MASSICCI ATTACCHI AZERI SU TUTTA LA LINEA DI CONFINE RESPINTI DALLA DIFESA DEL KARABAKH. (Karabakh.it 02.04.2016)

Un’aggressione senza precedenti alla repubblica del Nagorno Karabakh respinta con pesanti perdite azere. La protesta ufficiale dell’Armenia che chiede un deciso intervento dei mediatori internazionali in mancanza del quale sarà costretta a reagire.

Si è combattuto aspramente su quasi tutta la linea di demarcazione tra repubblica del Nagorno Karabakh e Azerbaigian nella notte fra venerdì 1 e sabato 2 aprile. E ancora si combatte.

Il ministero della Difesa del NK e quello dell’Armenia hanno ufficialmente confermato la notizia di un attacco su vasta scala (“senza precedenti dalla fine della guerra” citano alcune fonti) da parte delle forze azere. Durante queste azioni, l’avversario – usando carri armati, artiglieria pesante e velivoli leggeri aerei – ha tentato di infiltrarsi in profondità nel territorio della Repubblica Nagorno Karabakh cercando di occupare posizioni strategiche. La pronta reazione dell’Esercito di difesa del NK ha respinto le incursioni causando numerose perdite al nemico. Risultano abbattuti due elicotteri, due droni e distrutti alcuni carri armati. Pur tuttavia, informano fonti ufficiali, le azioni militari continuano. Queta mattina, verso le ore 8.30 locali, un razzo BM 21-Grad ha colpito un insediamento civile armeno lungo la linea di demarcazione nella regione di Martuni e ha provocato la morte di un bambino di dodici anni (Vaghinak Grigoryan) e del ferimento di altri due.

L’Armenia e il Nagorno Karabakh condannano con forza queste irresponsabili e senza precedenti aggressioni azere e hanno formalmente annunciato che la loro continuazione potrà portare a conseguenze imprevedibili per la parte azera, unica responsabile di questo nuovo innalzamento della tensione. Gli armeni si aspettano dalla comunità internazionale e soprattutto dai copresidenti del Gruppo di Minsk dell’Osce una forte e mirata dichiarazione di condanna che consenta di evitare future azioni militari su larga scala. In buona sostanza la parte armena ha chiaramente fatto capire che o l’Osce condanna l’aggressione azera (evitando i consueti comunicati “neutrali”) oppure sarà necessaria una dura reazione che ponga fine alla condotta aggressiva dell’Azerbaigian.

Da notare che in questo momento sia il presidente armeno che quello azero sono a New York per la conferenza ONU dedicata al nucleare. Non si può escludere che, a fronte di pressanti inviti alle parti a trovare un accordo definitivo sul contenzioso karabakho (da ultimo il Segretario di Stato USA Kerry a colloquio con Aliyev), l’Azerbaigian stia cercando di presentarsi al tavolo del negoziato avendo una posizione di forza: tentativo maldestro e destinato a fallire.

Il portavoce del presidente Sahakyan, David Babayan, ha dichiarato che «L’avversario ha ricevuto adeguata risposta forte e ha subito numerose perdite umane, due dei suoi elicotteri sono stati abbattuti. L’autorità di Stepanakert rimane per una soluzione pacifica del conflitto. Ma se Baku continua a fare tentativi di destabilizzare la situazione, questi finiranno con lo sventolio della bandiera dell’Artsakh a Baku».

La comunità internazionale invita le parti a un immediato cessate-il-fuoco che porti a un veloce abbassamento della tensione; in questo senso si è già espresso pubblicamente il presidente russo Putin.

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Akram Aylisli, scrittore scomodo (Osservatore Balcani e Caucaso 01.04.16)

Akram Aylisli, scrittore azero candidato al premio Nobel per la pace, avrebbe dovuto partecipare oggi ad un incontro a Venezia ma ieri le autorità dell’Azerbaijan lo hanno trattenuto all’aeroporto di Baku per oltre 10 ore. Lo abbiamo intervistato il giorno prima del fermo di polizia

Dopo più di 10 ore di fermo di polizia all’aeroporto di Baku, ieri sera lo scrittore azero Akram Aylisli è stato finalmente rilasciato. L’autore, 78 anni, candidato al Nobel per la pace, non potrà però prendere parte all’incontro previsto oggi a Venezia. La polizia ha impedito infatti che prendesse l’aereo per l’Italia insieme a suo figlio, alle cinque del mattino, ora locale.

Gli organizzatori del festival Incroci di Civiltà hanno diramato una nota in cui esprimono “rammarico” per la sua assenza, confermando “l’appuntamento del programma […] che verterà comunque sull’opera dello scrittore”. L’editore Guerini e Associati, che ha da poco pubblicato una traduzione del romanzo Sogni di pietra, ha dichiarato invece che “ritiene questo gesto un’intollerabile limitazione della libertà personale ed un obiettivo ostacolo alla libera circolazione delle idee e alla pacificazione, a maggior ragione in un momento socio-politico nel quale è sempre più necessaria capacità di mediazione.” La notizia è rimbalzata presto in tutto il mondo, e un articolo sul caso Aylisli è uscito anche sul Guardian.

Non è la prima volta che lo scrittore finisce sotto bersaglio nel suo paese. La pubblicazione di Sogni di pietra, quattro anni fa, l’aveva messo al centro di una campagna d’odio senza precedenti, a causa del trattamento molto libero di temi controversi in patria, come il massacro di Sumgait, uno degli episodi più sanguinosi tra gli eventi che culminarono nella guerra del Nagorno-Karabakh. Manifestazioni e roghi pubblici dei suoi libri – e persino una taglia di circa 10.000 euro messa a disposizione da un politico locale per chi avesse voluto mozzargli un orecchio – erano stati alcuni degli effetti prodotti dalla pubblicazione del suo romanzo.

Non del tutto chiare le ragioni di quanto accaduto ieri. Secondo la comunicazione ufficiale diramata dal ministero degli Interni di Baku, si tratterebbe di una conseguenza di un non meglio precisato “scontro” che lo scrittore avrebbe avuto con la polizia aeroportuale. Cosa piuttosto curiosa, se pensiamo al fatto che il romanziere ha 78 anni suonati. Giorgi Gogia, direttore di Human Rights Watch per il Caucaso del Sud – da noi interpellato – ci ha parlato invece di un “chiaro tentativo di intimidazione nei confronti di uno degli autori più bravi e coraggiosi dell’Azerbaijan”.

“Le autorità – ci ha detto ancora Gogia – non hanno spiegato all’autore i motivi per cui hanno limitato la sua libertà di movimento, ma questo fa parte delle tattiche del governo, che usa il divieto di viaggiare solo e unicamente come strumento per intimidire e perseguitare chi la pensa diversamente.”

Abbiamo intervistato l’autore azero, in esclusiva, poco prima della sua detenzione all’aeroporto di Baku. L’autore nell’occasione non ha fatto alcuna menzione dei suoi timori riguardo al viaggio che lo attendeva di lì a poche ore.

Come è nata l’idea di Sogni di pietra? Potrebbe parlare del suo lavoro su quel libro?

Credo che il dolore che ho descritto in Sogni di pietra sia nato insieme a me nel luogo descritto dal libro, ovvero nel villaggio di Aylis. Non potevo fare a meno di scrivere questo romanzo. Non l’avrei mai scritto se il conflitto tra azeri e armeni non fosse iniziato.

Anche se non molto noto al grande pubblico, quello del Nagorno-Karabakh è uno dei conflitti più polarizzati del nostro tempo. Nel suo libro si parla liberamente di episodi considerati tabù, come il massacro di Sumgait. Perché ha deciso di farlo?

Non sono stato un testimone oculare degli eventi di Sumgait. Ma quello che è successo a Baku il 13 gennaio 1990 [data in cui ebbe luogo un pogrom contro la popolazione armena della capitale azera ndr] è stata una tragedia personale per me. È impensabile che i buoni vicini di ieri siano diventati acerrimi nemici. Quanto a scrivere su argomenti “tabù” – non credo che sia qualcosa che richiede particolare coraggio. Credo che per uno scrittore sia un’azione del tutto normale, da un punto di vista etico. Uno scrittore dovrebbe esprimere onestamente valori morali e spirituali eterni. Non è colpa sua se i politici non riescono a comprendere questo punto.

Quali sono state le conseguenze della pubblicazione del libro per lei e la sua famiglia? Una volta ha parlato di “stalinismo” per descrivere quel periodo della sua vita.

La psicologia del potere non mostra alcuna tolleranza nei confronti degli scrittori che hanno una propria visione degli eventi sociali più importanti. Il potere punisce tali scrittori con crudeltà e in modo orribile. E così sono stato trattato: in un modo crudele e orribile.

Ha ricevuto segni di solidarietà nel suo paese dopo la pubblicazione del libro?

Molte persone sono state solidali con me. Molti di loro avevano paura di esprimere pubblicamente la loro opinione. Ma, nei primi giorni della mia oppressione, alcuni autori di spicco sono intervenuti in mia difesa: Tamerlan Badalov, Etibar Aliyev e Gunel Movlud. Un sostegno particolare e significativo mi è stato dato da diversi scrittori e giornalisti famosi: Andrey Bitov, Viktor Erofeev, Sergey Kaledin, Denis Gutsko, Lev Anninsky, Boris Akunin, Alla Latinina, Shura Burtin e altri.

Perché ha deciso di continuare a vivere in Azerbaijan, invece di lasciare il paese?

In primis, nessuna organizzazione e nessun paese hanno offerto condizioni accettabili per il trasferimento della mia famiglia. In secondo luogo, non ho mai avuto più di tanto desiderio di lasciare il mio paese, che non ho iniziato ad amare di meno dopo tutto quello che mi è stato fatto dalle autorità.

Quali sono i suoi progetti in corso? Sta lavorando ad alcuni libri?

Continuo a scrivere e a pubblicare. Recentemente miei nuovi racconti sono stati pubblicati in Russia, Lettonia e nel Regno Unito.

Quest’anno per la festività di Nowruz diversi prigionieri politici sono stati rilasciati in Azerbaijan. Come valuta la situazione attuale?

Sono contento per quelli che sono stati liberati. Spero che tutti i prigionieri di coscienza vengano liberati, e che in futuro neppure uno solo di loro sarà più imprigionato.

Qual è la sua speranza per il futuro dell’Azerbaijan? Pensa che avremo la pace un giorno nel Nagorno-Karabakh?

La pace in Nagorno-Karabakh richiede delle leadership in Azerbaijan e in Armenia che abbiano un quadro più ampio di questo conflitto. Leader con una visione su larga scala che si prendano cura dell’interesse comune di entrambi i popoli e della prosperità di tutta la regione del Caucaso del Sud. Fino a quando i leader di ogni paese lotteranno solo per i propri interessi nazionali, il conflitto non potrà essere risolto.

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Lettera dello scrittore Aylisli «Ho raggiunto il mio scopo» (La Nuova 01.04.16)

Le parole di Akram Aylisli (Gariwo.it 01.04.16)

Dopo diciassette anni di costruzione di iniziative interculturali, sociali, politiche, il centro curdo Ararat a Testaccio, rischia lo sgombero.

Dalle Montagne del Kurdistan al Cuore di Roma, Ararat non si sgombera!

Sabato 2 aprile ore 6.30 colazione resistente al centro socio-culturale kurdo Ararat
Via di monte testaccio 28 – Largo Dino Frisullo

Dopo diciassette anni di costruzione di iniziative interculturali, sociali, politiche, il centro curdo Ararat a Testaccio, nel cuore di Roma, nella piazza che dieci anni fa l’allora sindaco intitolò a Dino Frisullo come riconoscimento proprio per il lavoro da lui svolto in difesa dei diritti dei curdi rischia lo sgombero. Diciasette anni di attività che rischiano di essere cancellati dentro la spirale della riorganizzazione del Patrimonio Pubblico del Comune di Roma.

Come Ararat, tante altre realtà sociali di questa città, oggi sono minacciate dall’aggressione della retorica della valorizzazione economica che vuole questa città in vendita, una politica che prova ad aggredire chi in questi anni è stato argine culturale e spazio d’innovazione sociale. Lo scorso 19 Marzo un corteo di migliaia di donne e uomini ha camminato per la città al grido di #RomaNonSi Vende per reclamare l’alternativa che tante realtà dal basso hanno costruito dentro questa città, e ancora di più oggi, centri sociali, associazioni, e presidi territoriali sono determinati a resistere.

Il centro culturale Ararat ha rappresentato in questi anni uno spazio aperto, il punto di riferimento per una comunità nella diaspora del popolo curdo, l’occasione e la casa che ha raccolto il messaggio di rivoluzione e pace che Ocalan aveva lasciato a Roma prima di essere consegnato alle autorità turche. Proprio oggi però, mentre i curdi in Siria e in Turchia resistono e difendono la loro terra, combattendo per l’umanità contro gli attacchi di Daesh e dell’esercito turco, a Roma si vorrebbe cancellare un’esperienza fra le più vive e attive della città che vede protagonisti gli esuli curdi.

I rifugiati curdi sono abituati a resistere, e lo faranno anche questa volta, mobilitandosi insieme ai tanti amici e amiche italiane. Per questo il prossimo sabato 2 Aprile invitiamo tutte e tutti ad Ararat, per una colazione resistente, nel giorno in cui il Commissario Tronca vorrebbe liberi i locali del centro culturale. Invitiamo tutte e tutti i compagni di strada che hanno sostenuto in questi anni e in questi mesi il popolo curdo in lotta, che hanno costruito insieme a noi questa straordinaria esperienza che parla di un mondo senza confini.

L’appuntamento è alle 6.30 per dire a Tronca che i nostri giorni di libertà non scadano, che a scadere e fallire saranno le loro politiche di svendita e privatizzazione. Ararat non si riconsegnerà mai, anzi da sabato mattina saremo tutt@ li per difenderlo.

Dalle Montagne del Kurdistan al Cuore di Roma

#AraratNonSiSgombera #RomaNonSiVende

Sabato 2 aprile ore 6.30 colazione resistente al centro socio-culturale kurdo Ararat
Via di monte testaccio 28 – Largo Dino Frisullo

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Azerbaigian: limitazione di libertà all’autore del libero “Sogni di pietra” Akram Aylisli.

Akram Aylisli autore di Sogni di pietra trattenuto ieri all’aeroporto di Baku per quasi 12 ore Avrebbe dovuto presentare oggi al festival Incroci di Civilità di Venezia il suo libro-denuncia

Nella giornata di ieri abbiamo appreso con sconcerto del fermo all’aeroporto di Baku del nostro autore Akram Aylisli, in partenza per il festival Incroci di Civilità di Venezia. L’intervento della polizia aeroportuale ha voluto mettere il bavaglio a chi, con la sua arte, ha sempre voluto parlare innanzitutto di comprensione fra i popoli. Il 79enne autore avrebbe dovuto presentare in anteprima al Festival Incroci di civiltà di Venezia il libro “Sogni di pietra”, che rappresenta due tragedie: lo scontro etnico-religioso fra armeni e azeri e il mondo violento e pericoloso che si è creato dopo la fine dell’impero sovietico.

L’autore è stato rilasciato in serata ma non potrà comunque lasciare il paese e partecipare al festival veneziano. L’editore Guerini ritiene questo gesto un’intollerabile limitazione della libertà personale ed un ostacolo alla libera circolazione delle idee e alla pacificazione, a maggior ragione in un momento socio-politico nel quale è sempre più necessaria capacità di mediazione. Ricordiamo comunque l’incontro di questo pomeriggio

Giovedì 31 marzo 2016, ore 14.30 Auditorium Santa Margherita Università Ca’ Foscari, Venezia

GIAN ANTONIO STELLA giornalista Corriere della Sera

GIAMPIERO BELLINGERI Università Ca’ Foscari di Venezia

parlano del libro di Akram Aylisli “Sogni di pietra”

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“Gli uccelli persi” film sul genocidio armeno vince tre premi (Agenziafuoritutto.com 30.03.16)

Il 1 aprile uscirà sugli schermi, in Turchia, “Gli uccelli persi”: in assoluto il primo film sul genocidio armeno del 1915 prodotto, almeno parzialmente, dal Governo turco. La pellicola è stata mostrata a novembre scorso – informa “Radio Liberty Armenia” – negli Stati Uniti ad “Arpa International Film Festival”, vincendo tre premi.
E’ evidente la portata storica d’un fatto del genere. Che per la Turchia – la quale s’ ostina a negare la premeditazione del “Metz Yegern”, il “Grande male”, del 1915-’16, sanzionando addirittura, con un articolo del suo Codice penale, qualsiasi riferimento in questo senso da parte dei massmedia turchi, come offesa all’identità nazionale – rappresenta una svolta ancora maggiore di quella fatta , nel 2005, dalla Germania producendo “La caduta”, primo film tedesco sulla “Caduta degli dèi” nazisti dell’aprile 1945. I due giovani registi, Aren Perdeci, nato e cresciuto a Istanbul ma discendente diretto d’ una famiglia di armeni ottomani (con un bisnonno deportato e scomparso nel 1915), ed Ela Alyamac (turca), raccontano la storia dei bambini, fratello e sorella, Mariam e Petò, che nel 1915 perdono la loro famiglia appunto nel “Metz Yegern”.
Perdeci, nella sua intervista a “Radio Liberty Armenia”, ha sottolineato che il film è stato ideato per gettare un ponte tra le parti in continua controversia sugli eventi del 1915. “Gli uccelli persi” è una storia sulla tragedia, il dolore e l’orrore di allora, vista con gli occhi di due bambini. “Ci ricorda – ha detto Perdeci – tutto ciò che abbiamo perso. Il film si propone di unire i popoli dei due poli politicamente opposti. Negli Usa, abbiamo capito d’ aver raggiunto il nostro obiettivo: avevamo un pubblico di circa 800 persone, di cui molti venivano da lontano. Ci hanno confessato che guardando il film, chiunque fossero – della diaspora, americani, turchi o armeni – avevano recepito il nostro messaggio. Tutti piangevano, si abbracciavano e dicevano di essere contenti”.
La pellicola è stata realizzata col sostegno finanziario del Ministero della Cultura e del Turismo turco: che, a dire del regista, è stato accettato a patto di non interferire nella sceneggiatura. Il film, risultato di quasi due anni di lavoro, è privo comunque d’ ogni riferimento preciso al contesto politico di allora, concentrandosi sulla rievocazione della storia “emotiva collettiva” di cento anni fa. Gli autori sperano che sarà amato dal pubblico turco: mentre aspettano l’invito a distribuirlo anche in Armenia. Chi scrive ha proposto all’ Associazione degli Armeni a Roma d’organizzare, appena possibile, una proiezione pubblica nella capitale.
(F.Fed)

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Messaggio del Papa al leader degli armeni argentini e cileni (Radiovaticana 29.03.16)

Papa Francesco ha inviato una lettera di auguri al capo della Chiesa armena per l’Argentina e il Cile, l’arcivescovo Kissag Mouradian, per il 25.mo anniversario della sua consacrazione episcopale. In un comunicato, il Centro Armeno della Repubblica Argentina ha diffuso il messaggio nel quale il Pontefice si unisce alla celebrazione e alla preghiera di rendimento di grazie per la ricorrenza celebrata lo scorso 22 marzo.

Un ministero fecondo e fraterno
“Caro fratello – si legge nella missiva del Papa – che il Signore ricompensi tutto il bene che hai fatto e che continui a fare”. Nella lettera che è stata letta durante l’atto in omaggio al capo della Chiesa armena del Cono Sud, il Santo Padre ringrazia Dio “per il ministero” dell’arcivescovo armeno e “prega perché continui ad essere fecondo”. Il Pontefice implora “la benedizione di Gesù e la protezione della Madonna per tutta la comunità armena del Paese”.

Una amicizia di lunga data
La nota della comunità armena ricorda “il rapporto amicizia” che unisce il Papa e mons. Mouradian da quando l’allora card. Jorge Mario Bergoglio era arcivescovo di Buenos Aires. Anche il nunzio apostolico in Argentina, mons. Emil Paul Tscherrig, il card. Mario Poli, attuale arcivescovo di Buenos Aires, e l’arcivescovo di Cordoba, Carlos Ñañez, hanno fatto giungere le loro congratulazioni a mons. Mouradian che è stato omaggiato nella sede del Centro Armeno di Buenos Aires, alla presenza di circa 450 invitati, tra autorità pubbliche e religiose di tutto il Paese. (A cura di Alina Tufani)

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Portiere Armenia gioca 7’ a 42 anni e batte record Zoff (Sportevai.it 26.03.16)

Il portiere dell’Armenia Roman Berezovski dice addio alla nazionale con un cameo contro la Bielorussia che lo fa diventare il settimo giocatore più ‘vecchio’ ad essere sceso in campo per una nazionale di una federazione UEFA. Superata la leggenda italiana Dino Zoff in classifica. Berezovski, 41 anni e 233 giorni, ha giocato gli ultimi sette minuti nel pareggio senza gol collezionando la 94esima presenza in nazionale, avendo esordito il 31 agosto del 1996 nello 0-0 contro il Portogallo valevole per le qualificazioni alla Coppa del Mondo FIFA 1998. Il suo ingresso in campo è stato salutato da una standing ovation mentre è stato esposto uno striscione con la scritta: “Grazie leggenda”. Berezovski ha giocato in Russia dal 1993 ed attualmente è il preparatore dei portieri della Dinamo Mosca, dopo aver appeso gli scarpini al chiodo lo scorso anno. Il portiere dell’Ungheria Gábor Király, che compirà 40 anni il 1 aprile, è pronto ad unirsi al club e a giugno potrebbe diventare il primo 40enne a disputare una fase finale dei Campionati Europei. L’attuale record appartiene a Lothar Matthäus, sceso in campo a 39 anni e 91 giorni nella sfida tra Germania e Portogallo a EURO 2000. L’attaccante del Liechtenstein Mario Frick è diventato il giocatore di movimento più vecchio a disputare una gara di qualificazione a EURO in occasione della sua gara di addio alla nazionale del 21 ottobre 20145 contro l’Austria..

I nazionali europei più vecchi
Giorgios Koudas*, 48 anni 301 giorni, Grecia – Jugoslavia (amichevole), 20/09/95
Billy Meredith, 45 anni e 229 giorni, Inghilterra – Galles 15/03/1920 (Campionato britannico)
Vasilios Hatzipanagis*, 45 anni 49 giorni, Grecia – Ghana (amichevole), 14/12/99
Sir Stanley Matthews*, 42 anni 103 giorni, Danimarca – Inghilterra (qualificazioni Coppa del Mondo FIFA), 15/05/57
Jákup Mikkelsen, 41 anni 365 giorni, Islanda – Isole Faroe (amichevole), 15/08/12
Roman Berezovski, 41 anni 233 giorni, Armenia – Bielorussia (amichevole), 25/03/16
Dino Zoff, 41 anni 90 giorni, Svezia – Italia (qualificazioni Campionati Europei UEFA), 29/05/83
Albert Beuchat , 41 anni 63 giorni, Italia – Svizzera (amichevole), 14/02/1932
Mario Frick , 41 anni 35 giorni, Austria – Liechtenstein (Europei, qualificazioni), 21/10/2015
Pat Jennings, 41 anni, Brasile – Irlanda del Nord (amichevole), 12/06/86
Peter Shilton, 40 anni 292 giorni, Italia – Inghilterra (finale terzo posto Coppa del Mondo FIFA), 07/07/90

*i giocatori di movimento Koudas e Hatzipangis sono entrambi tornati in nazionale dopo il ritiro per collezionare le presenze in questione come riconoscimento da parte della Grecia.

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Viaggio ad Ani, la città fantasma delle 1001 chiese (Easyviaggio.com 23.03.16)

Retta da una vertiginosa serie imperi nel corso dei secoli – dai Bizantini agli Ottomani – la città di Ani contava migliaia di persone, diventando un grande centro culturale sotto la dinastia medievale Bragatid, in Armenia. Oggi è una maestosa città abbandonata che si trova sugli altopiani del nord-est della Turchia, a 45 km dalla città turca di confine di Kars. Mentre si cammina tra le tante rovine, l’unico suono è il vento ululante attraverso una gola che segna il confine tra la Turchia e l’Armenia.

La città fantasma contesa

I visitatori che passano attraverso le mura della città di Ani hanno i propri occhi sulle rovine che coprono cinque regni e tre secoli; armeni, bizantini, turchi, georgiani e ottomani. L’altopiano Ani è stato ceduto alla Russia una volta che l’impero ottomano fu sconfitto nella guerra nel 1878. Dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, gli ottomani hanno combattuto per riottenere l’est dell’Anatolia, e anche se riconquistarono Ani e la zona circostante, la regione è stato ceduta alla Repubblica Armena di recente formazione. Ora Ani appartiene alla Turchia. Le rovine di un antico ponte sul fiume Akhurian si snodano in fondo ad un burrone per creare un confine naturale Turco-Armeno. I due paesi sono da tempo in disaccordo sulle uccisioni di massa degli armeni, che hanno avuto luogo sotto l’Impero ottomano durante la prima guerra mondiale, e la Turchia ha ufficialmente chiuso la sua frontiera con l’Armenia nel 1993, in risposta ad un conflitto territoriale tra Armenia e l’Azerbaijan, alleato della Turchia.

Una grande ricchezza archeologica

Anche se la tensione turco-armena occupa la gran parte delle discussioni che si svolgono su Ani, archeologi e attivisti si sforzano di far cadere l’attenzione anche su queste rovine, abbandonate in favore di luoghi più accessibili e meno storicamente contestate dall’antichità classica. Gli storici hanno a lungo sostenuto l’importanza di Ani come un nesso medievale dimenticato, e, di conseguenza, Ani è ora su un elenco provvisorio per il riconoscimento come patrimonio Unesco.

Nel corso dell’XI secolo, gli studiosi stimano che la popolazione di Ani ha raggiunto una popolazione di 100.000 persone, reperti archeologici del sito mostrano un vivace centro medievale, con una miriade di case, laboratori artigianali e moltissime chiese imponenti.

A proposito di questo, il sito é conosciuto come La Città delle 1001 chiese, infatti, i governanti armeni di Ani e i commercianti della città finanziarono un numero straordinario di luoghi di culto, tutti progettati dalle più grandi menti architettoniche e artistiche nel loro ambiente. Gli archeologi hanno scoperto le prove di almeno 40 chiese, cappelle e mausolei fino ad oggi.

COME VISITARE ANI?

Visitare questa meraviglia è possibile! È necessario volare a Agri, normalmente via Istanbul, e poi procedere in pullman o in taxi fino alla cittadina di Kars, quasi al confine da turchia e Armenia. La città abbandonata di Ani si trova a poche decine di chilometri da Kars, proprio sulla spaventosa gola che divide la Turchia dall’Armenia.

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Il nuovo scenario geopolitico nel conflitto del Nagorno Karabakh (cesi-italia.org 21.03.16)

Autoproclamatosi indipendente nel 1991 con la dissoluzione dell’URSS e la secessione dall’Azerbaijan, la Repubblica del Nagorno Karabakh (NKR), abitata in maggioranza da armeni (95%) ma racchiusa nei confini azeri, ha vissuto uno dei più sanguinosi conflitti del Caucaso, con 30.000 morti e circa un milione di profughi, senza che la Comunità Internazionale potesse agire in maniera incisiva a causa della contemporanea crisi delle guerre balcaniche.

Dopo più di un ventennio, lo scontro armeno-azero resta uno dei più spigolosi conflitti congelati dello spazio-post sovietico, costituendo una polveriera nel territorio del Caucaso Meridionale. Nonostante il cessate il fuoco stabilito dagli Accordi di Pace di Bishkek (Kirghizistan,1994) e la dichiarazione di intenti dei più recenti Principi di Madrid del 2007, vicendevoli attacchi si sono susseguiti a più riprese e addirittura si sono intensificati negli ultimi due anni. Dall’agosto del 2014, il conflitto si è esacerbato, allargandosi anche oltre la linea di confine e raggiungendo alcune zone limitrofe alla frontiera armeno-azera (provincia di Tavush). In questa escalation di violenza, la più grave che sia mai avvenuta dal 1994, sono cadute vittima sia militari che civili. Fino ad oggi, i negoziati portati avanti dal Gruppo di Minsk, organo istituito dall’OSCE nel 1992 e guidato dalla co-presidenza di Russia, Francia e Stati Uniti non sono riusciti ad ottenere risultati significativi. Quello guidato dalla troika continua ad essere l’unico organo preposto a ruolo di mediatore nonostante ci siano stati tentativi, soprattutto da parte turca e azera, di aprire diversi negoziati in seno alla PACE (Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa per la Pace) e alle Nazioni Unite, accusando il Gruppo di Minsk di favoritismi nei confronti di Erevan.

Al di fuori delle trattative sostenute dal Gruppo di Minsk, i rappresentanti di Armenia e Azerbaijan si sono incontrati in più di 20 summit ma la ricerca del dialogo ha sempre ceduto di fronte alla mancanza di volontà di stabilizzare la regione del Nagorno Karabakh attraverso il raggiungimento di un compromesso. Inoltre, l’atteggiamento di Russia e Turchia si è rivelato essere di ostacolo. Entrambi con i propri interessi economici e strategici nell’area, Ankara e Mosca favoriscono più o meno direttamente alla condizione di stallo del conflitto, rendendo la piccola Repubblica una vera e propria pedina della loro partita sullo scacchiere caucasico.

A peggiorare la condizione della regione contribuiscono anche le politiche interne dei due Stati che hanno prodotto un’esasperazione dei rispettivi nazionalismi e una radicalizzazione delle rispettive opinioni pubbliche. Il conflitto del Nagorno Karabakh ha radici profonde nella storia di entrambi i Paesi. Per gli armeni, la guerra contro gli azeri è una lotta all’autodeterminazione del popolo armeno residente nella NKR, nonché una questione di identità storica, di giustizia verso l’ingegneria sociale sovietica che, nella figura di Stalin, decise per il cedimento del territorio a Baku. Con il proposito futuro di riunire l’Artshak (nome armeno del Nagorno Karabakh) all’Armenia, le Forze Armate di Erevan continuano ad occupare le sette province azere che circondano la regione per garantirne la sicurezza. Nell’ambito delle operazioni belliche anti-azere, tra il 1992 e il 1993, gli armeni sono riusciti ad assicurarsi delle zone cuscinetto prendendo il controllo dapprima del “corridoio di Lachin” ed in seguito dei territori di Kalbaijan, Kubartli, Jebrail, Zangelam, Agdam e Fuzuli, occupando il 20% del suolo azero.

Al contrario, l’area di Shahumian e una piccola parte della regione di Martuni e Mardakert, rivendicate dall’NKR, si trovano sotto il controllo del governo di Baku. Dal canto proprio, gli azeri vivono il conflitto come una guerra per la propria integrità territoriale e la propria identità nazionale, una lotta contro l’aggressione e l’occupazione armena. I negoziati tenutisi in questi anni sono costantemente stati frenati da problematiche di ordine giuridico inerenti allo status di queste province, poiché l’Armenia non accetta di abbandonare i territori occupati se prima non riceve garanzie per la sicurezza del Nagorno Karabakh, compreso il riconoscimento della sua indipendenza, punto sul quale Baku non è disposta a cedere. Giocando su queste rivendicazioni di matrice storica ed etnica si è contribuito a peggiorare la percezione dell’altro” e a mobilitare le masse per ottenere il sostegno alla guerra, alla propria “causa nazionale”. Tuttora continua la corsa agli armamenti che ha reso l’Armenia e l’Azerbaijan due dei Paesi più militarizzati al mondo.

Il 18 Febbraio del 2016, presso un seminario organizzato dall’OSCE a Vienna, il Ministro della Difesa armeno David Tonoyan ha dichiarato l’intenzione di iniziare una strategia militare basata sul concetto di “deterrenza” e non di escalation, con l’obbiettivo di ridurre il confronto armato diretto tra i due Paesi. Tale dichiarazione è giunta a poca distanza dalla ratifica di accordi militari con Mosca per un prestito di 200 milioni di dollari per l’acquisto di equipaggiamenti (sistemi di lancio missilistico multiplo e missili anticarro e antiaereo). L’Armenia ha speso circa 470 milioni di dollari per il suo apparato militare e ha continuato a firmare accordi con la Russia per unificare il sistema di difesa aerea.
Di contro, nel 2011, il governo azero della “dinastia” Aliyev ha speso 3 miliardi di dollari in armamenti, un numero superiore all’intero PIL armeno dello stesso anno. Oggi il bilancio è salito a 3,5 miliardi di dollari. Tutto ciò non fa altro che allontanare qualsiasi tentativo di riconciliazione e rende la ricerca di mediazione una pura retorica. La Repubblica del Nagorno Karabakh e le province che lo circondano appaiono come un ostaggio delle rivalità geopolitiche tra diversi paesi che nel mantenere uno stato del conflitto in perenne stallo, traggono maggiore vantaggio in termini di potere e controllo della regione. Basti pensare che la Russia, nonostante sia il principale mediatore del Gruppo di Minsk, fornisce di armi e sistemi di difesa il suo storico alleato armeno, ma allo stesso tempo porta avanti una cooperazione tecnico-militare con l’Azerbaijan per circa 4 miliardi di dollari. La politica adottata da Mosca è improntata a controllare il Caucaso meridionale, poiché da sempre considera quest’area come sotto la sua sfera d’influenza. Legata all’Armenia dai tempi dell’Unione Sovietica, Mosca non allenta la pressione su Erevan, convincendo la sua elite politica della necessità di ricevere protezione e aiuto da parte della Russia. L’Armenia, visto il complicato rapporto con i vicini, ha accettato la partnership strategica russa, determinando una dipendenza energetica ed economica da Mosca suggellata dall’ adesione all’Unione Economica Euroasiatica (2014), insieme alla Bielorussia e al Kazakistan.

La Russia possiede il 90% degli impianti e delle strutture di produzione energetica del Paese, cedute come pagamento di un debito di 95 milioni di dollari. Nel 2013 Erevan si è impegnata a trasferire il 20% delle azioni di ArmRosGazprom (società che regola la distribuzione di gas ed energia nel territorio nazionale) alla società russa Gazprom per coprire un ulteriore debito di 300 milioni di dollari, consegnando la gestione del gas nel Paese a Mosca. Il governo armeno ha anche concesso l’installazione di due basi militari russe nel proprio territorio, nella città di Erebuni (nord di Erevan) e a Gyumri (al confine con la Turchia) poiché la presenza russa è vissuta come garante della sicurezza territoriale, tema di grande sensibilità per gli armeni come per gli abitanti dell’NKR. Nell’ultimo periodo, la popolazione armena ha mostrato la sua insofferenza non solo per i circa 5.000 uomini russi schierati nel proprio territorio, ma anche per la forte dipendenza del Paese da Mosca. L’Armenia ha affrontato un aumento delle disuguaglianze ed una emergenza sociale legata alla povertà e alla disoccupazione giovanile. Come in tutte le ex repubbliche sovietiche, anche in Armenia il potere è concentrato nelle mani di una ristretta oligarchia che intreccia interessi economici e politica costituendo una elite privilegiata, quasi intoccabile. La decisione di aumentare per la terza volta in un anno la tassa sull’elettricità del 16% ha causato un ondata di proteste nell’estate del 2015 (Electric Yerevan) represse duramente dalla polizia. Il movimento di Electric Yerevan è stata una dimostrazione del malcontento popolare per le discutibili decisioni dell’esecutivo armeno in materia economica e sociale e ha messo in luce tutte le fragilità del sistema politico, compresa la corruzione al suo interno.

La Turchia, come Mosca, è protagonista principale nello scenario politico caucasico e non ha mai nascosto il suo interesse per la regione. Ankara ha sempre portato avanti una linea di difesa nei confronti di Baku alla quale è legata da numerosi interessi convergenti, da quelli economici e politici sino a quelli culturali ed etnici, tanto da parlare di “un popolo, due Stati”. Il Ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu ha ribadito alla Conferenza degli Otto Ambasciatori, tenutasi all’inizio di quest’anno presso l’Università di Gaziantep (Turchia, 10-16 Gennaio), l’importanza primaria per la dirigenza turca di trovare una soluzione al conflitto nel territorio della Repubblica del Nagorno Karabakh. Inoltre, Cavusoglu è tornato a parlare anche dei difficili rapporti turco-armeni, sottolineando che un possibile riavvicinamento, dopo la chiusura delle frontiere nel 1993, è subordinato all’abbandono dell’esercito armeno delle sette province azere intorno all’NKR. Le relazioni con un Paese ricco di giacimenti petroliferi come l’Azerbaijan, sono segnate da importanti accordi economici e commerciali. L’Azerbaijan degli Aliyev negli ultimi anni ha subito una forte crescita economica grazie ai proventi dell’esportazione di greggio e gas, acquisendo appetibilità per i Paesi europei in cerca di un alternativa energetica alla Russia. Nel 2006 è entrato in attività l’oleodotto BTC (Baku-Tbilisi-Ceyhan) che collega l’Azerbaijan, la Georgia e la Turchia, portando il petrolio dei giacimenti azeri dal Mar Caspio fino al Mediterraneo. L’Europa si assicura il rifornimento di petrolio di cui necessita riducendo i disagi derivanti dai difficili rapporti tra Mosca e Kiev, purtroppo spesso soprassedendo sulle accuse di violazione dei diritti umani rivolte al governo di Ilham Alyiev dalle opposizioni azere.

In conclusione, la Repubblica del Nagorno Karabakh continua la sua esistenza senza essere riconosciuta da nessun Paese nel mondo, tantomeno dall’Armenia. E’ difficile pensare ad una risoluzione definitiva in breve tempo. La recente crisi del prezzo del petrolio ha messo in luce tutte le difficoltà strutturali dell’Azerbaijan, indebolendo l’asse turco-azera ed impedendo al governo di Baku di intraprendere azioni più incisive nella regione. Con l’intento di non essere coinvolta nelle ultime crisi diplomatiche tra Mosca ed Ankara, Baku continua a mantenere buoni rapporti con la Russia, temendo le stesse sanzioni poste alla Turchia dopo l’abbattimento del caccia su-24 in Siria. In quanto suo primario partner commerciale, l’Azerbaijan non vuole rischiare di prendere posizioni che possano aggravare la sua economia, senza tralasciale il peso delle rimesse azere dei lavoratori in Russia.

Come negli anni novanta, la risoluzione al conflitto armeno-azero è messa nuovamente in secondo piano dai conflitti in Medio Oriente. Possibili cambiamenti a livello politico nei rispettivi Paesi potrebbero mutare gli atteggiamenti nazionali nei confronti del conflitto, alimentato in gran parte dai rispettivi governi. Un profondo cambiamento del sistema di potere oligarchico armeno o la caduta della gestione familistica della politica di Baku aumenterebbero le possibilità di raggiungere un compromesso che ponga fine al conflitto “congelato”. Un ulteriore recessione economica dell’Azerbaijan farebbe cadere un intero sistema che ha resistito fino ad adesso grazie alle sue risorse energetiche e agli affari dietro di esse. Di contro, l’aria di malcontento popolare a Erevan non è recente (dimostrazioni contro il risultato delle elezioni presidenziali del 2008, campagna di protesta “Voch” contro le modifiche costituzionali del 2015) e non si escludono nuovi ed importanti sviluppi. Ad oggi, è molto più plausibile la continuazione di una politica volta al mantenimento dello status quo, poiché un ulteriore escalation della violenza porterebbe ad un disastro degli equilibri geopolitici dell’area.

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La primavera a Kessab (Ilpost.it 21.03.16)

Il 21 marzo è la festa dedicata alle madri in Medio Oriente. Per Kessab, centro storico armeno in Siria, nei pressi del confine con la Turchia, è anche il secondo anniversario della fuga: il 21 marzo 2014, la cittadina ed i dodici villaggi circostanti vennero attaccati da forze islamiche radicali ed i quasi tremila abitanti costretti a fuggire.

I cittadini rimasero lontani dalla loro terra per quasi cento giorni, chi a Laodicea, accolti dalle comunità armena e greco-ortodossa locali, chi in Libano, fino alla metà di giugno quando l’esercito siriano riconquistò l’area. I pochi anziani rimasti perché non in grado di fuggire erano stati derubati e poi costretti a partire per la Turchia. I terreni agricoli ed i villaggi incendiati dai missili, mentre il centro cittadino, i negozi, gli alberghi erano stati depredati e poi distrutti come nella peggiore tradizione dei saccheggi in tempo di guerra. I miliziani si erano accaniti in particolare sulle chiese di Kessab, sulla chiesa cattolica, quella apostolica e quella protestante, tutte della comunità armena. Le croci sui campanili sono state piegate o abbattute. Le campane della chiesa cattolica armena portate negli anni Venti dai Francescani sono state frantumate. Le tombe cristiane profanate. Tra queste anche la tomba di un sacerdote e monaco mechitarista del monastero di San Lazzaro degli Armeni di Venezia, Hamazasp Kelengian, morto in un incidente stradale nel 1983 poco dopo aver celebrato il funerale del padre a Kessab. La tomba è stata aperta, le ossa sparse per il terreno e all’interno è stata messa una mina.

Tutti i beni che gli abitanti avevano lasciato prima della fuga sono stati distrutti o rubati dai miliziani. Non ci sono più strumenti agricoli e molti terreni rimangono dunque incolti. Il consiglio comunitario si è riunito subito dopo il rientro e la prima cosa che ha voluto rimettere in funzione è stato il grande frigorifero comune (bruciato dai miliziani) in cui sistemare la frutta dei campi. Gli aiuti vengono principalmente dalle comunità della diaspora.
Gli abitanti si interrogano oggi sul futuro di Kessab. La cittadina in passato aveva fondato la propria economia sui bachi da seta, poi sul tabacco e più tardi sull’agricoltura. Negli ultimi decenni però, fino alla guerra, era diventata uno dei principali centri del turismo interno della Siria. Molti avevano venduto i terreni agricoli per costruire alberghi o avviare negozi per turisti. Ora che tutto ciò è stato distrutto molti imprenditori e commercianti si chiedono il senso di ricostruire qualcosa che potrebbe essere demolito di nuovo in poche ore. Molti abitanti, facilitati da una politica più morbida del governo canadese e sostenuti dalla rete comunitaria armena del Nord America stanno valutando la possibilità di lasciare definitivamente Kessab. Più di un quarto della popolazione ha deciso di non rientrare.

Abbandonare Kessab, però, sarebbe per gli armeni del mondo una ferita incisa nella propria identità. La cittadina descrive, in qualche modo, quello che sta succedendo alle minoranze in Medio Oriente, definisce il passato di quell’area, ma anche dell’Occidente. Qui la storia degli armeni non è una storia di comunità disperse, ma è un percorso antico che si lega profondamente anche alle vicende europee. Kessab sorge ai margini di quello che fu il Regno armeno di Cilicia, stato medievale nato nell’XI secolo, alleato dei Crociati e legato profondamente a Genova e Venezia, crollato sotto l’invasione mamelucca nel 1375. La corona di Cilicia sarebbe passata poi ai Savoia. Da un piccolo villaggio della cittadina, Kaladuran, si vede il mare e, oltre il confine con la Turchia, si erge il Mussa Dagh, il Monte di Mosè, dove nel 1915, nel pieno delle persecuzioni e deportazioni del genocidio, un pugno di armeni aveva lottato contro l’esercito turco, decisi a resistere davanti alla barbarie.

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