Nagorno Karabakh: conflitto congelato o vaso di Pandora? (Analisidifesa.it 02.03.16)

Dall’estate del 2014 a questa parte, un’escalation senza precedenti ha investito il piccolo stato conteso del Nagorno Karabakh, repubblica del Caucaso meridionale che si è proclamata indipendente dall’Azerbaijan all’inizio degli anni Novanta.
Il riaccendersi della conflittualità nell’ultimo anno e mezzo ha rischiato di far precipitare Armenia e Azerbaijan in una nuova guerra, mettendo in serio pericolo il già precario equilibrio del cessate il fuoco siglato nel maggio 1994.

Ricordiamo che tra il 1992 e il 1994 Armenia e Azerbaijan combatterono una guerra in cui rimasero uccise circa 30mila persone e che fece inoltre milioni di profughi. La guerra terminò con una tregua piuttosto precaria, che lasciò ampio spazio di influenza alla Russia, allora formalmente (oggi informalmente) alleata dell’Armenia.

Un conflitto congelato

Tuttavia, il conflitto, che aveva visto di fatto prevalere le forze armene, non può essere ritenuto concluso con il Protocollo di Bishek.

Il riesplodere delle ostilità negli ultimi due anni rende  difficile la definizione di questo conflitto come «congelato». Come nota Anna Hess Sargysan in un recente articolo accademico su Politorbis, appare più corretto affermare che non è tanto il conflitto ad essere congelato, quanto piuttosto il processo di negoziato diplomatico cosiddetto “track 1”. Se il conflitto è stato parzialmente congelato nel 1994, esso si è progressivamente “scongelato” in concomitanza della recente guerra dell’Ucraina orientale.

Durante gli ultimi vent’anni, gli sforzi per mediare il conflitto del Nagorno Karabakh sono stati guidati dal Gruppo di Minsk dell’OSCE, tuttavia con scarsissimi risultati. Le due parti hanno continuato e continuano a implementare le loro capacità militari.

Le tabelle di militarizzazione dell’Azerbaijan mostrano, dal 2012 a questa parte, un aumento del 493% le spese militari, a fronte del 115% dell’Armenia, il che equivale ad una corsa agli armamenti asimmetrica che mette a repentaglio l’intera sicurezza regionale.

Più che come un conflitto congelato, post-sovietico o irredentista, quello del Nagorno Karabakh appare oggi come una “enduring rivalry”, ossia come una rivalità intrattabile le cui origini sono da tracciare in un complesso intricato di rivalità intrastatali e fattori esterni.

La definizione appare credibile alla luce degli avvenimenti che si sono succeduti nel corso dell’ultimo anno e mezzo e in particolare alla luce delle recenti avvisaglie di mutamento negli equilibri regionali.  Gli scontri nel Nagorno Karabakh sono ripresi in un’escalation senza precedenti nell’agosto 2014 sulla linea del cessate il fuoco, con attività belliche che vanno oltre le consuete azioni di cecchinaggio e che lasciano presagire a molti osservatori l’inizio di un’ attività bellica su più larga scala.

Verso la ripresa delle otilità?

Un’ulteriore crisi si è aggiunta a novembre dello stesso anno, quando un elicottero armeno è stato abbattuto sul confine. Dopo una breve pausa, l’uccisione di tre donne nella provincia del Tavush, ha generato un’ulteriore escalation tra l’estate e l’autunno 2015.

Non a torto, l’anno scorso è stato considerato l’anno peggiore in assoluto dalla firma del cessate il fuoco.
Il perdurare e l’intensità delle ostilità non sembrano d’altronde dar segnali positivi in quanto ad una soluzione della questione nel breve periodo. Gli ultimi scontri riguardano ormai sempre più spesso la frontiera fra Azerbaijan e Armenia, e non più solo quella con il Karabakh, come nel passato, raggiungendo il confine con l’exclave azerbaijana del Nakhichevan, incuneata fra Armenia, Turchia e Iran. Segno del fatto che il conflitto sta entrando in una nuova fase e si appresta ad uscire dal suo perimetro originario.

Gli ultimi scontri con vittime civili si sono avuti a dicembre 2015 ed ancora alla metà di febbraio scorso, complici anche ai fucili di precisione di produzione azera Istiglal IST 14.5, che ha una portata letale fra 2500 e 3000 metri e ai razzi TR-107 di fabbricazione turca.

Alla ripresa degli scontri nel 2014, diversi analisti avevano criticato molto le mancate reazioni degli Stati Uniti e dell’Unione Europea rispetto al presunto intervento russo in Nagorno-Karabakh e la paralisi dell’Occidente di fronte a questo ennesimo conflitto dello spazio post sovietico: lo “staterello” con capitale Stepanakert, non riconosciuto peraltro da alcuno stato della comunità internazionale, rischierebbe di diventare il nuovo fronte del tentativo russo di ricostruire il suo impero dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

Se la NATO avvertiva nel 2014 che la Moldova potrebbe essere il prossimo obiettivo di Mosca ed esperti occidentali temevano che la prossima “Crimea” avrebbe potuto essere la regione separatista della Transnistria, le vicende del Nagorno Karabakh – per quanto circoscritte e legate dal file rouge della “longa manus russa” in maniera molto più indiretta – sono passate quasi inosservate.

Sebbene alcuni analisti abbiano paragonato le intromissioni costanti del governo russo all’azione russa in Crimea e nei territori orientali dell’Ucraina, poco spazio è stato dato a questo conflitto nella stampa internazionale. In realtà esso appare oggi un nodo indistricabile a cause dei molteplici interessi delle parti coinvolte in maniera più o meno diretta.

Gli scontri armati a bassa intensità intorno al piccolo territorio sollevano questioni geopolitiche di portata globale di estrema attualità, come il ruolo e le intenzioni della Russia nel Caucaso, e più in generale sulla scena internazionale, la rilevanza delle risorse energetiche nell’area, l’inefficacia o il disinteresse delle potenze mondiali, in primis Stati Uniti e UE, nonché gli interessi della Turchia.

Nonostante tutti gli attori coinvolti siano ufficialmente interessati ad una risoluzione pacifica del conflitto, finora non si è riusciti, né a livello bilaterale né multilaterale, a raggiungere l’impegno politico necessario a mitigare il conflitto.
Secondo il Prof. Celikpala, Professore in Relazioni Internazionali all’Università Kadir Has di Istanbul, intervenuto in un recente convegno sul conflitto del Nagorno Karabakh presso l’Università di Berna, ciò è in parte dovuto alle sfide in cui si trova inserita la regione: ambiente ostile, progetti regionali divergenti, attori regionali con aspettative e obiettivi politici opposti.

Gli interessi in gioco

Vediamo quindi quali siano questi interessi e in che modo la conflittualità nella regione sia suscettibile di minacciare la sicurezza dell’intera area del Caucaso del sud.    Il conflitto – congelato o meno – del Nagorno Karabakh costituisce una situazione particolarmente pericolosa che potrebbe evolvere in una guerra vera e propria, attirando allora (forse) sì l’interesse della comunità internazionale.

L’Azerbaigian da parte sua considera l’indipendenza de facto della repubblica separatista alla stregua di una vera e propria occupazione e non nasconde, con preoccupante ed esponenziale retorica bellicista, la volontà di porre apertamente fine al conflitto, ovviamente con metodi tutt’altro che negoziali.

L’Azerbaijan definisce il conflitto come irredentista. Dalla prospettiva armena, l’indipendenza del Nagorno Karabakh per volontà popolare ha semplicemente rettificato l’ingiustizia delle decisioni prese dal totalitarismo sovietico degli anni ’20.

La sicurezza nella regione del Caucaso meridionale ha evidentemente una portata particolare in primis per la Russia, la quale, dopo aver perso la sua influenza in Georgia, e dopo l’azione in Crimea, è fortemente interessata a mantenere la presenza sia in Armenia che in Azerbaijan. Ricordiamo che la Russia, insieme alla Francia e agli Stati Uniti, è uno dei tre mediatori del Gruppo di Minsk, del quale Mosca è uno dei vicepresidenti.

Se la politica estera russa verso la regione caucasica è divenuta sempre più marcatamente revisionista dopo il 2003, nel momento in cui l’Occidente inviò chiari segnali del fatto che lo spazio di influenza russa ufficiosamente riconosciuto era diventato ormai spazio di interesse competitivo, e soprattutto dopo la guerra con la Georgia per il controllo dell’Ossezia del sud nel 2008, riguardo alla questione del Nagorno Karabakh essa si qualifica in maniera nettamente distinta, per quanto  legata dal comune interesse sottostante di preservare una zona di influenza nei territori caucasici.

Nel Nagorno Karabakh, la Russia non si oppone all’Occidente come nel caso di Ossezia e Abkhazia del sud. Nei documenti ufficiali essa riconosce che il Nagorno Karabakh è parte dell’Azerbaijan. Esso non costituisce quindi un’arena di competizione tra Occidente e Russia, dal punto di vista russo. Ciò significa che la soluzione prediletta dalla Russia per la regione è quella dello status quo, in parte anche per non generare problemi nei suoi progetti di integrazione macroregionale, in particolare con Kazakhistan e Tagikistan.

La Russia non è interessata ad avere problemi con gli “alleati” e per questo motivo – per il momento – preferisce tenere una posizione di relativo distacco nella questione.

Nella consapevolezza dell’impossibilità di calmare gli spiriti azeri e armeni, e nell’interesse primario di favorire la balance of power, la Russia riconosce l’integrità territoriale dell’Azerbaijan.

Il non riconoscimento del Nagorno Karabakh da parte della Russia deriva dal timore, o semplicemente dal non interesse, a trasformare l’Azerbaijan in una seconda Georgia. Uno dei motivi è che l’Azerbaijan è secondo paese dopo la Georgia che nello spazio post-sovietico si trova a far fronte a molteplici sfide islamiche, specialmente nel sud del paese con gruppi islamici legati sia all’Iran che al Daghestan.

Se per gli Stati Uniti lo status quo non è generalmente un’opzione di politica estera tollerabile, essi non hanno dimostrato di avere alternative credibili in merito alla risoluzione del conflitto. Il silenzio udibile dell’Unione europea in merito alla vicenda appare ancora più rumoroso: nel suo insieme, essa non ha dimostrato alcun reale interesse a essere coinvolta nella risoluzione della questione del Nagorno Karabakh.

Il ruolo dei Ankara

Per la Turchia il conflitto del Nagorno Karabakh costituisce la seconda minaccia della regione dopo quella curda. Per questo motivo, il Nagorno Karabakh è sempre stato sull’agenda politica delle autorità di Ankara.

Nonostante ciò, la Turchia non ha mai mostrato la volontà di conquistare un ruolo chiave in quest’area di vulnerabilità strategica.

Tuttavia, diversi elementi fanno propendere per l’ipotesi di un ruolo sempre più attivo che essa si starebbe ritagliando unilateralmente. Nel corso degli ultimi due anni, la Turchia ha cercato di assumere un ruolo da mediatrice nel suo “vicinato” attraverso l’adozione di diversi approcci, anche di soft diplomacy, tra cui l’impegno in crisi emergenti prima della loro evoluzione in conflitti e una diplomazia proattiva preventiva basata sul principio della “sicurezza per tutti”.

Attraverso la cooperazione politica e la cooperazione economica allo sviluppo, essa ha inteso promuovere la creazione di una vasta area di sicurezza ai suoi confini basata sullo slogan “zero problems in the region”.

Recentemente, il ministro degli Esteri ha annunciato che la Turchia sarebbe pronta a svolgere un ruolo di primo piano nel processo di risoluzione del conflitto, aggiungendo che Ankara non intende normalizzare i rapporti con Yerevan finché l’esercito armeno non avrà abbandonato i territori occupati dell’Azerbaigian.

Secondo la posizione ufficiale, la Turchia riconosce il Nagorno Karabakh come una regione della Repubblica dell’Azerbaijan che è stata sotto occupazione dell’Armenia per più di due decenni. Nei recenti documenti ufficiali si sottolineano inoltre – forse anche come monito verso la mai risolta minaccia curda  – i principi cardine del diritto internazionale pubblico, quali l’integrità territoriale, il principio della sovranità dello stato e quello del divieto di uso della forza.

Fin qui nessuna sorpresa. Tuttavia, la Turchia propone ufficialmente un proprio ruolo specifico nella gestione della crisi, quale promotrice di “creative initiatives”. Ora, il recente messaggio del ministro degli esteri turco si pone in questa linea. Come osserva giustamente Emanuele Cassano, il monito è diretto anche in parte alla Russia, paese che è ovviamente il più coinvolto nelle dinamiche conflittuali del Caucaso del sud.

Ricordiamo che le relazioni russo-turche hanno recentemente conosciuto uno dei suoi minimi storici degli ultimi anni a seguito dell’abbattimento del Sukhoi -24 russo accusato di aver violato lo spazio aereo turco durante un raid nei cieli della Siria nord-occidentale. E’ quindi la luce dei toni da guerra fredda intercorsi tra Mosca e Ankara che il conflitto del Nagorno Karabakh assume una veste  particolare.

Se la Russia ha sempre, per ovvie ragioni, considerato il Caucaso come propria sfera di influenza esclusiva, per quanto riguarda la questione specifica del Nagorno Karabakh non sembrano esserci apparenti motivi d’attrito tra Russia e Turchia.

Nessuna delle due riconosce il Nagorno Karabakh come stato indipendente, e sia i documenti ufficiali russi che turchi parlano del Nagorno Karabakh come di una regione della Repubblica dell’Azerbaijan. Inoltre, è ipotizzabile che entrambe le parti non ambiscano ad essere né attori né spettatori di ulteriori scontri armati nella regione.

Status quo o nuova guerra?

Ma nonostante questo interesse di fondo non da poco, una lettura più mirata suggerisce di tenere in considerazione ulteriori elementi. A causa dell’importanza strategica che viene attribuita alla regione da parte di Mosca, un’intromissione della Turchia, soprattutto dopo il gelo nei rapporti alla fine dell’anno scorso, verrebbe percepita come un’indebita manovra atta a scardinare gli equilibri impliciti creatisi nella regione.

Inoltre, da entrambe le parti la normalizzazione completa del conflitto viene probabilmente ritenuta un obiettivo troppo ambizioso e forse non politicamente degno di un impegno politico troppo gravoso. E se l’interesse comune è in qualche modo il mantenimento dello status quo per entrambe le parti, questo acquista un significato diverso per ciascuna.

Se per la Russia, come abbiamo visto, status quo ha il significato di tenere chiuso il vaso di Pandora dello spazio post sovietico per non generare problemi con gli alleati, per la Turchia esso vuol dire stabilizzare i problemi confinari con l’Armenia, e più in generale mettere in sicurezza le proprie frontiere.

Un altro elemento da tenere in considerazione è il diverso grado di flessibilità di Russia e Turchia nei confronti delle due parti in causa, ossia Armenia e Azerbaijan. Il limite principale del ruolo della Turchia nella risoluzione – o meglio nella gestione – del conflitto risiede nei suoi rapporti diplomatici con l’Armenia, mai risolti.

Ufficialmente, si afferma che non verrà firmato alcun trattato di pace con l’Armenia finchè quest’ultima non firmerà un accordo con l’Azerbaijan riguardo al Nagorno Karabakh.

Il Nagorno Karabakh sembra quindi essere una sorta di ostaggio della politica turca. Per questo motivo non è semplice interpretare il ruolo di Ankara come potenzialmente decisivo nella questione del Caucaso del sud.

La posizione russa è invece più composita. Nonostante essa riconosca il Nagorno Karabakh come parte dell’Azerbaijan, essa ha sostenuto le istanze armene, le quali proprio grazie al pesante apporto di Mosca hanno conosciuto il loro parziale successo nel 1994. Mosca è sempre stata il burattinaio dietro le quinte del conflitto, tanto che anche l’attacco armeno dell’estate del 2014, il quale ha riacceso le ostilità, è stato compiuto molto probabilmente in accordo con la Russia, come una specie di avvertimento ai leader dell’Azerbaijan, come osservano alcuni analisti.

E’ importante anche sottolineare che Mosca ha pur sempre fatto il bello ed il cattivo gioco, armando e finanziando- durante gli anni ’90 – prima l’una e poi l’altra parte.

Il suo margine di flessibilità nei confronti delle due parti sarebbe quindi diverso, e cioè maggiore rispetto a quello della Turchia.

Se il motto “one nation, two states” è stato utilizzato dalle autorità turche per riferirsi all’Azerbaijan, ricordando le parole di Atatürk “la felicità dell’Azerbaijan è la nostra felicità”, gli stessi toni enfatici sono vengono utilizzati dalla Russia per supportare l’”alleato” cristiano (l’Armenia). Ma anche la Turchia resta divisa tra la sua fedeltà incondizionata verso l’Azerbaijan e i timidi tentativi di riavvicinamento con l’Armenia.
In sostanza, non siamo (ancora) di fronte alla presenza di un asse russo – armeno e di uno turco –azero. Ciò di per sé costituisce un fatto positivo per la questione del Nagorno Karabakh, nel senso che contribuisce al congelamento del conflitto, ma sicuramente non alla sua risoluzione.

Sta di fatto la situazione potrebbe ben presto polarizzarsi. L’Armenia è pesantemente condizionata dalla Russia: l’esercito russo controlla in pratica le difese aeree armene, oltre che alcune delle infrastrutture chiave del paese.

Ciò, assieme al crescente attivismo turco nel Caucaso del sud – ovviamente a difesa dell’Azerbaijan – che indispettisce Mosca, potrebbe far evolvere gli equilibri verso lo scenario del duplice asse.  Due giorni dopo l’abbattimento del sukhoi russo, il primo ministro turco ha dichiarato che “la Turchia farà tutto il possibile per liberare i territori dell’Azerbaijan”. Allo stesso tempo, in Russia veniva proposta una multa salata ai cittadini che avessero negato il genocidio degli armeni del 1915.

L’Azerbaijan è uno stato autoritario post-sovietico che potrebbe essere molto più vicino a Mosca, ma l’abbattimento dell’aereo russo da parte di Ankara sembra aver allontanato questa possibilità. Anche il fallimento degli sforzi della politica energetica dell’Unione europea per promuovere una cooperazione multilaterale tra i due blocchi rivali Azerbaijan, Georgia, Turchia e Russia, Armenia, Iran fa pensare ad una possibile crescente polarizzazione.

Se la Russia è intenzionata a mantenere lo status quo della regione, anche a seguito dei fallimenti del gruppo di Minsk, e quindi a porsi come tutrice e mediatrice degli equilibri caucasici tout court, la Turchia è interessata primariamente a estendere le proprie relazioni in una triangolatura che racchiude Azerbaijan, Georgia e Iran.

Se, come nota Fazila Mat, la recente revoca delle sanzioni all’Iran da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea segnala l’affermarsi di nuovi equilibri nella regione mediorientale da un punto di vista sia commerciale che politico, la Turchia anche avvantaggiandosi di nuove relazioni economiche con l’Iran potrebbe porsi come chiave di volta di questo equilibrio, dopo che la costruzione della mezzaluna sciita patrocinata dalla Russia di Putin ha fatto perdere terreno al gruppo sunnita.

Quest’influenza turca potrebbe estendersi alla scena caucasica: la triangolatura con Azerbaijan, Georgia e Iran non si esclude possa diventare una quadratura, con l’inclusione dell’Armenia: l’interesse sottostante qui è ancora una volta quello di legare l’intera regione all’economia occidentale.

Come sottolinea Sergey Markedonov, professore presso la Russian State University for the Humanities di Mosca (nella foto a sinistra), in un recente intervento sul ruolo della Russia nei conflitti post-sovietici, paradossalmente la militarizzazione del Caucaso del Sud potrebbe avere garantito una certa stabilizzazione della situazione in cui, in uno scenario da guerra fredda, ciascuna delle parti (e chi dietro di loro) avrebbe avuto paura di attaccare l’altra (in questo caso ovviamente con armi convenzionali e non nucleari).

Ciò avrebbe permesso ovviamente non la normalizzazione del conflitto ma la riduzione di questo a scontri sporadici di bassa intensità. Se quello del Nagorno Karabakh rimane fondamentalmente un conflitto etnopolitico in quella che è ormai la zona più militarizzata d’Europa, molto degli equilibri del Caucaso dipende ora dagli equilibri attorno all’Armenia, oltre che ovviamente da quelli tra Turchia e Russia.

Mentre dentro e fuori la Turchia si intensifica la campagna a favore del confine turco-armeno, le querelle diplomatiche che hanno avuto luogo tra i due paesi nel 2015 non lasciano ben sperare.

La decisione dell’Armenia del 2013 di essere integrata nelle iniziative euroasiatiche a guida russa piuttosto che in quelle europee, che può essere spiegata dall’esistenza di forti influenze e garanzie russe in Armenia per quanto riguarda la sicurezza, ha sicuramente contributo a rimettere l’asse della bilancia del conflitto del Nagorno Karabakh nelle mani della Russia. In queste circostanze l’Occidente è chiaramente ancora meno interessato a e meno capace di spingere l’Armenia verso una risoluzione con l’Azerbaijan, come nota Zaur Shiriyev.

Nonostante ciò le relazioni Armenia- Russia sono tutt’altro che appianate: la Russia ha rifiutato che l’Armenia entrasse nell’Unione commerciale eurasiatica con il territorio non riconosciuto del Nagorno Karabakh.

Dopo l’annessione illegale della Crimea da parte della Russia, è verosimile che il malcontento dell’Armenia sia cresciuto, oltre al fatto che il vice primo ministro russo Rogozin avrebbe ammesso ufficialmente nel luglio 2014 che la Russia stava intrattenendo negoziati con l’Azerbaijan per la vendita di armi. Forse anche questi sono i motivi che avrebbero spinto l’Armenia a riaccendere il conflitto.

Mentre la credibilità del ruolo della Russia come facilitatrice e mediatrice del conflitto è compromessa, e il ruolo di “creative initiator” della Turchia è quantomeno ambiguo, il conflitto del Nagorno Karabakh rimane una miccia capace di far esplodere l’intera regione in conflitti vecchi e nuovi.

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Eurovision 2016: svelata “LoveWave” la canzone di Iveta Mukuchyan per l’Armenia (Eurofetivalnews.com 02.03.16)

L’Armenia si è da poco aggiunta al novero delle nazioni che hanno svelato la loro canzone per l’Eurovision Song Contest 2016. Il brano si intitola LoveWave, presentato da Iveta Mukuchyan, classe ’86, nativa di Yerevan, la capitale del paese caucasico, ma cresciuta in Germania, ad Amburgo.

Iveta Mukuchyan

Ha vissuto in terra tedesca per più di dieci anni, tornandoci nel 2012 per la versione locale di The Voice, in cui ha curiosamente fatto parte del team di Xavier Naidoo, l’artista “rifiutato” dalla Germania stessa.

Iveta Mukuchyan, oltre che interprete, è anche coautrice delle parole del brano, che è di produzione interamente armena tranne che per il nome di Stephanie Crutchfield alla voce autori.

Potremo ascoltare LoveWave nel corso della prima semifinale, in cui l’Armenia è stata sorteggiata nella prima metà.

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L’Armenia scrive alla città: “Grazie per non dimenticare il genocidio” (Varesenews.it 02.03.16)

 La lettera porta in calce la firma dell’ambasciatore Sargis Ghazaryan ma il ringraziamento è in nome di tutto il popolo armeno. In occasione della “giornata dei giusti” in programma per il prossimo 6 marzo Busto Arsizio ha infatti deciso di ricordare la tragedia che tra il 1915 e il 1916 causò la morte di un milione e mezzo di persone.
Un evento che avrà il suo cuore nella proiezione del film “la masseria delle allodole” dei fratelli Taviani, in programma domenica 6 marzo alle 16 nella sala Tramogge dei Molini Marzoli.
Alla proiezione era stato invitato anche l’ambasciatore dell’Armenia in Italia ma che, non potendo partecipare, ha comunque deciso di ringraziare la città concedendo il proprio patrocinio e inviando una lettera che vi proponiamo integralmente.

L’Ambasciata della Repubblica d’Armenia in Italia è lieta di concedere il patrocinio all’evento dedicato alla memoria del Genocidio armeno in occasione della Giornata Europea dei Giusti il 6 marzo.

Mi fa piacere che l’approfondimento sul primo genocidio del XX secolo prenda spunto dalla proiezione del film dei fratelli Taviani “La masseria delle allodole”. La forza evocativa delle immagini può dove spesso falliscono più di mille parole.

A cent’anni dal Medz Yeghern (II Grande Male) abbiamo sempre e costantemente bisogno di evocare per non dimenticare, di parlare per non sottovalutare, di adoperarci affinché la memoria sia prescrittiva e vada, insomma, oltre il semplice ricordo ma sia impegno e monito per il futuro, affinchè simili crimini -non puniti e non riconosciuti- non abbiano a ripetersi.

Sono sicuro che il Consigliere Genoni, che qui ringrazio, e tutta l’amministrazione comunale di Busto Arsizio intendevano questo quando hanno sollecitato l’organizzazione di un momento dedicato al Genocidio armeno con lo scopo, e di ciò sono ancor più grato, di stimolare una riflessione nelle giovani generazioni.

Purtroppo a causa di impegnti presi da tempo, non potrò essere lì con voi.

A Lei, all’amministrazione comunale, ai cittadini di Busto Arsizio e a tutti gli studenti che saranno presenti va il mio personale e sincero auspicio di continuare senza paura un percorso di coscienza e di verità.

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Minacce azere (Osservatorio Balcani e Caucaso 29.02.16)

Venerdì scorso si è tenuto a Roma un incontro organizzato da Amnesty Italia e FNSI per parlare delle violazioni dei diritti umani e delle libertà di espressione in Azerbaijan. L’incontro è stato ostacolato con lettere dell’ambasciata dell’Azerbaijan e tentativi di boicottaggio si sono ripetuti in sala. Richiesto l’intervento delle forze dell’ordine.

“Azerbaijan e la repressione invisibile”, è il titolo dell’incontro organizzato da Amnesty Italia nella sede romana della Federazione nazionale della stampa italiana (FNSI) che si è tenuto venerdì 26 febbraio a Roma. Un incontro a cui hanno partecipato, Beppe Giulietti presidente FNSI, Riccardo Noury portavoce di  Amnesty International Italia, Simone Zoppellaro, corrispondente di OBC, Elena Gerebizza, dell’associazione Re: Common, e Dinara Yunus, figlia di due noti dissidenti azeri Leyla e Arif Yunus, entrambi incarcerati e poi rimessi in libertà vigilata per motivi di salute.

Si è trattato di un’importante occasione per parlare in Italia di un regime repressivo come quello dell’Azerbaijan, della violazione dei diritti umani, delle gravi limitazioni alle libertà di espressione di stampa in atto nel paese caucasico. I lettori di OBC sanno che da anni cerchiamo di portare l’attenzione su questi temi, sia in Italia che a livello internazionale. Ben venga quindi che insieme ad Amnesty e FNSI si sia riusciti ad organizzare un incontro a Roma dove poter parlare pubblicamente e apertamente di questioni poco conosciute e poco presenti sui media italiani.

Perché scrivere di questo? Per il semplice fatto che l’ambasciata dell’Azerbaijan ha provato con tentavi di “intimidazione”,come li ha definiti Riccardo Noury, con avvertimenti e numerose lettere recapitate alla FNSI e ad Amnesty Italia di impedire che un evento come questo si svolgesse. Beppe Giulietti, nel suo intervento introduttivo, ha precisato di aver ricevuto una ventina di lettera dell’Ambasciata dell’Azerbaijan che chiedevano di sospendere l’incontro, lettere che ovviamente sono tornate al mittente. Il clima che si è creato prima ancora che si tenesse l’incontro ha richiesto la presenza dei Carabinieri e infine anche della Digos. Questo non ha impedito che alcuni individui, identificati dagli organizzatori come legati all’ambasciata dell’Azerbaijan, filmassero e fotografassero i presenti all’incontro.

Gli organizzatori hanno quindi scelto di non lasciare spazio al dibattito, per evitare che si arrivasse ad uno scontro verbale dai toni accesi. Cosa che però non è stata evitata fino in fondo. Nonostante la richiesta di non dibattere esplicitata da Beppe Giulietti nell’introduzione all’evento e ripetuta da Ricardo Noury a conclusione dello stesso, c’è stato qualcuno che ha alzato la voce in sala cercando di mettere in discussione quanto detto dai relatori.

L’intervento della Digos ha prima bloccato le inopportune lamentele, poi la polizia ha scortato i relatori dell’evento, con Dinara Yunus visibilmente scossa per l’accaduto, fino a che non sono saliti su un taxi.

Simone Zoppellaro ci ha raccontato di cori da stadio in sala che scandivano “Khojaly”, il riferimento è al massacro di Khojaly avvenuto il 25-26 febbraio 1992, quando l’esercito armeno uccise centinaia di civili azeri nella città omonima, durante la guerra nel Nagorno Karabakh.

Ora, come far capire alla Baku ufficiale che parlare di diritti umani in Azerbaijan, di gravi violazioni delle libertà di espressione e dei media, di diritti civili ecc., non significa negare che ci sia stato un massacro di civili azeri a Khojaly e soprattutto che non significa assolutamente essere filo armeni. Sulle pagine di OBC abbiamo sempre parlato nel modo più oggettivo possibile dei crimini commessi da tutte le parti in conflitto, nei vari conflitti di cui ci siamo occupati. Ma allo stesso tempo abbiamo sempre fatto in modo di non prestare il fianco a regimi autoritari e repressivi, anzi ne abbiamo sempre cercato di denunciare la cattiva condotta.

Ci occupiamo di quasi una trentina di paesi, compresi gli stati de facto, in un’area che va dalla Slovenia all’Azerbaijan. Con nessuno di questi paesi abbiamo mai avuto problemi per quello che scriviamo, ad eccezione dell’Azerbaijan che di regola quando pubblichiamo un articolo ritenuto “scomodo” ci recapita una lettera tramite la sua ambasciata in Italia.

Forse se oltre ai pochi giornalisti e attivisti dei diritti umani che si occupano di questi temi, ad Amnesty e alla FNSI, ci fosse qualcun altro, comprese le alte sfere della politica e dell’economia, che portasse l’attenzione su questo tipo di comportamento da parte delle autorità azere, ci sentiremmo meno soli nel lavoro che stiamo facendo e forse ancora si eviterebbero situazioni altamente sgradevoli come quelle dell’incontro di Roma.

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Amnesty International contro l’Azerbaigian: caos in una conferenza a Roma

Ue: Mogherini domani e martedì in visita in Arzerbaigian e Armenia, previsti incontri con presidenti Aliyev e Sargsyan (Agenzianuova.com 28.02.16)

Bruxelles, 28 feb 13:15 – (Agenzia Nova) – L’Alto Rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, si recherà in Azerbaigian domani 29 febbraio e in Armenia il primo marzo nell’ambito della serie di visite nei paesi del partenariato orientale, che l’avevano portata l’anno scorso in Ucraina e Georgia. In Azerbaigian la Mogherini incontrerà il presidente Ilham Aliyev e il ministro degli Esteri, Elmar Mammadyarov. A Baku, parteciperà anche al Consiglio consultivo ministeriale sul Corridoio meridionale del gas insieme al vicepresidente Maros Sefcovic. Durante la sua visita in Armenia invece la Mogherini incontrerà il presidente Serzh Sargsyan, il ministro degli Esteri Edward Nalbandian e i membri dei vari partiti politici in parlamento, così come i rappresentanti della società civile.

Altri MiG-29 russi in Armenia (Analisidifesa.it 28.02.16)

Secondo quanto pubblicato dall’agenzia di stampa Press TV, il Cremlino avrebbe rinforzato la presenza militare russa nel Caucaso rischierando sulla base armena di Erebuni 4 cacciabombardieri MiG-29 Fulcrum e un numero non precisato di elicotteri da trasporto in versione armata  Mi-8MT.

L’ordine del Ministero della Difesa russo è arrivato a poche ore dalla minaccia turca di un’operazione terrestre congiunta con l’Arabia Saudita nel nord della Siria.

Sull’aeroporto di Erebuni, periferia sud di Yerevan, a 14 chilometri dal confine con la Turchia, staziona  la componente aerea della 102a Base Militare di Gyumri, la 3624a Base Aerea con 16 Mikoyan-Gurevich MiG-29S permanentemente assegnati.

Lo squadrone elicotteri dispone invece di velivoli da attacco Mil Mi-24P Hind-F e di mezzi da trasporto Mil Mi-8MT Hip e Mi-8SMV Hip-J. In Armenia le forze russe schierano oltre 5.000 uomini. (IT log defence)

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Bergoglio e l’Armenia fra ecumenismo, diplomazia e memoria (VaticanInsider 27.02.16)

L’ipotesi è quella di un viaggio del papa in Armenia il prossimo settembre; ma appunto di ipotesi, per quanto probabile sia, bisogna parlare poiché la Santa Sede non ha confermato fino ad ora la notizia diffusa invece dalla Chiesa armena attraverso dichiarazioni e comunicati ufficiali. La Chiesa armena precisa per altro che i collaboratori di Karekin II, il ’Catholicos’ di tutti gli armeni, sono in contatto con il Vaticano per studiare gli aspetti organizzativi della visita. Secondo quanto ha fatto sapere l’agenzia russa Tass, inoltre, la tappa armena si inserirebbe in un viaggio di Francesco in alcuni Paesi del Caucaso, fra i quali Azerbaijan e Georgia.

Il possibile viaggio del papa del resto, non è frutto di una decisione improvvisa, il presidente armeno, Serzh Sargsyan e lo stesso Karekin, avevano già invitato il papa nel settembre del 2014. Poi nell’aprile di un anno fa, il papa celebrò una messa in San Pietro in occasione delle commemorazioni per i 100 anni del genocidio armeno, di nuovo, in quell’occasione, il presidente si disse certo che «nel corso del prossimo anno avremo la sua visita in Armenia», in riferimento naturalmente a papa Francesco. Così il cammino di riavvicinamento ecclesiale, ecumenico, si completava ulteriormente con un pieno riconoscimento della storia e delle sofferenze di una popolazione la cui tradizione cristiana era antichissima.

Dunque, secondo quanto afferma la Chiesa armena, a questo punto la visita è già in programma anche se non c’è una data precisa. Va detto che la notizia è diventata di dominio pubblico all’indomani del ripristino delle normali relazioni diplomatiche fra Turchia e Santa Sede. Quando il 12 aprile dell’anno scorso infatti, Papa Francesco celebrò una messa per i fedeli di rito armeno, nel saluto pronunciato all’inizio della cerimonia, toccò in modo esplicito il tema del genocidio generando l’immediata reazione di Ankara; le autorità turche prima convocavano l’ambasciatore del Vaticano in Turchia poi ritiravano temporaneamente il proprio rappresentate presso la Santa Sede. La vicenda si è chiusa nei giorni scorsi con il ritorno dell’ambasciatore Mehmet Pacaci in Vaticano; ma andiamo con ordine.

Un anno fa il papa parlò della tragedia armena scegliendo di usare la parola genocidio, quindi mise in relazioni quegli eventi drammatici con l’attualità delle persecuzioni cristiane in Medio Oriente e poi con altri genocidi contemporanei. Insomma un discorso non chiuso in una polemica storica o anti-turca ma che certamente affermava una verità precisa sulla vicenda armena, dandogli anzi risalto in un contesto storico ampio. Francesco, sulla scorta di quanto aveva in parte fatto Giovanni Paolo II, definiva il massacro degli armeni all’inizio del ’900, «il primo genocidio del XX secolo». Quindi spiegava: «essa ha colpito il vostro popolo armeno – prima nazione cristiana –, insieme ai siri cattolici e ortodossi, agli assiri, ai caldei e ai greci. Furono uccisi vescovi, sacerdoti, religiosi, donne, uomini, anziani e persino bambini e malati indifesi».

Quindi il pontefice osservava come i due eventi paragonabili successivi fossero stati i genocidi perpetrati dal nazismo e dallo stalinismo. «E più recentemente – affermò ancora – altri stermini di massa, come quelli in Cambogia, in Ruanda, in Burundi, in Bosnia. Eppure sembra che l’umanità non riesca a cessare di versare sangue innocente. Sembra che l’entusiasmo sorto alla fine della seconda guerra mondiale stia scomparendo e dissolvendosi. Pare che la famiglia umana rifiuti di imparare dai propri errori causati dalla legge del terrore; e così ancora oggi c’è chi cerca di eliminare i propri simili, con l’aiuto di alcuni e con il silenzio complice di altri che rimangono spettatori. Non abbiamo ancora imparato che ’la guerra è una follia, una inutile strage’».

A questa e ad altre affermazioni, faceva seguito un irrigidimento dei rapporti con Ankara, già non tanto facili per la piccola Chiesa cattolica turca che attende da molto tempo riconoscimenti giuridici minimi. Tuttavia dopo la burrasca diplomatica ricominciava un lavoro di ricucitura, anche perché era interesse sia della Santa Sede che della Turchia non rovinare relazioni comunque positive, e necessarie in un dialogo che andava oltre il dettaglio polemico e tocca da vicino la crisi mediorientale, senza considerare poi anche la visita compiuta dal papa a Istanbul. Alla fine era un comunicato vaticano a sancire formalmente la fine della crisi diplomatica.

Il 3 febbraio infatti, veniva presentato al papa il volume dal titolo «La Squadra Pontificia ai Dardanelli 1657 / İlk Çanakkale Zaferi 1657», autore Rinaldo Marmara, a capo Caritas turca, già portavoce della conferenza episcopale. Il libro contiene una traslitterazione italiana e turca di un manoscritto dal fondo Chigi della Biblioteca Apostolica Vaticana, ed è un resoconto della flotta pontificia che partecipò nella seconda battaglia dei Dardanelli nel 1657. Secondo lo steso autore, in tal modo veniva portato a conoscenza degli studiosi turchi un’importante documentazione contenuta negli archivi vaticani.

La presentazione del volume era accompagnata da un comunicato nel quale si precisava quanto fosse importante il lavoro di ricerca negli archivi storici per ricostruire vicende del passato. In tal senso si affermava, «è stato notato e apprezzato il rinnovato impegno della Turchia a rendere i propri archivi disponibili agli storici e ai ricercatori delle parti interessate, con l’intenzione di arrivare congiuntamente ad una migliore comprensione degli eventi storici, del dolore e delle sofferenze sostenute, indipendentemente dalla propria identità religiosa o etnica, da tutte le parti coinvolte in guerre e conflitti, inclusi i tragici eventi del 1915. Eventi tragici, la parola genocidio stavolta non c’era, e Ankara parlava di «sviluppo positivo» della vicenda quindi si scioglieva il nodo dell’ambasciatore. E d’altro canto proprio il tema degli archivi, della loro apertura, era stato più volte offerto dal governo turco come terreno di mediazione e d’incontro per affrontare il tema del genocidio armeno, rompere un tabù storico del Paese, e far venire alla luce una memoria lacerata e drammatica come base di una possibile riconciliazione.

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Le macerie di Aleppo e lo sguardo di Gregorio XX (Ilsole24ore 27.02.16)

Quanti di voi, in questi ultimi mesi, hanno sentito parlare di Aleppo! Una città bellissima e piena di storia, che ho avuto la possibilità di visitare qualche anno fa e che oggi è ridotta a un cumulo di macerie. In questi giorni ho incontrato un uomo ottantaduenne, nativo proprio di Aleppo, Gregorio Pietro XX, Patriarca della Chiesa armeno-cattolica. Una “persona di varia umanità”, come si diceva un tempo sulle riviste di studi classici. E così mi è apparso nel mio ufficio; un uomo che per la sua notevole attenzione verso gli altri è oggi un punto di riferimento nei rapporti diplomatici con la Siria e il Libano.

Era già in pensione – mi ha raccontato – quando nel 2015 il Sacro Sinodo lo ha indicato come Patriarca. «Sai – mi ha detto – prima di accettare, ho fatto di tutto per avere la benedizione di Papa Francesco. Non me la sentivo di accettare, data la mia età e date anche le difficoltà in cui stiamo come Chiesa armena e come cristiani di Oriente». La benedizione e l’incoraggiamento arrivarono subito da Francesco, un uomo, anch’egli avanti negli anni, ma che non smette di sorprendere per i suoi gesti e per le sue parole! Anche l’amico e fratello Gregorio Pietro XX mi ha sorpreso; mi ha confidato di guardare con preoccupazione alla situazione siriana e ai profughi, soprattutto ai bambini. «Sono tanti – mi ha detto – e molti non sono accompagnati!». Il suo sguardo un po’ malinconico è cambiato solo quando gli ho assicurato che, dopo aver parlato con il cardinale Bagnasco, come Chiesa italiana e attingendo alle risorse dell’8×1000, avremmo sicuramente contribuito alla ristrutturazione dell”“Orfanotrofio Agagianian” in Libano, destinato ai minori provenienti dalla Siria. Credetemi, il suo volto portava impressi i segni e l’angoscia dei racconti delle famiglie siriane che vediamo aggirarsi per la nostra Europa. Accogliendo la sua richiesta di sostenere questo progetto mi è parso di asciugare un po’ quelle lacrime e aprire qualche varco di speranza. Lo so, è troppo poco!

Di recente ho letto un bel libro di un siriano armeno, Jamil Boloyan, un professore universitario che insegna a Lecce, autore del Richiamo del sangue. Oggi noi che viviamo più o meno sereni, anche se a Piazza San Pietro e per le nostre strade di tanto in tanto spunta doverosamente l’esercito, non possiamo capire che cosa vuol dire avere il richiamo del sangue, sapere di avere la guerra in casa, sapere di avere la propria famiglia in quei luoghi. Gregorio XX mi ha fatto notare un aspetto ancora più drammatico della storia che vive il suo popolo: gli armeni portano il senso della tragedia, come un lamento impresso in loro e ben sintetizzato nei famosi romanzi della Arslan: i genocidi non sono tutti uguali, purtroppo. Gli armeni fanno ancora tanta fatica a veder riconosciuto il loro massacro, il loro Olocausto, per il quale, invece, ha avuto parole chiare Papa Francesco. Il Patriarca mi faceva notare con amarezza che, dopo le parole del Santo Padre, il governo italiano ritenne di non prendere una posizione ufficiale: non è compito dei governi decidere che cosa sia successo, i genocidi sono affari degli storici, fu detto. Mi piacerebbe capire di più su tutto questo! Gregorio XX mi ha ricordato con uno sguardo a tratti riconoscente i Paesi che riconoscono il genocidio armeno; tra questi la Svezia, la Lituania la Svizzera, la Finlandia, la Russia, la Slovacchia, la Grecia, la Polonia e il Vaticano. Nella Turchia di Erdogan, oggi, nonostante la scarsa libertà, come racconta anche l’Arcivescovo Zekiyan, nonostante le polemiche con il Papa, si possono tenere conferenze sulla cultura armena e concerti in memoria del genocidio. Loro sperano che giungano esponenti del governo turco e, pur considerando le difficoltà, anche segnali più chiari dall’Italia.

Abbiamo ricordato insieme la intensa e commovente mostra che si è tenuta al Vittoriano, «Armenia, il popolo dell’Arca», articolata in maniera complessa e dotta, in sette sezioni ricche di reperti archeologici, codici miniati, opere d’arte, illustrazioni e documenti, tra cui il testo di Antonio Gramsci e promossa dal ministero della Cultura armeno e dall’Ambasciata della Repubblica d’Armenia in Italia. Facendo memoria di qualche mia lettura giovanile, ho riletto col Patriarca quello che lo stesso Antonio Gramsci scrisse nel 1916: «L’Armenia non ebbe mai, nei suoi peggiori momenti, che qualche affermazione platonica di pietà per sé o di sdegno per i suoi carnefici; “le stragi armene” divennero proverbiali, ma erano parole che suonavano solo, che non riuscivano a creare dei fantasmi, delle immagini vive di uomini di carne ed ossa. Sarebbe stato possibile costringere la Turchia, legata da tanti interessi a tutte le nazioni europee, a non straziare in tal modo chi non domandava altro, in fondo, che di essere lasciato in pace. Niente mai fu fatto, o almeno niente che desse risultati concreti. Dell’Armenia parlava qualche volta Vico Mantegazza nelle sue prolisse divagazioni di politica orientale. La guerra europea ha messo di nuovo sul tappeto la questione armena. Ma senza molta convinzione. Alla caduta di Erzerum in mano dei russi, alla probabile ritirata dei turchi in tutto il Paese armeno non è stato dato nei giornali neppure lo stesso spazio che all’atterramento di uno “Zeppelin” in Francia. Gli armeni che sono disseminati in Europa dovrebbero far conoscere la loro patria, la loro storia, la loro letteratura. È avvenuto in piccolo per l’Armenia ciò che è avvenuto in grande per la Persia. Chi sa che i più grandi arabi (Averroè, Avicenna ecc) sono invece… persiani? Chi sa che quella che si è soliti chiamare civiltà araba è invece in gran parte persiana? E così quanti sanno che gli ultimi tentativi di rinnovare la Turchia furono dovuti agli armeni e agli ebrei? Gli armeni dovrebbero far conoscere l’Armenia».

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Il genocidio armeno raccontato da una mostra (valledaostaglocal.it 27.02.16)

Sabato 5 marzo alle ore 16.30 verrà inaugurata, presso la Biblioteca regionale Bruno Salvadori, la mostra fotografica dedicata al genocidio armeno nel suo centenario. L’organizzazione è a cura dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in Valle d’Aosta, in collaborazione con l’Associazione Italiarmenia, Deutsches Literaturarchiv di Marbach, l’Unione degli Armeni d’Italia, con il patrocinio della Presidenza della Regione autonoma Valle d’Aosta, dell’Assessorato Istruzione e Cultura e della Sovraintendenza agli Studi.

“Dopo la visita del Console onorario della Repubblica d’Armenia Pietro Kuciukian ad Aosta il 28 e il 29 gennaio scorsi, in occasione del giorno della Memoria 2016 – spiega la Direttrice Daria Pulz – vogliamo offrire alla cittadinanza la visione delle intense fotografie scattate cent’anni fa da Armin T. Wegner, ufficiale sanitario al seguito dell’esercito tedesco in Medio Oriente, testimone oculare del genocidio e riconosciuto giusto per gli Armeni e per gli Ebrei, che cercò di difendere con una lettera rivolta direttamente a Hitler: un’occasione da non perdere per riflettere insieme su una tragedia del passato che, a partire dalla figura di un uomo straordinario, si riverbera ancora sul presente e ha sorprendenti addentellati anche con la Valle d’Aosta”.

La mostra resterà aperta al pubblico dal 2 al 17 marzo. Martedì 8 marzo e martedì 15 marzo sono previste visite guidate per le scuole che ne faranno richiesta all’Istituto storico, tra le ore 9 e le ore 12.

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Turchia nella Nato: alleati si, ma a quale prezzo? (Assesempione.it 25.02.16)

Milano – Giovedì 25 febbraio, alle ore 17.00, a Palazzo Isimbardi (via Vivaio, 1), tavola rotonda e dibattito sul tema “Turchia nellaNato: alleati sì, ma a quale prezzo? Dal genocidio del popolo armeno alla questione curda, dal ruolo nella guerra civile in Siria agli appetiti sui territori ex ottomani: l’ambigua politica del Paese che bussa alle porte dell’Europa”.

L’incontro è organizzato dall’Unione armeni d’Italia. Intervengono: Baykar Sivazliyan, docente di Lingua e Letteratura armena alla Statale di Milano e presidente dell’Unione armeni d’Italia, Fausto Biloslavo, inviato speciale del Giornale, Luca Bernardini, storico ed esperto di minoranze alla Statale di Milano. Modera il giornalista Matteo Carnieletto.

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