma due cose sono essenziali per me, e ne voglio rendere testimonianza. Uno dei fratelli della Comunità di Sant’Egidio mi ha portato alle catacombe e sono rimasto molto colpito dalla presenza dei martiri nelle catacombe. Il  martirio non è qualcosa che ha a che fare con la morte, ma piuttosto con la vita. I martiri ci parlano oggi.

La seconda opportunità è stata poter visitare persone nel bisogno, in una delle case della Comunità di Sant’Egidio nel loro servizio ai bisognosi.

 

In entrambi i casi ho sentito che non siamo abbandonati e nella disperazione non perdiamo la nostra speranza. E se sono con voi stasera è perché voi mi insegnate come pregare e renderò testimonianza di voi davanti al Signore e davanti al mio popolo in Siria.

 

Nel pensare cosa dirvi pensavo di chiedervi di pregare e dico solo: continuate a pregare per noi.

Esprimo il mio ringraziamento alla Comunità di Sant’Egidio, a tutti i suoi membri e porto i saluti e le  benedizioni di sua beatitudine Aram I, il catholicos degli armeni di Cilicia in Libano, uno degli amici della Comunità di Sant’Egidio.

Grazie per avermi ascoltato, grazie per questa opportunità.

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Vescovo armeno Aleppo: siamo stremati, ma non cediamo all’odio (Radiovaticana 23.01.16)

Vescovo armeno Aleppo: siamo stremati, ma non cediamo all’odio

Ancora incertezza sull’inizio dei colloqui di pace per la Siria, previsti a Ginevra per il prossimo lunedì. Il nodo cruciale è la composizione dei rappresentanti dell’opposizione al governo di Bashar Al-Assad. Sul terreno continuano i raid russi nel Nord del Paese. Secondo la tv siriana sarebbero stati uccisi una trentina di militanti del sedicente Stato Islamico. Intanto, ieri sera a Roma si è svolta nella Basilica di Santa Maria in Trastevere una preghiera per la pace in Siria, organizzata dalla Comunità di S.Egidio e presieduta dall’arcivescovo armeno apostolico di Aleppo, mons. Shahan Sarkissian. Ascoltiamolo al microfono di Michele Raviart:

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R. – In Aleppo the tragedy is continuing…
La tragedia continua ad Aleppo. Una persona che vede ora Aleppo non può immaginare come fosse prima dei bombardamenti, dei combattimenti e della guerra. Al momento non c’è acqua, non c’è elettricità, non ci sono comunicazioni. Ed ora che è arrivato il freddo e non c’è più benzina, usiamo il gasolio per scaldare le case e le scuole. La sofferenza è davvero grande.

D. – Come si vive quotidianamente in una città sotto assedio?

R. –  You mentioned that generally Aleppo…
Aleppo è circondata da gruppi differenti che combattono l’uno contro l’altro. C’è una sola strada vecchia e stretta per uscire, e a volte è chiusa. Sfortunatamente c’è anche lo Stato Islamico e fa paura. Penso, però, che nei media occidentali si esageri il potere dello Stato Islamico, anche se è arrivato e ha compiuto atti terroristici.

D. – Di cosa ha bisogno maggiormente la popolazione?

R. – Generally, there are four categories…
Ci sono quattro tipi di aiuti necessari. Il primo bisogno è quello di dare qualcosa da mangiare alla gente; il secondo è l’assistenza sanitaria, che è davvero essenziale, perché molti medici hanno lasciato il Paese; terzo, nel momento in cui finisce il bombardamento, bisogna rimettere porte e finestre nelle case e nelle scuole; quarto, l’educazione. Stiamo aiutando i ragazzi, acquistando quello che è necessario per studiare e pagando gli insegnanti.

D. – Ad Aleppo ci sono undici comunità cristiane, come sono i rapporti tra loro e con la comunità musulmana?

R. – With this situation we are used…
In una situazione del genere, come comunità cristiana, siamo abituati a stare insieme. Sperimentiamo la fratellanza ecumenica tra le Chiese, non solo al più alto livello, cioè tra i vescovi e i rappresentanti, ma anche tra la gente comune. E la stessa cosa vale anche per i cristiani e i musulmani.  La guerra credo che abbia cambiato molte cose. Un giorno forse dovremo parlare di tutti i cambiamenti che si sono verificati, non solo quindi della distruzione del Paese, degli edifici, ma forse anche della mentalità. Non ricordo che prima della guerra ci fosse questa nozione di “ghetto”: cristiani e musulmani stavano insieme, anche se alcune zone erano tipicamente cristiane, con chiese e così via. Ora, però, si sono mescolati e nello stesso edificio si possono trovare cristiani, musulmani, altre minoranze o persone provenienti da parti differenti del Paese, non solo della città.

D. – Di che cosa c’è bisogno, secondo lei, per porre fine a questa guerra?

R. – There must be a solution…
Ci deve essere una soluzione e la soluzione non deve essere militare, ma politica. Nella Chiesa cattolica quando viene eletto il Papa c’è il Conclave. Bisogna riunire insieme nello stesso posto i rappresentanti siriani e devono imporsi di raggiungere la pace. I siriani possono trovare la soluzione tra di loro. So che non c’è altra soluzione. Le risoluzioni delle Nazioni Unite, del Consiglio di Sicurezza e così via non sono sufficienti.

D. – Discutere con tutti include i terroristi?

R. – What is terrorism is excluded…
Ciò che è rappresentato dal terrorismo è escluso. Non si può discutere di pace con i terroristi. Non si può accettare di collocare i terroristi con l’opposizione o con il governo. Il terrorismo non ha religione, non ha cultura, non ha credo, niente, è violenza totale, non ha niente di umano, non ha niente di religioso. Il terrorismo deve essere estirpato.

D. – Cosa può fare la comunità cristiana per il futuro della Siria?

R. – As Christians we must participate…
Come cristiani dobbiamo partecipare alla ricostruzione del Paese. Personalmente non sono solo un arcivescovo o un funzionario nella Chiesa, ma sono prima di tutto un credente. Io credo che il mio Signore mi protegge, ci protegge! Ed io non sono un uomo coraggioso, sono un uomo responsabile: sto con la mia gente, con la mia comunità. Anche se ci sono persone che se ne vanno e lasciano il Paese, noi dobbiamo restare, dobbiamo continuare insieme. E le comunità cristiane o la cristianità in Medio Oriente deve continuare a dare la sua testimonianza. Siamo stati testimoni con il sangue, con il martirio, siamo stati testimoni con il servizio, siamo stati testimoni con la cultura, e stiamo facendo del nostro meglio, aspettando che l’aiuto arrivi dall’Onnipotente.

A Napoli, per non dimenticare la Siria. Incontro con l’arcivescovo armeno di Aleppo (Comunità Sant’Egidio 22.01.16)

E’ stato un incontro commovente quello con S.E. Shahan Sarkissian, arcivescovo di Aleppo della Chiesa cristiana Armena. Il primate è stato accolto nella chiesa di S. Gregorio armeno, nel cuore del centro antico di Napoli; al suo arrivo ha pregato con emozione dinanzi alle reliquie di S. Gregorio l’Illuminatore, fondatore della sua Chiesa,  custodite da secoli in una cappella.

Ha raccontato del grande dolore della Siria e della sua città, Aleppo, che da quattro anni e mezzo vive la guerra: centinaia di migliaia di vittime, profughi, chiese chiuse, mancanza di cibo e medicine … e ora la dura prova di un freddo inverno senza alcuna fonte di calore, ormai non ci sono più neanche alberi da tagliare per ardere legna, com’è stato possibile fino  allo scorso anno. A causa della temperatura rigida stanno morendo molti bambini e anziani.

“Prima della guerra vivevamo insieme cristiani delle diverse confessioni, musulmani, … convivere è possibile … Ora, in questo tempo di guerra, le chiese cristiane di Aleppo, armena, cattolica, ortodossa, protestante, insieme vivono una solidarietà concreta (scuole, aiuti alimentari, ecc)  verso chi è più debole ed esposto, siano cristiani o musulmani … Da secoli conviviamo con l’Islam, lo conosciamo; non pensate mai che il terrorismo è l’ islam, non sono veri musulmani; la religione musulmana è un’altra cosa!”.

Al termine un accorato appello a non dimenticarci mai della Siria e di Aleppo nella preghiera: “Abbiamo bisogno delle vostre preghiere che ci sostengono. Io al mio ritorno ad Aleppo racconterò di questo bell’incontro, del vostro interesse per noi, e questo ridarà speranza e forza a tanti in Siria!”.

 

L’incontro si è concluso con una preghiera per la pace e la fine di ogni violenza in tutti i Paesi del mondo dove c’è la guerra e situazioni di conflitto

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Azerbaijan: le preoccupazioni di Aliyev (Osservatorio Balcani e Caucaso 22.01.16)

Il crollo del prezzo del petrolio provoca il brusco rallentamento dell’economia azera, con possibili conseguenze sulla stabilità della regione caucasica. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

L’Azerbaijan sta attraversando una fase di crisi legata alla variazione del prezzo delle materie prime, in particolare dell’energia. Sotto controllo della famiglia Aliyev dal 1993, il paese ha conosciuto una spettacolare crescita economica durante gli ultimi quindici anni grazie ai proventi derivanti dall’esportazione di gas e petrolio verso i paesi dell’Unione europea, che hanno chiuso un occhio sulle violazioni dei diritti umani nel paese. Anzi, l’Azerbaijan si è addirittura visto premiato in vari modi: membro del Consiglio d’Europa dal 2001, ha ospitato l’edizione 2012 dell’Eurovision Song Contest oltre alla prima edizione dei Giochi Olimpici Europei.

Ganja, la seconda città più importante del paese, è stata inoltre scelta come Capitale Europea della Giovinezza 2016. Decisione singolare per un paese celebre per le incarcerazioni di massa di giornalisti e attivisti per i diritti umani e per aver cacciato il team di Amnesty International alla vigilia delle elezioni tenutesi l’1 novembre 2015, elezioni su cui è pesata l’assenza dell’OSCE, impossibilitata a monitorare il corretto svolgimento del voto a causa delle restrizioni imposte dalle istituzioni azere.

I rapporti tra l’Azerbaijan degli Aliyev e l’Unione europea si sono consolidati soprattutto a partire dal 2006, data in cui venne ufficialmente inaugurato l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC) che dal mar Caspio trasporta il petrolio fino alle coste del Mediterraneo.

La famiglia Aliyev ha legittimato il proprio potere basandosi su due pilastri fondamentali: il relativo benessere finanziario derivante dall’esportazione di gas e petrolio, e la retorica nazionalista anti-armena, conseguenza del mai risolto conflitto per il Nagorno Karabakh.

Grazie a questi due pilastri, il regime ha potuto prosperare e procedere indisturbato con un’ondata di arresti e processi-farsa contro ogni tipo di opposizione: giornalisti, attivisti per i diritti umani, blogger, avvocati. Le prigioni dell’Azerbaijan accolgono a tutt’oggi numerosi oppositori e critici, tra cui la giornalista Khadija Ismayilova e l’attivista per i diritti umani Leyla Yunus, direttrice dell’Institute for Peace and Democracy in Azerbaijan e vincitrice, nell’ottobre 2014, del premio Andrei Sakharov per la Libertà di Pensiero assieme ad altri tre attivisti e avvocati azeri, Razul Jafarov, Anar Mammadli e Intiqam Aliyev.

Il ritorno dell’Iran

Ora la situazione in Azerbaijan rischia di essere fortemente scossa dal raggiungimento, lo scorso anno, dell’accordo sul nucleare iraniano, che ha aggravato la situazione per i paesi produttori di petrolio in un contesto già segnato da un brusco calo del prezzo del greggio. Nel gennaio 2015 il prezzo al barile era infatti già sceso sotto i 50 dollari, e la corsa al ribasso è poi continuata nel corso dell’anno.

La riduzione del prezzo al barile del petrolio ha avuto, tra le sue innumerevoli conseguenze, anche quella di portare la banca centrale dell’Azerbaijan, il 21 febbraio scorso, a svalutare il Manat, la moneta nazionale, del 33.5% contro il dollaro e del 30% contro l’euro. Il governo azero si era allora dichiarato nonostante tutto ottimista affermando che l’economia del paese era sufficientemente forte da reggere un prezzo al barile attorno ai 50 dollari. Tuttavia le quotazioni da allora sono continuate a scendere e oggi il prezzo al barile si attesta attorno ai 30 dollari. Troppo basso perché l’economia dell’Azerbaijan, la quale si regge per il 70% sull’esportazione di petrolio, non ne subisca conseguenze. All’inizio di gennaio la Banca centrale ha ammesso di aver dovuto spendere più di 8 miliardi di dollari per sostenere il Manat, e il 18 gennaio scorso il presidente Ilham Aliyev ha annunciato un pacchetto di misure d’emergenza per far fronte alla crisi.

La posizione dell’ArmeniaIl trattato sul nucleare iraniano ha portato alla fine di gran parte delle sanzioni che hanno isolato il paese negli ultimi dieci anni, riportando pienamente Teheran sulla scena regionale e internazionale. Dal punto di vista dei rapporti nell’area, questo costituisce un’occasione ghiotta per la piccola Armenia, la quale ha il triplo vantaggio di godere di un ottimo rapporto di vicinato con la Repubblica Islamica, di essere un’alleata della Russia e di far parte, dal 2 gennaio del 2015, dell’Unione Eurasiatica composta da Russia, Bielorussia, Kazakistan e Kirghizistan.

Sono molti i progetti nell’agenda delle rinnovate relazioni tra l’Armenia e l’Iran, il più importante dei quali potrebbe essere il progetto di un gasdotto che dovrebbe trasportare il gas iraniano verso la Georgia attraverso l’Armenia. Una possibilità che non sarebbe bene accolta dal governo azero, nel mezzo di una crisi economica che ha già innescato una serie di manifestazioni e scontri con la polizia in diverse città del paese.

La diretta conseguenza di un accordo tra Teheran, Yerevan e Tbilisi significherebbe infatti la perdita del monopolio energetico azero nella regione a vantaggio del nemico di sempre, l’Armenia. Il piccolo paese caucasico potrebbe infatti giocare un inedito e importante ruolo geopolitico tra l’Iran, la Georgia e la Russia, con la quale ha recentemente siglato un accordo che prevede una maggiore cooperazione militare tra i due paesi in funzione anti-turca e un incremento della presenza militare russa nelle basi di Gyumri, la seconda città armena in ordine d’importanza, e di Yerevan.

La carta del Nagorno KarabakhIl recente riacutizzarsi del conflitto in Nagorno Karabakh va dunque considerato alla luce delle vicende internazionali che hanno caratterizzato il 2015. A tutt’oggi sono in molti a pensare che il governo dell’Azerbaijan stia infatti tentando di giocarsi il tutto per tutto utilizzando la carta del conflitto per distogliere l’attenzione della popolazione e rilegittimare così un governo sempre più isolato a livello internazionale.

Regione separatista popolata da armeni ma, fino al crollo dell’Unione Sovietica, parte della Repubblica Sovietica Azera, il Nagorno Karabakh è teatro di un conflitto che oppone l’Armenia e l’Azerbaijan e che nel lontano 1994 venne interrotto dalla firma di un cessate il fuoco che certificava una sconfitta sul campo per le truppe azere e una sofferta vittoria per quelle armene. Da allora il conflitto è in fase di stallo, e a nulla sono serviti gli innumerevoli incontri organizzati dal cosiddetto Gruppo di Minsk – formato da Francia, USA e Russia – che da anni tenta di trovare una soluzione pacifica. Il cessate il fuoco del 1994 è stato costantemente violato nel corso degli anni, portando entrambi i paesi a investire ingenti somme di denaro nell’acquisto di armamenti.

Il conflitto ha conosciuto un’escalation senza precedenti a partire dall’estate del 2014, e ad oggi i colpi di mortaio e i tiri dei cecchini non avvengono più solamente lungo la linea di contatto tra la repubblica separatista del Nagorno Karabakh e dell’Azerbaijan, ma sempre più spesso lungo la frontiera tra l’Armenia e l’Azerbaijan. Il 24 settembre del 2015 i bombardamenti dell’artiglieria azera sui villaggi frontalieri di Paravakar e Bertavan, nella regione del Tavush, nel nord dell’Armenia, hanno provocato la morte di tre donne armene, Sona Revazyan, 41 anni, Shushan Asatryan, 94 anni e Paytsar Aghajanyan, 83 anni. Pochi mesi dopo, il 9 dicembre, il conflitto ha conosciuto una nuova escalation con l’impiego, da parte dell’esercito azero, di carri armati.

Una spirale di violenza che secondo l’analista politico Richard Giragosian ha un solo obiettivo: provocare una reazione da parte armena che possa giustificare il ritorno a uno stato di guerra tale da ridare legittimità al governo azero. Una strategia le cui spese saranno pagate dai civili.

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La febbre suina avanza in Europa e in Asia; è pandemia? (Euronews.com 21.01.16)

La febbre suina è tornata a far paura. In Armenia
sono stati registrati 18 decessi negli ultimi due mesi, di cui 8 in 8 giorni. Tre le vittime in Georgia

In Russia quest’inverno 27 persone sono morte di influenza, la maggior parte per la H1N1.
Secondo la ministra della Sanità, Tatiana Iakovleva, non si tratta di una pandemia ma di un’ondata stagionale.
I malati ricoverati nella sola regione di San Pietroburgo negli ultimi 10 giorni sono stati 313.
La dottoressa Anna Popova ha dichiarato ai media russi che bisogna aspettarsi un aumento dei casi nelle prossime settimane.

La malattia ha colpito pesantemente l’Ucraina. Ben 51 le vittime in tutto il Paese, di cui 12 nell’est filo-russo.

I numeri sono ancor più elevati in Iran, dove da metà novembre ad oggi si contano 112 decessi e circa mille contagiati.

In India 12 morti nel Rajasthan.

Nessun decesso, al momento, ma due casi sotto controllo in Scozia.

Un’epidemia di H1N1 si era diffusa nel 2009, a partire da persone a contatto con allevamenti di suini in Messico, per poi estendersi ad altri 213 Paesi, uccidendo 18.500 persone. L’allarme era cessato nell’agosto 2010.

Da allora, ogni anno, si registrano casi più o meno isolati del virus. In questa occasione gli esperti di interrogano sulla possibilità che i nuovi casi indichino una tendenza in aumento.

Secondo ricercatori dell’Università di Pittsburgh, il virus era stato registrato la prima volta nel 1918, alternando poi periodi di diffusione e di recessione.

I sintomi sono quelli tipici delle influenze: febbre, tosse, mal di gola, raffreddore, dolori articolari, vomito, diarrea.
Una delle possibili complicazioni, soprattutto in persone anziane e fragili, è la polmonite.

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Sant’Egidio: cristiani di tutte le confessioni uniti per la pace (La Stampa 21.01.16)

Domani, in occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, la Comunità di Sant’Egidio riceverà la visita dell’arcivescovo Shahan Sarkissian, vescovo di Aleppo e Primate degli Armeni in Siria. In Italia per alcuni incontri promossi da Sant’Egidio a Napoli e Novara, l’arcivescovo Sarkissian porterà la testimonianza della sofferenza di Aleppo, un tempo la più popolosa e ricca città della Siria, sottoposta oramai da cinque anni a bombardamenti e a un duro assedio.

Alla visita parteciperà anche una delegazione di studenti dell’Istituto ecumenico di Bossey. Fondato nel 1946 dal Consiglio Ecumenico delle Chiese come centro internazionale di incontro, dialogo e formazione, l’Istituto ospita studenti e ricercatori provenienti da tutto il mondo e appartenenti a diverse confessioni cristiane. La delegazione, comprendente studenti di diciotto paesi di tutti i continenti, visiterà la basilica di San Bartolomeo all’Isola, memoriale ecumenico dei martiri del XX e XXI secolo, e alle 20,30 parteciperà alla preghiera della Comunità a Santa Maria in Trastevere.

Per approfondimenti: www.santegidio.org

Il Comune ricorda il genocidio armeno, il primo della storia moderna (Quibrianza 20.01.16)

BELLUSCO – In un periodo in cui le amministrazioni comunali commemorano il genocidio compiuto dai nazisti, l’amministrazione comunale ha deciso di ricordarne uno che da noi è passato sotto silenzio e che, comunque, è il primo della storia moderna: quello del popolo armeno dovuto alla ferocia dei Giovani Turchi.

Non solo Germania e lager nazisti: l’amministrazione comunale di Bellusco, per sensibilizzare la cittadinanza riguardo ai crimini dell’umanità, ricorda anche il genocidio del popolo armeno. Il primo genocidio della storia moderna, avvenuto tra il 1915 e il 1918 con la deportazione e l’uccisione di quasi un milione e mezzo di persone.

L’appuntamento è in programma per domani, domenica 24 gennaio con inizio alle 17, nella sala della Fama al Castello per una conferenza con padre Tovma Khachatr yan della comunità armena di Milano.

L’Armenia un piccolo paese con una grande storia, incastonato tra la Georgia, l’Azerbaijan, l’Iran e la Turchia, è uno degli snodi importanti tra la cultura orientale e quella occidentale. Si è spesso trovato nella sua storia a difendere la propria identità fatta non solo da una lingua ma anche da un proprio alfabeto e da una sua interpretazione del cristianesimo delle origini, ha introdotto nel 301 il cristianesimo come religione ufficiale. Tra le più clamorose persecuzioni subite dagli armeni si ricorda proprio la deportazione di più di un milione di civili verso il centro dell’Anatolia, raccontata anche nel libro e nel film “La masseria delle allodole”. Corsi e ricorsi della storia: deportazione di massa compiuta dai Giovani Turchi sostenuti dai tedeschi, in virtù dell’alleanza in vigore tra la Germania e l’Impero Ottomano. Nella Seconda Guerra Mondiale saranno i tedeschi a fare altre deportazioni ben più conosciute.
L’iniziativa è completata dalla mostra fotografica “Viaggio in Armenia”: scatti fotografici di alcuni belluschesi oltre a composizioni in ceramica. Aperta oggi e domani (dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 19) con ingresso libero.

Antonia Arslan e la tragica memoria del popolo armeno (Ravennaedintorni 20.01.16)

Incontro con l’autrice della Masseria delle allodole, giovedì 21 gennaio alle 18.30 a Palazzo Rasponi.

Conosciuta per il romanzo La masseria delle allodole, portato anche sul grande schermo dai fratelli Taviani, la scrittrice Antonia Arslan arriva a Ravenna per raccontare la storia e la cultura del popolo Armeno, segnato da un tragico sterminio nei primi del Novecento. L’autrice e saggista di origine armena, docente di storia della letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova, sarà ospite della rassegna di incontri letterari “Il tempo ritrovato”, giovedì 21 gennaio alle 18.30 a Palazzo Rasponi, dove parlerà delle Rimozione di un genocidio, la memoria lunga del popolo armeno, dialogando con il direttore artistico della rassegna e giornalista Matteo Cavezzali.

L’epurazione etnica degli armeni, avvenuto tra il 1915 e il 1922, rispondeva alla volontà degli uomini al potere nell’impero Ottomano di risolvere in modo definitivo la questione armena. Fu il primo genocidio del Secolo Breve, ma ancora oggi l’opera per insabbiamento della sua memoria rende rari i momenti di discussione pubblica su questa prima espressione della banalità del male. Conoscere come si svolsero quegli avvenimenti è fondamentale per la comprensione e la ricostruzione dell’odio razziale, religioso e politico che contraddistinse il Novecento e che ancora permea la nostra epoca. Continua

In ricordo del giornalista Hrant Dink (Internazionale e Euronews 19.01.16)

Una marcia davanti al quotidiano bilingue turco-armeno Agos, a Istanbul, per ricordare Hrant Dink, il giornalista turco di origine armena, ucciso il 19 gennaio 2007.  Dink era impegnato a favore della riconciliazione tra turchi e armeni, ma era odiato dai nazionalisti turchi per avere definito genocidio il massacro di cui gli armeni furono vittime durante la prima guerra mondiale. I responsabili dell’omicidio non sono stati ancora trovati. (Ozan Kose, Afp)


 

Circa duemila persone hanno manifestato a Istanbul nel nono anniversario della morte di Hrant Dink, il giornalista turco di origine armena assassinato in circostanze mai del tutto chiarite.

Marciando da piazza Taksim fino alla sede del giornale Hagos, di cui Dink era direttore, hanno invocato piena giustizia e scandito slogan contro gli apparati dello Stato, accusati di aver coperto la verità.

“Era un uomo di pace – afferma un manifestante – voleva riavvicinare turchi e armeni. Per questo è importante tenere vivo il suo ricordo”.

Per l’omicidio, avvenuto il 19 gennaio 2007, è stato condannato un giovane nazionalista, mai i mandanti. Di recente, il processo è stato riaperto e diversi funzionari di polizia incriminati per aver trascurato le minacce ricevute dal giornalista.

“Un’inchiesta relativamente efficace è stata avviata nel 2014, dopo una sentenza della Corte europea per i diritti umani – spiega il legale della famiglia, Hakan Bakırcıoğlu – Possiamo dire che ci sono stati progressi, ma sono arrivati tardi, dopo nove anni. Gli ultimi rinvii a giudizio sono comunque importanti”.

Il corrispondente di euronews da Istanbul, Bora Bayraktar, spiega che “la commemorazione si è svolta sotto stretta sorveglianza delle forze di sicurezza, a causa dell’accresciuto pericolo di attentati. Amici e colleghi del giornalista ucciso hanno ribadito la richiesta che questa volta la giustizia faccia pienamente il suo corso”. Leggi la notizia su Euronews