Quanti sono gli armeni? (Agccomunication 31.01.16)

ARMENIA – Yerevan 31/01/2016. La popolazione armena, sulla base di censimento 2011, al 1 gennaio 2016 è pari a 2.998.600 persone.

Riporta il dato ‘agenzia Arka che riporta dati del Servizio Statistico Nazionale dell’Armenia. Secondo le statistiche, nel 1977 la popolazione armena era 2,9 milioni. nel 1978 aveva superato i 3 milioni, fino a raggiungere nel 1992, i 3,6 milioni di persone. La popolazione armena al 1 gennaio 2016 rispetto al 1 Gennaio 2015 è diminuita di 12 mila unità. La popolazione urbana nel 2015 è diminuita di 5.500 unità. Il più grande deflusso della popolazione è stato registrato a Yerevan e nelle regioni di Lori e Shirak. Nelle zone rurali, la popolazione è diminuita di 6.500 unità. Secondo il Servizio nazionale di statistica, il numero di bambini nati nel paese nel 2015 è diminuito del 2,8% rispetto al 2014.

Turchia: i profughi cristiani vivono nella paura (Imolaoggi 30.01.16)

  • Agli occhi di molti musulmani devoti, la tolleranza sembra essere una strada a senso unico.
  • “Nelle terre dei kuffar [gli infedeli], i musulmani possono e devono godere di tutti i tipi di libertà e privilegi; però, ai non musulmani non sono garantiti gli stessi diritti e privilegi, se vivono nel Dar al-Islam [il territorio dell’Islam, i paesi governati da musulmani]. … Nel nostro mondo globalizzato, una situazione del genere non può continuare.” – Jacob Thomas.
  • L’Occidente, che affonda le sue radici nella cultura giudaico-cristiana fondata sull’amore e la compassione, sembrerebbe avere la responsabilità morale di soccorrere anzitutto i cristiani, che sono i più minacciati e innocui dei migranti.

Secondo il quotidiano Hurriyet, i circa 45.000 cristiani armeni e assiri (noti anche come siriaci e caldei) che sono fuggiti dall’Iraq e dalla Siria e si sono stabiliti nelle piccole città anatoliche della Turchia sono costretti a nascondere la loro identità religiosa.

Da quando lo Stato islamico (Isis) ha invaso le città irachene e siriane, i cristiani e gli yazidi sono diventati il bersaglio principale del gruppo, trovandosi a dover affrontare un altro possibile genocidio per mano dei musulmani.

Anonis Alis Samcyan, un’armena che ha lasciato l’Iraq per la Turchia, ha raccontato a Hurriyet che in pubblico finge di essere musulmana.

“Un anno fa, mio marito ed io siamo fuggiti con i nostri due figli, insieme a una ventina di altre famiglie. “Ci hanno fatto pressioni in Iraq”, ha detto la donna, affermando che il marito – che in Iraq aveva una gioielleria – ora è disoccupato. “Abbiamo parenti in Europa. È solo grazie al loro aiuto che tiriamo avanti. I nostri bambini non possono andare a scuola qui perché non parlano turco.”

A rendere ancor più tragica la difficile situazione dei profughi cristiani in Turchia è il fatto che gli antenati di alcuni di questi profughi furono cacciati dall’Anatolia un secolo fa dalle autorità ottomane e dai musulmani del luogo, nel corso del cosiddetto genocidio armeno e di quello assiro del 1915.

Anche Linda e Vahan Markaryan sono fuggiti in Turchia con i loro due bambini. La loro casa a Baghdad è stata rasa al suolo dai jihadisti dell’Isis.

“Mia figlia Nuşik, di 7 anni, da quel giorno ha smesso di parlare. Lavoriamo sodo per poterle pagare le cure, ma lei non accenna a dire una parola”, ha raccontato Linda Markaryan, aggiungendo che gli è stato difficile professare la loro religione. “Dobbiamo pregare in casa”.

A partire dal VII secolo, gli eserciti jihadisti islamici invasero il Medio Oriente e il Nord Africa. Le popolazioni autoctone e non musulmane di quelle terre hanno certamente dimenticato che cosa significano incolumità, sicurezza e libertà religiosa.

In ogni paese che ora è a maggioranza musulmana, ci sono storie orribili di sottomissioni violente, stupri, schiavitù e omicidi di non musulmani per mano dei jihadisti.

I cristiani sono presenti in Siria fin dagli albori del Cristianesimo, oggi però, dopo le incursioni dell’Isis, fuggono per salvarsi la vita.

Le invasioni musulmane della Siria bizantina avvennero nel VII secolo sotto i successori di Maometto. i califfi Abu Bakr e Umar ibn al-Khattab. Nel 634, Damasco, che allora era per lo più cristiana, fu la prima grande città dell’Impero bizantino a cadere sotto il controllo del califfato dei Rashidun.

In seguito, Damasco divenne la capitale del califfato omayyade, il secondo dei quattro grandi califfati islamici, e l’arabo diventò la lingua ufficiale.

L’Iraq, da dove arrivano molti dei profughi cristiani presenti in Turchia, fu anche teatro di una campagna di islamizzazione.

Nel 636, gli arabi musulmani invasero quello che oggi viene chiamato “Iraq” e che all’epoca era una provincia dell’Impero persiano dei Sasanidi; bruciarono i testi sacri dello Zoroastrismo, giustiziarono i preti, saccheggiarono le città e fecero schiavi gli abitanti – proprio come l’Isis fa oggi.

Quando gli eserciti musulmani conquistarono le terre non musulmane, i cristiani e gli ebrei dovettero scegliere se convertirsi, essere uccisi o vivere come “dhimmi“, cittadini di terza classe, a malapena “tollerati” nella propria terra espropriata e costretti pagare una tassa (la jizya), in cambio della cosiddetta “protezione”.

Ora, nel XXI secolo, i cristiani in Turchia dicono di vivere ancora nella paura.

Il 28 dicembre 2012, ad esempio, Maritsa Kucuk, una donna armena di 85 anni, è stata picchiata e accoltellata a morte nella sua casa nel quartiere di Samatya (che accoglie una delle più grandi comunità armene di Istanbul), dove viveva da sola. Suo figlio, Zadig Kucuk, che ha trovato il cadavere della madre, ha raccontato che sul petto della donna era stata incisa una croce.

Nel dicembre 2012, sempre a Samatya, un’altra donna, T.A., 87 anni, è stata aggredita, picchiata e soffocata nella sua abitazione. E ha perso un occhio.

“La stampa, la polizia, i politici e le autorità non hanno rivolto la loro attenzione a questo problema”, ha scritto Rober Koptas, che allora era direttore responsabile del quotidiano bilingue armeno, Agos. “Essi preferiscono tacere, come se queste aggressioni non fosse mai avvenute. E aumenta l’apprensione di tutti gli armeni che vivono in Turchia”.

A gennaio 2013, Ilker Sahin, 40 anni, un insegnante di una scuola armena di Istanbul, fu decapitato in casa sua.

Nel 2011, un tassista turco a Istanbul dette un pugno a una cliente armena dicendole: “Il tuo accento è pessimo. Sei una kafir [infedele]“.

Agli occhi di molti musulmani devoti, la tolleranza sembra essere una strada a senso unico. Parecchi musulmani pare che non abbiano ancora imparato a trattare gli altri con rispetto. I non musulmani del “mondo musulmano” vengono uccisi o sono costretti a vivere nella paura. Molti musulmani a quanto pare pensano ancora che i non musulmani siano i loro dhimmi e che possono trattarli male.

Nei paesi occidentali, i musulmani sono considerati cittadini come gli altri con pari [doveri e] diritti. Ma alcuni di loro spesso chiedono di avere più “diritti” – privilegi da parte dei governi – come i tribunali islamici della sharia con un sistema giuridico parallelo. Se le loro richieste non vengono soddisfatte, essi accusano la gente di “islamofobia” o “razzismo”.

Nei paesi a maggioranza musulmana, tra cui la Turchia, i non musulmani vengono di continuo insultati, minacciati o persino uccisi – e la maggior parte dei musulmani, comprese le autorità statali, non sembrano affatto curarsene.

“La relazione intercorrente tra l’Islam e il resto del mondo è asimmetrica”, ha scritto l’autore Jacob Thomas,

Nelle terre dei kuffar [gli infedeli], i musulmani possono e devono godere di tutti i tipi di libertà e privilegi; però, ai non musulmani non sono garantiti gli stessi diritti e privilegi, se vivono nel Dar al-Islam [il territorio dell’Islam, i paesi governati da musulmani]. I politici occidentali non sembrano accorgersi di questa anomalia; mentre la maggior parte degli accademici occidentali non sembrano preoccupati della mancanza di questa contropartita nel mondo musulmano. Nel nostro mondo globalizzato, una situazione del genere non può continuare.”

Purtroppo, l’odio verso gli ebrei è diventata una regola nei paesi musulmani, e questa regola non scomparirà presto. Questo significa che i cristiani in Medio Oriente continueranno a soffrire o anche a essere uccisi, e finiranno per estinguersi se il mondo civilizzato non li aiuterà.

Come ha detto Linda Markaryan, la profuga cristiana che ora vive in Turchia dopo essere fuggita dall’Isis in Iraq: “Non abbiamo un futuro qui. Tutto è incerto nella nostra vita. Il nostro unico desiderio è quello di offrire un futuro migliore ai nostri figli, in un luogo dove siano al sicuro”.

“Svolgiamo solo lavori precari nei cantieri edili”, ha precisato suo marito, Vahan Markaryan. “Gli altri lavoratori [che sono cittadini turchi] guadagnano 100 lire turche al giorno, mentre noi per lo stesso lavoro ne prendiamo solo 25. Non possiamo invocare i nostri diritti”.

Il quotidiano Hurriyet ha riportato che i profughi cristiani in Turchia hanno chiesto alle Nazioni Unite di poter recarsi negli Stati Uniti, in Canada o in Austria, e in attesa del permesso di partire potranno restare in Turchia solo fino al 2023.

Tutti i paesi occidentali dovrebbero concedere subito lo status di rifugiati ai cristiani in fuga dai paesi musulmani. L’Occidente, che affonda le sue radici nella cultura giudaico-cristiana fondata sull’amore e la compassione, sembrerebbe avere la responsabilità morale di soccorrere anzitutto i cristiani, che sono i più minacciati e innocui dei migranti.

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L’Armenia nelle sculture alla Statale (Il Giornale 29.01.16)

Francesca Amé«La musica nel Medioevo era l’esame degli esami. Era considerata la materia principale, coinvolgeva la matematica, la simbologia, la filosofia. Mi sono lasciato ispirare all’università come antico luogo di sapienza per realizzare questo progetto, basato sul ritmo musicale». Mikayel Ohanjanyan, artista armeno 40enne, in Italia da quindici anni e premiato con il Leone d’Oro all’ultima Biennale di Venezia, guarda soddisfatto le sue installazioni.Siamo nel cuore di Milano, nel cortile dell’Università degli Studi di Milano, l’affascinante progetto del Richini che fa della Statale uno dei gioielli architettonici della città. Da oggi al 19 marzo per la prima volta l’ateneo ospita un progetto di arte pubblica a cielo aperto dedicato alla contemporaneità: «Dur», porte in lingua armena, è il titolo della doppia installazione nel cortile e nel loggiato della Ca’ Granda realizzata dall’artista: è il primo appuntamento di un progetto, «La Statale Arte», che, nelle intenzioni del rettore Gianluca Vago, intende aprire ai cittadini l’ateneo per la fruizione di eventi culturali. Porte aperte dunque ai visitatori che tutti i giorni fino alle 20, ad eccezione della domenica, potranno varcare la soglia di via Festa del Perdono e ammirare le composizioni scultoree in basalto, acciaio e ferro di Ohanjanyan: ogni venerdì, dalle 17,30 e il sabato alle 11, sono previste anche visite guidate a questo piccolo ma suggestivo museo a cielo aperto tenute dagli stessi studenti dell’università.Necessita di tempo e attenzione, l’arte di Ohanjanyan: questo progetto affonda infatti le radici nella stessa orografia del Paese. Il basalto utilizzato per le tredici pietre dell’installazione è quello caratteristico dei canyon armeni, con particolare riferimento a un sito archeologico, a sud del Paese, detto «delle pietre parlanti», per le suggestive sonorità che il vento provoca nei menhir millenari. Ohanjanyan pare voler riportare su modello di quanto fatto all’ultima Biennale di Venezia – la magia della sua terra nel cortile della Statale con una complessa installazione di piccole pietre forate disposte in modo simbolico, quasi fossero una partitura musicale. Composta e raffinata è anche l’installazione site specific «Dur» realizzata per il loggiato del cortile e costituita da due strutture cubiche tenute in equilibrio grazie a un cubo vuoto centrale posto in mezzo: è di particolare effetto perché, grazie alla coloritura in ferro ossidato, spicca sul candore dei marmi. Nel suo perfetto italiano (Ohanjanyan si è formato all’Accademia di Belle Arti di Firenze e ancora oggi ha nel capoluogo toscano il suo atelier) l’artista ci spiega: «Dur, porta in armeno, vuole essere un omaggio al luogo in cui siamo: l’università come porta verso il sapere, come luogo dove imparare a conoscere il mondo e se stessi. Il varco tra le due strutture simboleggia lo stato di passaggio: è una riflessione sulla conoscenza contemporanea, che è sempre in divenire».

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Nagorno-Karabakh: se è il Consiglio d’Europa a complicare le cose…(Notizie geopolitiche 28.01.16)

Il dibattito e le decisioni prese dall’Assemblea Parlamentare del Consiglio di Europa (PACE) in merito al conflitto del Nagorno-Karabakh ed alle parti interessate, Armenia ed Azerbaigian, ha suscitato diverse reazioni a Baku e Erevan e ha portato l’opinione internazionale ad interessarsi maggiormente ad una contesa, definito “congelata”, che rappresenta una reale minaccia per la stabilità e sicurezza del Caucaso meridionale. La regione è divenuta di strategica importanza per l’Unione Europea in merito sia alla politica di Partneriarato orientale che di Sicurezza energetica .
Martedì 26 gennaio 2016 il britannico Robert Walter ha presentato all’Assemblea parlamentare il report “Escalation of violence in Nagorno-Karabakh and the other occupied territories of Azerbaijan” seguito dal lavoro condotto da Milica Marković della Bosnia ed Herzegovina, “Inhabitants of frontier regions of Azerbaijan are deliberately deprived of water”: i membri del PACE, dopo lunghe discussioni e disquisizioni, hanno approvato il rapporto della Marković mentre si sono opposti a maggioranza a quanto presentato da Walter.
Al termine della giornata PACE ha quindi deliberato che gli abitanti delle regioni di frontiera dell’Azerbaigian sono stati deprivati dell’acqua a causa dell’inefficienza e mancanza di regolare manutenzione delle riserve di Sarsang da parte dell’Armenia negli ultimi 20 anni; l’Assemblea parlamentare ha inoltre ricordato che tali regioni sono attualmente localizzate nelle aree appartenenti all’Azerbaigian occupate dall’Armenia e che tale inefficienza da parte armena pone un pericolo all’intera regione di confine.
Con questa risoluzione basata sul rapporto della Marković, come si evince direttamente dal sito web ufficiale di PACE, i parlamentari hanno enfatizzato che lo stato di rovina della diga di Sarsang potrebbe causare un disastro maggiore con grandi perdite di vite umane e rappresentare una possibile crisi umanitaria. Per poter arginare ed evitare questa crisi umanitaria l’Assemblea ha richiesto l’immediato ritiro delle forze armate dell’Armenia dalla regione in esame in modo da permettere agli ingegneri ed idrogeologi indipendenti di condurre una dettagliata indagine ed una supervisione internazionale dei canali di irrigazione, dello stato delle dighe di Sarsang e Madagiz e per progettare il rilascio dell’acqua durante l’autunno e l’inverno ed il sovrasfruttamento idrico.
I parlamentari hanno richiesto alle autorità armene di cessare di utilizzare le risorse idriche come uno strumento di influenza politica o di pressione favorendo soltanto una delle parti in conflitto. In aggiunta i membri dell’Assemblea hanno richiamato tutte le parti interessate a migliorare i propri sforzi per cooperare nella gestione congiunta delle risorse della riserva di Sarsang.
Il report di Robert Walter, il quale n
on ha ricevuto l’approvazione dell’Assemblea con 70 voti in sfavore, 66 positivi e 45 astensioni, focalizza l’attenzione e condanna l’escalation di violenza registrata a partire dall’estate del 2014 lungo la linea di contatto ed il confine internazionale tra Armenia ed Azerbaigian, tra cui la deliberata aggressione ai centri cittadini. Il report evidenzia che entrambi gli Stati, al momento del loro accesso al Consiglio di Europa, si erano impegnati nell’utilizzare mezzi pacifici per risolvere il conflitto inerente la regione del Nagorno-Karabakh e che il procrastinare tale risoluzione, di un conflitto definito “congelato”, rappresenta soltanto una complicazione. In conclusione il report richiama una serie di passi da intraprendere seguendo quanto sancito nel quadro del Gruppo di Minsk dell’OSCE e propone all’Assemblea di seguire tali progressi su base regolare.

La reazione e lo sdegno dell’Armenia.
La risoluzione adottata dal PACE ed entrambi i documenti presentati sia da Walter che da Marković sono stati accolti con una nota di disappunto da parte armena che ne ha evidenziato una propensione a favorire soltanto l’Azerbaigian basando le proprie conclusioni su studi e ricerche parziali e limitate.
Fin dal novembre 2015 la Federazione Armena Europea per la Giustizia e la Democrazia (EAFJD) ha condotto un ampio lavoro nei confronti dei 20 paesi membri del Consiglio di Europa sottolineando come l’essenza dei report dimostri un carattere pregiudizievole. Secondo EAFJD, presente a Strasburgo durante entrambe le votazioni, i due report ed i disegni di risoluzione presentati martedì scorso mancavano di una ricerca imparziale, di una selezione cruciale dei fatti e sono da considerarsi co
me una minaccia ai processi di negoziazione del conflitto del Nagorno-Karabakh i quali devono svolgersi facendo soltanto riferimento al Gruppo di Minsk dell’OSCE, elemento sottolineato dallo stesso Gruppo, presieduto da Francia, Stati Uniti e Russia, nel comunicato stampa pubblicato il giorno 22 gennaio 2016 sul loro sito web nel quale, ringraziando le altre organizzazioni per il loro interesse in merito al conflitto, evidenziava come l’interferenza di altri attori possa rappresentare un’ulteriore minaccia al processo di pace.
Sempre secondo EAFJD, il report presentato dal britannico Robert Walter rispecchia fedelmente le parole espresse da Azerbaigian e Turchia riguardo il conflitto del Nagorno-Karabakh; il lavoro esposto invece da Milica Marković è stato condotto senza che il rappresentante della Bosnia ed Herzegovina abbia mai effettuato una visita diretta alla riserva idrica ed ha inoltre utilizzato il carattere umanitario come un pretesto per effettuare dichiarazioni pregiudizievoli in merito al conflitto in generale. I membri di EAFJD hanno sottolineato come, dal confronto del disegno della risoluzione con il rapporto tecnico, è stato possibile constatare che la Marković ha deliberatamente esagerato le conseguenze del potenziale pericolo derivante dalla gestione idrica della regione ed ha tralasciato importanti dati e fatti dell’analisi tecnica non includendoli appositamente nella propria risoluzione.
Kaspar Karampetian, presidente di EAFJD, commentando quanto accaduto ha dichiarato che, grazie al respingimento del report stilato da parte di Robert Walter, definito da lui stesso pregiudizievole, il risultato delle votazioni può essere considerato in generale positivivamente. Secondo Karampetian, sia il britannico Walter che l’attuale Governo di Baku non sono riusciti nel loro sforzo di utilizzare il Consiglio di Europa come strumento di retorica anti-armena. In merito alla risoluzione adottata grazie al lavoro della Marković, Karampetian ha sottolineato e promosso la linea perseguita da EAFJD che sostiene come l’elemento umanitario sia stato utilizzato per proporre un disegno di risoluzione che rifletta le prospettive azerbaigiane del conflitto del Nagorno-Karabakh. In futuro, ha continuato il presidente, la diplomazia armena dovrà farsi carico di evidenziare i pericoli ambientali ed i problemi legati ai diritti umani dei cittadini armeni registrati nell’area di confine e causati dall’Azerbaigian.
La stampa armena nel frattempo ha affrontato ampiamente tale argomento ospitando interviste e dichiarazioni in opposizione alla risoluzione dell’Assemblea parlamentare; da notare la notizia apparsa su Armenpress nella quale si evidenzia come Markar Esayan, membro del Parlamento turco, deputato del Partito di Giustizia e Sviluppo (AKP) attualmente leader del Governo di Ankara e noto supporter delle posizioni turche in merito al genocidio armeno ed al conflitto del Nagorno-Karabakh, abbia votato in favore del rapporto di Robert Walter definito “anti-armeno” durante la sessione di Strasburgo di martedì.
I dubbi dell’Armenia sulla imparzialità dei report sono stati il tema centrale dei media nazionali: un alone di mistero aleggia sulla figura del britannico Robert Walter il quale, nel maggio del 2015, ha ricevuto la cittadinanza turca direttamente dal Ministro degli Esteri Mevlüt Çavuşoğlu per poter “coronare il suo sogno” di vivere in Turchia nella casa di Bodrum insieme alla moglie Feride Alp, cittadina con doppia nazionalità turca e britannica con la quale si è sposato nel 2011.
I dubbi della stampa armena sono aumentati quando, leggendo il report presentato da Walter, è possibile scorgere la menzione della sentenza espressa lo scorso 16 giugno 2015 dalla Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) in merito al caso “Chiragov ed altri contro l’Armenia” (per maggiori informazioni è possibile leggere Nagorno-Karabakh: Strasburgo dà ragione all’Azerbaigian), vero cavallo di battaglia di Baku nella sua politica internazionale, dimenticando però di citare anche la sentenza della Grande Camera della CEDU espressa lo stesso giorno in merito al caso “Sargsyan contro l’Azerbaigian” che in sostanza accusava Baku delle stesse violazioni dei diritti umani fatte da Erevan.

Un successo diplomatico per Baku.
sarsang dam grandeSe quanto accaduto a Strasburgo ha scontetato la parte armena, ovviamente a Baku la risoluzione adottata dal PACE ed i due report presentati sono stati accolti positivamente e utilizzati per poter ribadire la linea politica azerbaigiana in merito al conflitto.
Asim Mollazade e Rasim Musabekov, membri del Parlamento e politici azerbaigiani, hanno esaminato quanto decretato martedì 25 a Strasburgo in un’intervista a Vestnik Kavkaz. Mollazade ha evidenziato come il report della Marković sia da considerare estremamente importante come baluardo della protezione dei diritti dell’Azerbaigian perché sottolinea l’atteggiamento aggressivo delle autorità che occupano i territori azerbaigiani e privano la popolazione azerbaigiana locale delle loro risorse idriche. Allo stesso tempo, continua Mollazade, l’abuso delle riserve di Sarsang può portare ad un disastro ambientale ed ogni minuto in più dell’occupazione è da intendere come una minaccia per la diga la cui distruzione o mal funzionamento può inondare larga parte dell’Azerbaigian. Data l’importanza degli eventi ed il rischio ambientale ed umanitario, Asim Mollazade, ha evidenziato inoltre come l’intervento dell’Unione Europea su tali tematiche è da considerarsi fondamentale; seppur respinto dalla maggioranza dell’Assemblea Parlamentare, il report del britannico Walter è stato accolto dal parlamentare azerbaigiano come un documento di informazione il cui scopo è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica europea in merito alla situazione dei territori occupati dell’Azerbaigian.
Sulla stessa linea Rasim Musabekov il quale ha dichiarato che la diga di Sarsang non ha ricevuto manutenzione negli ultimi 25 anni e, se dovesse accadere qualcosa in merito a tale mala gestione, i villaggi e centri abitati di Tartar, situati nella parte inferiore del fiume, sarebbero inondati e si registrerebbe una catastrofe umanitaria. Musabekov ha tenuto a precisare che la diga era stata costruita con l’intento di conservare acqua in estate ed utilizzarla per irrigare le fattorie ed i terreni, ma l’Armenia ha deciso di controllare tali riserve idriche ed utilizzarle per i propri scopi energetici: infatti, secondo il parlamentare di Baku, durante l’inverno l’Armenia disperde l’acqua per generare energia causando però una mancanza di risorse idriche per l’estate quando i contadini azerbaigiani necessitano di queste per le proprie coltivazioni.
Fikret Sadikhov, politico azerbaigiano intervistato dal portale di informazione Trend.az, ha affermato che l’adozione della risoluzione della Marković deve essere vista come un successo della diplomazia azerbaigiana perché va a colpire direttamente la presenza delle forze armene sul territorio sovrano dell’Azerbaigian. Parlando invece del report stilato da Walter, Sadikhov ha dichiarato che esistono ancora dei dubbi in merito a coloro che si sono astenuti nella votazione e quindi si può ben sperare che tale argomento possa essere ripresentato successivamente con un esito differente.

L’opinione internazionale divisa.
La senatrice francese Nathalie Goulet, commentando i fatti accaduti a Strasburgo, ha voluto sottolineare come i due report e la risoluzione adottata potranno avere un impatto positivo sul processo di pace del Nagorno-Karabakh. Secondo Goulet gli eventi dimostrano chiaramente chi sia l’aggressore e che l’Armenia detiene una posizione sbagliata dal punto di vista storico e dal punto di vista del diritto internazionale. L’adozione della risoluzione in favore dell’Azerbaigian è cruciale, continua la senatrice francese ai microfoni del portale azerbaigiano Trend.az, e deve essere vista come uno step ulteriore per il riconoscimento internazionale dei diritti storici e legali dell’Azerbaigian in merito ai territori occupati.
Lo spagnolo Pedro Agramunt, nuovo presidente del PACE, ha notato come l’Europa abbia ancora un problema di conflitti non risolti i quali rappresentano una sfida per l’organizzazione. Tali conflitti, come quello del Nagorno-Karabakh, della Transinistria, dell’Ucraina e della Georgia, non sono ancora stati risolti ed è quindi compito dell’Europa adoperarsi per trovare una soluzione.
L’importanza del conflitto del Nagorno-Karabakh è stata avanzata dall’ex presidente del PACE, Anne Brasseur, durante il primo giorno di sessione iniziata il 25 gennaio con la conclusione prevista per il 29. Secondo Brasseur è necessaro trovare una soluzione del conflitto che oramai dura da anni, che non ha registrato nessun progresso, garantendo però ad entrambe le parti di veder riconosciuti i propri diritti. Tale soluzione, ha concluso l’ex presidente, non potrà essere ricercata e trovata fino a quando non termineranno le continue accuse reciproche di Armenia ed Azerbaigian.
Dagli Stati Uniti Adam Schiff ed Brad Sherman, membro della Commissione degli Affari Esteri, hanno ufficialmente espresso il proprio sdegno opponendosi alla decisione del PACE dichiarandola pregiudizievole, sostenitrice del Governo di Baku ed una minaccia per i negoziati di pace.
Secondo quanto riportato dalla Commissione Nazionale Armena dell’America, in una lettera al Segretario di Stato degli Stati Uniti John Kerry, Schiff ha richiesto che il Dipartimento di Stato chiarisca ai più alti livelli la propria visione della risoluzione adottata dall’Assemblea parlamentare a Strasburgo definita da lui stesso di parte, inaccurata e controproduttiva per la pace e la stabilità. La lettera di denuncia sottolinea come l’Azerbaigian ha continuamente perpetrato azioni provocative lungo la Linea di Contatto le quali hanno causato la morte o il ferimento di militari e civili e solleva dubbi sul fatto che la risoluzione non menzioni il rifiuto da parte del Presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev di installare tecnologie per monitorare l’utilizzo di cecchini ed artiglieria, a differenza di Armenia e Nagorno-Karabakh, secondo quanto proposto dal presidente della Commissione degli Affari esteri Ed Royce, da Eliot Engel e da più di 80 membri lo scorso novembre 2015.
Sherman, invece, nella sua lettera a John Kerry, ha invitato gli Stati Uniti a prendere una azione immediata nei confronti di una risoluzione vista come una minaccia per il ruolo di leadership del Gruppo di Minsk dell’OSCE nei negoziati di pace sul Nagorno-Karabakh considerando inoltre quanto fatto a Strasburgo come un insulto al popolo americano ed al lavoro e dedizione dei diplomatici del Dipartimento di Stato. Secondo Sherman, per generazioni il popolo europeo ha richiesto agli Stati Uniti di essere coinvolti nelle dinamiche dell’Europa, infatti nel ventesimo secolo centinaia di migliaia di cittadini statunitensi sono morti per portare la pace nel continente. Ora invece viene richiesto ad un gruppo presieduto da Francia, Russia e Stati Uniti di farsi da parte e cedere il passo ad un nuovo gruppo senza nessun coinvolgimento della Casa Bianca.

Conclusioni e note dell’autore.
Il conflitto del Nagorno-Karabakh continua a dividere l’opinione pubblica ed a registrare insuccessi nel processo di pace; il dibattito mediatico generato spesso da risoluzioni come questa del PACE metta in ombra il vero dato preoccupante che invece dovrebbe essere evidenziato, ossia che tale scontro ha causato e continuerà a provocare vittime e rifugiati in futuro e continuerà a minacciare la stabilità della regione. Quanto deliberato dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha notevolmente diviso l’opinione pubblica creando due schieramenti a favore o contro i report e la risoluzione; in tale articolo si è deciso di riportare soltanto alcune delle svariate dichiarazioni in modo da far comprendere al lettore le diverse posizioni sia di Armenia che di Azerbaigian e sia di una parte degli altri attori internazionali.
In sintesi, mentre Baku ha accolto con piacere quanto avvenuto a Strasburgo, perché ribadisce le proprie linee guida in merito al conflitto ed al Nagorno-Karabakh inteso come territorio occupato dalle forze armate armene, Erevan chiede maggiore professionalità e lealtà da parte di coloro che hanno elaborato tali report ed i disegni delle risoluzioni continuando ad affermare e supportare il pieno diritto di esistenza della Repubblica del Nagorno-Karabakh, attualmente non riconosciuta a livello internazionale.
Al momento della stesura del presente articolo i rappresentanti dei ministeri degli Esteri di Armenia ed Azerbaigian non avevano ancora commentato quanto avvenuto a Strasburgo. Si rimanda quindi il lettore ai loro siti web ufficiali (Ministero Esteri della Repubblica di ArmeniaMinistero Esteri della Repubblica di Azerbaigian) per future dichiarazioni.

 

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I sopravvissuti al genocidio armeno: a Sant’Antioco una mostra per non dimenticare (Unionesarda.it 28.01.16)

“Cento anni di silenzio, gli ultimi sopravvissuti del genocidio armeno”.

È il tema dell’esposizione fotografica di Romolo Eucalitto in mostra al Palazzo del Capitolo di Sant’Antioco fino a domenica 7 febbraio.

Le immagini in bianco e nero, scattate dal fotografo nella città di Yerevan, carpiscono momenti di vita di tre armeni, ormai anziani, sopravvissuti al massacro messo in atto dai turchi tra il 1915 e il 1918.

La mostra rappresenta l’evento cardine del ciclo di appuntamenti dedicati al tema del ricordo e della lotta all’oblio, nell’ambito della Giornata della memoria celebrata nei giorni passati.

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Incontro a Villa di Serio sul genocidio armeno (ecodibergamo 27.01.16)

Giovedì 28 gennaio la proiezione di un documentario in biblioteca: inizio alle 20,45.

Il genocidio degli armeni verrà raccontato a Villa di Serio attraverso la proiezione di un documentario dal titolo «Camminata silenziosa con accensione del fuoco della memoria». La serata si svolgerà giovedì 28 gennaio nella sala polivalente della biblioteca alle 20,45, con ingresso libero, su iniziativa dell’amministrazione comunale e della stessa biblioteca. Nel corso della serata verranno proposte musiche e racconti della trazione armena in memoria di Padre Komitas, cantore, direttore di cori, compositore, etnomusicologo, paleografo musicale.

Komitas visse in prima persona la deportazione e l’uccisione di oltre un milione di armeni nell’aprile del 1915. Il concerto strumentale con letture vedrà la partecipazione di Giuseppe Dal Bianco al duduk shofar, tipico oboe armeno, di Giuseppe Laudanna alle tastiere e di Mauro Lazzaretti, voce narrante.

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Il Consiglio d’Europa boccia la risoluzione “WALTER” (Karabakh.it 27.01.16)

L’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa ha rigettato nella sessione del 26 gennaio la risoluzione azera basata sul discusso rapporto dell’anglo turco Robert Walter. Il documento, intitolato provocatoriamente “Escalation della violenza in Nagorno Karabakh e negli altri territori dell’Azerbaigian” aveva suscitato la ferma opposizione di molte forze politiche, armene e non, in quanto faziosa espressione del solo punto di vista azero sul contenzioso. Con 70 voti contro 66 (e 45 astenuti) il testo della risoluzione non è stato approvato.

Sull’altra risoluzione riguardante l’utilizzo della riserva idrica di Sarsang, l’Assemblea ha invece espresso voto favorevole (98 a 71 con 40 astenuti). Anche questo testo era stato criticato giacché la relatrice bosniaca (Milica Markovic) non aveva ritenuto opportuno effettuare un sopralluogo in loco nonostante l’espresso invito delle autorità del Nagorno Karabakh. Una mozione, in chiave meno politica e più ambientalista, il cui esito non cancella comunque la soddisfazione della parte armena per la reiezione dell’altro documento.

Riguardo a Sarsang, il ministero della difesa del NK ha rilasciato una dichiarazione nella quale si sottolinea come l’uso della riserva idrica, collocata nel territorio dello Stato, rimane un diritto sovrano del popolo del Karabakh che non potrà essere violato da alcuna risoluzione.

Nei giorni scorsi il Gruppo di Minsk dell’Osce aveva lanciato un fermo monito al Consiglio d’Europa e alle altre organizzazioni internazionali affinché si astengano dal votare risoluzioni che possano ostacolare la difficile via del negoziato.

VOTAZIONE SU RAPPORTO WALTER

http://assembly.coe.int/nw/xml/Votes/DB-VotesResults-EN.asp?VoteID=35783&DocID=15681&MemberID=

Questo il voto espresso dai parlamentari italiani (14 votanti: 10 No, 3 SI, 1 astenuto)

TAMARA BLANZINA (pd) NO

VANNINO CHITI (pd) NO

PAOLO CORSINI (pd) NO

MANLIO DI STEFANO (5S) NO

CLAUDIO FAZZONE (pdl) SI  (sottoscrittore)

GIUSEPPE GALATI (pdl)   ASTE (sottoscrittore)

FRANCESCO M. GIRO (pdl)   NO  (sottoscrittore)

FLORIAN KRONBICHLER (sel)   SI

CARLO LUCHERINI (pd)   NO

MICHELE NICOLETI  (pd)   NO

ANDREA RIGONI (pd)   SI

MARIA EDERA SPADONI  (5S)   NO

SANDRA ZAMPA  (pd)   NO

 

VOTAZIONE SU RISERVA DI SARSANG

http://assembly.coe.int/nw/xml/Votes/DB-VotesResults-EN.asp?VoteID=35800&DocID=15704&MemberID=

Questo il voto espresso dai parlamentari italiani (14 votanti: 9 No, 4 SI, 1 astenuto)

TAMARA BLANZINA   NO

ELENA CENTEMERO          NO

VANNINO CHITI   NO

PAOLO CORSINI   NO

MANLIO DI STEFANO   NO

CLAUDIO FAZZONE   SI  (sottoscrittore)

GIUSEPPE GALATI   ASTE (sottoscrittore)

FRANCESCO M. GIRO   NO  (sottoscrittore)

FLORIAN KRONBICHLER   SI

CARLO LUCHERINI   SI

MICHELE NICOLETI             NO

ANDREA RIGONI     SI

MARIA EDERA SPADONI    NO

SANDRA ZAMPA                  NO

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27 Gennaio: in memoria di tutti i genocidi (Agoravox.it 27.01.16)

di Francesco Cecchini

“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario.”                  

Primo Levi, in appendice a un’edizione di Questo è un uomo.

“Il genocidio è un atto criminale premeditato, organizzato sistematicamente e messo in atto con l’obiettivo di sterminare delle comunità civili mirate, scelte in base a criteri di nazionalità, razza o religione.”

Ryzard Kapuscinski, da Le Monde Diplomatique.

 

Il 27 gennaio del 1945, sono trascorsi 71 anni, l’Armata Rossa entrava nel campo di sterminio di Aushwitz, Oswiciem in polacco, e liberava i prigionieri superstiti. In quel giorno emerse in tutta la sua crudeltà quello che era accaduto di atroce in quel campo di concentramento. Il mondo scopriva l’orrore dell’Olocausto. Con l’avvento del nazismo di Hitler in Germania (1993/1945) venne avviato lo sterminio del popolo ebraico in Europa. Le vittime di questo immane olocausto sono calcolate in oltre in oltre 6 milioni di persone, la gran parte di loro morta nei campi di sterminio. Durante questo periodo non furono sterminati solo ebrei, ma anche quei gruppi non conformi al disegno nazista di purezza e perfezione della razza ariana: rom, omosessuali, neri, malati di mente, comunisti, slavi e via dicendo. Tutti quei gruppi definiti Untermenschen, sotto persone. Tra il 1941 ed il 1945 nei campi di concentramento e di sterminio istituiti dal regime nazionalsocialista morirono, compresi gli ebrei, tra i dieci e i quattordici milioni di persone.

A proposito di prigionieri politici, questa è la testimonianza dello scrittore ultracentenario Boris Pahor in “Triangoli rossi, i campi di concentramento dimenticati”.  Triangoli rossi erano i pezzi di stoffa che venivano appuntati al petto di prigionieri politici. “Ogni Giorno della memoria si ripete sempre nello stesso modo: si parla molto di Auschwitz, si parla di Birkenau o Treblinka, di Buchenwald o di Mauthausen, ma quasi mai di Dora-Mittelbau, di Natzweiler-Struthof e altri campi riservati ai Triangoli rossi, i deportati politici. E spesso mi risentivo, qualche volta a voce alta, non perché sono stato un Triangolo rosso anch’io, bensì perché avere sul petto, sotto il numero che sostituiva il nome e il cognome, il triangolo rosso, significava che ero stato catturato perché come soldato non mi ero presentato all’autorità militare nazista, ma avevo scelto di oppormi in nome della libertà.

Questa data è un giorno in cui non dobbiamo dimenticare che odio, violenza e illegalità possono riportare le tragedie del passato. Oggi stesso viviamo drammatici disastri. Le guerre d’ingerenza dell’imperialismo occidentale che hanno destabilizzato la Libia e il Medio Oriente. Il terrorismo islamista. Il terrore sionista in Palestina ed altro.

ALCUNI GENOCIDI DEL SECOLO SCORSO.

La storia del XX secolo conta oltre una decina di episodi di genocidio. Il termine episodio non è comunque il migliore, poiché questi massacri sono generalmente durati molto tempo. In ogni evento, lo svolgimento del massacro e dello sterminio della comunità perseguitata è stato preceduto da un periodo di sofferenze, di privazione per fame, di umiliazione, di terrore. Inoltre, in tutti i casi i genocidi sono stati preparati ed eseguiti in contesti sociali di crisi economica, politica, culturale e morale profonda.

Questa nota ne elenca alcuni, oltre l’Olocausto del popolo ebreo.

 

Olocausto Herero e Nama nell’ Africa tedesca, Deutsch-Sudwestafri

Fu il primo genocidio del 900. Tra il 1884 ed il 1908 la colonia tedesca,ora Naimbia fu il laboratorio per la creazione di campi di concentramento e la sperimentazione delle prime forme di eliminazioni di massa. Il piu famigerato campo campo di concentramento fu il Konzentrantionslager auf der Haifishensel vor Luderritzbucht nell’ isola di Shark, dove si registrò un taso di mortalità del 70%. Per il clima inospitale, freddo, la malnutrizione, le violenze fisiche e gli stupri, fu denominato Todesinsel, l’isola della morte.Questi due popoli, herero e nama fu sterminato per essersi ribellati, coraggiosamente ed in armi, infliggendo perdite, contro l’invasore tedesco. Significative sono le parole di Lothar Von Trotha, inviato con 20000 soldati per una vera e propria azione di annientamento, prima ai suoi superiori: “Ritengo preferibile che la nazione herero perisca piuttosto che infetti i nostri soldati e inquini la nostra acqua ed inquini i nostri cibi”. Poi al popolo herero:” Io, generale delle truppe tedesche indirizzo questa lettera al popolo herero. D’ora in poi gli herero non sono più sudditi tedeschi…Devono lasciare il Paese (ndr: cioè il territorio africano che appartiene loro). Qualsiasi herero scoperto all’ interno del territorio tedesco, armato oppure no, con oppure senza bestiame sarà ucciso. Non sarà tollerata neppure la presenza di donne e bambini che dovranno raggiungere gli altri membri della loro tribù (ndr: ossia morire di fame nel deserto), altrimenti saranno fucilati.”

Non c’ è una contabilità esatta dei morti per le armi, di fame, nei campi di prigionia o nelle deportazioni. Alcuni dicono che i due popoli, herero e nama furono ridotti dell’80%.

 

Genocidio del popolo armeno

Durante la prima guerra mondiale (1914-1918) si compie, nell’area dell’ex impero ottomano, in Turchia, il genocidio del popolo armeno (1915 – 1923), il primo del XX secolo. Il governo dei Giovani Turchi, preso il potere nel 1908, attua l’eliminazione dell’etnia armena, presente nell’area anatolica fin dal 7° secolo a.C.
Dalla memoria del popolo armeno, ma anche nella stima degli storici, perirono i due terzi degli armeni dell’Impero Ottomano, circa 1.500.000 di persone. Molti furono i bambini islamizzati e le donne inviate negli harem. La deportazione e lo sterminio del 1915 vennero preceduti dai pogrom del 1894-96 voluti dal Sultano Abdul Hamid II e da quelli del 1909 attuati dal governo dei Giovani Turchi.
Le responsabilità dell’ideazione e dell’attuazione del progetto genocidario vanno individuate all’interno del partito dei Giovani Turchi, “Ittihad ve Terraki” (Unione e Progresso). L’ala più intransigente del Comitato Centrale del Partito pianificò il genocidio, realizzato attraverso una struttura paramilitare, l’Organizzazione Speciale (O.S.), diretta da due medici, Nazim e Chakir. L’O.S. dipendeva dal Ministero della Guerra e attuò il genocidio con la supervisione del Ministero dell’Interno e la collaborazione del Ministero della Giustizia. I politici responsabili dell’esecuzione del genocidio furono: Talaat, Enver, Djemal. Mustafa Kemal, detto Ataturk, ha completato e avallato l’opera dei Giovani Turchi, sia con nuovi massacri, sia con la negazione delle responsabilità dei crimini commessi.
Il genocidio degli armeni può essere considerato il prototipo dei genocidi del XX secolo. L’obiettivo era di risolvere alla radice la questione degli armeni, popolazione cristiana che guardava all’occidente.
Il movente principale è da ricercarsi all’interno dell’ideologia panturchista, che ispira l’azione di governo dei Giovani Turchi, determinati a riformare lo Stato su una base nazionalista, e quindi sull’omogeneità etnica e religiosa. La popolazione armena, di religione cristiana, che aveva assorbito gli ideali dello stato di diritto di stampo occidentale, con le sue richieste di autonomia poteva costituire un ostacolo ed opporsi al progetto governativo.
L’obiettivo degli ottomani era la cancellazione della comunità armena come soggetto storico, culturale e soprattutto politico. Non secondaria fu la rapina dei beni e delle terre degli armeni. Il governo e la maggior parte degli storici turchi ancora oggi rifiutano di ammettere che nel 1915 è stato commesso un genocidio ai danni del popolo armeno.
Il 24 aprile del 1915 tutti i notabili armeni di Costantinopoli vennero arrestati, deportati e massacrati. A partire dal gennaio del 1915 i turchi intrapresero un’opera di sistematica deportazione della popolazione armena verso il deserto di Der-Es-Zor. Il decreto provvisorio di deportazione è del maggio 1915, seguito dal decreto di confisca dei beni, decreti mai ratificati dal parlamento. Dapprima i maschi adulti furono chiamati a prestare servizio militare e poi passati per le armi; poi ci fu la fase dei massacri e delle violenze indiscriminate sulla popolazione civile; infine i superstiti furono costretti ad una terribile marcia verso il deserto, nel corso della quale gli armeni furono depredati di tutti i loro averi e moltissimi persero la vita. Quelli che giunsero al deserto non ebbero alcuna possibilità di sopravvivere, molti furono gettati in caverne e bruciati vivi, altri annegati nel fiume Eufrate e nel Mar Nero.

 

Genocidi del colonialismo e fascismo italiani in Africa.

Libia

L’avventura coloniale in Libia, tra il 1911 e il 1931, fu accompagnata da orrori. deportazioni, bombardamenti, e l’uso di gas proibiti dalle convenzioni internazionali, campi di concentramento. Ad El Agheila e in altri campi di concentramento, secondo le stime più attendibili, furono rinchiuse circa 80mila persone. E ne uscirono, probabilmente, un quarto di meno. Un calo di ventimila unità dovuto fame e sentenze di Tribunale militare speciale, il quale, quasi sempre, decretava la pena capitale per gli imputati.

Colonialismo e fascismo italiani costarono al popolo libico un saldo di 100.000 morti su una popolazione di 700.000- 800.000.

 

Eritrea ed Etiopia

Il numero di morti eritrei dal 1890 al 1941 fu alto, anche se inferiore e di molto, a quello dei libici e degli etiopi. Per dare un’idea del genocidio africano di cui l’Italia coloniale e fascista è responsabile, le perdite etiopi nella guerra del 1935 e 1936 furono 760.000, secondo il numero fornito dal Negus alla Società delle Nazioni. Un numero forse non esatto, ma che indica la dimensione del massacro. In Etiopia a questo numero immenso, vanno aggiunte le perdite della prima guerra italo-etiope, 1895 – 1896, e dopo le stragi di bambini, donne e uomini in seguito all’ attentato a Graziani nel 1937, il massacro di Amazegna Wagni nel 1939 e i morti della seconda guerra mondiale in Africa Orientale.

Gli eritrei che hanno pagato il più alto prezzo di sangue furono i soldati dell’esercito coloniale, gli ascari. Le stime, però, sono molto vaghe. Per i soldati italiani morti in terra d’Africa la contabilità è precisa, i soldati eritrei sono carne da macello, qualche migliaio in più o in meno ha poca importanza.

Circa 2000 furono gli ascari morti nella prima guerra italo etiopica, tra il dicembre del 1895 e l’ottobre del 1896. Nella seconda guerra italo-etiopica, 1935-1936, gli ascari morti sono da 3500 a 4500. Contro gli inglesi i morti eritrei si stimano essere 10 000, solo 3700 nella battaglia di Gondar nel 1941. Queste morti di soldati di un popolo dominato, arruolati, con la costrizione o con il miraggio di sfuggire la fame, per combattere sotto la bandiera del dominatore devono essere addebitate al colonialismo ed al fascismo italiano.

Nocra, un lager africano

Colonialismo prima e fascismo poi crearono in Eritrea un sistema carcerario spietato. I campi di lavoro e di internamento furono molti, Assab, Massaua , Asmara, Cheren , Addi Ugri, Addi Caleh. Tra questi spicca il famigerato campo di concentramento di Nocra, nell’omonima isola dell’arcipelago Dakhlat, uno dei meno conosciuti orrori del dominio italiano in Africa.

L’isola, fu scelta perché i 55 km di distanza dalla costa, rendevano impossibile la fuga. Vi fu nel marzo 1893 il solo tentativo di fuga di massa, ma i fuggitivi furono catturati e passati per le armi. Il campo era costituto da un fabbricato di mattoni per le guardie e 200 tra tucul e tende per i prigionieri.

Un paradiso tropicale nel Mar Rosso che si trasformò in un inferno lungo cinquant’anni: caldo e umidità provocavano una sete che la poca acqua salmastra proveniente da un pozzo aumentava. Oltre che per la sete la morte arrivava per la fame( erano concessi pochi grammi al giorno, e non tutti i giorni, di farina, tè e zucchero), per le malattie (malaria, scorbuto e dissenteria) e per la fatica. In queste condizioni i prigionieri erano costretti a lavori forzati in una cava di pietra. Si sa che il numero di prigionieri arrivò a 1000 e la media fu 500, ma non esiste una contabilità di quanti morirono.

Un capitano della marina militare che la visitò nel 1901 la descrisse così: “I detenuti, coperti di piaghe e d’insetti, muoiono lentamente di fame, scorbuto e altre malattie. Non un medico per curare, 30 centesimi per il loro sostentamento, ischeletriti, luridi, in gran parte hanno perduto l’uso delle gambe ridotti come sono a vivere costantemente sul tavolato alto un metro dal suolo.” La realtà che trovarono gli inglesi dopo quarant’anni, quando la liberarono nel 1941, non fu molto diversa. Nocra fu, per le crudeli condizioni di prigionia, un vero e proprio campo di sterminio, una Auschwitz tropicale.

Genocidio dei popoli dell’Indonesia. 

Sterminio di comunisti.

Kusno Sosrodiharjo, noto come Sukarno, conosceva una frase in italiano: vivere pericolosamente. Chiamò il discorso che tenne il 17 agosto 1965 in occasione della festa nazionale il 17 agosto: the year of living dangerously, l’anno del vivere pericoloso. Molte furono, allora nel 1965, le decisioni di Sukarno, ritenute pericolose dall’ imperialismo americano. Il pretesto per la sanguinaria controrivoluzione si verificò il 30 settembre 1965: il colpo di Stato di un quartetto di colonelli che proclamò «un governo rivoluzionario» dopo aver giustiziato alcuni membri dello stato maggiore della fazione di centro destra.

Suharto,? responsabile delle truppe riserviste nazionali (KOSTRAD), il giorno dopo, il 1 ottobre 1965, prese il controllo di Jakarta e iniziò la repressione. Il coinvolgimento della Cia, dell’ambasciata degli Stati Uniti, così come dei servizi segreti britannici sono provati. Furono gli Stati Uniti a contribuire alla formazione per la guerra contro-insurrezionale degli ufficiali indonesiani nella Scuola ufficiali a Bandung (SESKOAD). La Cia svolgerà inoltre un ruolo chiave nell’elaborazione della propaganda anticomunista dei golpisti, non solo facendo circolare false notizie sulle atrocità commesse dai comunisti, ma fomentando l’odio razziale contro i cinesi o religioso contro gli atei. L’ambasciata e l’intelligence degli Usa avevano anche stilato un elenco di 5000 quadri di tutti i livelli del PKI (Partito Comunista Indonesiano) per l’esercito indonesiano, facilitando così la distruzione fisica di questo partito.

Nel periodo 1965/1967, quasi un milione di comunisti indonesiani furono eliminati dalle forze governative aiutate da squadroni della morte.

Genocidio a Timor Est.

In seguito all’invasione indonesiana di questo stato del sud-est asiatico, si è registrato lo sterminio violentissimo di oltre 250.000 persone in meno di cinque anni. L’offensiva condotta dall’esercito invasore puntava all’annientamento di Timor Est nel ? massacrando la popolazione a più riprese, provocando carestie e arrivando addirittura alla limitazione delle nascite tramite la sterilizzazione forzata delle donne. Si è condotta la distruzione ragionata del sistema agricolo e intere famiglie di contadini, che prima abitavano sparsi sul territorio e sulle montagne, sono state trasferite in villaggi strategici per essere meglio controllate e affamate. I Timoresiperseverano nella resistenza grazie anche al sostegno della popolazione e della Chiesa Cattolica. Intanto le autorità procedevano anche ad una vasta opera di infiltrazione etnica, spostando masse di contadini poveri da Bali e Giava sulle migliori terre sottratte ai timoresi ,nel tentativo palese di rendere il popolo autoctono una minoranza sulla propria stessa terra. Il governo provò anche ad offrire posti di lavoro in altre isole dell’arcipelago al fine di disperdere il più possibile la popolazione timorese ma, quando ciò non risultò sufficiente, ricorse senza remore alla deportazione di massa. Il conteggio delle vittime risulta difficoltoso a causa del serrato blocco sull’informazione imposto dal regime di Giakarta. Nel 1975 si parlava del 10% della popolazione uccisa, nel 1979 del 15% mentre nel 1988 la cifra si attestava a circa il 30%. Il Dipartimento di Stato stima le perdite in numero compreso tra 100.000 e 200.000 morti di fame o a causa degli effetti degli agenti chimici e defolianti. I dati ci confermano che gli indonesiani hanno attuato uno dei genocidi peggiori della storia.

 

Genocidio bengalese.

A inizio anni ’70 il potere in Pakistan era detenuto dall’etnia punjabi e dai mohajir. Con sorpresa di tutti però nelle elezioni del 1970 vinse la Lega Awani, ovvero il partito nazionale bangalese (il Pakistan orientale). Allora il 25 marzo 1971 le forze militari pakistane attaccarono il Bengala allo scopo di sterminare la nuova classe dirigente uccidendo politici, intellettuali, studenti e uomini d’affari. Fu un massacro. Alcuni storici parlano di 3.000.000 di persone uccise, di 400.000 donne torturate e violentate, 10.000.000 di profughi. Il tutto in un brevissimo arco di tempo: si calcolano circa 10.000 persone uccise al giorno.

Genocidio nigeriano

Dall’indipendenza della Nigeria nel 1960 i tre gruppi etnici, Hausa, Yoruba e Igbo, hanno sempre combattuto per il controllo del Paese. Dopo l’assassinio del presidente igbo Johnson Aguiyi-Ironsi da parte del generale hausa Yakubu Gowon, praticamente un contro-colpo di stato, gli abitanti del sud-est del Paese furono esclusi dal sistema di potere. Nel 1967 il governatore militare di quella zona dichiarò la secessione? in Repubblica del Biafra. Iniziò così una guerra civile molto aspra. Non riuscendo ad avere la meglio, i nigeriani iniziarono un durissimo assedio al Biafra con un blocco navale, terrestre e aereo e nel frattempo portando avanti incursioni nelle fattorie al fine di prendere il Paese “per fame”. Sono circa tre i milioni di persone morte durante il conflitto per fame o malattie.

Genocidio del popolo cambogiano

Pol Pot nel 1975 conquista Phnom Phen, abbatte il regime di Long Lot e si mette in testa di creare l’uomo nuovo. Per raggiungere lo scopo, evacua tutte le città cambogiane, raduna tutta la popolazione, perdendo centinaia di migliaia di persone per la strada, in campi di rieducazione. All’interno di questi campi li costringe a lavorare senza neanche poter manifestare affetto per i familiari, perché l’affetto veniva considerato una degenerazione borghese. Si è trattato di un omicidio pianificato di una nazione. Se era per Pol Pot potevano rimanere su 6 milioni, un milione di uomini nuovi cambogiani. Nel ‘79 sono arrivati i vietnamiti per mettere fine a questo episodio agghiacciante della guerra fredda in Asia.In poco più di 3 anni, dal 1975 il regime Khmer Rouge ( sarebbe opportuno chiamarlo Khmer Noir) provocò la morte di 2,5 milioni di persone tra esecuzioni politiche, lavori forzati ed evacuazioni dalle città attraverso la giungla.

 

Genocidio dei popolo del Ruwanda.

Nel 1994 si consumò quello che sarà il più grande massacro dalla fine della seconda guerra mondiale sotto gli occhi delle potenze occidentali che non intervengono assolutamente se non per portare via gli occidentali presenti nel Ruanda al momento dell’eccidio. Questo genocidio che si attuò fra l’aprile e il luglio del 1994, è stato il palese risultato delle politiche coloniali e post coloniali, quanto meno irresponsabili e sconsiderate, che si sono intrecciate con il retaggio storico africano. Quello del Ruanda è un genocidio diverso che vede il massacro nell’arco di poco tempo, soli cento giorni, di un numero spropositato di persone, i Tutsi. Vengono massacrate sistematicamente a colpi di armi da fuoco ma soprattutto con machete e bastoni chiodati non meno di 800 mila vittime, uomini ,donne e bambini.

 Genocidio in Darfur.

Il Darfur è una regione situata all’ovest del Sudan, nel deserto del Sahara. È in maggioranza costituita da popolazioni musulmane, come nel resto del nord della nazione, salvo alcune etnie che abitano il sud della regione che sono animiste. Il territorio è suddiviso in tre province. Dal 2003 il Darfur è teatro di un feroce conflitto che vede la lotta tra la maggioranza nera e la minoranza araba (però maggioranza nel Sudan). Iniziato nel febbraio del 2003, vede contrapposti i Janjaweed, un gruppo di miliziani reclutati fra i membri delle locali tribù e la popolazione non Baggara della regione. Il governo sudanese, pur negando pubblicamente di supportare i Janjaweed, ha fornito loro armi e assistenza e ha partecipato ad attacchi congiunti rivolti sistematicamente contro i gruppi etnici Fur, Zaghawa e Masalit. Le stime sul numero di vittime del conflitto variano a seconda delle fontida 50.000 (Organizzazione Mondiale della Sanità, settembre 2004) a 450.000 (secondo Eric Reeves, 28 aprile 2006). La maggior parte delle ONG reputa credibile la cifra di 400.000 morti fornita dalla Coalition for International Justice. I mass media hanno utilizzato, per definire il conflitto, i termini di “pulizia etnica” e di “genocidio”.

 

 Genocidio dei popoli dell’America Latina.

Dalla rivoluzione messicana ai “desaparecidos” delle dittature militari degli ultimi decenni del XX secolo, sono oltre un milione le vittime della violenza di stato dei regimi dittatoriali sudamericani.

Come abbiamo scritto, l’elenco dei genocidi non è completo: basti pensare all’assassinio di milioni di indiani, mussulmani e hindu nel momento della secessione dell’India (1947-1948) e alle pulizie etniche nella ex-Jugoslavia.

É giusto che accanto alle vittime della follia nazista, nel Giorno della Memoria si ricordino anche le vittime di tutti i genocidi che invece sono stati dimenticati o non ricordati come dovrebbero. Un concetto è espresso molto bene dal filosofo e saggista spagnolo, Georges Santayana: “Chi non sa ricordare il passato è condannato a ripeterlo”.

Una frase simile è scritta anche in un muro di Auschwitz.

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L’altra Armenia: tecnologia all’ombra dell’Ararat (Osservatorio Balcani e Caucaso 27.01.16)

Il settore IT rappresenta il 5% del PIL armeno, con un tasso di crescita del 20% annuo. Le ragioni del successo della Silicon Valley caucasica

Prosegue in Armenia l’ascesa del settore della tecnologia dell’informazione. Un successo che dà fiducia alla giovane repubblica caucasica sul cui futuro pesano molte incognite, non ultimo il conflitto per il Nagorno-Karabakh, che ha conosciuto nell’ultimo anno una preoccupante escalation. Con una crescita media annuale di oltre il 20% nell’ultimo decennio, il settore IT (acronimo inglese di information technology) si è affermato come un simbolo per molti armeni: l’orgoglio di una nazione antica che, nonostante la povertà e le difficoltà del presente, riesce a produrre innovazione a livello internazionale. La riscossa di un popolo che ha fatto nel passato – così simile, in questo, al destino degli ebrei – dell’intraprendenza economica e della sua cultura cosmopolita due pilastri della propria identità.

Le cifre spiegano solo in parte il significato di questo successo. Fonti governative parlano di 15.000 impiegati nel settore, in larga parte sviluppatori di software e ingegneri, per un’incidenza totale del 5% circa del PIL, con un fatturato di 550 milioni di dollari circa. Numeri importanti, per un paese di tre milioni di abitanti con oltre il 40% della popolazione che vive sotto la soglia di povertà, con meno di due dollari al giorno. Non è mancato chi ha parlato – in patria e non – di una “Silicon Valley” caucasica: software, applicazioni e videogame, tablet e tecnologia militare (droni inclusi) tutti made in Armenia, questi gli ingredienti del successo.

Un settore centrale per l’economia armena

Nel caso del settore IT, si può dire che gli armeni abbiano fatto – dato l’isolamento politico e geografico – di necessità virtù. Questo paese, che soffre dagli anni novanta il blocco dei confini da parte di Azerbaijan e Turchia, ha due soli sbocchi agibili via terra, con la Georgia e l’Iran. Comprensibili le forti difficoltà nello sviluppo commerciale. Se a ciò si aggiungono un notevole ritardo nello sviluppo delle infrastrutture, dalle strade (spesso in pessimo stato) alle ferrovie, e l’ingombrante presenza di una classe di oligarchi che strangola l’economia locale, si avrà un quadro più completo della situazione.

Per capire quanto incida questa felice eccezione, si devono inoltre tenere presenti i dati dell’economia armena, non proprio incoraggianti. Le previsioni della Banca Mondiale per il 2016 sono state di recente riaggiustate al ribasso: il 2.2% di crescita del PIL, lo 0,5% in meno rispetto a quanto annunciato il giugno scorso. Preoccupa, soprattutto, il crollo delle rimesse e dei trasferimenti dall’estero, che rappresentano per un numero altissimo di armeni la principale fonte di sussistenza, dovuto in larga parte alla crisi dell’economia russa e del rublo. Vi è poi la piaga della disoccupazione, che produce a sua volta una costante migrazione, soprattutto per quel che riguarda i giovani e i lavoratori più qualificati.

Un'aula del TUMO, Yerevan (Foto Simone Zoppellaro)

Un’aula del TUMO, Yerevan (Foto Simone Zoppellaro)

Si comprenderà bene, allora, la centralità di questo settore. Una boccata di ossigeno vitale che è riuscita a svilupparsi senza essere soffocata dalla corruzione imperante, e soprattutto senza essere fagocitata dalla classe degli oligarchi. E proprio tanti impiegati di questo settore si sono resi protagonisti negli ultimi anni dei vari movimenti di protesta che hanno scosso il paese. Non solo Electric Yerevan – di gran lunga il più conosciuto – ma anche quelli che l’hanno preceduto e seguito, in un succedersi pressoché ininterrotto. Nella contestazione contro la riforma pensionistica, all’inizio del 2014, i media locali hanno riportato come addirittura l’80% degli addetti di questo settore siano scesi in strada nelle proteste. E non solo questo: il loro sostegno è stato anche determinante per sviluppare quello che potremmo definire come un marketing della contestazione estremamente efficace: video molto curati e accattivanti, siti, pagine e gruppi sui social network (spesso anche in inglese) e persino adesivi e magliette. Tanto è pesata l’inesperienza organizzativa nelle manifestazioni di strada, quanto invece ha sorpreso la creatività “promozionale”, per così dire, dimostrata da questi movimenti di rottura a livello di comunicazione. E tutto ciò resta inspiegabile senza il supporto degli addetti del settore IT, una classe produttiva che ha un’inevitabile diffidenza nei confronti del malaffare e del parassitismo imperanti a livello politico e affaristico.

Sempre per quanto riguarda il legame fra tecnologia e politica, il successo dell’IT in Armenia è da mettere in relazione anche all’origine di una serie di gruppi di hacker armeni, particolarmente attivi. Sigle come la Monte Melkonian Cyber Army – che porta il nome di un rivoluzionario armeno, eroe della guerra in Nagorno-Karabakh – si sono resi responsabili di numerosi attacchi informatici, in particolare contro siti governativi della Turchia e dell’Azerbaijan. Degli ultimi giorni è la notizia, ad esempio, di un attacco operato da un altro gruppo a 26 siti internet in Azerbaijan, un atto simbolico che – nell’intenzione di chi l’ha compito – avrebbe avuto luogo per ricordare i 26 anni dei pogrom anti-armeni avvenuti a Baku nel gennaio 1990.

Un successo che viene da lontano

Ma qual è l’origine di quest’altra Armenia, innovativa e digitale? Si tratta di un successo che viene da lontano, e che affonda le radici in epoca sovietica, quando l’allora Repubblica Socialista di Armenia si distingueva come uno dei luoghi più all’avanguardia da un punto di vista industriale e tecnologico, con applicazioni che andavano dagli armamenti alle celebri imprese nello spazio. Proprio qui fu fondato, nel 1956, un centro di ricerca per lo sviluppo di macchine automatizzate e computer a fini civili e militari. In seguito al crollo dell’URSS, ci si trovò ad avere così un personale specializzato estremamente a buon mercato, dato il tracollo economico di quel periodo, che ha attirato da subito interessi e investimenti dall’estero, anche con un contributo importante della diaspora armena.

Un problema che ci si è trovati a fronteggiare, data la crescente richiesta di personale specializzato in questo settore, è quello di fornire percorsi educativi che siano in grado di preparare al meglio le nuove generazioni. Nonostante ci sia ancora un vuoto da colmare, non sono mancate le iniziative di successo, e non soltanto nella capitale. La più famosa è senza dubbio il TUMO Center for Creative Technologies, un centro all’avanguardia che si occupa di formare ragazzi fra i 12 e i 18 per questo settore. Inaugurato nel 2011 a Yerevan, ha aperto di recente succursali a Gyumri e a Stepanakert. Una grande speranza, per il futuro dell’Armenia.

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NAGORNO-KARABAKH: Ankara pronta a sfidare la Russia nel Caucaso (Eastjournal 26.01.16)

La Turchia è pronta a svolgere un ruolo di primo piano nel difficile processo di risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh, piccola regione montuosa del Caucaso meridionale contesa da oltre vent’anni da Armenia e Azerbaigian. Questo è quanto emerso dalle recenti affermazioni fatte dal ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu, che interpellato riguardo alla problematica disputa territoriale che divide armeni e azeri ha dichiarato come la risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh sia un problema di primaria importanza per la Turchia, aggiungendo che per l’Armenia sarà impossibile normalizzare i propri rapporti con la Ankara finché l’esercito di Yerevan non avrà abbandonato i territori occupati dell’Azerbaigian.

Il conflitto per il possesso del Nagorno-Karabakh è scoppiato nel 1988, con il verificarsi dei primi scontri violenti tra armeni e azeri, e si è trasformato in vera e propria guerra nel 1992, in seguito alla decisione del Parlamento locale di proclamare la propria indipendenza dall’Azerbaigian. La guerra è durata circa due anni, e ha lasciato sul campo circa 30.000 vittime. Nel 1994 i due paesi hanno firmato l’Accordo di Bishkek, che ha congelato di fatto il conflitto, anche se da allora lungo il confine tra Armenia e Azerbaigian si sono registrati continui scontri armati, soprattutto negli ultimi due anni.

Il conflitto d’interessi con la Russia

Le dichiarazioni di Çavuşoğlu riguardo alla questione del Karabakh non sembrano però essere state un avvertimento rivolto alla sola Armenia. Il messaggio lanciato dalla Turchia, pronta a giocare un ruolo di maggior rilievo nella risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh, è in parte diretto anche alla Russia, paese che ha grandi interessi nella regione, e che attualmente è sempre più in rotta con Ankara, soprattutto in seguito all’abbattimento del Sukhoi-24 russo colpevole di aver violato lo spazio aereo turco durante un raid nei cieli della Siria nord-occidentale; episodio al quale Mosca ha prontamente risposto con pesanti sanzioni.

La Russia ha sempre considerato il Caucaso come il proprio near abroad, ovvero una sfera d’influenza esclusiva, e per questo non ha mai gradito l’idea che altre potenze potessero insidiare la sua egemonia nella regione. Un esempio può essere dato dalla Seconda guerra in Ossezia del Sud del 2008, nel corso della quale i russi non si sono limitati a liberare la regione di Tskhinvali dalle milizie georgiane, ma si sono spinti fino alle porte di Tbilisi, lanciando un chiaro messaggio alla NATO e soprattutto agli Stati Uniti, pronti a fare entrare la Georgia nell’Alleanza atlantica.

Proprio per l’importanza strategica che viene attribuita alla regione, Mosca vedrebbe un eventuale tentativo turco di svolgere un ruolo di primo piano nella risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh come un’intromissione nei propri affari privati; un’intollerabile violazione del proprio spazio vitale. A partire dallo scoppio della guerra nel 1992 infatti, Mosca ha sempre tenuto in mano le redini del conflitto, armando e finanziando prima l’una e poi l’altra parte, fino ad arrivare al pilotato Accordo di Bishkek, che ha congelato il conflitto senza però risolvere la situazione di forte instabilità che si era creata nella regione.

Il doppio asse russo-armeno e turco-azero

Data la ormai sperimentata inefficacia del Gruppo di Minsk, creato dall’OSCE nel 1992 per cercare di raggiungere una soluzione pacifica al conflitto del Nagorno-Karabakh attraverso l’aiuto della diplomazia internazionale, la Russia ha così deciso di prendere in mano personalmente la situazione, determinata a salvaguardare lo status quo della regione. Grazie alla forte autorità che Mosca esercita nel Caucaso, e soprattutto in mancanza di concrete alternative, Armenia e Azerbaigian hanno finito così per legittimare la Russia nel ruolo di principale mediatrice del conflitto, attribuendole in questo modo un ruolo di fondamentale importanza. Se la Turchia provasse però a contrapporsi in maniera decisa a Mosca nel ruolo di mediatrice del processo di pacificazione del Karabakh, i fragili equilibri attualmente esistenti verrebbero inesorabilmente spostati, portando alla creazione di un doppio asse russo-armeno e turco-azero.

Per l’Armenia la Russia rappresenta attualmente l’alleato più affidabile a livello regionale. Chiusa a est e ad ovest da due paesi ostili, negli ultimi anni Yerevan ha cercato di legarsi in modo sempre più stretto a Mosca, per ottenere in cambio la necessaria protezione del Cremlino ed evitare il totale isolamento politico. Nell’ottobre 2014 l’Armenia ha firmato l’accordo di adesione all’Unione Economica Euroasiatica, mentre lo scorso novembre ha firmato con Mosca un accordo per la difesa aerea del Caucaso. Negli ultimi mesi Yerevan ha consentito inoltre al Cremlino di aumentare la propria presenza militare presso la base n° 102 di Gyumri, diventata tristemente famosa un anno fa per essere stata il teatro del massacro di un’intera famiglia armena da parte di un soldato russo.

Data la grande importanza ricoperta dalla Russia nel processo di risoluzione del conflitto del Karabakh, la sempre più stretta alleanza con Yerevan ha iniziato a dare notevole fastidio all’Azerbaigian, che a sua volta vorrebbe che anche la Turchia si ponesse a capo dei negoziati. Secondo Baku infatti il Gruppo di Minsk, presieduto da Russia, Francia e Stati Uniti, per come è composto attualmente sarebbe troppo sbilanciato su posizioni filo-armene; per questo gli azeri hanno chiesto all’OSCE di sostituire il rappresentante francese con uno turco. Se la Turchia dovesse cercare di prendere in mano la situazione avrebbe quindi il pieno appoggio dell’Azerbaigian, che in questo modo si ritroverebbe dalla propria parte una potenza regionale in grado di fare da parziale contrappeso alla Russia, e allo stesso tempo mettere maggiore pressione all’Armenia.

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