Nagorno Karabakh, conflitto pericoloso a livello globale (Sputniknews.com 13.04.16)

I media si accorgono solo ora della crisi nella regione Nagorno Karabakh, contesa fra Armenia e Azerbaigian, ma si tratta di un conflitto che in realtà durava da anni e dove non si è mai raggiunta una vera pace.

Il conflitto è riesploso e gli scontri armati in pochi giorni hanno provocato centinaia di vittime. Il Nagorno Karabakh si è proclamato indipendente dall’Azerbaigian negli anni ’90, ma non è riconosciuto da alcun Paese, a parte l’Armenia.

La crisi nella regione si è riaccesa e rischia di provocare gravissime conseguenze in uno scenario dove ad essere coinvolti sarebbero più attori, fra cui anche la Russia e la Turchia. Una guerra dimenticata da tutti, in questo momento diventa un fattore molto rischioso a livello regionale e globale.

Per fare il punto della situazione Sputnik Italia ha raggiunto Aldo Ferrari, Direttore delle ricerche su Russia, Caucaso e Asia Centrale all’ISPI, professore alla Ca’Foscari di Venezia.

Il conflitto nel Nagorno Karabakh si è inasprito, ma la tensione fra Armenia e Azerbaigian dura da anni. Quali sono le particolarità di questo conflitto e a quali conseguenze può portare? 

                                                                                          

Quello che vediamo oggi è un nuovo peggioramento di un conflitto che non è mai terminato fra gli armeni e gli azerbaigiani nel Nagorno Karabakh, il quale ha visto nel 1994 una conclusione di un armistizio e non di una pace. È uno dei cosiddetti conflitti congelati, che congelati non sono per niente e riesplodono periodicamente. Questa riesplosione è però la più violenta che ci sia stata fino ad ora.

Anche se la tregua sembra ora sostanzialmente reggere, indubbiamente il fatto è molto grave. Ci sono varie ragioni per cui è riscoppiato il conflitto in questo momento, ma la situazione è complessa, perché bisogna conoscere bene che in questo conflitto sono presenti gli armeni e gli azerbaigiani, ma altre potenze hanno voce in capitolo, penso alla Russia, alla Turchia e agli Stati Uniti. Sono tutti fattori che complicano la situazione, più che semplificarla e risolverla.

Secondo il diritto internazionale i territori possono dichiarare che vogliono l’indipendenza, ma poi scoppia la guerra. In questi casi secondo lei che vie d’uscita esistono, l’autonomia o una soluzione federale?

Sono problemi molto gravi per i quali non esiste a mio giudizio un’unica soluzione. Secondo me la comunità internazionale dovrebbe trovare degli strumenti elastici e flessibili di volta in volta. Questi conflitti mettono a contrasto due principi giuridici contingenti: da una parte il diritto dei popoli all’autodeterminazione, dall’altra il riconoscimento del diritto internazionale dell’integrità territoriale degli Stati. I due principi sono spesso in contrasto, normalmente si tende a preferire il principio dell’integrità territoriale degli Stati, se pensiamo ai disastri che scoppierebbero se si desse il via libera a tutte le forme di separatismo.

Il riferimento principale all’integrità territoriale e nazionale è legittimo, però ci sono dei casi in cui il contrasto arriva alla guerra e allora probabilmente la comunità internazionale dovrebbe trovare strumenti più flessibili che non ha ancora trovato. Ognuno di questi casi è diverso dall’altro.

La comunità internazionale ha ritenuto che nel caso del Kosovo o del Sudan meridionale ci fossero le condizioni per giungere alla separazione. Nel Caucaso meridionale, come anche nel caso del Donbass la comunità internazionale ritiene che questi principi non esistono. Non è per niente una questione semplice, perché al di là del diritto internazionale, contano i diversi interessi fra gli Stati più forti e quindi si fa molta fatica ad individuare un percorso.

Sarebbe opportuno all’inizio tenere più presente la realtà sul terreno. Laddove si crea dopo un conflitto una situazione che rispecchia la realtà dei fatti, probabilmente sarebbe opportuno che la comunità internazionale ne tenesse conto, come ha fatto per l’appunto con il Kosovo. La mia personalissima posizione è che fermo restante che l’integrazione territoriali degli Stati vada tenuta presente, si possono e si devono fare delle eccezioni, le quali evidentemente sacrificano questo principio, ma rendono possibile il superamento del conflitto.

La guerra nel Nagorno Karabakh che ruolo può giocare a livello geopolitico nella regione, vista la presenza di più attori coinvolti?

Noi sappiamo bene che esiste nel Caucaso meridionale una sorta di contrapposizione fra la Russia che ha un alleato principale nell’Armenia e un asse occidentale che ha negli Stati Uniti e nella Turchia una linea contingente che si appoggia alla Georgia e all’Azerbaigian. È una semplificazione del quadro, ma entro certi limiti funziona. Il problema è che il quadro internazionale in questi ultimi mesi si è ulteriormente complicato e aggravato. Sappiamo com’è grave il conflitto siriano, che i rapporti fra Russia e Turchia sono entrati in una fase molto difficile e ci sono alcuni analisti che leggono il conflitto Nagorno Karabakh come una sorta di estensione delle difficoltà che la Turchia e la Russia hanno tra di loro. Mi sembra un’analisi un po’ esagerata.

A mio avviso questa recrudescenza del conflitto ha soprattutto cause locali, Armenia e Azerbaigian sono sempre ai ferri corti, le violazioni del cessate il fuoco sono quotidiane e non necessariamente quest’ultima recrudescenza va inserita in un contesto così vasto. Allo stesso tempo il conflitto nel Karabakh è pericolosissimo proprio perché Armenia è alleato della Russia, l’Azerbaigian ha dietro di sé la Turchia che a suo volta fa parte della NATO. L’aggravamento del conflitto potrebbe avere effetti devastanti non solo sulla regione, ma a livello globale.

L’opinione dell’autore può non coincidere con la posizione della redazione.

Leggi tutto: http://it.sputniknews.com/mondo/20160413/2468441/Nagorno-Karabakh.html#ixzz45jqWCNgg

La Russia e le relazioni con le repubbliche del Caucaso meridionale (Notiziegeopolitiche.net 13.04.16)

Se attualmente il Caucaso viene considerato l’estrema propaggine sud-orientale dell’Europa, questo si deve principalmente al fatto che negli ultimi due secoli di storia la regione ha vissuto quasi ininterrottamente sotto il dominio russo. Fu proprio l’Impero zarista ad avviare a partire dalla metà del XIX secolo il processo di occidentalizzazione di una regione che fino a quel momento veniva comunemente considerata storicamente e culturalmente parte del Medio Oriente, essendo rientrata per secoli nelle sfere d’influenza di imperi come quello ottomano e quello persiano, che hanno fatto del Caucaso una terra di conquista.
Verso l’inizio del XIX secolo, consolidate le recenti acquisizioni territoriali (territori di Rostov, Astrakhan e Krasnodar), e approfittando della contemporanea crisi che stava colpendo le due principali potenze regionali, ovvero i già citati imperi ottomano e persiano, l’Impero russo decise di provare a espandere ulteriormente i propri confini verso sud, nella regione del Caucaso, dove già aveva creato qualche avamposto militare. Il primo paese ad essere annesso all’Impero fu la Georgia, che già dal 1783 era diventata un protettorato russo. Invocato dal sovrano locale, nel 1801 lo zar Alessandro I entrò a Tbilisi con l’esercito, ponendo fine a una violenta guerra civile e incorporando il Regno di Kartli-Kakheti (Georgia centro-orientale) all’Impero russo. Nel 1810 i russi annetterono anche il Regno di Imereti (Georgia centro-occidentale), completando la conquista del paese. Nel frattempo l’Impero russo aveva intrapreso l’ennesima guerra contro i persiani (1804) per alcune dispute territoriali riguardanti proprio l’annessione della Georgia, uscendone qualche anno dopo vincitore. A porre fine al conflitto fu il Trattato di Gulistan, stipulato nel 1813, che obbligò l’Impero persiano a riconoscere il dominio russo sulla Georgia e a cedere allo zar il Dagestan, buona parte dell’Azerbaigian e parte dell’Armenia settentrionale.
Nel 1817 le truppe zariste guidate da Aleksey Yermolov diedero il via alla conquista del Caucaso settentrionale, abitato principalmente da popoli montanari che però riuscirono a opporre una tenace resistenza all’invasione russa. Nel 1826 scoppiò l’ultima delle guerre russo-persiane, che terminò due anni dopo con il Trattato di Turkmenchay, in seguito al quale l’Impero russo acquisì i khanati di Erivan, Nakhcivan e Talysh, oltre alla provincia di Iğdır; mentre un anno dopo i russi ebbero la meglio anche sugli ottomani, che dovettero cedere i porti di Anapa e Poti e parte della Georgia meridionale. Dopo quasi mezzo secolo di dure battaglie, i russi riuscirono infine a piegare anche la tenace resistenza dei montanari del Caucaso settentrionale, sconfiggendo prima gli uomini dell’Imam Shamil nel 1859 e poi spezzando definitivamente nel 1864 la resistenza dei circassi, arrivando a conquistare l’intera regione. Le ultime acquisizioni territoriali nel Caucaso avvennero in seguito alla Guerra russo-turca del 1877-78, quando gli ottomani dovettero cedere allo zar l’Agiara e la provincia di Kars.
In seguito alla Rivoluzione russa del 1917, che segnò la fine dell’Impero zarista, i popoli del Caucaso vissero un breve quanto effimero periodo di indipendenza, segnato da numerose guerre interetniche. Tra il 1919 e il 1921 l’Armata Rossa riuscì a riconquistare la regione, che entrò in seguito a far parte dell’Unione Sovietica. Il Caucaso settentrionale venne inglobato all’interno della RSS Russa, mentre in quello meridionale, dopo la breve esperienza della RSFS Transcaucasica, vennero create le RSS di Georgia, Armenia e Azerbaigian. Il dominio russo nel Caucaso meridionale durò per altri settant’anni, fino a quando nel 1991, in seguito al collasso dell’Unione Sovietica, le tre repubbliche non proclamarono la propria indipendenza.
Nonostante siano passati ormai 25 anni dalla dissoluzione dell’URSS, per una serie di fattori storici, politici e culturali Mosca continua a esercitare tutt’ora una forte influenza nel Caucaso meridionale, che rappresenta una regione chiave sotto molti punti di vista, verso la quale la Russia nutre ancora grandi interessi economici e geostrategici. Per queste ragioni anche dopo l’esperienza sovietica Mosca ha sempre cercato di mantenere i paesi del Caucaso all’interno della propria sfera d’influenza, usando la diplomazia,cercando di stringere negli anni accordi mirati a rafforzare la cooperazione reciproca, ed esercitando quando necessario il proprio potere coercitivo, garantitole dal ruolo di principale potenza regionale.

Il difficile rapporto con la Georgia.
In seguito alla decisione del governo di Tbilisi di rompere ogni relazione in seguito alla Seconda Guerra in Ossezia del Sud del 2008, Mosca continua a non avere alcun rapporto diplomatico ufficiale con la Georgia. Nonostante l’assenza di relazioni ufficiali, parte delle forti tensioni accumulatesi in seguito alla guerra sono state comunque stemperate negli ultimi anni, soprattutto in seguito alla salita al potere del partito del Sogno Georgiano dopo le elezioni parlamentari del 2012. L’ascesa del Sogno Georgiano, guidato dal miliardario Bidzina Ivanishvili, l’uomo più ricco del paese, ha di fatto posto fine agli anni di governo di Saakashvili, da sempre ostile nei confronti del Cremlino, e del suo Movimento Nazionale Unito, che l’anno successivo ha poi perso anche le elezioni presidenziali. La débâcle degli uomini di Saakashvili ha fatto credere a molti analisti politici in un possibile cambio di rotta di Tbilisi in politica estera e ad un conseguente riavvicinamento alla Russia; tale riavvicinamento non si è però mai concretizzato, a causa delle inconciliabili posizioni che hanno impedito finora lo sviluppo di un dialogo costruttivo tra Mosca e Tbilisi.
Il principale motivo di scontro tra i due paesi è la questione delle repubbliche separatiste di Abkhazia e Ossezia del Sud, il cui status è tuttora disputato. Tbilisi considera le due regioni parte integrante del proprio territorio, continuando a denunciare l’occupazione da parte delle milizie locali e dell’esercito russo; il Cremlino invece, in seguito al confitto del 2008 ne ha riconosciuto l’indipendenza, stringendo nel tempo rapporti sempre più stretti con i due governi locali. Come affermato recentemente dai vertici del governo georgiano, Tbilisi non ha intenzione di ripristinare i rapporti con Mosca né ora né in un prossimo futuro, almeno finché la situazione non cambierà. Il governo georgiano si aspetta infatti che la Russia faccia un passo indietro, ritrattando il riconoscimento delle due repubbliche o perlomeno ritirando le proprie truppe dalle regioni occupate; dal canto suo Mosca, principale alleato di Sukhumi e Tskhinvali, non sembra essere disposta a prendere in considerazione le richieste di Tbilisi.
La rottura dei rapporti diplomatici con Mosca ha finito per influire fortemente anche sull’economia georgiana, considerando che fino al 2006 la Russia è stata uno dei più importanti partner commerciali di Tbilisi. Il primo segno di rottura è avvenuto proprio in quell’anno, con l’embargo economico imposto da Mosca nei confronti dei vini georgiani per presunte violazioni delle norme sanitarie. La situazione è poi nettamente peggiorata in seguito al conflitto russo-georgiano, quando Mosca ha deciso di aumentare sensibilmente il prezzo del gas destinato alla Georgia, paese che non dispone di materie prime, la quale per pronta risposta ha iniziato a importare in misura sempre maggiore dall’Azerbaigian (attualmente Tbilisi importa il 90% del gas naturale da Baku, mentre solo il restante 10% proviene dalla Russia, diretto in Armenia). Recentemente, dopo che la domanda di gas nel paese è aumentata, il governo di Tbilisi ha provato a intavolare una trattativa con Gazprom per aumentare la quantità di gas russo commercializzabile nel mercato georgiano, per fare concorrenza all’Azerbaigian e ottenere prezzi più competitivi; la decisione di trattare con la compagnia russa è stata però fortemente contestata dall’opposizione, che è scesa in piazza per protestare contro la trattativa, costringendo il governo a prendere accordi per un aumento di fornitura con la compagnia azera SOCAR.
A fine anno in Georgia si terranno le elezioni parlamentari, con il Sogno Georgiano arrivato al termine del proprio mandato con Giorgi Kvirikashvili come primo ministro, dopo la parentesi di Garibashvili, che proverà a riconfermarsi alla guida del paese nonostante il crescente calo di consensi, difendendosi ancora una volta dall’assalto del Movimento Nazionale Unito dell’ex presidente Saakashvili, ora guidato dal suo delfino Davit Bakradze. L’esito di queste elezioni potrebbe avere un importante impatto nel bene o nel male sulle future relazioni tra Mosca e Tbilisi.

La cooperazione con Abkhazia e Ossezia del Sud.
ossezia e abkazia fuoriUn discorso a parte meritano Abkhazia e Ossezia del Sud, territori che la Russia riconosce ufficialmente come repubbliche indipendenti. In seguito al riconoscimento Mosca ha intensificato i rapporti diplomatici e commerciali con Sukhumi e Tskhinvali, assumendosi inoltre l’incarico di difenderei loro confini, nonché ponendosi come principale garante del loro status quo. Negli anni immediatamente successivi al conflitto con la Georgia, per cercare di far ripartire il settore economico dei due paesi Mosca ha provveduto a elargire una serie di importanti finanziamenti ai due governi, mentre per cercare di aggirare il loro isolamento politico (oltre alla Russia l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud sono riconosciute solo da Nicaragua, Venezuela e Nauru) ha provveduto a distribuire passaporti russi ai cittadini abkhazi e sud-osseti, permettendogli di spostarsi agevolmente all’interno della Federazione Russa e di viaggiare all’estero.
Nel 2014 la Russia ha stretto con l’Abkhazia un importante accordo di cooperazione che ha ulteriormente rafforzato i legami economici tra i due paesi, all’interno del quale è stato definito un prestito di circa 5 miliardi di rubli (più o meno 65 milioni di euro); parte dello stesso accordo è stata anche la creazione di uno spazio comune di difesa e sicurezza, con la decisione di Mosca di aumentare la militarizzazione del confine abkhazo-georgiano. L’anno successivo la Russia ha firmato un secondo accordo “sull’alleanza e l’integrazione” con l’Ossezia del Sud, attraverso il quale Mosca ha deciso di attuare un’unione doganale tra i due paesi per venire incontro alla precaria economia osseta, togliendo inoltre i controlli alla frontiera per rendere più agevole il transito delle persone. L’accordo ha riguardato anche la sicurezza, con la decisione di accorpare le milizie sud-ossete alle forze armate russe e agli altri corpi di sicurezza che presidiano la regione, andando a formare un vero e proprio esercito unico.
Questi ultimi accordi hanno portato le due repubbliche caucasiche a raggiungere un elevato grado d’integrazione con Mosca, spingendo diversi analisti politici a ipotizzare soprattutto nel caso dell’Ossezia del Sud una possibile futura annessione alla Russia; ipotesi rafforzata dalle parole del presidente sud-osseto Leonid Tibilov, che lo scorso ottobre ha fatto capire che il suo paese sarebbe pronto a votare l’unione alla Russia, definita come “il sogno di tante generazioni di osseti”. Finora questa ipotesi è stata però sempre smentita da Mosca, la quale è conscia del problematico impatto che una mossa di questo tipo avrebbe sulla comunità internazionale e sui rapporti con la Georgia.

L’alleanza con l’Armenia in chiave euroasiatica e la questione del Nagorno-Karabakh.
Intrappolata in una morsa formata da due paesi ostili come la Turchia a ovest e l’Azerbaigian a est, fin dal momento della sua indipendenza l’Armenia ha sempre cercato di intrattenere buoni rapporti con la Russia, unico alleato affidabile nella regione in grado di proteggere Yerevan dai bellicosi vicini ed evitarle l’isolamento politico. Nonostante questo, l’Armenia ha mantenuto per anni una posizione piuttosto ambigua in politica estera, legandosi in modo sempre più stretto a Mosca ma cercando di seguire contemporaneamente la strada dell’integrazione europea.
Dopo diverse indecisioni, nel 2013 il governo di Yerevan ha finalmente scelto il percorso da intraprendere, annunciando di volere aderire all’Unione Doganale Euroasiatica, interrompendo così il processo di integrazione europea a soli due mesi dal vertice del Partenariato Orientale tenutosi quell’anno a Vilnius, in cui l’Armenia avrebbe dovuto firmare l’Accordo di associazione con l’Unione Europea. L’anno successivo il paese è entrato ufficialmente all’interno della neonata Unione Economica Euroasiatica, aggiungendosi a Russia, Bielorussia e Kazakistan.
Il recente ingresso dell’Armenia nell’Unione Euroasiatica ha contribuito a rafforzare ulteriormente i già solidi rapporti con Mosca, che rappresenta attualmente il primo partner commerciale di Yerevan sia per quanto riguarda le importazioni che le esportazioni. Negli ultimi anni la Russia ha inoltre concesso una serie di sostanziosi finanziamenti mirati a rilanciare l’economia dell’Armenia, che in cambio ha garantito a Mosca l’esclusiva in diversi settori economici tra cui alcuni di fondamentale importanza come quello dell’approvvigionamento energetico. La maggior parte del gas e del petrolio consumato nel paese caucasico viene infatti importata da Mosca, che al momento vanta il diritto esclusivo a utilizzare tutte le infrastrutture energetiche presenti nel paese, compreso il gasdotto che collega Yerevan a Teheran, rilevato lo scorso anno da Gazprom attraverso la filiale armena Armrosgazprom. In mano a una compagnia russa è anche il settore dell’energia elettrica, che viene gestito dalla Inter RAO.
Putin con Sargsyan grandeTra la Russia e l’Armenia si registra una grande cooperazione anche nel settore della sicurezza. Considerato il progressivo riarmo azero, nonché l’aumento dell’instabilità nella regione del Nagorno-Karabakh, recentemente teatro di violenti scontri, nell’ultimo periodo Mosca ha concesso a Yerevan una serie di prestiti mirati a finanziare l’acquisto di armamenti di produzione russa, intensificando inoltre le esercitazioni congiunte con l’esercito armeno. In cambio del supporto militare l’Armenia ha concesso alla Russia di mantenere attiva la 102ª Base Militare di Gyumri, nel nord-ovest del paese, così come la 3624ª Base Aerea di Erebuni, situata alle porte di Yerevan. Recentemente l’Armenia ha inoltre firmato con Mosca un accordo che prevede la creazione di un sistema regionale comune di difesa aerea, che assicurerà lo scambio di informazioni tra i due paesi su tutto lo spazio aereo del Caucaso, e aiuterà lo sviluppo dei sistemi missilistici di difesa aerea e dei sistemi radar armeni.
La Russia gioca inoltre un ruolo di primo piano nel processo di pacificazione del Nagorno-Karabakh, territorio conteso tra Armenia e Azerbaigian che fu teatro nella prima metà degli anni Novanta di un sanguinoso conflitto armato, terminato nel 1994 in seguito a un cessate il fuoco negoziato proprio dal Cremlino. Il fatto che in oltre vent’anni i governi di Armenia e Azerbaigian non siano mai riusciti ad avviare un dialogo costruttivo, aspettando che qualche organizzazione o paese terzo risolvesse la questione per conto loro, ha così finito per conferire gradualmente alla Russia un ruolo di fondamentale importanza nel processo di risoluzione del conflitto.
Attualmente Mosca insieme a Francia e Stati Uniti siede alla presidenza del Gruppo di Minsk, struttura creata nel 1992 dall’OSCE (all’epoca CSCE) per cercare di risolvere la questione del Nagorno-Karabakh attraverso vie diplomatiche, la quale finora non è però riuscita a conseguire risultati importanti. Ma il ruolo di primo piano di Mosca va oltre i negoziati portati avanti dal Gruppo di Minsk; in seguito alle reciproche provocazioni e ai conseguenti incidenti che si sono verificati negli ultimi anni lungo la linea di confine armeno-azera, il Cremlino, quale principale potenza regionale,è sempre stato pronto a prendere in mano la situazione, finendo quindi per essere legittimato dalle due parti nel ruolo di principale mediatore del conflitto.

Mosca e l’Azerbaigian, amici in conflitto d’interessi.
Aliyev con Medvedev grandeIl rapporto che l’Azerbaigian ha intrattenuto con la partire dalla fine dell’epoca sovietica si può definire ambivalente: da un lato Baku ha sempre cercato di mantenere rapporti amichevoli con Mosca, a cui è in parte ancora legata dal recente passato e poiché consapevole dell’importante peso del Cremlino in chiave regionale; dall’altro il paese caucasico ha sviluppato negli anni una politica di progressivo allontanamento dalla Russia, per avvicinarsi invece alla Turchia e ai paesi occidentali, specialmente europei, con i quali intrattiene importanti rapporti economici. Considerati quindi i legami che uniscono Baku a Mosca e i rapporti commerciali che allo stesso tempo la avvicinano all’Europa, i vertici del paese caucasico negli ultimi anni hanno preferito promuovere una linea neutrale in politica estera, decidendo di non schierarsi apertamente né con l’una né con l’altra parte. La posizione di neutralità assunta dall’Azerbaigian è stata confermata dalla decisione di aderire nel 2011 al Movimento dei paesi non allineati, unico caso tra le repubbliche del Caucaso.
In ambito economico i rapporti tra Russia e Azerbaigian sono segnati dal conflitto d’interessi nel settore energetico causato dal tentativo dei paesi dell’Unione Europea di diversificare il proprio approvvigionamento cercando fornitori alternativi a Mosca, e dal fatto che Bruxelles abbia individuato proprio in Baku il partner ideale per la realizzazione di questo progetto. Nel 2006, con la realizzazione dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, l’Azerbaigian è riuscito a fare arrivare il proprio petrolio fino al bacino del Mediterraneo e quindi ai mercati europei, aggirando per la prima volta la Russia. Inoltre, a partire dal 2007, in seguito all’inizio dello sfruttamento del grande giacimento off-shore di Shah Deniz, il più grande giacimento di gas naturale del paese, l’Azerbaigian ha deciso di interrompere le forniture di gas russo, rivelatesi ormai non più necessarie, diventando a sua volta uno dei più importanti produttori regionali. Con la definitiva rinuncia da parte della Russia al progetto South Stream, che avrebbe dovuto trasportare il gas russo in Europa attraverso il Mar Nero e i Balcani, l’Azerbaigian ha colto l’opportunità di prendere parte alla creazione un proprio Corridoio Meridionale del Gas, progetto reso possibile dall’inizio dei lavori di realizzazione dei gasdotti TANAP e TAP, che trasporteranno il gas azero fino in Italia. Nonostante il conflitto d’interessi nel settore energetico, negli ultimi anni Mosca e Baku hanno comunque firmato diversi accordi commerciali che hanno portato a un continuo aumento degli scambi economici tra i due paesi.
Tra i settori chiave in cui i due paesi collaborano maggiormente vi è sicuramente quello della sicurezza. Baku negli ultimi anni ha incrementato esponenzialmente le proprie spese militari, stringendo importanti accordi con Mosca ma anche con Israele per l’acquisto di nuovi armamenti mirati ad ammodernare il proprio esercito e per l’organizzazione di esercitazioni militari congiunte. Nel 2012 la Russia è stata comunque costretta a rinunciare alla propria presenza militare nel paese caucasico, con la chiusura della stazione radio di Qabala in seguito al mancato accordo per il rinnovo del contratto d’affitto dell’impianto. Nonostante i due paesi abbiano sempre collaborato nel settore della sicurezza, vi sono anche punti su cui essi si trovano in disaccordo. Su tutti vi è la questione del Nagorno-Karabakh, del cui processo di pacificazione la Russia svolge un ruolo chiave. Secondo il governo dell’Azerbaigian infatti, il Gruppo di Minsk, co-presieduto da Mosca, sarebbe troppo sbilanciato su posizioni filo-armene; inoltre a Baku non viene visto di buon occhio il consistente supporto militare che la Russia fornisce all’Armenia, con l’obiettivo di far fronte proprio al riarmo azero, così come continua a creare tensioni il progressivo avvicinamento di Yerevan a Mosca, culminato con l’ingresso dell’Armenia all’interno dell’Unione Economica Euroasiatica.

Vai al sito

Israele: presidente partito Meretz, interrompere invio droni all’Azerbaigian (12.04.16)

Gerusalemme, 12 apr 10:26 – (Agenzia Nova) – Israele intende fornire più droni all’Esercito azero nei prossimi giorni, secondo una lettera inviata dalla presidente del partito Meretz, Zehava Galon, al ministro della Difesa israeliano Moshe Ya’alon. Nella lettera, Galon chiede che Ya’alon freni la consegna dei droni israeliani a Baku, paese impegnato in una sanguinosa guerra con l’Armenia per il controllo della regione a maggioranza armena del Nagorno-Karabakh. Secondo Galon, le consegne dovrebbero essere interrotte sino a quando Tel Aviv non riceverà conferma che l’Esercito azero non utilizzerà armamenti israeliani contro forze armene., come denunciato da Erevan nei giorni scorsi “Come sapete, Armenia e Azerbaigian sono entrambi amici d’Israele ed è inconcepibile che le nostre armi siano utilizzate in una guerra tra i due paesi nella regione del Nagorno-Karabakh”, ha scritto Galon

Vai al sito


Nagorno Karabakh: Israele vuole fornire più droni killer all’Azerbaigian, cresce la protesta interna (Spondasud 12.04.16)

Israele intende fornire più droni all’Esercito azero nei prossimi giorni, secondo una lettera inviata dalla presidente del partito Meretz, Zehava Galon, al ministro della Difesa israeliano Moshe Ya’alon. Nella lettera, Galon chiede che Ya’alon freni la consegna dei droni israeliani a Baku, paese impegnato in una sanguinosa guerra con l’Armenia per il controllo della regione a maggioranza armena del Nagorno-Karabakh.

Secondo Galon, le consegne dovrebbero essere interrotte sino a quando Tel Aviv non riceverà conferma che l’Esercito azero non utilizzerà armamenti israeliani contro forze armene., come denunciato da Erevan nei giorni scorsi “Come sapete, Armenia e Azerbaigian sono entrambi amici d’Israele ed è inconcepibile che le nostre armi siano utilizzate in una guerra tra i due paesi nella regione del Nagorno-Karabakh”, ha scritto Galon.

Lo scorso 7 aprile il quotidiano statunitense “Washington post” ha pubblicato sul proprio sito internet un video che mostra un “drone kamikaze” israeliano utilizzato in Nagorno-Karaback, enclave di etnia armena in Azerbaigian, teatro di scontri tra azeri ed armeni. Secondo il quotidiano statunitense si tratterebbe di uno Iai “Harop” e sarebbe una delle prime volte che questo drone viene utilizzato in un teatro di guerra.

Secondo un portavoce delle forze militari armene citate dal quotidiano statunitense il “drone kamikaze” avrebbe colpito un autobus che trasportava volontari armeni uccidendone sette. Israele ed Azerbaigian hanno sottoscritto, negli anni passati, un accordo per la vendita di armi per oltre un miliardo di dollari provocando il risentimento degli armeni. Tra le armi comprese nell’accordo droni e altri mezzi di offesa. Israele ha venduto gli Harop anche all’India.

L’Industria aerospaziale israeliana (Iai), che produce questi velivoli, ha riferito di averli venduti a diversi paesi e che hanno suscitato grande interesse. Lo Harop è un drone da combattimento. È stato progetto dalla Iai per sorvolare i campi di battaglia e lanciarsi in attacchi kamikaze contro il nemico. Qualora non fosse impostato nessun nemico da colpire il drone è stato programma per far ritorno alla base di partenza.

Vai al sito

Mons. Minassian: tutta l’Armenia attende il Papa (Radio Vaticana 12.04.16)

La gente, i fedeli, la comunità. Tutti sono ansiosi e aspettano con gioia il momento di incontrare Sua Santità, malgrado e con tutta la tensione che si sta vivendo negli ultimi giorni”,  dove ai primi di aprile sono ripresi gli scontri nella Repubblica del Nagorno-Karabakh, regione contesa con l’Azerbaigian,  “ma con la speranza che questa difficoltà sia superata”. A descrivere l’atmosfera con la quale l’Armenia ha accolto la notizia del viaggio del Papa nel Paese caucasico è mons. Raphael Minassian, ordinario per gli armeni cattolici dell’Europa orientale. L’annuncio ufficiale è stato dato sabato scorso dalla Santa Sede: Papa Francesco compirà due viaggi nella regione del Caucaso nei prossimi mesi. Sarà in Armenia dal 24 al 26 giugno e in Georgia e Azerbaigian dal 30 settembre al 2 ottobre.

Il Papa sarà accompagnato da Sua Santità Karekin II
“Il Santo Padre – spiega mons. Minassian all’agenzia Sir – farà tutte le visite del protocollo e sarà sempre accompagnato da Sua Santità Karekin II, Supremo Patriarca e Catholicos di tutti gli Armeni.  Ci saranno tutto il clero, i vescovi e il Patriarca armeno cattolico. Tutti verranno qui da tutto il mondo per accogliere il Santo Padre e poi ci saranno i nostri fedeli armeni cattolici che sono oltre 160mila”. “Punto culmine” del viaggio del Papa – dice ancora il presule – sarà la Messa il 25 giugno a Gumri che è la seconda città dell’Armenia, scelta per la Messa con il Papa perché si trova nella regione dove vive la maggioranza della comunità cattolica.

La visita una benedizione per l’Armenia
“La visita di Papa Francesco – conclude il vescovo – è una benedizione. Un incoraggiamento per noi come Chiesa cattolica per continuare la nostra missione, e una grande possibilità per tutto il popolo armeno per esprimere la sua gratitudine per quello che ha fatto il Santo Padre per il popolo armeno. (L.Z.)

Vai al sito

Nagorno Karabakh: il linguaggio dell’odio (Osservatorio Balcani e Caucaso 12.04.16)

L’istigazione all’odio, da entrambe le parti, è da sempre strumento per alimentare il conflitto in Nagorno Karabakh. Un’analisi

La guerra attecchisce dove il terreno è fertile. L’escalation in Nagorno Karabakh – che ha portato agli scontri registrati dal 2 aprile e al successivo cessate il fuoco del 5 aprile – è foraggiata non solo da una campagna di riarmo, ma anche da una continua e sistematica campagna di istigazione all’odio che dura dalla fine degli anni ‘80 ad oggi. E che non ha mancato di dare i propri frutti.

L’importanza della parolaLe parole sono fondamentali, e possono diventare il requisito per rendere accettabili una guerra o la violazione dei diritti fondamentali. Vi sono parole chiave catalizzatrici d’odio: un glossario saldamente ancorato a riferimenti culturali che rimandano ai torti subiti e all’inumanità del nemico. Parole che, se ripetute continuamente, rendono impossibile pensare pragmaticamente a determinate questioni storiche, amministrative, politiche o militari. Queste ultime diventano realtà non negoziabili, non descrivibili con altre parole, e nemmeno pensabili in altro modo.

Un ottimo studio su quali siano queste parole nel percorso di istigazione all’odio fra armeni e azerbaijani è stato condotto dallo Yerevan Press Club con lo “Yeni Nesil” Journalists’ Union of Azerbaijan nel quadro del progetto “Armenia-Azerbaijan Media Bias Reduction” dell’Eurasia Partnership Foundation (EPF) e sostenuto dal UK Conflict Prevention Pool. Ne è emerso un glossario di cliché, stereotipi e disseminazione di informazioni infondate. E che certo si sarebbe potuto arricchire di un intero capitolo raccogliendo i cinguettii contenenti gli hashtag #Karabakhnow o – ironicamente – #NKpeace. E’ l’ABC delle formule ripetute dall’una e dall’altra parte, dei concetti che hanno smesso di essere tali per essere trasformati in bellicosi slogan.

Da fatti a sloganEredità storica, genocidio, aggressione, occupazione, propaganda: questi alcuni dei termini indicati dal rapporto. Tutte queste parole hanno un’origine, si sono poi evolute con il deteriorarsi dei rapporti fra i due popoli, e con la carica di risentimento reciproco che veicolano hanno a loro volta contribuito al peggioramento dei rapporti.

L’eredità e il possesso storico del Karabakh sono l’atavica mela della discordia. Ogni monumento, la radice di ogni toponimo, ogni narrazione locale o proveniente da fonti esterne che possa in qualche modo legittimare la presunzione di possesso originario dell’area gode della massima visibilità. Per cui se Askeran è parola azera, vuol dire che la fortezza di Askeran e tutto il territorio circostante dell’attuale Karabakh sono di diritto dell’Azerbaijan. Al contrario le rovine di Tigranakert attestano che vi era una città fondata nel I secolo a.C. dal sovrano armeno Tigran il Grande (oggi si trova nel Nakhchivan, territorio dell’Azerbaijan), l’Armenia accampa allora rivendicazioni territoriali sul Nakhchivan, perché sarebbe Armenia. Vale la regola di chi è arrivato prima: la testimonianza più antica – fosse anche di millenni, anzi, preferibilmente – stabilisce chi può ritenersi autorizzato a viverci adesso.

Nagorno Karabakh

Nagorno Karabakh – mappa OBC

In verde è indicato il territorio che la regione autonoma del Nagorno Karabakh occupava in epoca sovietica, in giallo i territori occupati dalle autorità de facto di Stepanakert al di fuori di quell’area

Genocidio, aggressione, occupazione sono termini promanati dalla guerra del 1988-1994. Scontri interetnici e terribili eventi della guerra vengono etichettati con la più pesante delle accuse: il tentativo di annientamento dell’intera comunità, il genocidio. Questo vale tanto per il massacro di Khojali, del 1992 a danno degli azeri, una delle pagine più cupe del conflitto e che avrebbe meritato di essere investigato da una commissione imparziale, ai primi scontri interetnici che portarono alle fughe di armeni da Sumqait. Per l’identità nazionale armena inoltre il concetto di genocidio ha un valore particolare. E nella retorica di oggi gli azeri rappresentano, mutatis mutandis, una continuazione degli ottomani del 1915, turcofoni il cui unico scopo sarebbe di cancellare dalla faccia della terra l’esistenza della nazione armena.

L’aggressione sarebbe quella degli azeri contro la pacifica popolazione del Karabakh che chiedeva la riunificazione con l’Armenia, dell’Azerbaijan verso i suoi stessi cittadini armeni, che mai avrebbero potuto accettare di vivere sotto uno stato che li ha discriminati e perseguiti. O vice-versa sarebbe quella dei terroristi armeni appoggiati dagli occupanti che hanno cercato di causare la distruzione dello stato azerbaijano, e che ancora oggi ne minerebbero l’integrità territoriale causando infinite sofferenze agli sfollati, privati a causa dell’aggressione e dall’occupazione dei diritti di sicurezza, di movimento, di proprietà. E alle reciproche accuse di aggressione di allora si aggiunga quella fresca di questi giorni, in cui nessuno si assume la responsabilità di aver mosso la prima operazione o offensiva. E lo stesso vale per l’occupazione, per ogni metro di terra che è conteso fra i due.

C’è poi il grande capitolo della comunicazione nazionale e internazionale: le opere di propaganda di cui ci si accusa reciprocamente. Baku patisce il ruolo della diaspora armena e la visibilità che questa riesce a garantire alle cause armene e ai rapporti (percepiti come preferenziali) fra Armenia e alcuni mediatori nel conflitto come Francia e Russia.

Da parte sua l’Armenia leva gli scudi contro la caviar diplomacy e la crescita del peso diplomatico e mediale dell’Azerbaijan legato al possesso di risorse e allo sforzo economico del paese per autopromuoversi.

L’opinione pubblica compliceL’opinione pubblica è protagonista in questa corsa alla radicalizzazione. Sono gli stessi utenti della comunicazione a diventare agenti propugnatori dei messaggi, accettandone i termini di utilizzo e facendoli circolare a loro volta. Contribuisce al deterioramento della qualità del dibattito non solo chi genera deliberatamente informazioni false, o chi utilizza i soliti cavalli di battaglia per visibilità o vantaggi politici, ma anche chi dissemina la stessa retorica o le stesse informazioni non verificate solo perché incoraggiano e confermano i propri pregiudizi e generalizzazioni. E le voci dissonanti sono stigmatizzate come traditrici.

Arrivando a situazioni grottesche: nel 2012 l’Armenia non ha partecipato a Eurovision in Azerbaijan a causa di una vittima armena…per mano armena! Nell’imminenza del festival si era infatti sparsa la voce della morte di un soldato di leva diciannovenne, Albert Adibekyan, in uno scontro al fronte. Poi è arrivata la smentita, era stato ucciso da un commilitone. Ma si sa che le smentite non hanno mai lo stesso impatto comunicativo delle notizie, e la macchina dell’indignazione si era già messa in movimento, inarrestabile. E quindi ad Eurovision l’Armenia non ha partecipato.

Il meccanismo sociale del “condividi” alimenta poi l’onda disinformativa e rende la soluzione di una questione già di per sé complessa, carica di rischi per la sicurezza interna e di implicazioni di politica internazionale, da difficile a irrisolvibile. Proprio per questo il people-to-people, la confidence building quando si è a questo stadio non possono essere relegate a programmi o progetti limitati a ONG, ma devono essere incluse in una riforma del settore della sicurezza transfrontaliero come elemento cardine

Vai al sito

Il Papa in Armenia, Georgia e Azerbaigian come «messaggero di pace» (Emmausonline.it 12.04.16)

Terra di confine tra Oriente e Occidente dove i cattolici sono una esigua minoranza e dove il dialogo è una necessità, spesso un imperativo. Il Papa ha scelto il Caucaso, regione a cavallo tra l’Asia e l’Europa, dove quest’anno compirà ben due viaggi: in Armenia dal 24 al 26 giugno e in Georgia e Azerbaigian dal 30 settembre al 2 ottobre. «La gente, i fedeli, la comunità. Tutti sono ansiosi ed aspettano con gioia il momento di incontrare Sua Santità». A descrivere l’atmosfera con la quale l’Armenia ha accolto la notizia del viaggio del Papa è monsignor Raphael Minassian, ordinario per gli armeni cattolici dell’Europa Orientale. E’ alle prese con un sopralluogo, segno che l’organizzazione del viaggio papale è entrata nel vivo.

Il vescovo Minassian fa subito riferimento alla tensione che all’inizio del mese di aprile si è riaccesa nella Repubblica del Nagorno-Karabakh, la regione contesa tra l’Armenia e l’Azerbaigian. Si tratta di una zona delicatissima e gli scontri dei giorni scorsi hanno riportato le lancette della storia indietro nel tempo a quando nel 1994 fu firmato un debole armistizio ponendo una parola fine ad un conflitto che è costato la morte di circa 30mila persone e un milione di profughi. «La speranza è che questa difficoltà sia superata», dice il vescovo Minassian escludendo comunque dal programma una visita del Papa in quella regione.

La mappa dei luoghi che verranno visitati dal Papa
La mappa dei luoghi che verranno visitati dal Papa

Il viaggio del Papa in Armenia nasce sotto il segno ecumenico di un rapporto di amicizia e di affetto tra Francesco e Karekin II, Supremo Patriarca e Catholicos di tutti gli Armeni. Il Santo Padre farà tutte le visite previste dal protocollo accompagnato dal Catholicos e sarà suo ospite soggiornando presso il catholicosato.

Sono 160mila i cattolici presenti in Armenia e “punto culmine” del viaggio papale sarà la messa il 25 giugno a Gumri, la seconda città dell’Armenia, nella regione dove vive la maggioranza della comunità cattolica. La visita di Papa Francesco – conclude il vescovo – è «una benedizione e un incoraggiamento». Lo attende tutto il popolo, desideroso anche di esprimere la gratitudine per il riconoscimento lo scorso anno da parte del Santo Padre del genocidio armeno del XX secolo. «Un diritto che è stato negato per cento anni – dice oggi mons. Minassian – e di cui il Santo Padre ha dato testimonianza. Siamo grati».

In Georgia e Azerbaigian, il Papa sarà «messaggero di pace e di dialogo». E’ monsignor Giuseppe Pasotto, amministratore apostolico del Caucaso, a descrivere i «punti di forza» che caratterizzeranno il viaggio del Papa in Georgia e Azerbaigian dal 30 settembre al 2 ottobre.

Pope Francis greets the faithful as he arrives the Jubilee audience at St. Peter Square in Vatican City, 20 February 2016. ANSA/ANGELO CARCONI
(foto Ansa/Angelo Carconi)

I dati statistici qui sono molto significativi. In Azerbaigian si contano in tutto 300/400 cattolici divisi in due comunità: una costituita dagli stranieri che lavorano nel Paese, e l’altra dai locali con una presenza forte di salesiani. L’Azerbaigian (visitato da Giovanni Paolo II nel 2002) è invece un paese a maggioranza musulmana: il 62% degli abitanti sono musulmani sciiti; il 26% sunniti e il 12% ortodossi legati al Patriarcato di Mosca. In Georgia – paese a maggioranza ortodossa – la presenza cattolica è più consistente con i suoi 50mila fedeli. “Si tratta quindi – riassume il vescovo Pasotto – di Stati con situazioni completamente diverse ma dove i cattolici sono una minoranza e la Chiesa cattolica vive a contatto con confessioni e religioni di maggioranza. La visita del Papa in queste terre è significativa per almeno due ragioni. La prima è che il papa arriva in due paesi (l’Armenia e l’Azerbaigian) che sono in conflitto e speriamo che nel Nagorno-Karabash regga la tregua. Ed è significativa perché il Papa raggiunge una regione quella del Caucaso dove le comunità cattoliche non hanno una grande importanza numerica ma hanno un grande valore perché allacciano rapporti con situazioni diverse vivendo ciò che fin dall’inizio ha indicato il papa”.

Maria Chiara Biagioni

Vai al sito

Papa in Armenia, Georgia e Azerbaigian: messaggero di pace e di dialogo nelle terre dove i cattolici sono una minoranza (SIR 12.04.16)

Terra di confine tra Oriente e Occidente dove i cattolici sono una esigua minoranza e dove il dialogo è una necessità, spesso un imperativo. Il Papa ha scelto il Caucaso, regione a cavallo tra l’Asia e l’Europa, dove quest’anno compirà ben due viaggi: in Armenia dal 24 al 26 giugno e in Georgia e Azerbaigian dal 30 settembre al 2 ottobre. “La gente, i fedeli, la comunità. Tutti sono ansiosi ed aspettano con gioia il momento di incontrare Sua Santità”. A descrivere l’atmosfera con la quale l’Armenia ha accolto la notizia del viaggio del Papa è monsignor Raphael Minassian, ordinario per gli armeni cattolici dell’Europa Orientale. E’ alle prese con un sopralluogo, segno che l’organizzazione del viaggio papale è entrata nel vivo.

Il vescovo Minassian fa subito riferimento alla tensione che all’inizio del mese di aprile si è riaccesa nella Repubblica del Nagorno-Karabakh, la regione contesa tra l’Armenia e l’Azerbaigian. Si tratta di una zona delicatissima e gli scontri dei giorni scorsi hanno riportato le lancette della storia indietro nel tempo a quando nel 1994 fu firmato un debole armistizio ponendo una parola fine ad un conflitto che è costato la morte di circa 30mila persone e un milione di profughi. “La speranza è che questa difficoltà sia superata”, dice il vescovo Minassian escludendo comunque dal programma una visita del Papa in quella regione.

Il viaggio del Papa in Armenia nasce sotto il segno ecumenico di un rapporto di amicizia e di affetto tra Francesco e Karekin II, Supremo Patriarca e Catholicos di tutti gli Armeni. Il Santo Padre farà tutte le visite previste dal protocollo accompagnato dal Catholicos e sarà suo ospite soggiornando presso il catholicosato.

Sono 160mila i cattolici presenti in Armenia e “punto culmine” del viaggio papale sarà la messa il 25 giugno a Gumri, la seconda città dell’Armenia, nella regione dove vive la maggioranza della comunità cattolica. La visita di Papa Francesco – conclude il vescovo – è “una benedizione e un incoraggiamento”. Lo attende tutto il popolo, desideroso anche di esprimere la gratitudine  per il riconoscimento lo scorso anno da parte del Santo Padre del genocidio armeno del XX secolo. “Un diritto che è stato negato per cento anni – dice oggi mons. Minassian – e di cui il Santo Padre ha dato testimonianza. Siamo grati”.

In Georgia e Azerbaigian, il Papa sarà “messaggero di pace e di dialogo”. E’ monsignor Giuseppe Pasotto, amministratore apostolico del Caucaso, a descrivere i “punti di forza” che caratterizzeranno il viaggio del Papa in Georgia e Azerbaigian dal 30 settembre al 2 ottobre.

I dati statistici qui sono molto significativi. In Azerbaigian si contano in tutto 300/400 cattolici divisi in due comunità: una costituita dagli stranieri che lavorano nel Paese, e l’altra dai locali con una presenza forte di salesiani. L’Azerbaigian (visitato da Giovanni Paolo II nel 2002) è invece un paese a maggioranza musulmana: il 62% degli abitanti sono musulmani sciiti; il 26% sunniti e il 12% ortodossi legati al Patriarcato di Mosca. In Georgia – paese a maggioranza ortodossa – la presenza cattolica è più consistente con i suoi 50mila fedeli. “Si tratta quindi – riassume il vescovo Pasotto – di Stati con situazioni completamente diverse ma dove i cattolici sono una minoranza e la Chiesa cattolica vive a contatto con confessioni e religioni di maggioranza. La visita del Papa in queste terre è significativa per almeno due ragioni. La prima è che il papa arriva in due paesi (l’Armenia e l’Azerbaigian) che sono in conflitto e speriamo che nel Nagorno-Karabash regga la tregua. Ed è significativa perché il Papa raggiunge una regione quella del Caucaso dove le comunità cattoliche non hanno una grande importanza numerica ma hanno un grande valore perché allacciano rapporti con situazioni diverse vivendo ciò che fin dall’inizio ha indicato il papa”.

Vai al sito

Serj Tankian, esce la colonna sonora di “1915” composta dal cantante dei System of a Down (Rockol.it 12.04.16)

Il 22 aprile il cantante dei System of a Down Serj Tankian pubblicherà “1915”, la colonna sonora dell’omonimo film che tratta il centenario della strage del popolo armeno uscito lo scorso anno.

Come risaputo i quattro componenti della band capitanata da Tankian sono tutti di origine armena, quindi non sorprende il coinvolgimento diretto del musicista in un progetto di questo genere.

Secondo quanto scritto da Billboard, la colonna sonora di Tankian esce con un anno di ritardo rispetto al film al fine di mantenere alta l’attenzione presso il pubblico riguardo il genocidio patito dal popolo armeno un secolo fa.

Il genocidio armeno è stato perpetrato dall’impero ottomano tra il 1915 e il 1916, quando furono uccisi e deportati un milione e mezzo di armeni.

Vai al sito

Nagorno-Karabakh, l’Armenia protesta contro uso drone suicida israeliano (Spondasud 11.04.16)

(Redazione) – L’Armenia ha protestato duramente contro Israele, dopo l’utilizzo da parte dell’Esercito azero di un drone suicida israeliano in Nagorno Karabakh. Il velivolo in questione, sviluppato dall’Iai, è in grado di trasportare cariche esplosive e una telecamera che ne consente l’impiego tattico da parte delle forze di terra contro obiettivi fissi o mobili sul campo di battaglia. Le truppe azere lo hanno utilizzato contro obiettivi militari armeni nella regione contesa nel Caucaso del sud.

Il costo unitario del velivolo, denominato “Rotem”, acronimo ebraico per “drone attacco-suicidio”, è di alcune decine di migliaia di dollari. Malgrado le proteste, le Forze di difesa israeliane intendono acquistare anche in futuro droni suicidi prodotti da Israel Aerospace Industry (Iai). Tra i fornitori previsti c’è anche l’Azerbaigian, la cui corsa agli armamenti prosegue senza sosta.

Nel  2012 Israele e Azerbaigian hanno firmato un accordo militare dal valore di 1,6 miliardi di dollari che prevedeva la vendita di sistemi di sicurezza anti-aerei e, appunto, droni da parte di industrie aereospaziali israeliane. La stretta relazione militare azero-israeliana, in costante consolidamento fin dall’indipendenza di Baku, è collegata alle tensioni tra Israele e Iran, nonché alle preoccupazioni russe per la sicurezza della regione caucasica. Dal punto di vista israeliano, il legame diplomatico con l’Azerbaigian rappresenta un elemento fondamentale nella ricerca di alleanze strategiche, in una fase d’isolamento nella regione vicino-orientale.

Tuttavia, i rapporti tra i due paesi non sono solamente di tipo militare, essendo infatti contraddistinti da una forte cooperazione in ambito energetico, medico, agricolo e tecnologico; così come non è certamente da sottovalutare la presenza di una numerosa minoranza ebraica nello Stato caucasico, uno dei pochi paesi a maggioranza musulmana ad aver instaurato ottimi rapporti diplomatici con Tel Aviv.

Il drone quadrirotore Rotem è progettato per condurre missioni di ricognizione sul campo: i quattro rotori gli consentono di rimanere in volo stazionario sino all’individuazione di un obiettivo, su cui poi può dirigersi in modalità d’attacco suicida evitando autonomamente gli ostacoli tipici di un teatro di combattimento urbano. Il drone può essere agevolmente controllato da un solo militare attraverso un tablet.

Intanto, il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, e il segretario di Stato statunitense, John Kerry, hanno concordato durante una conversazione telefonica di promuovere congiuntamente la normalizzazione della crisi nella regione caucasica del Nagorno-Karabakh. Lo riferisce un comunicato diffuso sul sito del ministero degli Esteri russo. “I ministri degli Esteri hanno accolto favorevolmente l’accordo raggiunto sul cessate il fuoco nel conflitto del Nagorno-Karabakh e si sono impegnati a contribuire alla normalizzazione della situazione nella regione”, si legge nel comunicato diffuso dal ministero.

Vai al sito

Identità e coscienza. Armenia: il genocidio che non fa rumore (Difesaonline 11.04.16)

(di Giampiero Venturi)
11/04/16

L’annuncio del viaggio del prossimo giugno di Papa Francesco in Armenia e le notizie dal Nagorno Karabakh portano alla ribalta il Caucaso dopo molti mesi di silenzio.

Benché il programma della Santa Sede in termini diplomatici sia bilanciato dalla tappa prevista per settembre in Azerbaijan, è indiscutibile che la visita armena sia una scelta forte, da leggere non solo come parte di uno spirito di misericordia interconfessionale, ma anche come una riflessione a sé sulle atroci persecuzioni subite dai cristiani.

Alla luce della guerra strisciante fra Erevan e Baku, il viaggio nel Caucaso sposta le lancette della polemica in particolare verso la Turchia, ormai da tempi sotto i riflettori della politica internazionale.

Il protagonismo politico di Ankara nel quadrante eurasiatico è un dato di tutta evidenza: impantanata in Siria, coinvolta in Libia, attrice di un rinnovato scontro strategico con la Russia, chiave di volta dei flussi migratori verso l’Europa… la Turchia è indiscutibilmente al centro dell’agenda geopolitica globale.

Molto abbiamo discusso su questa rubrica delle traslazioni turche verso l’Islam radicale della Turchia, con buona pace della laicità, fulcro della nazione voluta da Ataturk. Molto si discute anche delle derive autoritarie di Erdogan, tanto preoccupanti in sede di diritto quanto facili da dimenticare nei programmi NATO e sulla strada dell’avvicinamento all’Unione Europea.

Per capire la cilindrata del motore con cui si muove la Turchia, in realtà bisogna attraversarla. È per definizione un Paese monolitico e più uguale a se stesso di quanto già la forma rigida non suggerisca. Il suo stesso assetto di Stato centralizzato e piramidale offre un’immagine di elefante grosso e lento ma proprio per questo obbligato ad essere stabile. Alla faccia delle tendenze secondo cui i federalismi sono automatica fonte di libertà, la Turchia si presenta come blocco unico fisicamente ancorato all’Egeo e all’Asia, ma ideologicamente immobile sui suoi principi fondanti.

Pochi Paesi al mondo sono legati al concetto d’identità come la Turchia. Ma se l’identità di un popolo è tanto più chiara quanto sono più forti i valori intorno a cui si riconosce, non è da escludere che perfino una negazione possa essere un valore.

Basterebbe citare il vocabolario turco, secondo cui i Curdi sono “Turchi delle montagne” o camminare per i vicoli di Kyrenia a Cipro Nord, dove il rifiuto del Sud greco è un assioma irremovibile che dura da 40 anni; nulla tuttavia ci aiuta a capire il significato ontologico del “sentirsi turchi”, più della Questione Armena.

Rimossa dalla coscienza collettiva turca senza troppi fronzoli è rimasta sepolta anche nella soffitta del perbenismo universale, al punto da essere fino a ieri praticamente ignorata da tutti.

Poco più grande della Sicilia, l’Armenia fece parlare di sé con le parole di Papa Francesco in occasione del centenario del genocidio del 1915, perfezionamento di una mattanza iniziata venti anni prima. Nonostante più di 1 milione di morti per fame, stenti ed esecuzioni sommarie, il mondo ha continuato a girare la testa per un secolo. L’evento si commemora ogni 24 aprile ma lo sanno solo gli armeni. Tra qualche giorno i giornali ne parleranno ancora, giusto il tempo di calendarizzare la velina dietro altre impellenze.

Non entriamo nella cronaca storica. Benché l’idea sia ancora attuale, l’Impero Ottomano e l’obiettivo di un’Anatolia etnicamente pura sono concetti per ora collaterali. Quel che conta è che uno dei piloni dell’identità turca, al punto da cementificarla e da resistere alla pressione del mondo intero, sia la negazione più assoluta dei fatti.

Di per sé la cosa è curiosa, soprattutto in tempi in cui ammissioni di colpe, outing ideologici ed excusatio non petita sono all’ordine del giorno.

Per la Questione Curda sotto un profilo accademico ci sarebbe al limite l’attenuante della molteplicità delle colpe (il problema è condiviso con Iran, Siria e Iraq) ma continuare a menare il can per l’aia sulla massacro degli armeni oggi sembra più che altro goffo. Soprattutto per un Paese che interseca parabole geopolitiche importanti e che siede nei salotti del jet set internazionale con un ruolo tutt’altro che secondario. Ancora di più se pensiamo che implicazioni strategiche concrete connesse ad una revisione di questo angolo di Storia, probabilmente non ce ne sarebbero.

È un fatto puramente identitario che scavalca il comune sentire e i principi elementari dell’interazione fra popoli. Ciò che viene concesso alla Turchia sotto una visuale storico-politica lascia intendere che anche per i genocidi esista la serie A e la serie B e che la mattanza armena, sacrificata sull’altare di equilibri strategici più grossi, sia obbligata a rimanere nella serie cadetta.

L’Armenia, primo Paese al mondo ad introdurre il Cristianesimo di Stato e che si arroga il merito di averlo sempre difeso, è un luogo meraviglioso, porta d’Oriente che trasuda Storia. Una Storia che gronda sangue e che non lascia spazio ad altre interpretazioni. Conosciuto o meno, il suo dramma è una cicatrice reale che per interessi ed egoismi continua ad indurirsi tra le ingiustizie dell’umanità.

I turchi, gran popolo, potrebbero fare molto in questo senso, almeno fin quando Europa e America non smetteranno di guardare altrove.

Se l’irritazione dell’alleato turco è stato finora uno spauracchio più pericoloso del vilipendio di un piccolo popolo caucasico, non è detto però che le cose non cambino. Il 24 aprile passerà con ogni certezza senza clamore: il ritorno di un Pontefice 15 anni dopo l’omaggio di Papa Giovanni Paolo II, sicuramente no.

Vai al sito