Papa in Armenia: mons. Minassian, “la visita di Francesco è una benedizione per tutto il popolo” (SIR 11.04.16)

“La gente, i fedeli, la comunità. Tutti sono ansiosi e aspettano con gioia il momento di incontrare Sua Santità, malgrado e con tutta la tensione che si sta vivendo negli ultimi giorni ma con la speranza che questa difficoltà sia superata”. A descrivere l’atmosfera con la quale l’Armenia ha accolto la notizia del viaggio del Papa nel Paese caucasico è monsignor Raphael Minassian, ordinario per gli armeni cattolici dell’Europa orientale. L’annuncio ufficiale è stato dato sabato scorso dalla Santa Sede: Papa Francesco compirà due viaggi nella regione del Caucaso nei prossimi mesi. Sarà in Armenia dal 24 al 26 giugno e in Georgia e Azerbaigian dal 30 settembre al 2 ottobre.
Nei primi giorni di aprile, si sono riaccesi gli scontri che nella Repubblica del Nagorno-Karabakh, regione contesa tra l’Armenia e l’Azerbaigian. Il vescovo Minassian ha escluso una visita del Papa in quella regione. “Il Santo Padre – spiega – farà tutte le visite del protocollo e sarà sempre accompagnato da Sua Santità Karekin II, Supremo Patriarca e Catholicos di tutti gli Armeni”. A questo proposito, il vescovo fa sapere che durante il suo viaggio in Armenia, Papa Francesco sarà ospite e soggiornerà presso il Catholicos. “Ci saranno tutto il clero, i vescovi e il Patriarca armeno cattolico. Tutti verranno qui da tutto il mondo per accogliere il Santo Padre e poi ci saranno i nostri fedeli armeni cattolici che sono oltre 160mila”. “Punto culmine” del viaggio del Papa – dice sempre mons. Minassian – sarà la messa il 25 giugno a Gumri che è la seconda città dell’Armenia, scelta per la Messa con il Papa perché si trova nella regione dove vive la maggioranza della comunità cattolica.
“La visita di Papa Francesco – conclude il vescovo – è una benedizione. Un incoraggiamento per noi come Chiesa cattolica per continuare la nostra missione, e una grande possibilità per tutto il popolo armeno per esprimere la sua gratitudine per quello che ha fatto il Santo Padre per il popolo armeno, riconoscendo nell’aprile 2015 il genocidio armeno del XX secolo. Un diritto che è stato negato per cento anni e di cui il Santo Padre ha dato testimonianza. Siamo grati”.

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“Riconoscere il genocidio armeno farebbe bene alla Turchia” (Varesenews 11.04.16)

«Se la Turchia ammettesse la responsabilità del genocidio armeno porterebbe pace nei cuori del suo popolo e finalmente ci permetterebbe di poter pregare sulle tombe dei nostri morti». Baykar Sivazliyan, presidente Unione Armeni d’Italia, ha il dono di generare pacatezza e soprattuto attenzione in chi lo ascolta. E i tanti presenti alla serata dedicata al genocidio armeno, organizzata dal Comune di Travedona Monate, hanno ascoltato le sue parole in silenzio in attesa di una risposta, come se dentro quella storia ci fosse l’antidoto in grado di neutralizzare i tempi difficili che stiamo vivendo. (foto sopra: Baykar Sivazliyan, Paolo Colombo, sindaco di Travedona Monate, e Ani Balian)

Ammettere quella responsabilità, infatti, potrebbe spalancare le porte dell’Europa ai turchi e dare una svolta significativa alla crisi dell’area mediorientale. «Per molti anni – ha spiegato Sivazliyan – noi abbiamo fatto una scelta di riservatezza, ora più che mai è venuto il momento di farsi sentire perché le ragioni e le ambiguità di un secolo fa, alimentano ancora l’odio in quell’area».

Il Vecchio Continente, secondo Claudio Bonvecchio, preside della facoltà di scienze della comunicazione all’Insubria, ha la grande responsabilità di essere assente politicamente e soprattutto di non avere una strategia rispetto a quanto sta avvenendo nel mondo islamico. «Se è vero che l’Europa ha radici giudaico-cristiane – ha sottolineato Bonvecchio -allora deve esigere dalla Turchia l’ammissione di colpevolezza, perché nel 301 dopo Cristo il popolo armeno è stato il primo in assoluto a scegliere la religione cristiana in un mondo di pagani. Ma l’Europa non lo farà perché è troppo debole e non crede fino in fondo nella sua identità, sempre pronta com’è a rinnegare un crocefisso per non irritare qualche sensibilità».

E proprio la discriminazione religiosa, secondo Attilio Fontana, sindaco di Varese, avrebbe giocato un ruolo fondamentale nel genocidio armeno. «È vero che i giovani turchi ultranazionalisti erano laici – ha detto Fontana – ma la leva religiosa è stata utilizzata nelle varie comunità islamiche per generare l’odio in chiave antiarmena, individuando il nemico in un popolo che da secoli viveva pacificamente accanto a loro».

Per quanto si possa ricercare e argomentare, le ragioni di un genocidio sfuggono alla normale comprensione perché non c’è nulla che possa giustificare in modo esaustivo lo sterminio deliberato e consapevole di un intero popolo. «Gli armeni – ha raccontato Ani Balian, consigliere Unione armeni d’Italia – sono creatori di bellezza e la bellezza è ricchezza. Il mio popolo non ha mai amato la guerra, preferendo l’arte, la laboriosità e la cultura nel senso più alto del termine. Eravamo la parte più creativa della Turchia e, come dice Bernard Henry Levy, sterminando gli armeni, i turchi hanno segnato il loro declino economico e culturale. Un’azione paradossalmente suicida».

Come si vive nella diaspora e senza una terra a cui rivolgere la propria nostalgia e il pensiero di un ritorno? «Eleggendo la propria mente a patria simbolica – ha detto Guaman Jara Allende, funzionario consolare dell’Ecuador -. La mia famiglia è di origine ebraica sefardita (da Sefarad che significa Spagna, ndr) e la memoria di ciò che è stato ha permeato le nostre esistenze come un limite fisico, un confine, una patria immaginaria a cui riferirsi».

«Da sempre mi chiedo quale sia la mia patria – ha replicato Sivazliyan -. Forse è Sivas, cioè Sebaste in Turchia, città da cui proveniva la famiglia di mio padre e che contraddistingue il mio cognome. O forse Venezia, dove ho sempre vissuto fin da ragazzo, dove ho studiato e fatto il servizio militare. O nella repubblica Armena, l’unica terra dove il mio popolo ha potuto trovare accoglienza, pagata a caro prezzo. Da giovane andavo spesso a San Lazzaro degli armeni, un’isoletta con un’antica libreria e manoscritti di pregio. In quel fazzoletto di terra immerso nella laguna ho spesso ritrovato una parte importante della mia vita».

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Rainews. Alcuni servizi video direttamente dal Nagorno Karabakh (Rainews24 aprile 2016)

 Il giardino nero del Caucaso: reportage Rainews dal Nagorno Karabakh in bilico su una nuova guerra  Vai al video

Resta tesa la situazione in Nagorno Karabakh. Reportage dal “fronte” di Stepanakèrt  Vai al video

 

Nel Nagorno Karabakh, terra di contesa. Il reportage Vai al video

 

Nagorno Karabakh, “Noi siamo le nostre montagne”. Reportage dalla linea di contatto Vai al video

Chiesa Armena, Karekin II e Aram I presto in visita in Azerbaigian (Interris 10.04.16)

Il Catholicos di tutti gli Armeni, Karekin II, e il Catholicos della Grande Casa di Cilicia, Aram I, visiteranno insieme nei prossimi giorni il Nagorno Karabakh, la regione a maggioranza armena sottoposta all’Azerbaigian dove negli ultimi giorni è riesploso violentemente il conflitto tra azeri e armeni. Lo riferisce un comunicato ufficiale del Catholicosato della Grande Casa di Cilicia in cui viene specificato che i due Capi della Chiesa apostolica armena realizzeranno la loro visita “per portare il proprio sostegno alle forze armate armene e alla popolazione dell’Artsakh”, il nome armeno con cui si indica la regione.

Nei giorni scorsi, il Catholicos Karekin ha condannato “le operazioni aggressive e premeditate dell’Azerbaigian, lungo le frontiere del Nagorno-Karabakh nei confronti anche delle zone abitate da civili e da popolazioni pacifiche”, che “minano la stabilità della regione e annullano gli sforzi per comporre la diatriba della lotta”. Il 6 aprile anche il Catholicos Aram I aveva espresso la sua solidarietà al popolo dell’Artsakh in una conversazione telefonica con Bako Sahkyan, Presidente della Repubblica del Nagorno Karabakh, Stato “de facto” non riconosciuto da alcun membro dell’Onu.


Il termine Catholicos corrisponde alla parola greca katholikós “universale” e significa “(primate) generale” o “(vicario) generale” la cui giurisdizione si estende su una vasta area. Le Chiese cristiane (soprattutto quelle al di fuori dell’Impero romano) cominciarono ad utilizzare il termine per indicare i vescovi “primi tra pari”, probabilmente tra il IV e il V secolo. Sua Santità Karekin II è il Patriarca del Patriarcato armeno di Costantinopoli, il Patriarca Supremo e, dal 1999, il 132mo Catholicos della Chiesa apostolica armena. Aram I è un vescovo cristiano orientale libanese, Catholicos di Cilicia (regione costiera dell’Anatolia sudorientale) della Chiesa Apostolica Armena dal 1995.

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Genocidio degli armeni e persecuzioni di oggi, il 21 un incontro (Lecconotizie 10.04.16)

LECCO – Gli studenti del Liceo Leopardi giovedì 21 aprile invitano la città ad un incontro di approfondimento sul genocidio armeno, proprio alla vigilia del 24 aprile giorno in cui se ne fa memoria in tutto il mondo. Interverranno Marina Mavian, presidente delle Casa Armena Hay Dun che ha sede a Milano, e il giornalista di Avvenire Andrea Avveduto, appena tornato dalla Siria.

“Scopo della serata è approfondire la conoscenza di ciò che è accaduto 100 anni fa, certi che una più piena coscienza del passato renda lo sguardo più attento sul presente e più responsabile nei confronti di chi si trova oggi in una situazione di dolore e persecuzione” spiega la professoressa del Leopardi Laura Bellelli. “Purtroppo alcune fotografie che testimoniano il genocidio armeno trovano corrispondenze sconvolgenti con alcuni scatti della realtà attuale della Siria e di molti luoghi del Medio Oriente. Per questo abbiamo invitato anche Andrea Avveduto per conoscere meglio ciò che sta accadendo oggi”. Le testimonianze dei relatori saranno accompagnate dalla lettura di fonti storiche e da una mostra fotografica, per andare a fondo della storia del passato e del presente.

L’incontro si svolgerà in sala don Ticozzi (via Ongania 4, Lecco) giovedì 21 aprile alle 20.45.

Di seguito la locandina dell’evento:

 

locandina incontro genocidio armeni_liceo leopardi

 

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Nagorno-Karabakh: i fragili equilibri della galassia caucasica (Flipnews.org 10.04.16)

Scambio di accuse tra Armenia e Azerbaijan; l’espansionismo turco e il pragmatismo russo evidenziano l’ennesimo fallimento europeo

Le ultime tensioni tra Mosca e Ankara erano emerse il 24 novembre 2015, quando la contraerea turca aveva abbattuto un jet russo, a margine, per così dire, del conflitto siriano. Al primo aprile, questo è lo scacchiere regionale. A 22 anni dal cessate il fuoco, nuovi scontri si sono verificati tra Armenia e Azerbaijan nel Nagorno-Karabakh, enclave a maggioranza armena e cristiana in territorio azero, la cui indipendenza, proclamata nel 1991, non è riconosciuta dalla comunità internazionale. Dopo il Medio Oriente, anche il Caucaso è dunque (di nuovo) campo di battaglia per la supremazia regionale di Russia e Turchia, senza trascurare il potenziale ruolo dell’Iran, parzialmente riammesso nella comunità internazionale dall’accordo sul programma nucleare e dal suo potenziale apporto alla guerra contro i cartelli del jihad in Siria e Iraq. In tale contesto, la componente etnica e confessionale del Nagorno-Karabakh fa da corollario al dedalo intricato di relazioni internazionali che si è andato instaurando dal crollo dell’Unione Sovietica. Un discorso che vale per il Caucaso, (dove si trovano anche Cecenia, Ossezia e Daghestan), come per i Balcani, non a caso due significative sacche di reclutamento di foreign fighters per l’autoproclamato Stato islamico (Daech).

Il Nagorno-Karabakh è al centro di contese territoriali sin dal suo tentativo di secessione del 1988, quando era ancora una delle Oblast autonome dell’URSS, come Cecenia, Ossezia del Nord e Ossezia del Sud. La politica demografica dell’allora segretario generale del Partito comunista e Presidente del consiglio dei ministri dell’Unione Sovietica Iosif Stalin consisteva nell’ostacolare in tutti i modi la formazione di territori etnicamente compatti, in quanto potenziale fattore di disgregazione. Così, il Nagorno-Karabakh, a maggioranza armena ma in pieno territorio azero, è rimasto integrato nella compagine sovietica fino al suo dissolvimento. Nel 1991, quando sia Armenia che Azerbaijan hanno proclamato la loro indipendenza, la contesa territoriale è sfociata in una guerra che, secondo le stime, ha provocato circa 30mila morti e centinaia di migliaia di rifugiati. Un ruolo non indifferente nel raggiungimento della tregua, siglata nel 1994 a Mosca, è stato giocato dall’Iran, che allora dovette fronteggiare la reazione della propria opinione pubblica, in particolare della numerosa minoranza azera che ancora abita nel suo territorio (16% circa della popolazione totale) e che chiedeva a Tehran di sostenere i “fratelli” sciiti azeri contro gli “infedeli” armeni. Gli Azeri, sia in Iran che in Azerbaijan, sono infatti in larga maggioranza musulmani sciiti duodecimani, la stessa religione ufficiale della Repubblica islamica.

Al di là degli sforzi del Gruppo di Minsk, istituito nel 1992 dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) per favorire una soluzione diplomatica del conflitto nel Nagorno-Karabakh, a rivendicare il ruolo di arbitro erano (e sono ancora) due potenze regionali rivali: Turchia e Russia, entrambe consapevoli della posizione strategica del Caucaso, ricco di gas naturale e passaggio ideale per i nag kar2gasdotti verso l’Europa. Ankara, che ha con gli Azeri (popolazione di ceppo turco) profondi legami etnici, e con l’Armenia un’altrettanto profonda e storica inimicizia, sostiene Baku, con cui si è apertamente schierata anche la scorsa settimana. La Turchia del presidente Recep Tayyip Erdoğan, inoltre, è preda di deliri espansionistici e nostalgie ottomane, come ha ampiamente dimostrato a proposito della guerra in Siria, che per lui si riduce sostanzialmente alla guerra contro il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). Mosca, dal canto suo, storicamente alleata dell’Armenia nel conflitto con l’Azerbaijan, negli ultimi giorni ha dato prova di un “impeccabile” pragmatismo politico: il Primo ministro Dimitri Medvedev, pur chiedendo a entrambe le parti di porre fine alle ostilità, ha dichiarato che la Russia continuerà a essere il primo esportatore di armi sia in Armenia che in Azerbaijan. In caso contrario, ha spiegato, qualche altro attore regionale potrebbe soppiantarla, distruggendo definitivamente l’equilibrio di forze (peraltro alquanto dinamico) in atto. “Le armi”, ha aggiunto Medvedev, “si possono e si dovrebbero comprare non solo per essere un giorno utilizzate, ma anche come fattore di deterrenza”. Il Cremlino, intanto, offre un contributo significativo alla guerra contro i cartelli del jihad, anche per motivi interni: l’immediato antecedente del cosiddetto “califfato” di Daech è stato fondato nel 2007 in Cecenia, altro territorio caucasico conflittuale. Si tratta dell’organizzazione di Doku Umarov, ucciso dall’intelligence russa nel 2013, in Qatar, e sostituito da Abu Muhammad al-Qatari.

Il 3 aprile l’Azerbaijan ha annunciato unilateralmente un cessate il fuoco e, due giorni dopo, è entrata in vigore una tregua, prodotto della mediazione russa. Ma le accuse reciproche di violazioni e gli scambi di artiglieria suscitano non pochi timori, soprattutto perché l’Unione Europea è oggi molto più debole di quanto non lo fosse negli anni ’90, quando sperava di poter costituire un blocco geopolitico in grado di far pesare le proprie decisioni sul piano internazionale.

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I colpevoli della guerra nel Caucaso (Occhidellaguerra 09.04.16)

Dopo cinque giorni di combattimenti, che hanno prodotto decine di morti da entrambe le parti, si è arrivati a una tregua in Nagorno-Karabakh.

Il 5 aprile fra armeni e azeri si è tornati al fragile equilibrio del cessate il fuoco firmato nel 1994. Una firma a cui non è seguito alcun accordo di pace, e che lascia questa regione, ancora ufficialmente parte della Repubblica dell’Azerbaijan, come sospesa in un limbo. La Repubblica del Nagorno-Karabakh, a un quarto di secolo dalla sua autoproclamazione, non ha trovato alcun riconoscimento internazionale, neppure da parte dell’Armenia. Dopo la tregua, entrata in vigore martedì a mezzogiorno, i due paesi hanno continuato ad accusarsi di nuove violazioni. Anche dopo questa data, ci sono stati alcuni morti da entrambe le parti. Ma ormai i riflettori internazionali erano spenti, e il Nagorno-Karabakh è tornato ad essere quello che è da decenni, nonostante si continui sempre a sparare e a morire: un conflitto dimenticato.

Per comprendere meglio quanto avvenuto, abbiamo intervistato Armen Ashotyan, vicepresidente del Partito Repubblicano, attualmente al governo in Armenia, nonché portavoce ufficiale del partito per le relazioni internazionali.

L’escalation degli ultimi giorni ha lasciato il mondo con il fiato sospeso. Eppure, c’è molta confusione riguardo alle ragioni che hanno portato a questa nuova esplosione di violenza. I due paesi hanno fornito versioni discordanti sull’insorgere degli ultimi scontri, definiti come i più gravi degli ultimi 20 anni. Qual è la versione sua e del suo paese?

Il presidente Aliyev, i ministri degli esteri e della difesa dell’Azerbaigian, diverse volte negli ultimi anni hanno annunciato pubblicamente di voler ricorrere alle armi per risolvere il conflitto in Karabakh. Il fatto che la comunità internazionale abbia ignorato a lungo questi proclami ha portato all’escalation del conflitto. La leadership azera ha deciso di risolvere la questione per via militare, usando tutte le armi moderne che hanno acquistato negli ultimi anni, essendo uno dei paesi più militarizzati al mondo che spende un’enorme quantità di soldi per armarsi.

Per quanto riguarda la parte armena, che include anche la Repubblica del Nagorno-Karabakh, non c’era nessuna ragione di rilanciare questo conflitto armato, né da un punto di vista politico, economico o militare. Il punto è che il governo corrotto e dispotico del presidente Aliyev cerca di distogliere l’attenzione della società civile azera dagli enormi problemi sociali, economici e della democrazia, cercando di creare l’immagine di un nemico con una guerra breve ma vittoriosa. Ma la sua guerra lampo ha fallito. Perché questa guerra dei cinque giorni ha dimostrato che l’esercito armeno, o meglio l’esercito del Nagorno-Karabakh in primo luogo, è pronto a garantire la sicurezza nostra e della sua gente.

Credo che sia fondamentale che la comunità internazionale prevenga escalation come queste in futuro. E ciò investigando nel dettaglio cosa è avvenuto questa volta, chi è colpevole, e chi ha fatto cosa. Un meccanismo di prevenzione e monitoraggio è di importanza vitale per mantenere la pace nella regione del e per spingere l’Azerbaijan al tavolo delle trattative nella cornice del gruppo di Minsk, l’unica organizzazione internazionale delegata alla riconciliazione.

Quali sono le motivazioni politiche che hanno portato agli ultimi eventi? Perché proprio in questo momento? E, soprattutto, perché quest’ultima volta si è arrivati a uno scontro così violento?

Prima di tutto dobbiamo ricordare che l’Azerbaijan ha comprato una quantità enorme di armi modernissime negli ultimi anni. Inoltre, a causa della caduta del prezzo del petrolio, nel paese c’è una grande crisi sociale e finanziaria. Dobbiamo inoltre ricordare i problemi politici, le restrizioni alla libertà e la questione dei diritti umani in Azerbaijan. Questi problemi possono essere risolti solo rimpiazzando l’attuale presidente dell’Azerbaijan o – ed è questa la sua idea – distogliendo l’attenzione dai problemi interni verso l’esterno. Dobbiamo infine ricordare il possibile ruolo della Turchia. La Turchia è stata l’unico paese che ha voluto schierarsi apertamente in questo conflitto, congratulandosi con Aliyev per la sua presunta vittoria in questa guerra. Il presidente e il primo ministro turco più volte hanno espresso il loro appoggio incondizionato all’Azerbaijan “fino alla fine”. E questo nonostante l’approccio della comunità internazionale faccia appello sempre a entrambi gli stati, cerchi non la guerra ma la pace e la riconciliazione.

Ha parlato dell’ultima escalation come di un’aggressione da parte dell’Azerbaijan. Ora parliamo invece del ruolo dell’Armenia. Qual è la vostra strategia?

Il presidente Sargsyan ha annunciato giorni fa che l’Armenia firmerà un trattato con il Nagorno-Karabakh per la sicurezza e la cooperazione militare. Questa guerra dei cinque giorni ci dimostra che la sola garanzia per la sicurezza degli abitanti del Nagorno-Karabakh è il suo esercito. Grazie a Dio, ma anche alla gente di questa regione, la guerra lampo pianificata da Aliyev ha fallito. Non è riuscito a guadagnare neppure un metro, ed ha anzi avuto molti caduti nel suo esercito, che è stato ricacciato nelle posizioni precedenti alla escalation.

Per il futuro della repubblica del Nagorno-Karabakh e della sua gente, questi devono fare affidamento prima di tutto sulle loro capacità di difendere la loro patria. Certo, dobbiamo anche fare appello alla comunità internazionale, alle istituzioni europee e al gruppo di Minsk, e ad altri importanti attori della politica mondiale, affinché investighino e monitorino la situazione in futuro, sviluppando un meccanismo più appropriato per mantenere il cessate il fuoco. Inoltre, serve un modo per punire la parte che lo viola, altrimenti simili aggressioni potrebbero essere ripetute in futuro, mettendo a rischio la stabilità della regione, e non solo. Si tratta anche di una sfida per la sicurezza europea perché il Caucaso del Sud è una regione importante da molti punti di vista. Ci aspettiamo di più dalle istituzioni europee. Vogliamo essere trattati sulla base di quanto avviene, e non con un approccio indiscriminato che prescinda da chi è colpevole o meno, da chi aggredisce e da chi cerca solamente di difendere sé e la sua patria.

Dopo tanti anni di questo conflitto congelato, che poi congelato più non è di certo, qual è la prospettiva di lungo termine dell’Armenia per giungere a una soluzione?

L’Armenia è d’accordo a continuare la negoziazione nella cornice del gruppo di Minsk, che ha elaborato i principi di una possibile riconciliazione. Questi sono frutto di un compromesso, ma li accettiamo come base per una futura riconciliazione. La leadership azera rinnega gli sforzi della comunità internazionale con un approccio distruttivo nei confronti dello stesso gruppo di Minsk. Per giungere alla riconciliazione c’è bisogno di un sistema di monitoraggio e supervisione della situazione sulla linea di contatto, ed è fondamentale inoltre che il Nagorno-Karabakh ritorni ad essere parte del processo di negoziazione. Perché è impossibile decidere il futuro degli abitanti del Nagorno-Karabakh senza coinvolgere le autorità che li rappresentano.

Viene spesso sollevato il problema degli sfollati azeri che lasciarono il Nagorno-Karabakh durante la guerra. Qual è la soluzione proposta dall’Armenia per quel che riguarda questo punto? Si può immaginare un loro ritorno in Nagorno-Karabakh?

Voglio sottolineare innanzitutto che negli anni novanta ci furono rifugiati da entrambe la parti. In Armenia e in Nagorno-Karabakh ci sono migliaia di rifugiati provenienti dall’Azerbaijan. Ma i rifugiati sono una conseguenza del conflitto, e non la causa. Per risolverlo, dobbiamo guardare alle radici e cercare di risolvere le ragioni che hanno prodotto il conflitto, e non le conseguenze. Dobbiamo capire che senza riconoscere il diritto all’autodeterminazione del popolo del Nagorno-Karabakh, ogni soluzione è destinata a fallire. Questo è anche uno dei pilastri per la riconciliazione su cui lavora il gruppo di Minsk.

Mosca è un partner strategico importante dell’Armenia. Ma cosa farebbe la Russia in caso si tornasse a una guerra aperta? E che cosa fa Mosca per cercare la pace?

La Russia è alla co-presidenza del gruppo di Minsk insieme a Francia e Stati Uniti. Il fatto che sia coinvolta nella riconciliazione implica che la Russia, come questi altri paesi, debba impegnarsi con tutte le parti del conflitto. Mosca è un alleata strategica dell’Armenia e siamo parte di uno stesso blocco politico e militare.

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Peggio delle mire dell’Azerbaigian è solo il silenzio dell’Europa (Il sussidiario 10.04.16)

A giugno in Armenia e a settembre in Georgia e Azrebaigian. La missione di pace del Papa (Farodiroma 09.04.16)

Accogliendo gli inviti di Karekin II, Supremo Patriarca e Catholicos di tutti gli Armeni, delle Autorità civili e della Chiesa Cattolica, Papa Francesco dal 24 al 26 giugno prossimi sarà in Armenia. Allo stesso tempo, accogliendo gli inviti di Sua Santità e Beatitudine Ilia II, Catholicos Patriarca di tutta la Georgia, e delle Autorità civili e religiose della Georgia e dell’Azerbaigian, Bergoglio a seguito della stagione estiva si recherà nuovamente nel Caucaso, visitando questi due Paesi dal 30 settembre al 2 ottobre 2016. Lo ha comunicato il direttore della Sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi.

Siamo ormai a una settimana di scontri in Nagorno Karabakh lungo la frontiera fra la repubblica de facto occupata dagli armeni e l’Azerbaijan. Dopo molti anni i colpi della guerra tornano a suonare nel Caucaso e Papa Francesco volge lo sguardo a quelle popolazioni costrette ad abbandonare le proprie terre per non soccombere. Mai prima d’ora, negli ultimi vent’anni – dopo la fine della guerra per il Nagorno-Karabakh nel 1994 – ci sono stati tanti morti e feriti in questo conflitto, che per anni ci si è ostinati a definire “congelato”. Cadono nel vuoto, uno dopo l’altro, gli appelli della comunità internazionale che invitano le due parti al rispetto del cessate il fuoco. La tregua unilaterale dichiarata il 3 aprile scorso dall’Azerbaijan, inoltre, non è mai entrata in vigore.

“Basta con la guerra in nome di Dio! Basta con la profanazione del suo nome santo! Sono venuto in Azerbaigian come ambasciatore di pace. Fino a quando avrò fiato io griderò: “Pace, nel nome di Dio!”. Se parola si unirà a parola, nascerà un coro, una sinfonia, che contagerà gli animi, estinguerà l’odio, disarmerà i cuori”. Così parlò al mondo Giovanni Paolo II dall’Azerbaigian, il 22 maggio del 2002, incontrando – nel palazzo del presidente Heidar Aliev – i rappresentanti delle religioni, della politica, della cultura e dell’arte.

Esattamente quattordici anni fa Papa Giovanni Paolo II arrivava in Azerbaijan per poi recarsi anche in Bulgaria. Si trattava del 96° viaggio che il Pontefice polacco realizzava fuori l’Italia e malgrado i segni della malattia rallentassero sempre più i suoi ritmi, Wojtyla volle visitare il Paese che aveva guadagnato la sua indipendenza da appena un decennio. L’Azerbaijan è stato l’ottavo paese (dopo Lituania, Lettonia, Estonia, Georgia, Ucraina, Kazakistan, Armenia) visitato da Giovanni Paolo II tra quelli sorti dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, ed è il 24° paese a maggioranza musulmana tra i 131 che l’hanno ospitato.

“Fino a quando avrò fiato, io griderò: pace!”, disse arrivando a Baku, la capitale, il 22 maggio, quasi a riassumere in quel saluto il messaggio che avrebbe lasciato al popolo azero. La visita del Papa faceva parte dell’ampio cammino di formazione della democrazia di tutti quei Paesi dell’Est che come la sua patria, la Polonia, erano rimasti schiacciati per troppi anni sotto l’autoritarismo del gigante sovietico.
È di tutta evidenza l’attenzione profusa da Giovanni Paolo II a favore dei questi Stati europei che a partire dalla fine del 1989 si sono aperti alla democrazia. Un anno di rinascita, quello dell’avvio per l’Europa di una nuova era: “un processo di democratizzazione nelle sue regioni  centrali  e  orientali,  forme  di  dialogo  e  di concertazione  a  livello  continentale  ed  una nuova  coscienza  delle  radici spirituali fanno germinare l’idea di un comune destino”, disse il Pontefice ai cardinali e alla Curia romana in occasione degli auguri del Natale, il 22 dicembre 1989.
La ragione che spinse pertanto Wojtyla a visitare Azerbaijan e Bulgaria fu quella della solidarietà con comunità cattoliche lungamente emarginate e perseguitate. Nessun dubbio che tali siano apparsi agli occhi del Papa i 120 cattolici dell’Azerbaigian, lasciati soli in terra islamica, aiutati dagli ortodossi, che permise loro di sopravvivere durante la stagione staliniana, quando l’unico prete cattolico fu deportato in Siberia e l’unica chiesa completamente rasa al suolo.

Anche gli 80.000 cattolici della Bulgaria avevano subito una drammatica sorte sotto il regime comunista dagli 80.000 cattolici della Bulgaria (appena l’1% su quasi otto milioni di abitanti).
L’eparchia ortodossa dell’Azerbaigian, creata nel 1998, è direttamente soggetta al Patriarcato di Mosca: “i gesti di ospitalità reciproca compiuti dall’eparca e dal papa”, scriveva nel maggio 2002 il vaticanista Luigi Accattoli, “sono dunque da vedere come un segno provvidenziale di buon vicinato tra Roma e una componente del patriarcato, in un momento di sorda incomprensione”.

Arrivando a Baku il 22 maggio, Giovanni Paolo II si disse grato verso la Chiesa ortodossa per aver “dato accoglienza ai figli della Chiesa cattolica”, quando Stalin li privò di ogni assistenza. Nel corso della sua visita, il Papa ricordò più volte le difficoltà che il Paese aveva attraversato nel corso del periodo comunista e ringraziò gli ortodossi (“Il Signore ricompensi la loro generosità”) per aver accolto tra le loro fila i cattolici allora restati senza prete.
Proseguendo il suo viaggio che sin da subito venne letto per il suo spiccato e rivoluzionario spirito ecumenico, Papa Wojtyla abbracciò nella preghiera i fratelli musulmani per la loro tolleranza: “Lode a voi, uomini dell’islam, per esservi aperti all’ospitalità, valore così caro alla vostra religione e al vostro popolo, e aver accettato i credenti delle altre religioni come vostri fratelli”.

Alessandro Notarnicola

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Il Caucaso dimenticato (blog.rubbettinoeditore.it 09.04.16)

Lontano dai nostri schermi, si è riaccesa una crisi che, come tante altre lungo la fascia di Stati instabili che ancora divide l’Europa, speravamo rimanesse ‘congelata’. A differenza della Georgia nel 2008 e dell’Ucraina due anni fa, il conflitto militare ripreso nel Nagorno-Karabagh, fra l’Armenia e l’Azerbaigian, non fa notizia.

Estremo limite dell’Europa, in ragione degli insediamenti cristiani insediati dalla più remota antichità (l’Armenia è cristiana da prima dell’editto di Costantino), zona di transito (imbuto?) del petrolio e gas dall’Asia Centrale e dal Mar Caspio al Mar Nero, l’intera regione è rimasta in disparte dai tentativi di risistemazione continentale dopo la fine dell’URSS e del Patto di Varsavia. Vi si affacciano membri dell’UE e della NATO (Bulgaria e la Romania) sui quali premono i Balcani mal stabilizzati, la Turchia custode degli Stretti in istato confusionale, l’Ucraina che conosciamo, la Russia allargatasi alla Crimea e, appunto, i Paesi del Caucaso.

Una situazione dalle molteplici situazioni irrisolte, che pareva convenire alla mire di un Cremlino che ha più volte dimostrato di voler tenere in ostaggio il suo “estero vicino”, arroccato nella pretesa di continuare a condizionare le vicende continentali. Vi è però da chiedersi come un tale atteggiamento difensivo possa ancora conciliarsi con l’ambizione di tornare a svolgere un ruolo determinante nel più ampio contesto strategico mediorientale e mediterraneo, del quale il Mar Nero è un propaggine.

Territorio armeno consegnato all’Azerbaigian dalla politica di divide et impera di Stalin, che l’Armenia ha occupato ‘manu militari’ al momento del disgregarsi dell’URSS. La questione, dopo essere stata inizialmente affrontata alla diplomazia italiana, è da allora affidata al ‘gruppo di Minsk’, composto da Stati Uniti, Francia e Russia, senza dar luogo ad alcun positivo sviluppo, per la riluttanza di Mosca a privarsi di un’altra pedina da giocare sullo scacchiere continentale. Il riacutizzarsi del conflitto nel Nagorno Karabagh può aver colto di sorpresa Mosca, che dopo il suo exploit in Siria non aveva certo bisogno dell’ennesima diversione lungo il suo fronte meridionale. Una crisi che questa volta, invece di mettere in imbarazzo l’Occidente, le si ripercuote contro. La coda potrebbe oggi dimenare l’orso.

Fuor di metafora, presa sinora in ostaggio per condizionare gli sviluppi della reintegrazione europea, la crisi armeno-azera potrebbe essere diventata una palla al piede dell’ambizione del Cremlino di proporsi come ineludibile interlocutore internazionale. I rapporti di Mosca con l’Azerbaigian sono discreti anche se non privi di motivi di contrasto, in particolare sulla questione petrolifera e la riluttanza di Baku a lasciarsi trascinare nell’Unione euro-asiatica promossa dal suo ingombrante vicino settentrionale. Con l’Armenia il rapporto è invece più stretto, anche se non determinante, per l’assenza di alternative di cui quest’ultima dispone.

Altri attori possono oggi rivelarsi determinanti. Un tentativo fu fatto quattro anni fa, quando le parti direttamente interessate, affiancate da Stati Uniti, Russia e Turchia, si fecero fotografare assieme nell’affermare la comune intenzione di riaprire i collegamenti stradali come primo passo per la loro reintegrazione anche politica. Tentativo subito svanito, anche per la riluttanza di Ankara a normalizzare i suoi rapporti con l’Armenia. Intricate ed interconnesse come sono, le persistenti crisi regionali non si prestano a soluzioni parziali, ma devono trovare una sistemazione regionale complessiva.

Alla quale una Unione europea più convinta delle proprie potenzialità politiche dovrebbe decidersi a contribuire. anche nell’ambito di quell’Organizzazione per la Sicurezza e la Collaborazione in Europa (OSCE)  alla cui guida è quest’anno la Germania (l’Italia lo sarà nel 2018).

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Cessate il fuoco tra Armenia e Azerbaigian che aspettano Papa Francesco (Farodiroma.it 09.04.16)

I leader di Armenia e Azerbaigian sono «determinati a preservare la tregua e ad appianare le differenze». Così il premier russo, Dmitri Medvedev, citato dall’agenzia Tass, si è espresso ieri in merito agli ultimi sviluppi della crisi nella regione del Nagorno Karabakh. «Mosca — ha detto il primo ministro — non solo non sfugge alle sue responsabilità per facilitare il raggiungimento di una pace duratura, ma fa il possibile in ogni parte del processo». La Russia spera quindi che tutte le questioni legate al Nagorno Karabakh possano essere risolte al tavolo negoziale. Medvedev, che ha concluso una missione a Erevan e a Baku, dove ha incontrato i rispettivi presidenti, ha inoltre sottolineato: «Ci auguriamo che la pace possa essere duratura e che le parti possano continuare a dialogare». Ma la tregua resta fragile e ieri altri due soldati armeni sono morti in scontri con le truppe azere, suscitando una ridda di reciproche accuse tra Erevan e Baku sulla violazione della tregua concordata. La ripresa delle violenze nella regione contesa ha provocato almeno 77 morti da entrambe le parti. L’Occidente, insieme alla Russia, aveva invocato una tregua immediata, raggiunta martedì scorso con la mediazione di Mosca. Nonostante il cessate il fuoco raggiunto nel 1994, armeni e azeri non hanno mai firmato un accordo di pace.