Un albicocco al Giardino della Pace di Arco per ricordare il genocidio armeno (Secolo Trentino 21.04.16)

Un esemplare di albicocco, pianta simbolo dell’Armenia, abbellisce il Giardino della Pace di Arco e ricorda una delle più terribili tragedie del Novecento. A piantarlo, nel primo pomeriggio di giovedì 21 aprile, sono stati i ragazzi della quinta «B» della scuola primaria «Giovanni Segantini», a conclusione di un percorso di studi dedicato, e nel corso di una cerimonia in memoria del genocidio armeno alla quale ha preso parte anche il console onorario Pietro Kuciukian.

Gli alunni della quinta «B» delle «Segantini» hanno studiato la storia del popolo armeno e del genocidio che ha patito all’inizio del Novecento per mano dell’Impero Ottomano, nel corso di quest’anno scolastico, progettando e realizzando assieme agli insegnanti anche la cerimonia della messa a dimora dell’albicocco, che il Comune di Arco ha inserito in una giornata dedicata (gli Armeni commemorano il genocidio il 24 aprile), che comprende anche la consegna ufficiale al console onorario di Armenia Pietro Kuciukian dell’onorificenza al merito della città di Arco, in serata a palazzo Marcabruni-Giuliani.

La cerimonia, alla quale hanno preso parte gli assessori Stefano Miori e Silvia Girelli con la responsabile dell’Ufficio cultura Giancarla Tognoni, oltre al vicecomandante della stazione di Arco dei Carabinieri Giorgio Dalrì e al dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo Maurizio Caproni, s’è aperta con l’inno armeno suonato dai ragazzi con flauto dolce e metallofono, quindi il saluto dell’Amministrazione comunale, a cura dell’assessore Stefano Miori, e della scuola, a cura del dirigente scolastico.

A seguire l’intervento del console: «Gli Armeni amano molto gli alberi – ha detto Pietro Kuciukian, accompagnato dalla moglie Anna Maria Samuelli – perché danno il senso della vita. L’albero è un simbolo molto importante per un popolo che ha subito tante sofferenze ma che sempre è riuscito a rinascere. Ed è importante questo albicocco nel Giardino della Pace di Arco, in un’epoca di nuove malvagità, a mantenere viva la memoria di una grande malvagità ma anche a ricordarci che la speranza non ci deve mai abbandonare».

Il dirigente scolastico ha ricordato come il lavoro fatto a scuola sul genocidio armeno sia nell’ambito di uno degli obiettivi portanti della scuola: la memoria. «Di fronte alle tantissime tragedie della storia – ha detto Maurizio Caproni – non ultime quelle di oggi, occorre ricordare che non tutti i comportamenti sono uguali e che dobbiamo saper distinguere su una base etica cioè che è bene e ciò che è male, e che esistono i Giusti, cioè le persone hanno scelto la strada del bene».

Poi la messa a dimora dell’albicocco, tutti assieme, e un concerto finale dei ragazzi.

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Gli Armeni tra Baku ed Istanbul (Gariwo 21.04.16)

Sono arrivato in Armenia l’ultimo giorno degli scontri del 2-5 Aprile tra Armeni e truppe dell’Azerbaigian. Ho avuto, il giorno stesso e quelli successivi, numerose conversazioni con Armeni di tutti i ceti sociali e di tutti i livelli culturali e sono rimasto colpito dal misto di preoccupazioni attuali e ansie antiche. In quanto alla situazione obiettiva erano menzionati la ripresa di una guerra interrotta da più di venti anni, il numero notevole di vittime, lo squilibrio delle forze, il ruolo ambiguo della Russia e il silenzio della direzione politica armena. Ma s’intravedeva anche il fantasma pesante di un passato sanguinoso: la paura di perdere l’ultima unità territoriale abitata dagli Armeni fuori dalla Repubblica d’Armenia, il risveglio dei ricordi dei pogrom di Sumgait, Baku, Kirovabad, fino al trauma del 1915 e alle sue conseguenze umane, morali, politiche disastrose, e questo a pochi giorni dalla commemorazione del centunesimo anniversario del genocidio.

Esiste naturalmente il rischio di mescolare tutto, cedendo alla confusione o a reazioni estremiste incoraggiate da un’esplosione di emozioni fuori controllo. Abbinare il genocidio, la vicenda con la Turchia e quella con l’Azerbaigian e l’Alto Karabagh, al punto di nominare gli Azeri « Turchi », vuol dire mischiare dati, contesti storici e geopolitici che sono totalmente diversi. Tale sovrapposizione nutre ed è nutrita dal complesso della vittima eterna, un giogo che, accecando le coscienze, può portare a dei passi erronei e alla lode della violenza redentrice – elementi che non aiutano certamente a trovare soluzioni durevoli a entrambi i problemi.

Tuttavia, in questo periodo di commemorazione del 24 Aprile  1915, non possiamo non chiederci se questo stato d’animo ambiguo sia totalmente sbagliato. La Turchia ha da anni legato la risoluzione della questione armena con quella del conflitto tra l’Armenia, l’Alto Karabagh e l’Azerbaigian, essendo questo l’alleato etnico, politico più vicino alla Turchia. Ammettiamo che la Turchia abbia almeno parzialmente ragione; troveremo allora la forza del significato morale e simbolico della rivendicazione del Karabagh per gli Armeni nel legame con la memoria ferita del genocidio e nella convinzione che il riconoscimento del carattere armeno dell’Alto Karabagh sia un perno delle giuste compensazioni alle conseguenze tragiche dello sterminio. Sbagliano totalmente?

Spiegamoci. Il filosofo francese Paul Ricœur accennava in un articolo, Perplexités sur Israël (pubblicato nella rivista Esprit, nel Giugno 1951), alle condizioni di legittimità della fondazione dello Stato d’Israele dopo la Seconda guerra mondiale. Scartando qualsiasi tipo di fondamento religioso o nazionalistico che pretenderebbe di giustificare un diritto di proprietà del popolo ebraico sulla Palestina, faceva fuoco su un motivo morale: il debito della comunità internazionale nei confronti del popolo ebraico, dovuto alla sua incapacità a tenerlo al riparo dalla Shoah – dunque la volontà di assicurare un rifugio sicuro agli Ebrei. Credo che possiamo spostare almeno in parte questo schema al caso armeno. Molti esprimono perplessità sul conflitto dell’Alto Karabagh: «picrocolino» (dalle guerre pigrocoline nel Gargantua di Rabelais) fra popoli vicini, che si strozzano per un territorio appena equivalente a una provincia italiana, a un «département» francese (4000km quadrati) e una popolazione di circa 150000 abitanti. Molti si lamentano della rabbia nazionalistica che nel Caucaso non è stata superata nemmeno dopo tante stragi. Tutto questo è vero: i popoli della regione sono prigionieri di una storia in gran parte distorta, fatta di prepotenza, sciovinismo, odio e violenze. Ma ciò nonostante vorrei accennare a due ragioni fondamentali che potrebbero accreditare l’assennatezza delle aspirazioni armene.

Innanzitutto la volontà della popolazione armena del Karabagh di uscire dall’Azerbaigian, causata dalla minaccia di una politica nazionalistica fondata sull’odio degli Armeni. Questo fatto rinvia al principio di autodeterminazione, che non è mai stato respinto dalla comunità internazionale a proposito del Karabagh. Si tratta di evitare la sorte degli Armeni del Nakhitchevan, regione autonoma tra l’Armenia e la Turchia, anch’essa consegnata all’Azerbaigian da Stalin, mentre la Turchia fu ammessa come garante della decisione: gli Armeni che, all’inizio degli anni trenta, rappresentavano il quaranta per cento della popolazione totale, sono stati costretti poco a poco a lasciare le loro terre. Non bisogna dimenticare che il carattere armeno della regione dell’Alto Karabagh era già stato riconosciuto tramite lo statuto di «regione autonoma» conferito da Stalin. Almeno due volte – per il Kosovo e il Sud Sudan – la comunità internazionale ha consentito a violare il principio dell’integrità territoriale, quando ha giudicato che la vita delle popolazioni era minacciata da uno Stato intollerante e omicida. Nello stesso modo, gli Azeri hanno risposto con pogrom al movimento di secessione degli Armeni, e civili armeni sono stati uccisi e mutilati durante gli scontri recenti. Purtroppo pochi dubitano che, se gli Azeri riuscissero a impadronirsi del Karabagh, la rabbia della vendetta e la loro cultura dell’odio indurrebbero molti a commettere delle atrocità.

In secondo luogo, c’è un elemento di cui tutti gli Armeni, siano dentro o fuori dall’Armenia, sono consapevoli: l’Alto Karabagh è l’unica restituzione territoriale e umana possibile a mo’ di compensazione parziale della castastrofe del 1915 e della caduta nell’ abisso fino al 1923, al Trattato di Losanna, accanto alla formazione dell’Unione Sovietica. La comunità internazionale – innanzitutto le grandi potenze europee, americana, russa, politicamente responsabili del retaggio tragico degli Armeni e della situazione attuale – non può ignorare questo peso storico-morale. Oggi, quando il processo di democratizzazione in Turchia è insabbiato nella deriva autocratica di Erdogan, che nuoce anche alla promozione dei diritti della minoranza armena e a una sincera rilettura del passato, la comunità internazionale, cominciando dai Paesi europei, deve capire l’urgenza di un intervento in una zona già incandescente, e mandare un messaggio chiaro alla Turchia tramite il suo alleato azero.

Queste considerazioni incitano a promuovere l’accelerazione del processo pacifico di negoziazione dentro al gruppo di Minsk dell’Osce. Una soluzione ragionevole dovrebbe assicurare, fuori dalla sovranità Azerbaigiana, tanto la continuità territoriale dell’Armenia col Karabagh – unica garanzia minima della sopravvivenza degli Armeni nella regione-, quanto il ritorno degli Azeri laddove rappresentavano la maggioranza relativa. Non si dovrebbero escludere delle concessioni territoriali da entrambe le parti.

Ma un’ultima domanda emerge: perché sollecitare l’Azerbaigian e non la Turchia? È vero che l’Azerbaigian non era partecipe del processo genocidiario intrapreso contro gli Armeni dell’Impero ottomano, ma possiamo proporre elementi di risposta:

lo stesso valeva per Israele: perché colpire la Palestina e non la Germania? Perché era l’unica via di compenso concepibile, visto che gli Ebrei reali, non i loro fantasmi, vivevano già su questa terra che avevano scelto come terra d’insediamento.

i legami tra Turchia e Azerbaigian sono antichi. I governi dei due Paesi ripetono lo slogan famoso: «una nazione, due Stati». Abbiamo in mente le parole di Erdogan del 3 aprile, in mezzo alla breve guerra di quattro giorni : la Turchia sosterrà l’Azerbaigian « fino alla fine », conferma la volontà permanente, da parte del governo turco, di abbinare la sua propria questione armena e la vicenda tra l’Azerbaigian e l’Armenia. Inoltre, Baku non esita da anni a farsi capofila spietato del negazionismo del genocidio armeno.

– la rivalità secolare tra la Turchia e la Russia, quella che regnava già sulla regione all’inizio del Novecento, emerge di nuovo. Queste potenze si affrontano influenzando tutti i conflitti della zona, in particolarmente quello dell’Alto Karabagh. Non possiamo lasciare che i popoli del Caucaso – e sopratutto gli Armeni che hanno sofferto al massimo grado di questa concorrenza regionale – paghino per questa resa dei conti.

Solo l’accettazione di tale necessità permetterebbe un passo avanti decisivo verso la pace, essendo la via più sicura affinché si trovi una soluzione ragionevole per tutte le parti, che offrirebbe anche alla comunità internazionale la possibilità di far capire ai governanti turchi l’importanza di riconoscere le piaghe del passato per risolvere i problemi del presente, comprese le stragi di Daesh nella regione. Per questo occorre lo sforzo di tutti, cominciando dall’Europa e gli Stati Uniti, per costringere le parti – Russia compresa – ad accettare una logica di compromesso autentico, permettendo di risparmiare tante vite e di fare un passo avanti nella stabilizzazione della regione, anche da parte della Turchia, alla luce di una rilettura illuminata del passato.

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Genocidio armeno e sionismo (da Centro Studi Giuseppe Federici 21.04.16)

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza 
Comunicato n.36/16 del 21 aprile 2016, Sant’Anselmo
 
Genocidio armeno e sionismo
 
Il 24 aprile 2016 ricorre il 101° anniversario del genocidio armeno, relativo a circa 1.500.000 cristiani armeni (cattolici e scismatici) sterminati dai Turchi. Sull’argomento segnaliamo un articolo pubblicato l’anno scorso dal quotidiano israeliano “Haaretz”, relativo al ruolo che avrebbe avuto Theodor Herzl, padre del Sionismo, nella vicenda. 
 
Come Herzl liquidò gli armeni
 
Herzl sostenne il brutale sultano ottomano contro gli Armeni, credendo che questo inducesse il sultano a vendere la Palestina agli ebrei, di Rachel Elboim-Dror, Professoressa emerita di storia e cultura alla Hebrew University (“Haaretz” del 1/5/2015)
 
La questione armena ha interessato il movimento sionista sin da quando i turchi fecero un massacro di armeni alla metà degli anni 1890 – prima ancora del Primo Congresso Sionista. La strategia di Herzl si basava su un progetto di scambio: gli ebrei avrebbero pagato l’enorme debito dell’Impero Ottomano, e in cambio avrebbero ottenuto la Palestina e la possibilità di stabilirci uno stato ebraico, col consenso delle maggiori potenze. Herzl aveva cercato in ogni modo di persuadere il sultano Abdul Hamid II ad accettare, ma senza successo.
“Invece di offrire soldi al Sultano,” gli disse il suo agente diplomatico Philip Michael Nevlinski (che fece da consulente anche al sultano), “offrigli appoggio politico sulla questione armena e vedrai che accetterà la tua proposta, almeno in parte.” I paesi cristiani d’Europa avevano criticato l’assassinio dei cristiani armeni ad opera dei musulmani, comitati a sostegno degli armeni erano stati costituiti in vari paesi e l’Europa offriva anche rifugio ai leader della rivolta armena. Questa situazione rendeva assai difficile per la Turchia ottenere prestiti dalle banche europee.
Herzl seguì con entusiasmo il consiglio. Pensava fosse giusto tentare ogni strada per affrettare la nascita di uno stato ebraico. Acconsentì quindi a servire come strumento del Sultano e cercò di convincere i leader della rivolta armena che se si fossereo arresi al Sultano, questi avrebbe accolto alcune delle loro richieste. Herzl cercò anche di mostrare all’Occidente che la Turchia era anzi molto umana, che non aveva altra scelta che gestire in quel modo la rivolta armena, e che voleva la fine del conflitto e l’intesa politica. Dopo molti tentativi, il 17 maggio 1901 ebbe anche un incontro con il Sultano.
Il Sultano sperava che Herzl, giornalista famoso, sarebbe stato capace di mutare l’immagine negativa dell’Impero Ottomano. Quindi Herzl lanciò un’intensa campagna per soddisfare il desiderio del Sultano, presentando se stesso come un mediatore per la pace. Stabilì contatti ed ebbe incontri segreti con i ribelli armeni, nel tentativo di convincerli a cessare ogni violenza, ma i ribelli non si convinsero della sua sincerità e non credettero alle promesse del Sultano. Herzl tentò anche energicamente di usare per il suo disegno i canali diplomatici europei, che lui conosceva molto bene.
Come era nel suo carattere, non si consultò con altri leader del movimento sionista, e continuò ad agire in segreto. Tuttavia, occorrendogli un aiuto, scrisse a Max Nordau cercando di cooptarlo al suo progetto. Nordau rispose con un telegramma di una parola: “No”. Nella sua ansia di ottenere dai turchi la concessione della Palestina, Herzl dichiarò pubblicamente – quando l’annuale Congtresso Sionista era già iniziato – che il movimento sionista esprimeva la sua ammirazione e la sua gratitudine per il Sultano, sollevando le proteste di alcuni rappresentanti.
Il principale oppositore di Herzl su questa questione era Bernard Lazare, un intellettuale ebreo francese di sinstra, noto giornalista e critico letterario, che si era distinto nella battaglia contro il processo Dreyfus ed era un sostenitore della causa armena. Era così infuriato contro l’operato di Herzl che si dimise dal Comitato Sionista e abbandonò del tutto il movimento nel 1899. Lazare pubblicò una lettera aperta a Herzl in cui chiedeva: come è possibile che chi pretende di rappresentare un antico popolo la cui storia è scritta col sangue, offra una mano a degli assassini senza che nessun delegato del Congresso Sionista si levi a protestare?
Questo dramma che ha coinvolto Herzl – un leader che ha messo in secondo piano ogni considerazione umanitaria e si è posto al servizio del potere turco in nome dell’ideale di uno stato ebraico – è solo uno dei molti esempi di conflitto tra obiettivi politici e principi morali. Israele si è trovata più volte di fronte a simili tragici dilemmi, come dimostra la sua ormai annosa posizione di non riconoscre ufficialmente il genocidio armeno, così come da altre più recenti decisioni che riflettono la tensione esistente tra valori umanitari e considerazioni di realpolitik.
 
 
 
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Iran e Armenia guidano la nuova era della cooperazione internazionale (Lifegate.it 21.04.16)

L’Armenia cerca di crescere economicamente aggiungendo l’ultima pedina allo scacchiere euroasiatico. E c’è un nuovo protagonista: l’Iran.

Ora che le sanzioni commerciali nei confronti dell’Iran sono state abolite, il paese asiatico si trova di fronte a un’infinità di occasioni. Alla luce di questa nuova realtà, l’Iran sta unendo le forze con l’Armenia per cercare modi alternativi di fare affari e crescere economicamente.

Perché l’Iran crede nell’Armenia?

Negli ultimi due anni l’Armenia si è impegnata molto per riformare il proprio settore commerciale con l’obiettivo di diventare una piattaforma stabile e promettente dove fare affari. Dato che l’Armenia può costituire un ambiente neutrale, se l’Iran investe in questa nazione avrà presto l’opportunità di immettersi in mercati più ampi a cui prima non poteva accedere, tra cui quello dell’Unione Europea (Eu) e dell’Unione economica eurasiatica (Eeu).

L’Armenia gode – come previsto dal trattato dell’Eeu firmato alla fine del 2014 – del trasferimento di beni ammesso tra i paesi membri, cioè il Kazakistan, la Bielorussia, il Kirghizistan e la Russia. I prodotti armeni possono inoltre essere collocati sul mercato europeo a un prezzo competitivo. Il Sistema di preferenze generalizzate (Spg +) garantisce l’esportazione preferenziale di settemila prodotti armeni in Europa senza che questi vengano fermati in dogana.

Il corridoio che collega l’Europa all’Asia

Avere buone infrastrutture è la condizione necessaria per fare affari in modo efficiente e per creare un ambiente affidabile. A tal proposito l’Armenia ha iniziato a lavorare a un paio di progetti che ridurrebbero i costi e i tempi di trasporto. Uno di questi è il corridoio che collega l’Europa all’Asia e che coinvolge il confine tra Armenia, Georgia e l’Iran. Nel dicembre 2015 due sezioni del corridoio sono già state aperte.

Il progetto consiste nel miglioramento, ove possibile, delle strade già esistenti e nella costruzione di nuove strade dove ce n’è bisogno. Grazie a questo progetto la vita degli abitanti armeni potrebbe cambiare considerevolmente perché i tempi di spostamento saranno ridotti da tre a due ore, secondo alcune stime. Oltre al guadagno economico e sociale, c’è un altro aspetto di fondamentale importanza. Da quando l’Armenia ha chiuso le porte a due paesi confinanti (Turchia e Azerbaigian), deve far in modo di mitigare gli effetti di questo blocco.

Ci sono anche nuovi piani per una ferrovia di collegamento e forse per un secondo gasdotto.

Sia l’Iran che l’Armenia stanno facendo del loro meglio per trovare soluzioni alle questioni che attualmente devono affrontare, in modo da trarne vantaggio entrambi. Questa è una nuova era per la cooperazione internazionale e la crescita economica. Per fare sì che tutto ciò diventi realtà, l’Armenia si sta impegnando a costruire infrastrutture che favoriscano gli scambi commerciali tra le due nazioni

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I curdi denunciano: sulla Turchia l’ombra del genocidio degli Armeni (Secoloditalia.it 20.04.16)

Su Ankara l’ombra di un nuovo genocidio degli Armeni, circostanza sempre negata con forza dalla Turchia? Oggi l’incubo potrebbe ripetersi, denunciano i curdi, la minoranza etnica una parte della quale abita in Turchia. Dall’inizio delle operazioni militari contro il Pkk (partito terrorista curdo, di ispirazione comunista) nel sud-est della Turchia la scorsa estate «sono stati uccisi oltre 200 civili». Lo ha detto il leader del partito filo-curdo Hdp (Partito democratico del popolo, molti simile al greco Syriza), Selahattin Demirtas, presentando a Istanbul un rapporto sui 79 giorni di coprifuoco totale a Cizre, nella provincia sudorientale di Sirnak. «Abbiamo avviato contatti con Qandil (la leadership del Pkk in nord Iraq, ndr) per sostenere la ripresa di negoziati di pace, ma il governo non vuole tornare a trattare», ha aggiunto Demirtas, che ha accusato: «Nel sud-est della Turchia il governo turco ha compiuto e continua a compiere massacri di civili con la scusa della guerra al terrorismo. Il partito Akp (del presidente Recep Tayyip Erdogan) ha violato la legge molto più del Pkk». Demirtas ha concluso:«Anche se al momento non ci sono in Turchia magistrati abbastanza coraggiosi da sfidarlo, un giorno questo governo dovrà rendere conto dei massacri compiuti davanti a un tribunale internazionale. Fino ad allora, noi raccoglieremo prove sufficienti per farlo condannare», ha aggiunto il leader dell’Hdp.

I curdi minacciano di ricorrere a un tribunale internazionale

Intanto intensi scontri armati sono in corso nel nord-est della Siria al confine con la Turchia tra forze curde e milizie governative. Lo riferiscono fonti locali all’Ansa, che mostrano video e foto dei combattimenti tra l’aeroporto di Qamishli e il quartiere generale delle truppe di Damasco nella regione a maggioranza curda. Scontri tra le parti si verificano in maniera sporadica e solitamente hanno il carattere di scaramucce. Per numero di miliziani coinvolti e di uccisi – si parla di almeno 7 vittime finora – i combattimenti di queste ore sembrano indicare un innalzamento della tensione nell’area. Due giorni fa inoltre l’aviazione turca ha compiuto nuovi raid contro obiettivi del Pkk nel nord dell’Iraq. Lo rende noto lo Stato maggiore di Ankara, precisando che a colpire sono stati 22 jet da combattimento F-16 e F-4, che hanno preso di mira la regione di Gara. Nei raid, aggiunge la nota dei militari, sono stati distrutti depositi di munizioni, bunker e rifugi utilizzati dai ribelli curdi. E in questi giorni ìsi assiste a un irrigidimento di Ankara nei confronti della stampa: il direttore dell’edizione turca dell’agenzia di stampa filo-governativa russa Sputnik, Tural Kerimov, è stato respinto la scorsa notte all’aeroporto Ataturk di Istanbul, dove era giunto da Mosca su un volo Aeroflot. Lo rende noto la stessa agenzia, mostrando il relativo documento di “passeggero inammissibile”. Come già avvenuto in casi simili, le autorità turche non hanno fornito motivazioni ufficiali per il provvedimento. Nelle prossime ore è prevista l’espulsione di Kerimov in Russia. Secondo media turchi, al giornalista sono anche stati cancellati l’accredito stampa e il permesso di soggiorno. Martedì invece l’ingresso in Turchia era stato negato nello stesso aeroporto a Volker Schwenck, corrispondente per il Medio Oriente della tv pubblica tedesca Swr, poi rientrato al Cairo da cui era partito. Venerdì il sito di Sputnik era stato oscurato in Turchia, dove gli indirizzi web anti-governativi inaccessibili – soprattutto curdi – sono migliaia.

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Erdogan furioso per il rapporto Ue sulla Turchia, ‘influenzato dai curdi’

Armeni, Ebrei: l’orrore comune e il coraggio. (La Stampa 20.04.16)

marco tosatti

Fra quattro giorni gli Armeni in tutto il mondo commemorano l’inizio del Genocidio degli Armeni a Costantinopoli, un massacro organizzato dall’allora governo turco (il Trumvirato) e che ancora oggi il governo di Ankara si ostina a negare con un’attiva propaganda negazionista. Il risultato fu la morte programmata ed eseguita scientificamente di un intero popolo: un milione e mezzo di uomini, donne e bambini furono cancellati in mezzo a sofferenze inaudite nei campi di raccolta e nei deserti siriani. Esiste un legame stretto fra quel genocidio, il primo del secolo dei genocidi, e quello che avrebbe colpito qualche decennio più tardi il popolo ebraico. La Fondazione Raoul Wallemberg ricorda oggi la rivolta del ghetto di Varsavia, che ebbe inizio il 19 aprile del 1943, e durò fino al 16 maggio dello stesso anno, quando le ultime sacche di resistenza furono schiacciate dai nazisti. E afferma che “La rivolta…fu ampiamente ispirata dall’esempio dato dagli armeni nel 1915.”

Dieci anni prima uno scrittore austriaco di origine ebraica, aveva scritto “I quaranta giorni del Mussa Dagh”, un romanzo basato su fatti storici reali. Raccontava di come sette villaggi, situati sulla costa siriana, ora Turchia, su un’altura chiamata Mussa Dagh, il “monte di Mosè” aveva resistito con le armi per oltre 45 giorni all’esercito turco che voleva deportarli, fino a che non furono salvati da un intervento della flotta francese.

“Secondo testimonianze e racconti storici – scrive la Raoul Wallemberg Foundation – il libro di Werfel era molto popolare fra la gente del ghetto di Varsvia, servendo come ispirazione alla loro rivolta imminente”. Non è questo il solo legame fra ebrei e armeni. La Fondazione offre la storia di Harutyun Khachatryan che trovate a questo LINK (in inglese). La Fondazione ha deciso di rendere omaggio a Franz Werfel, con un francobollo postale emesso da Israele.

Il presidente della Fondazione, Eduardo Eurnekian, afferma che “E’ nostro dovere mantenere viva la coraggiosa eredità mostrata da quanti hanno salvato (ebrei) e di tutti gli eroici combattenti che hanno partecipato alla Rivolta del Ghetto di Varsavia, molto ispirata dai coraggiosi Armeni che erano stati perseguitati tre decadi prima. E’ nostro dovere istillare le loro azioni nei cuori e nelle menti delle giovani generazioni”. Il legame fra i due genocidi ha anche altre radici, e collegamenti diretti e profondi, che potete trovare QUI (in italiano) .

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Le comunità cristiane fanno ricorso contro l’espropriazione delle chiese di Diyarbakir (Agenzia Fides 19.04.16)

Diyarbakir (Agenzia Fides) – I rappresentanti della Fondazione siriaca e gli esponenti della locale comunità cristiana evangelica hanno presentato ricorso alla Corte di Diyarbakir contro la disposizione di esproprio urgente con cui il governo turco, a fine marzo, ha sequestrato un’ampia area della metropoli che sorge lungo la riva del fiume Tigri, nel quadro delle operazioni militari messe in atto nella Turchia meridionale contro le postazioni curde del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Nell’area urbana sequestrata sorgono tutte le chiese presenti a Diyarbakir.
La disposizione di esproprio del governo (vedi Fides 30/3/2016) era stata pubblicata anche sulla Gazzetta ufficiale del Consiglio dei Ministri, e ha coinvolto la chiesa armena apostolica di San Giragos (Ciriaco), la chiesa siriaca dedicata alla Vergine Maria, la chiesa caldea di Mar Sarkis (San Sergio), la chiesa armeno-cattolica e un luogo di culto protestante, oltre a più di 6mila abitazioni, dislocate in gran parte nel centro storico. Già al momento dell’esproprio, nessuna chiesa cristiana di Diyarbakir risultava aperta al culto.
Il sequestro dell’area era stato giustificato come misura preventiva presa con procedura d’urgenza per salvaguardare il centro storico di Diyarbakir dalle devastazioni provocate dal conflitto. Già nei primi giorni dopo l’esproprio, Nevin Solukaya, a capo dell’Ufficio per la Cultura della città di Diyarbakir, aveva suggerito ai responsabili delle Fondazioni che risultano come titolari delle diverse chiese espropriate, di presentare ricorso contro la nazionalizzazione.
La chiesa armena di San Ciriaco, recentemente restaurata dopo lunghi anni di abbandono e estenuanti trattative con le autorità civili, è una delle più grandi chiese armene di tutto il Medio Oriente, e vanta una storia secolare. (GV) (Agenzia Fides 19/4/2016).

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La tragedia degli armeni di Siria, cent’anni dopo il “genocidio” (Lastampa.it 19.04.16)

Quando papa Francesco arriverà in Armenia, il 24 giugno, non troverà solo la prima nazione al mondo ad avere abbracciato il Vangelo. Convertiti al cristianesimo già all’inizio del IV secolo grazie all’opera di san Gregorio Illuminatore, gli armeni hanno fatto di questa religione un fondamento della loro identità per tutto il corso della loro storia. Il Pontefice troverà anche una parte di quell’umanità sofferente a cui è andato incontro nel suo ultimo viaggio a Lesbo.

 

Questo piccolo paese di 3 milioni di abitanti ha un cuore grande. A cinque anni dallo scoppio del conflitto siriano, l’Armenia ha accolto oltre 20mila rifugiati: il terzo paese in assoluto in Europa, secondo i dati riportati dall’Economist alla fine dell’anno scorso. Assai più di tante nazioni più ricche e popolose, inclusa la nostra.

Un esempio di solidarietà fra correligionari, certo, dato che la larghissima parte di questi rifugiati sono cristiani e armeni. Ma non solo: fra loro si trovano anche musulmani e yazidi provenienti dall’Iraq, che hanno in costruzione un nuovo tempio nel villaggio di Analish, in Armenia. All’origine di questa grande solidarietà è il dramma di una comunità, quella armena di Siria, che a un secolo dal «Genocidio» sembra condannata a rivivere lo stesso orrore. Un esodo, il loro, che ripropone una pagina che investì i loro padri e i loro nonni. Proprio in Siria approdarono infatti i pochi sopravvissuti alle marce della morte del 1915, e la comunità siriana è composta in larga parte dei loro discendenti.

 

Si stima che, degli oltre 100mila armeni presenti in Siria prima dell’inizio del conflitto, solo 10mila si trovino ancora nel paese. Tantissimi gli armeni che hanno perso la vita a causa della guerra, combattendo o come vittime civili, mentre molti altri sarebbero rapiti o scomparsi. Un colpo durissimo per la comunità è stato – nel settembre del 2014 – la distruzione della chiesa armena di Deir al-Zor, che fungeva da memoriale per il «Genocidio». La città siriana di Deir al-Zor fu la destinazione a cui giunsero da occidente, stremati, i pochi sopravvissuti allo Metz Yeghern, il «Grande Crimine» perpetuato dai turchi ottomani. Oltre a questa, sono novanta le chiese armene in Siria danneggiate o distrutte dalla guerra in questi cinque anni, secondo i dati forniti dalla comunità.

 

Uno dei problemi maggiori legati all’attuale presenza armena in Siria è che più dell’80% di loro, prima della guerra, risiedeva ad Aleppo, che a partire dal luglio 2012 è stata al centro di una interminabile battaglia che ha ridotto la città a poco più di un cumulo di macerie. Larghissima parte degli armeni ha lasciato la città, cercando rifugio nella più sicura Damasco, insieme a molti altri cristiani provenienti dai centri minori del paese. Un’antica presenza armena si trovava anche a Raqqa, l’attuale «capitale» del califfato dell’Isis, dove la situazione è ancora più drammatica. Oltre che in Armenia, altri 15mila di loro si trovano in Libano, secondo le stime.

 

Ai rifugiati siriani viene offerta la cittadinanza armena in pochi mesi, e spesso anche un aiuto per ciò che riguarda l’alloggio. E così, nonostante la povertà e le scarse possibilità di trovare lavoro offerte dal paese, oltre l’80% dei profughi siriani ha preferito restare a vivere in Armenia, anziché cercare fortuna altrove. Un dramma, il loro, che è parte di quella tragedia siriana a cui il mondo sembra restare indifferente. Non il Santo Padre che – ne siamo certi – troverà anche molti di questi profughi ad accoglierlo al suo arrivo. Quella parola, «Genocidio», pronunciata da papa Francesco lo scorso aprile, ha significato molto per loro.

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Venti di guerra (L’opinione 19.04.16)

Si sono accusati a vicenda, gli azeri da una parte e le autorità del Nagorno-Karabakh dall’altra, della violazione del cessate il fuoco che ha riacceso drammaticamente nei giorni scorsi il conflitto mai sopito tra Azerbaigian e Repubblica del Nagorno- Karabakh, provocando numerosi morti tra i due schieramenti. Gli osservatori stranieri hanno difficoltà a capire la dinamica dell’accaduto e resta un mistero anche il numero preciso delle vittime: quello che è certo è che lungo la caldissima frontiera si sono affrontati carri armati, elicotteri e l’artiglieria pesante con i razzi Katiuscia. Le fonti delle forze di autodifesa dei secessionisti a Stepanakert, la capitale del Nagorno- Karabakh, sostengono di aver ucciso almeno 200 soldati di Baku, tra i quali diversi elementi delle truppe speciali; il portavoce del ministero della Difesa azero parla invece di 100 caduti nemici e molti mezzi distrutti. Sono stati colpiti però anche insediamenti civili lungo la frontiera, molte case sono state distrutte e ci sarebbero anche vittime innocenti tra la popolazione.

Lo scoppio delle ostilità ha sorpreso anche la Russia, che è il garante della fragile tregua nel Nagorno-Karabakh e che si è subito attivata. Il presidente russo Putin ha rivolto un appello pubblico ai presidenti dell’Armenia, Serž Sargsyan – la popolazione del Nagorno-Karabakh è di origine armena e sono strettissimi i rapporti tra Erevan e la repubblica secessionista – e dell’Azerbaigian, Aliyev, sollecitando un immediato cessate il fuoco e li ha invitati ad usare la massima moderazione per impedire altre vittime. Il ministro della Difesa russo, Sergey Shoygu, ha inoltre telefonato ai colleghi sia di Baku che di Erevan ed ha messo a disposizione le truppe russe che si trovano nell’area per creare una zona cuscinetto tra i due schieramenti. Mosca schiera in Armenia una brigata aerea con i nuovissimi Mig 29S presso la base aerea di Erebuni a pochi chilometri dalla capitale Erevan e la 102 Divisione dell’Esercito russo è di stanza nella città di Gyumri, nella parte nord occidentale del paese.

Il riacuirsi del conflitto in Nagorno-Karabakh preoccupa non poco il Cremlino, che vuole evitare un altro fronte caldo alle porte di casa, con la crisi ucraina ancora da archiviare, la guerra in Siria e le tensioni con la Turchia ancora vive. Il Nagorno-Karabakh è una polveriera sin dai tempi di Stalin, che nel 1923 volle assegnare all’Azerbaigian musulmano l’enclave popolata in prevalenza da armeni cristiani. Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, nel 1988 gli armeni del Nagorno-Karabakh decisero di staccarsi dal controllo di Baku per riunirsi alla madre Armenia. Le autorità di Baku ovviamente respinsero le istanze secessioniste del Nagorno-Karabakh e iniziarono scontri tra le due fazioni che ben presto assunsero le forme di un conflitto etnico, coinvolgendo direttamente anche l’Armenia che inviò uomini e armi nel Nagorno-Karabakh.

La drammatica guerra tra armeni e azeri è durata fino al maggio del 1994, quando a Biškek, capitale del Kirghizistan, venne firmato tra Armenia, Azerbaigian e Nagorno- Karabakh, l’“Accordo di Biškek”, che prevedeva il cessate il fuoco tuttora in vigore. Il lungo conflitto ha provocato la morte di oltre 30mila persone, moltissimi civili, tra i quali donne e bambini, 80mila feriti, tra cui numerosissimi amputati, e centinaia di migliaia di profughi. In Armenia non sono rimasti più azeri e dall’Azerbaigian sono scappati gli armeni. Da quella data i rapporti tra Erevan e Baku non si sono mai rasserenati, malgrado i frequenti incontri tra le autorità dei due Paesi e gli sforzi di mediazione internazionali, primi tra tutti quelli di Mosca. Il Nagorno Karabakh resta formalmente un’enclave azera – Baku non ha mai accettato l’autoproclamatasi repubblica – che però è di fatto indipendente, con forti legami con l’Armenia.

E la frontiera continua ad essere vigilatissima da parte dei militari dei due schieramenti, con sporadici episodi di cecchinaggio tra i due lati, in una sorta di conflitto congelato. Sulla situazione in Nagorno-Karabakh si sono succedute commissioni dell’Onu che hanno perfino approvato all’unanimità risoluzioni mai poi applicate; l’Osce, l’organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, ha costituito nel 1995 il Gruppo di Minsk allo scopo di incoraggiare una soluzione pacifica e negoziata del conflitto, che però stenta a trovare una quadra tra i due contendenti. Forze di interposizione, prevalentemente russe, sono state poi dispiegate dopo ogni violazione del cessate il fuoco e ce ne sono state diverse da entrambe le parti. L’unica cosa che si è riuscita a ottenere in quasi trent’anni è stata una tregua davvero precaria. Lo schieramento di armi e uomini al confine è massiccio. L’Armenia è sostenuta dalla sua numerosa diaspora in tutto il mondo e dalla Russia; la Repubblica islamica dell’Azerbaigian ha nella Turchia, con cui il Paese vanta storici legami e una lingua simile, il più stretto alleato.

Ankara non ha mancato recentemente di esprimere aperte critiche verso l’Armenia, accusata di fomentare il conflitto contro Baku, attraverso le milizie del Nagorno- Karabakh. Secondo fonti dell’intelligence russa, non verificate, Erdogan avrebbe perfino ordinato ai soldati turchi di rafforzare le posizioni sulla frontiera con l’Armenia. E quando si parla di Turchia e Armenia il ricordo va al martirio di oltre 1,5 milioni di armeni, il cui centenario è stato celebrato lo scorso aprile con una solenne messa a San Pietro da Papa Francesco.

Il Pontefice ha in programma, tra pochi mesi, una visita pastorale in quella parte del mondo e toccherà anche l’Armenia. C’è da augurarsi che il messaggio di pace che il Papa porterà a quelle genti venga ascoltato da chi ha il potere di far cessare le ostilità. Il mondo ha bisogno di pace non di nuovi conflitti.

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Rassegna di Geopolitica. I combattimenti in Nagorno Karabakh e le tensioni tra Azerbaijan e Armenia (Radioradicale.it 18.04.16)

“Il nuovo scenario geopolitico nel conflitto del Nagorno Karabakh” a cura di Cesi-Italia, marzo 2016.

Puntata di “Rassegna di Geopolitica. I combattimenti in Nagorno Karabakh e le tensioni tra Azerbaijan e Armenia – @rass_geopol” di lunedì 18 aprile 2016 , condotta da Lorenzo Rendi .

Sono stati discussi i seguenti argomenti: Armenia, Azerbaigian, Caucaso, Esteri, Geopolitica, Guerra, Minoranze, Nagorno Karabak, Rassegna Stampa.

La registrazione audio di questa puntata ha una durata di 11 minuti Vai al sito ed ascolta la puntata