Armenia. Hanno trovato casa due orsi dello zoo più triste del mondo (Quotidiano.it 18.04.16)

Gli animali sono stati accolti dal santuario per plantigradi della Romania e hanno scoperto l’erba per la prima volta. Sistemati anche una leonessa con i cuccioli. Speranze per quelli che ancora restano nelle gabbie fatiscenti

Due coniugi del posto hanno sfamato gli animali abbandonati

 
Roma, 18 aprile 2016 – Capriccio di un miliardario e scaricati anche dalle autorità, alcuni degli animali dello «zoo più triste del mondo» – così è stato ribattezzato dai media – della cittadina armena di Gyumri hanno trovato una nuova casa. La buona notizia è per gli orsi Masha e Grisha che insieme a tre leoni e due porcellini d’india vivevano rinchiusi in anguste gabbie in pessime condizioni di salute. Gli animali facevano parte di un piccolo zoo privato allestito da un miliardario armeno che poi è fuggito abbandonandoli al loro destino.

Armenia: salvati gli orsi dello zoo più triste del mondo (Meteoweb 18.04.16)

Salvi gli orsi dello zoo “più triste del mondo” (Tio.ch 18.04.16)

La Turchia massacra i tesori d’arte, peggio dell’Isis (Linkiesta.it 18.04.16)

I devastatori del patrimonio artistico-archeologico mondiale hanno di solito alcune caratteristiche comuni: l’ignoranza, il fanatismo, un deviato senso di superiorità talvolta etnica talvolta religiosa, e l’avidità. Se in tempi recenti il primato in questa classifica è toccato agli uomini dello Stato Islamico – accecati tanto dall’odio verso gli “idoli pagani” distrutti quanto dal profitto verso quelli venduti al mercato nero -, si può valutare se il secondo posto spetti alla Turchia. Che l’accusa cada su un Paese membro della Nato e alleato dell’Occidente – a cui di recente l’Unione europea ha dato sei miliardi di euro per sostenerlo nella gestione dei profughi siriani – può sorprendere, ma la lista degli scempi turchi è lunga e variegata, e nell’ultimo periodo sotto la presidenza di Recep Tayyp Erdogan si è ulteriormente arricchita.

Bombe

Nella Turchia dell’est si sono avvicendate grandi civiltà, come quelle assira, hittita, persiana, greca, romana e bizantina, che hanno lasciato molte tracce. Fortunatamente alcune sono rimaste sepolte sotto terra ma altre – intorno a cui la Storia ha continuato a scorrere portando popoli, città e Stati nuovi – no, e quando le bombe hanno iniziato a cadere sono spesso rimaste danneggiate o distrutte.
La guerra scatenata, nel corso dell’ultimo anno, da Erdogan contro il Pkk curdo nella regione sud-orientale della Turchia ha già devastato Amida (Diyarbakir in turco), città abitata in maggioranza da curdi, che è sito dell’Unesco. La cinta muraria romana del IV sec d.C. è la seconda fortificazione antica più estesa al mondo dopo la muraglia cinese e pare sia gravemente danneggiata, dei meravigliosi edifici bizantini e medievali all’interno della città vecchia in molti casi restano solo calcinacci – altri sono stati parzialmente abbattuti per allargare le strade e far passare i carri armati turchi – e la cattedrale cattolica armena di San Sergio è andata quasi completamente distrutta. Anche il bazar storico, la moschea di Kurşunlu e un antico hammam sono stati gravemente danneggiati. Nisibi (o Nusaybin), altra città della Turchia sud-orientale abitata da curdi, è un importante sito archeologico di epoca romana e da più di 30 giorni consecutivi viene bersagliato dall’artiglieria turca (purtroppo non trapelano notizie né sulle condizioni della popolazione civile, né su quelle dei monumenti).
E Nisibi è solo un esempio: sono decine le città curde – spesso contenenti tesori archeologici di inestimabile valore – oggetto di bombardamenti turchi da più di un mese di cui non si ha nessuna notizia o quasi.

Dighe

Ma in Turchia non sono solo le bombe a minacciare il lascito delle civiltà antiche. Il colossale progetto per l’Anatolia del sud-est (Güneydoğu Anadolu Projesi, GAP), che tramite un vasto sistema di dighe sui fiumi Tigri ed Eufrate dovrebbe rendere coltivabili e più ricche diverse zone depresse del Paese (e al contempo danneggiare l’Iraq e la Siria, che si trovano a valle lungo il corso dei fiumi), è stato portato avanti con un rispetto pressoché nullo per il patrimonio culturale a rischio di allagamento. Se infatti in Egitto e in Siria, quando furono costruite le dighe di Aswan e di Tabqa, si fecero decine di scavi di emergenza e furono salvati i più importanti reperti (in Egitto i templi di Abu Simbel e molti altri meno noti, in Siria vari minareti medievali e il castello di Jabar), in Turchia la diga Ataturk sull’Eufrate – ultimata nel 1992 – ha sepolto in una tomba d’acqua diversi siti archeologici neolitici, la città romana di Samosata (capitale della Commagene e patria dello scrittore greco Luciano), ancora non scavata, e per metà quella di Zeugma, famosa per i meravigliosi mosaici romani frettolosamente messi in salvo dagli archeologi.
Ora, con Erdogan, la storia sta per ripetersi con la diga di Ilisu sul Tigri. La contestatissima costruzione è al momento interrotta a causa della guerriglia del Pkk, che sabota i lavori nella convinzione che la diga sia funzionale a un progetto di colonizzazione su base etnica-turca dell’intera regione. Se venissero ultimati verrebbe sommersa la città di Hasankeyf – storicamente araba/armena, di recente abitata in prevalenza da curdi -, altra perla archeologica (romana, bizantina, araba, armena e mongola) di una Turchia che sembra però ostentare un sempre maggiore disinteresse per i lasciti di civiltà diverse da quella Ottomana.

Abbandono

Un chiaro esempio del suddetto disinteresse – qui anzi sfociato in aperta ostilità – è la città di Ani, capitale dell’Impero Armeno. Distrutta dai mongoli nel XIII secolo, i suoi resti sono rimasti sepolti fino a inizio ‘900. Portati alla luce dall’archeologo Nikolai Marr furono devastati e ri-sepolti negli anni ’20 dai turchi, quando infuriava la guerra con gli armeni supportati dall’Urss. Successivamente per decenni sono rimasti in stato di abbandono, nonostante le prestigiose e frequenti denunce, e solo di recente qualcosa si è cominciato a fare. La Turchia ha promesso di proporre Ani come sito Unesco nel 2016, ma c’è ancora molto scetticismo. Un precedente poco incoraggiante è quello delle mura di Costantinopoli, gioiello ingegneristico dell’Impero Romano d’Oriente, rimaste in stato di abbandono per decenni e riparate negli anni ’80 solo per via delle pressioni straniere. I lavori furono eseguiti talmente male che quando un terremoto colpì Istanbul nel 1993 le parti restaurate crollarono, mentre quelle originali di 1600 anni prima rimasero pressoché intatte.

Islamizzazione

Ultimo affronto – questo esclusivamente imputabile al governo islamista del Akp e al presidente Erdogan – al patrimonio culturale dell’umanità è la pretesa di “islamizzare” luoghi di culto tradizionalmente altrui o, talvolta, in passato trasformati in museo perché tutti potessero goderne.
Il caso più noto è quello di Santa Sofia, il simbolo stesso di Costantinopoli prima e Istanbul poi, già chiesa e già moschea, ora museo. La voce sulle intenzioni di Erdogan gira da anni, e nel 2015 il neo-ministro della cultura e del turismo turco, Yalcin Topcu, ha detto che riaprire la Basilica di Santa Sofia come moschea è il suo “sogno, ambizione e obiettivo”.
Se per ora pare che tale sogno dovrà rimanere nel cassetto, non così bene è andata ad altre chiese meno note all’opinione pubblica mondiale. Un’altra Santa Sofia (ma stavolta nella città orientale di Trabzon), stupenda basilica del periodo dell’Impero di Trebisonda che era stata trasformata da Ataturk in un museo, nel 2012 è tornata ad essere una moschea. I suoi affreschi sono coperti, così come i suoi mosaici. Perché a quanto pare nella Turchia di Erdogan quello che non è turco, e quello che non è islamico, può essere abbandonato, convertito o distrutto senza troppi scrupoli.

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Indagine ai confini del sacro: “Armenia, i martiri dell’Ararat”. Martedì 19 aprile alle 23.05 su Tv2000 (Tv2000.it 16.04.16)

Storie, interviste, profumi e sangue sul “Metz Yeghern”, il “Grande Male”.  E poi i volti dei nuovi santi dell’Armenia. I volti dei martiri dell’Ararat. Un milione e mezzo di persone trucidate dai turchi durante la prima guerra mondiale perché armene.  David Murgia vi aspetta per una nuova interessante “Indagine ai confini del sacro” dedicato ai “martiri dell’Ararat”. Martiri dell’Ararat, di questo monte sacro dove  – la tradizione vuole – si sia arenata l’Arca di Noè e che – ironia della sorte – cambia significato a secondo di chi la pronuncia.  Ararat infatti in armeno vuol dire “Creazione di Dio”. E in turco invece significa “Montagna del dolore”. Sono passati oltre cento anni  da quello che è riconosciuto come il primo massacro su basi etniche del Novecento. Un massacro che ha innescato polemiche politiche senza fine, lasciato ferite e risentimenti profondi. Secondo le autorità armene e numerosi storici, a perdere la vita nel 1915 durante una deportazione di massa dall’Anatolia orientale verso la Mesopotamia furono un milione e mezzo di armeni: circa i due terzi della comunità  allora residente nell’Impero ottomano. Cifre, queste, sempre contestate dai dirigenti di Ankara secondo cui il numero delle vittime è compreso tra le 250 e le 500mila.  In esclusiva, l’intervista a Michele Wegner, figlio di  Armin. T Wegner il fotografo che ha consegnato al mondo l’unico rullino che ha documentato la drammatica situazione degli Armeni.

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I nostri fratelli cristiani armeni coinvolti in una guerra che bisogna impedire a tutti i costi (Tempi.it 16.04.16)

Pubblichiamo la rubrica “Boris Godunov” di Renato Farina contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

È ripresa la guerra caucasica tra Azerbaigian e Armenia, dopo 22 anni. La notte tra il 1° e il 2 aprile è partita l’offensiva azera, con bombardamenti, carri armati e occupazione di villaggi. Gli armeni del Nagorno Karabakh hanno resistito. Ora c’è una tregua fragilissima, che pare reggere. Difficile però che i guerrieri azeri del Califfo rientrati dalla Siria, il nocciolo feroce delle truppe d’assalto azere, rinuncino a fare il loro turpe mestiere. Circolano fotografie di vecchi con le orecchie mozzate, di soldati ridenti che espongono trionfanti la testa mozzata del prigioniero infedele.

Ecco: infedele! Questa guerra che è ripresa brutalmente e ha causato in poche ora centinaia di morti la si può chiamare in molti modi: irredentista, d’indipendenza, di riconquista. In essa ognuna delle due parti può far valere princìpi di diritto a proprio sostegno. Di certo, da una parte ci sono un popolo e un esercito di una nazione cristiana, dall’altra ci sono un governo e un esercito di un paese musulmano.

Non possiamo lasciar fare: c’è una differenza di potenziale bellico enorme tra i due paesi, tutto a favore dell’Azerbaigian, il quale conta oggi su un alleato niente affatto dormiente. Si sa – e sono notizie di fonte russa – che da Raqqa sono rientrati in Caucaso i guerrieri dello Stato islamico. E ad essi si sono aggiunti i Lupi grigi turchi.

A Boris viene bene di sperare anche qui nella Russia. Ha ragione. Chi oggi difende i cristiani è in conclusione solo Putin. Ha le truppe schierate sul confine con la Turchia. Ha convocato a Mosca gli stati maggiori dei due eserciti. Ne è uscita la fragilissima tregua. Ma in Europa scarse notizie. Le agenzie internazionali si posizionano a Baku, capitale dell’Azerbaigian, molto ricca di caviale, e le notizie hanno quel sapore lì, filo-azere a più non posso.

Bisogna impedire un altro scempio.

C’è una frase da fare accapponar la pelle, per il contesto, i precedenti storici, l’orrore mai riconosciuto. È del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan. Cento e uno anni dopo il genocidio degli armeni perpetrato dai suoi predecessori al potere ha detto: «Stiamo con i nostri fratelli azeri, preghiamo perché prevalgano nei combattimenti con il minor numero di morti possibile. Supporteremo l’Azerbaigian fino alla fine».

Nessun augurio di pace, solo volontà di vincere, combattendo «fino alla fine».

In quel «fino alla fine» c’è un’eco angosciosa che fa tremare gli armeni dovunque essi siano. Soluzione finale? Quel milione e mezzo di vittime non è bastato? Gli armeni sono tre milioni e mezzo nel piccolo Stato caucasico, dieci milioni nel resto del mondo (30 mila in Italia, uguale numero degli ebrei italiani), discendenti degli scampati all’eccidio dei turchi. Ce ne sono soprattutto circa centocinquantamila in Nagorno Karabakh, una regione montuosa meravigliosa gonfia di acque e smaltata di boschi, situata geograficamente nell’Azerbaigian.

L’accordo che salta sempre all’ultimo minuto In poche righe. La guerra del 1992-1994 fu vinta dagli armeni. Molto sangue, troppo orrore. Accusa reciproca di atrocità. Ci fu una tregua. Da allora si cerca di raggiungere un accordo politico, ma non si riesce a combinare nulla. Un gruppo di paesi tra cui l’Italia (“gruppo di Minsk”) dovrebbe spingere diplomaticamente alla soluzione. Ma quando sembra che la soluzione sia pronta, ecco che accade qualcosa. Si sente dietro il soffio della Turchia, che vuole ridiscutere gli assetti del mondo dove si sente potenza equiparabile alla Russia. C’è un problema grave degli sfollati azeri, che il governo di Baku, ricchissimo per petrolio e materie prime, tiene in condizione di disagio, un po’ come gli arabi usarono e usano i palestinesi contro Israele.

Mentre si cerca una strada per la soluzione, è importante far sentire voci di solidarietà, a chi ci è fratello per civiltà e cultura e ha già pagato tanto: gli armeni. Non per vincere la guerra, ma per impedirla.

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Il suono senza tempo dell’Armenia di Hamasayan (Avvenire.it 15.04.16)

Il pianoforte di Tigran Hamasayan inizia a preludiare in totale solitudine, quasi stesse inseguendo suggestioni eteree, forse anche lontani ricordi; il linguaggio ha evidenti rimandi alla musica jazz ma, proprio quando ci si aspetta l’ingresso di un sassofono o di una tromba, ecco materializzarsi cupa e profonda la voce di un coro, che intona armonie apparentemente sospese nel tempo. È questa la cifra che caratterizza per intero l’album Luys i Luso (Luce dalla Luce), in cui il pianista armeno ha saputo evocare un mondo sonoro dove la tradizione della musica sacra della sua terra, l’idioma della creatività classica contemporanea e l’improvvisazione convivono e si alimentano vicendevolmente. Il repertorio spazia dagli antichi inni del V secolo fino ai brani che risalgono all’inizio del Novecento, lungo le tappe di una storia scavata nel solco del dolore e scandita da guerre, genocidi e diaspore: un lungo cammino di riscoperta e rivisitazione, nel quale trovano spazio arrangiamenti polifonici di melodie tradizionalmente monodiche, nuove composizioni originali e anche una sorta di concerto per pianoforte e voci. L’Armenia è una delle più antiche civiltà cristiane dell’Oriente e Hamasayan, attraverso questo ricco patrimonio di odi, preghiere e sacri canti, ha inteso rendere omaggio alle più profonde radici culturali e religiose del suo popolo. Un ritorno a casa ideale, che l’ha portato ad abbattere barriere tra generi e stili per liberare la potenza espressiva della sua musica, sostenuto dal fondamentale apporto artistico dello Yerevan State Chamber Choir e dei suoi solisti, con il loro caratteristico “suono” che accompagna l’ascoltatore tra i Canti della Resurrezione tratti dalla Divina Liturgia, le sezioni della Santa Messa fino al brano di chiusura (Benedetto è il Signore), che prende avvio da una registrazione d’archivio realizzata a Parigi nel 1912: la voce autentica di una memoria che chiede verità e giustizia per continuare a guardare con fede e speranza verso il futuro.

Tigran HamasayanYerevan State Chamber Choir
LUYS I LUSO
Ecm. Euro 20,00

Armenia e Russia firmeranno accordo su fornitura di armi (Sputnik 15.04.16)

Il governo armeno ha approvato oggi il protocollo di attuazione dell’accordo sull’erogazione di un prestito governativo russo vincolato all’acquisto di armi; i contratti sulle consegne di armi saranno firmati, ha dichiarato il vice ministro della Difesa dell’Armenia Ara Nazaryan.

“Il protocollo dispone al ministro della Difesa di firmare con i corrispondenti dicasteri gli accordi per l’erogazione di un prestito governativo vincolato all’acquisto di armamenti moderni”, — ha detto Nazaryan.

Inoltre è stato disposto alla Banca Centrale dell’Armenia di trattare con la banca russa “Vnesheconombank” le condizioni per un prestito legato all’acquisto di armi. Il ministero della Difesa deve specificare le tipologie delle armi e delle attrezzature militari moderne acquistate, dopodichè deve firmare l’accordo di fornitura con l’agenzia federale per la cooperazione tecnico-militare e la compagnia “Rosoboronexport”.

L’accordo tra Yerevan e Mosca riguardante un prestito agevolato di 200 milioni di dollari per equipaggiare l’esercito armeno con armi moderne era stato firmato nel 2015. Il prestito è stato concesso con un periodo di 3 anni per il pagamento dei soli interessi, mentre il rimborso del valore nominale del prestito ha un orizzonte di 10 anni.

Nell’incontro con il capo del governo russo Dmitry Medvedev dello scorso 7 aprile, il primo ministro armeno Hovik Abramyan ha chiesto di esercitare pressioni su “Rosoboronexport” per accelerare la chiusura dell’accordo relativo alla fornitura di materiale militare in Armenia.

In precedenza il vice premier russo Dmitry Rogozin aveva affermato che Mosca vende armi ad Armenia e Azerbaigian equilibrando gli interessi. Ha sottolineato che, non appena la Russia sospenderà le forniture di armi in uno qualsiasi di questi Paesi, il suo posto verrà preso dagli USA o da altri Stati

Leggi tutto: http://it.sputniknews.com/mondo/20160415/2488457/Azerbaigian-Nagorno-Caucaso-difesa.html#ixzz460TxACbB

SABATO 16 Aprile ore 22.30 – RAI STORIA: IL GENOCIDIO ARMENO Una strage ancora negata

RAI STORIA: IL GENOCIDIO ARMENO

Una strage ancora negata

16/04/2016 – 22:30

Nel corso della prima guerra mondiale, l’Impero Ottomano compie uno dei più grandi genocidi della storia mondiale, uccidendo gran parte della popolazione armena presente nel suo territorio. Le vittime sono oltre un milione, ma ancora oggi la Turchia nega l’intento genocida di questi omicidi di massa. Una tragedia al centro del documentario “Il genocidio armeno”, realizzato da Andrew Goldberg per la Pbs, in onda sabato 16 aprile alle 22.30 su Rai Storia. Il racconto si snoda attraverso le interviste con studiosi di fama, tra cui molti di origine turca, come Peter Balakian, Samantha Power, Ron Suny, Taner Akcam, Halil Berktay e Israele Charny. La narrazione è di Julianna Margulies e include le note storiche di Ed Harris, Natalie Portman, Laura Linney e Orlando Bloom.

Tatul Altunyan Ensemble, folklore e magia al Teatro Orione di Roma (Binrome.com 15.04.16)

Pubblico in piedi per due volte ieri sera al Teatro Orione di Roma per la première italiana del gruppo Tatul Altunyan Ensemble, che ha incantato la platea con le musiche e le danze tipiche della cultura armena.
Lo spettacolo ha visto la partecipazione di rappresentanti diplomatici e religiosi della comunità armena in Italia e di un vasto pubblico internazionale.
Lo scopo dell’evento è commemorare il genocidio del Popolo dell’Arca del 1915 e di mostrare al pubblico la determinazione e la forza dell’identità nazionale di una comunità che ancora oggi continua a soffrire le conseguenze della diaspora.
Lo spettacolo, diviso in due tempi, si costituisce di un sapiente intreccio di canzoni, movimenti e giochi di luce ipnotici che attirano l’attenzione e catturano l’anima in un turbine disordinato di sensazioni ed empatia.
Musiche, danze ed arie trasportano lo spettatore in un’atmosfera ricca di pathos e di momenti struggenti, ma anche colorata, energica e coinvolgente, che ha superato ogni discrepanza linguistica, guadagnando dieci minuti di applausi alla fine della performance.
Il gruppo Tatul Altunyan Ensemble si esibirà nei prossimo giorni a Firenze (15/04), Gubbio (17/04), Bologna (18/04), Padova (20/04) e Milano (21/04).

Tatiana Cintia

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Nagorno Karabakh: il conflitto è vivo, le persone vegetano (Osservatorio Balcani e Caucaso 15.04.16)

Mentre i politici ponderano le sorti della “zona di contatto”, le persone aspettano una sola cosa: la fine di una lunga guerra. Reportage

(Originariamente pubblicato da Новая газета, 7 aprile 2016. Titolo originale:Конфликт — живой. А люди — нет)

Il recente inasprimento del conflitto nel Nagorno Karabakh e nelle aree circostanti è il più grave degli ultimi anni. Secondo i dati ufficiali azeri, in Azerbaijan si sono contate 31 vittime militari e 6 civili, centinaia di feriti e decine di case distrutte. La tregua annunciata ufficialmente non porta sollievo agli abitanti del luogo. E mentre a Baku si svolgono comizi a sostegno delle azioni militari nei territori occupati, gli abitanti della “zona di contatto” vogliono una cosa sola: la pace.

Da Baku al fronte sono circa cinque ore di strada. Lungo il percorso il paesaggio cambia radicalmente. Il terreno giallastro e frastagliato lungo la linea del Mar Caspio, disegnata dalle sagome delle piattaforme petrolifere, si trasforma gradualmente in un sottile tappeto d’erba. La linea del Caspio prosegue più a sud, mentre la strada corre lungo le acque scure del fiume Arax, sulle cui rive si erge un alto recinto di filo spinato: il confine con l’Iran. Con l’approssimarsi del fronte, l’ambiente circostante si fa sempre più variopinto e sempre più costellato di veicoli militari, camion Kamaz con personale, mezzi blindati, carri armati, artiglieria, ambulanze e polizia militare. Checkpoint. Le colline sono scavate da rifugi, trincee, postazioni di tiro.

“Fino al primo di aprile là c’era la nostra postazione”, dice un ufficiale, indicando delle rovine carbonizzate su una collina. “Le truppe armene hanno occupato quella collina e nella notte del 2 aprile hanno cominciato a sparare su di noi. Noi abbiamo risposto e abbiamo preso Leletepe”.

L’altura di Leletepe (“Collina dei papaveri”) è fra quelle più strategiche della zona. Controllarla significa anche controllare parte dei distretti di Dzhabrail’ e Fizuli, difendere la città di Goradiz (decine di migliaia di abitanti) e anche diversi insediamenti azeri sparpagliati nei pressi della zona di contatto.

Leletepe, su cui ora sventola la bandiera azera, si affaccia su una pianura. A sinistra si vedono i villaggi iraniani, di fronte la “zona cuscinetto” di Dzhabrail’. Un po’ più a destra, in lontananza, il Karabakh.

Prima dell’inizio del conflitto nel 1991, il Karabakh era un importante distretto meridionale della Repubblica, a popolazione prevalentemente armena (40-45.000 azeri a fronte di circa 145.000 armeni). La popolazione azera viveva prevalentemente nelle pianure circostanti.

Il conflitto fu “congelato” nel 1994, con la firma di un “cessate il fuoco” temporaneo a Bishkek. Allora si prevedeva di trovare, con l’ausilio di mediatori internazionali (principalmente la Russia), una via di uscita dal conflitto in tempi brevi (si parlava di tre mesi).

Fu tracciato pertanto un confine temporaneo, là dove allora si trovavano le postazioni delle parti in guerra. Il risultato fu che sette distretti a popolazione azera furono in tutto o in parte tagliati fuori dall’Azerbaijan. Ebbe inizio un esodo di massa, con oltre mezzo milione di persone costrette a lasciare le proprie case. Queste terre furono chiamate “zone cuscinetto”. Nel linguaggio diplomatico, il confine di una zona cuscinetto si chiama “zona di contatto”. Una particolare tensione si verificò nei distretti di Fizuli e Agdam, zone fertili e densamente popolate.

Secondo le statistiche ufficiali del ministero della Difesa azero, dopo l’inizio dell’ultimo scontro nella notte fra il primo e il 2 aprile, i bombardamenti nel distretto di Agdam hanno colpito 16 villaggi, 42 edifici e 30 linee elettriche.

In un cortile del piccolo villaggio di Ahmedagaly è comparsa una tenda bianca. All’interno, lunghi tavoli con panche di legno, destinati alle persone che verranno a fare le condoglianze. La presenza di queste tende in un cortile significa che qualcuno è morto in quella casa.

Hadizhat Dadasheva, un foulard nero in testa, dispone sui tavoli tazze di vetro per il tè e barattoli di confetti. Il 5 aprile è morto suo marito, Karash Dadashev, pastore. Una sera, non lontano dalla moschea del villaggio, mentre tornava a casa con il gregge, è stato colpito da una granata. Hadizhat non ha perso solo il marito, ma anche la fonte di sostentamento per la sua numerosa famiglia: anche tutto il gregge è infatti rimasto ucciso.

“Il nostro villaggio è vicinissimo alla linea del fronte, dietro cui ora si trova la nostra Agdam (prima della guerra, Agdam era un’importante città commerciale, il fulcro del distretto, ndr)”, dice serenamente. “Quando vi fu tracciato il confine, praticamente tutti si rifiutarono di andarsene. Quella terra è nostra, la mia famiglia numerosa vive grazie ad essa. In tutti questi anni ci sono stati bombardamenti periodici, ma mai così violenti come negli ultimi giorni”, continua abbracciando la nipotina.

Gli abitanti del luogo affrontano con filosofia le interruzioni di corrente elettrica (i bombardamenti hanno messo fuori uso molte cabine), le cannonate in lontananza e i droni che volano sopra le loro teste.

“Non vi stupite della tranquillità di Hadizhat”, mi dice un suo parente. “Siamo talmente abituati a vivere in un limbo che non ci facciamo più caso. Ogni giorno potrebbe essere l’ultimo per chiunque, come dappertutto. Qui non leggiamo i giornali e non guardiamo la televisione. So solo una cosa: gli armeni del Karabakh non sono nostri nemici. Prima del conflitto vivevamo fianco a fianco e così sarà di nuovo quando la guerra sarà finita. Che si sbrigassero a mettersi d’accordo ai piani alti.

Il distretto di Terter è l’unico rimasto interamente in territorio azero dopo il 1994. Qui morirono soprattutto abitanti del luogo: tre persone, fra cui la sedicenne Turana Gasanli, che non fece in tempo ad uscire in strada quando iniziarono i bombardamenti. Turana morì un’ora prima dell’annuncio ufficiale del “cessate il fuoco”.

Decine di case sono state distrutte dai proiettili. Gli abitanti del luogo non si affrettano a rimetterle in piedi. Si adattano a vivere con i vicini in attesa della fine della guerra.

“Ho mandato mia mamma in ospedale”, raccona Gjul’nara Kerimova, in piedi nel suo salotto mezzo distrutto al secondo piano. È caduta una bomba, grazie ad Allah eravamo in un’altra parte della casa. Ma per la mamma è dura sopportare lo shock. Meglio che stia un po’ in ospedale, mentre io sono dai parenti, tanto qui non si può stare: non c’è gas né elettricità”.

La “zona di contatto” fra le truppe armene e azere si estende su oltre 150 chilometri, da sud a nord. Lungo il fronte si trovano villaggi densamente popolati, i cui abitanti vivono in prima linea.

“A volte mancano le forze per sopportare questo limbo”, si lascia andare un altro abitante del villaggio di Gjul’nara Avaz. “Né guerra, né pace, solo terrore e incertezza. Dicono che il conflitto è ‘congelato’, invece è ben vivo, ci sono continui bombardamenti e sparatorie, e ogni anno muore qualcuno”.

Nei primi anni novanta il deputato azero Rasim Musabekov è stato consigliere dell’allora presidente Heydar Aliyev e si è occupato del tema della risoluzione del conflitto. Proprio lui ha rappresentato la Repubblica nei negoziati con i mediatori nel 1993-1994. Novaja Gazeta gli ha fatto alcune domande sulla natura dell’ultimo conflitto.

“Quando le truppe si trovano a tiro di granata, succede. Un soldato la notte sente un rumore, spara in risposta. Quando si comincia a sparare, bisogna rispondere, altrimenti il nemico penserà che tutto è permesso. Ultimamente questi casi e l’intensità degli scontri sono aumentati. Non potevamo non reagire. Il motivo principale è che i negoziati partiti nel 1994 con la partecipazione dei mediatori internazionali sono in un autentico vicolo cieco. L’Armenia si pone come chi ha vinto la guerra e può imporre condizioni all’Azerbaijan. Il Gruppo di Minsk non riesce da solo ad affrontare il problema: il livello dei suoi rappresentanti è quello parlamentare. Invece qui è indispensabile avere rappresentanti di alto rango, come Vladimir Putin o il ministro degli Esteri Sergej Lavrov. Noi speriamo che tale partecipazione possa aiutare a sbloccare i negoziati. La situazione può esplodere in qualsiasi momento. Niente si è ancora calmato”.


Da sapere

Il conflitto ebbe inizio nel 1988 con rivendicazioni irredentiste nella regione autonoma del Nagorno Karabakh, situata nella repubblica sovietica dell’Azerbaijan, ma la cui popolazione era costituita per 3/4 da armeni. A partire dal 1991 il conflitto iniziò a prendere sempre più la forma di una guerra aperta tra Azerbaijan e Armenia, nel frattempo divenute repubbliche indipendenti con la dissoluzione dell’URSS.

La guerra si concluse con gli accordi per il cessate il fuoco firmati a Bishkek (Kirghizistan) nel 1994. Da quel momento, la quasi totalità del Nagorno Karabakh e buona parte di sette distretti circostanti (precedentemente prevalentemente abitati da azeri costretti ad abbandonare le proprie case in seguito al conflitto) sono sotto il controllo di forze armene. Nell’ambito del Gruppo di Minsk dell’OSCE (con tre co-presidenti: USA, Francia e Russia), non si sono mai raggiunti progressi concreti verso la risoluzione del conflitto.

Visita la pagina dedicata al Nagorno Karabakh

Turchia: ministro Affari europei, “inaccettabile” riferimento al genocidio armeno nel progress report (Agenzianuova 15.04.16)

Ankara, 15 apr 10:57 – (Agenzia Nova) – Il ministro turco degli Affari europei, Volkan Bozkir, ha definito “inaccettabile” il nuovo rapporto del Parlamento europeo sui progressi di Ankara nel processo d’adesione. Bozkir ha detto che le autorità turche non apriranno il rapporto in quanto contiene un riferimento esplicito all’uccisione di 1,5 milioni di armeni nel 1915, ad opera dell’esercito ottomano, come genocidio. La Turchia nega che il massacro degli armeni rappresenti un genocidio, affermando piuttosto che si trattò di una conseguenza della guerra civile e dei disordini dell’epoca. L’Europarlamento ha approvato ieri a Strasburgo tre distinte risoluzioni su Turchia, Albania e Bosnia-Erzegovina, in cui si chiede ai paesi un impegno maggiore per portare avanti le riforme e per allinearsi agli standard comunitari. I rapporti, redatti sulla base del pacchetto Allargamento presentato dalla Commissione lo scorso novembre, erano già stati discussi e approvati lo scorso marzo a Bruxelles nella Commissione Esteri del Parlamento Ue. Nella risoluzione sulla Turchia, approvata con 375 voti a favore, 133 contrari e 87 astensioni, si sottolinea come la cooperazione dell’Ue con il paese sulla crisi dei rifugiati debba essere tenuta ben distinta dal processo di adesione. Gli eurodeputati riconoscono che la Turchia ospita il più grande numero di rifugiati nel mondo e che il paese è un “partner strategico chiave per l’Unione europea”, ma invitano Ankara a fare di più sullo stato di diritto. (segue) (Tua)