Nagorno-Karabakh pronto alla ribalta internazionale (Lindro.it 26.04.16)

La regione del Nagorno-Karabakh è una scintilla pronta a diventare fuoco vivo appena le condizioni lo renderanno possibile. Non sono molte le voci che arrivano da quella parte di mondo, eppure la storia avvincente che si snoda a cavallo tra guerra fredda e modernità suscita in qualcuno ancora un grande interesse. Tra i pochi testimoni occidentali, in quella terra c’è  un giovane ricercatore italiano, Francesco Trupia, che ci racconta cosa succede e cosa potrebbe succedere in futuro nel Nagorno-Karabakh (NKR). Dopo essersi laureato in Politica e Relazioni internazionale all’Università di Catania, Trupia ha lavorato nei Balcani, precisamente in Bulgaria, in progetti di cooperazione con minoranze etniche, religiose e (in senso lato) anche politiche, anche tra Serbia, Romania e Turchia. Maturando interesse per i processi di democratizzazione nello spazio post-Sovietico, ha deciso di andare a lavorare presso il Caucasus Research Resource Centre di Yerevan, e, come laureando, presso l’Università St. Klimenth Ohridiski di Sofia. Fin dal nuovo inizio del conflitto nel Nagorno-Karabakh ha seguito lo scenario per Alpha-Institute of Geopolitics and Intelligence, in cui è ricercatore. “I giorni precedenti il 2 Aprile mi trovavo vicino la zona occupata, ma in territorio armeno, per motivi legati alla mia ricerca. Per altrettanti, questa volta legati all’Istituto e all’Ambasciata italiana, che non ha giurisdizione nel Nagorno-Karabakh, non sono riuscito a oltrepassare il confine, nonostante sia controllato dalle autorità armene. Solo i pochi giornalisti accreditati hanno raggiunto Stepanakert e le varie zone del Karabakh. Ciononostante, sto mantenendo dei contatti presso gli uffici di Stepanakert, sperando di raggiungere la zona verso metà Maggio per riportare lo scenario post-conflitto“, ci racconta.

 

Partiamo dalle ragioni storiche della diatriba tra Armenia ed Azerbaijan?

Le ragioni della diatriba tra Armenia e Azerbaijan non sono ascrivibili solo al conflitto nel Nagorno-Karabakh dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. D’altra parte, però, è pur vero che una ricostruzione storica della diatriba è assai complicata, poiché proprio la storia è stata negli anni manipolata da entrambi i Paesi e connessa a valori etnici e identitari di due popoli, e una regione, quella del Caucaso, crocevia geografico e politico di dinastie e dominazioni cristiane e islamiche. L’idea di Armenia per il proprio popolo ha una connotazione di ‘Patria’ piuttosto che dell’attuale entità Statale, con riferimenti risalenti fino al IV secolo d.C. quando il Karabakh rappresentava una regione della prima ‘Nazione cristiana’. L’Azerbaijan, invece, definisce la regione come un enclave forzatamente ‘armenizzata’ dalla Chiesa Apostolica di Armenia lungo i secoli, ma etnicamente ‘turksoy’ (turcofona), quindi ‘giustamente’ annessa alla Repubblica Socialista di Azerbaijan dall’Urss, e mantenuta tale anche dopo la caduta del regime sovietico. L’annessione del Karabakh all’interno dell’Amministrazione azera, nonostante Mosca conoscesse la demografia della regione, trasformò la maggioranza armena in minoranza in Azerbaijan. Una strategia, quella sovietica, volta a creare un ‘clima di instabilità’ tra le due ex Repubbliche sovietiche, in cui poter giocare un ruolo di pivot e amministrare il proprio potere centrale, mantenendone il controllo. La dissoluzione dell’Unione Sovietica condusse l’occupazione militare armena del territorio, con conseguente proclamazione unilaterale della de facto Repubblica del Nagorno-Karabakh nel 1991. Da allora instabilità e insicurezza hanno reso l’Armenia un ‘landlocked’, con Turchia e Azerbaijan a occidente e oriente, soli pochi chilometri di confine iraniano a sud e quelli georgiani a nord.

Una risoluzione del conflitto condurrebbe per forza la perdita del Karabakh per una delle due parti oggi contrapposte, anche qualora venisse riconosciuta la Repubblica di Stepanakert, che neanche Erevan riconosce. Per l’Armenia sarebbe una sconfitta valoriale prima che politica, dopo le rivendicazioni dei territori sottratti ‘ingiustamente’: non solo quelli dei confini occidentali, confinanti con la Turchia e delimitati dal monte Ararat, tutt’oggi chiusi, ma anche quelli dell’enclave del Nakhichevan, e appunto del Nagorno-Karabakh. Per l’Azerbaijan la dissoluzione dei propri confini nazionali, nonché una cocente sconfitta contro il nemico regionale. Ovviamente l’interesse russo non è da sottovalutare, poiché pienamente geopolitico. Durante l’Amministrazione comunista i rapporti tra i due popoli venivano moderati da Mosca, ma la dissoluzione dell’Unione Sovietica condusse la Russia a rintanarsi nelle proprie ‘faccende domestiche’ e lasciare l’inizio del conflitto nelle mani della comunità internazionale. L’ascesa della leadership di Vladimir Putin, che in quanto ex membro del KGB conosce molto bene le dinamiche nel Caucaso, anche per le guerre in Cecenia, ha ridato alla Federazione Russa una nuova dinamicità nella regione. Nonostante gli errori storici, piuttosto evidenti, oggi Mosca sembra essere uno degli attori più importanti nella difficile risoluzione del conflitto. L’ultimo ‘cessate il fuoco’, quello del 5 Aprile, è stato firmato davanti la presenza di Putin. Questo dovrebbe già far capire lo scenario e gli interessi russi sul Nagorno-Karabakh.

Il 2 aprile di quest’anno ci sono state gravi tensioni tra i due eserciti, quali sono i motivi della tensione?

I motivi degli ultimi scontri sono legati ai fattori storici citati e quindi al mero controllo del territorio, simbolo dell’identità nazionale sia per il popolo armeno che azero. Non parliamo di una regione con importanti risorse naturali o geograficamente rilevante. Eppure, come ho riportato nei report per Alpha Institute, l’escalation di violenza iniziata nelle prime ore del mattino del 2 aprile apre una nuova fase del conflitto stesso. La situazione rimane tesa nella zona occupata militarmente dagli armeni, soprattutto lungo la ‘linea di contatto’. Nonostante il ‘cessate il fuoco’, rispettato sia dalle autorità di Stepanakert, de facto capitale dell’autoproclamata Repubblica del Nagorno-Karabakh, sia da Baku, le rispettive agenzie di stampa nazionali riportano quotidianamente violazioni dell’accordo. Durante i ‘4 giorni di fuoco’ era impossibile capire l’andamento delle operazioni militari, poiché una vera e propria guerra di numeri e propaganda (con video al limite del cinematografico) è stata costruita da entrambi le parti. Sicuramente, però, le novità all’interno del conflitto introdotte in questo tesissimo mese di aprile, coincidente col mese del ricordo del genocidio del 1915, hanno riportato uno scenario di violenza mai visto negli ultimi anni. Un mix politico-culturale che, almeno in Armenia, ha ampliato la percezione del conflitto, con manifesti a supporto delle forze militari del Nagorno-Karabakh affisse nei bar e ristoranti, con tanto di codici Iban sui quali poter effettuare un proprio contributo economico, e con pubbliche raccolte di beni di prima necessità in cui anche i bambini imballavano pacchi di vestiti, viveri e sigarette per i soldati e i veterani di guerra. Sì, proprio i veterani della guerra del 1994, che insieme a tanti volontari hanno ripreso le armi per difendere la ‘propria terra’ pur non essendo membri delle Forze Armate. Sette di essi, sono stati uccisi da un drone israeliano che ha colpito il loro veicolo militare che li trasportava verso l’Arstakh, regione più calda del conflitto.

Questa la novità più importante: gli armamenti, l’utilizzo da parte degli azeri dei potenti TOS-1 Solntsepyok (venduti da Mosca nell’estate del 2014) e dei droni, non solo nelle attività di monitoraggio ma di attacco militare, stonano con una guerra combattuta finora in trincea e che ricorda più quelle della prima metà del Novecento. Lo stesso utilizzo del drone israeliano deve far riflettere. Quale ruolo ha Israele nel conflitto? Geograficamente nessuno, ovviamente, ma gli interessi legati ai rapporti diplomatici e soprattutto energetici tra Baku e Tel Aviv potrebbero aprire un’ennesima nuova fase di un conflitto sempre meno locale.  Poi si dovrebbe chiarire la ‘questione Isis’: la notizia emanata da ‘LifeNews‘ Russia appare non essere confermata del tutto, nonostante vi sia la certezza che cittadini azeri siano andati in Siria a combatte nelle fila di al-Baghdadi. Rimane un fenomeno che potrebbe scaturire all’intero del Caucaso, come avviene in Georgia ad esempio, ma ovviamente bisogna anche intendere la notizia come una strategia russa volta a fomentare il conflitto stesso in ottica anti-turca. Una tregua è possibile, e apparentemente c’è. Una definitiva conclusione del conflitto penso non sia solo difficile da attuare, ma anche da immaginare per i fattori in campo.

 

In quali scenari si potrebbe evolvere questa crisi?

Credo che, nonostante il ‘cessate il fuoco’, parlare di ‘frozen conflict’ sia ormai superfluo. Gli interessi intorno al conflitto, anche se lontani dalla regione teatro di guerra, avranno un risonanza sub-regionale e soprattutto internazionale, con i due outsiders principali nel Caucaso, ossia Russia e Turchia, pronti a strumentalizzare lo scontro per i propri interessi nella regione. Allo stesso modo, però, il Nagorno-Karabakh potrebbe rappresentare il loro ‘pantano politico’. La Russia gioca un ruolo di mediazione tra Erevan e Baku, in quanto conosce la regione e la sua influenza è ancora molto forte. Accusando la Turchia di affermazioni inaccettabili a sostegno dell’Azerbaijan, Mosca sta cercando di evitare nuove escalation: un suo errore potrebbe indebolire Mosca nella sua leadership nel Caucaso, già in difficoltà con la Georgia per gli scenari in Ossezia del Sud e Abkhazia. Il rischio di compromettere le attività nel Grande Medio Oriente, Siria e Iran in primis, e i già tesi rapporti con la Turchia, rimane alto. L’intera diplomazia russa è al momento in piena attività diplomatica a Erevan. Obiettivo è quello di non perdere credibilità agli occhi del popolo armeno, che per la prima volta dalla caduta dell’URSS ha protestato pesantemente davanti l’Ambasciata russa a Erevan per le politiche di Mosca legate alla vendita di armi a Baku. Ovviamente, anche l’Armenia dipende militarmente dalla Russia, ma la società civile armena sta mostrando un livello di partecipazione politica molto più alto rispetto agli anni passati. Tutto ciò avviene ad un anno delle elezioni presidenziali e a pochi mesi della riforma costituzionale.

La questione Karabakh, quindi, rimane centrale, in quanto conditio sine qua no per qualsiasi tipo di legittimazione di leadership politica in Armenia, ma anche in Azerbaijan. Gli ultimi due presidenti armeni, infatti, sono entrambi originari del Karabakh, nati proprio a Stepanakert, mentre per la famiglia Aliyev, dopo lo scandalo dei Panama Papers, una disfatta nel Karabakh potrebbe sancire un violento cambio di rotta nelle istituzioni azere. Dall’altra parte, Turchia e Israele: la prima vicina ‘etnicamente’ all’Azerbaijan, che nonostante aver espresso di voler ricostruire definitivamente i rapporti con l’Armenia ha espropriato nella zona orientale del Paese la più grande Chiesa cristiana del Medio Oriente, la Chiesa armeno-apostolica di San Ciriaco, e continua a tener chiusi i confini, anche per un’intransigenza armena sulla questione. Inoltre, sul riconoscimento del genocidio, Ankara è ferma sulla sua posizione: ‘nessun genocidio’, con il solito imbarazzante gioco sul numero delle vittime. Israele, invece, in ottica anti-Iran, potrebbe giocare un nuovo ruolo nel conflitto, ma attualmente rappresenta un incognita, o più scientificamente una di quelle ‘variabili dipendenti’ che in un conflitto sono difficili da analizzare. Ipotizzare un’analisi è difficile quindi. Potrei sintetizzare l’ennesimo stallo della situazione attraverso le parole di un soldato ventenne, che ho personalmente incontrato a Erevan di ritorno dalla notte di fuoco del 4 Aprile, che mi ha raccontato l’aneddoto dell’arrivo dei volontari al fronte. “Cosa state facendo qui? Non siete in grado di reggervi in piedi alla vostra età! Voi ci avete difesi in passato, adesso tocca a noi. Tornate a Stepanakert, o a Erevan, e fate di tutto affinché in questa terra gli armeni possano vivere in pace!

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La cucina d’Armenia: musica e parole a Cagliari per Le Salon de Musique (Ilpost.it 26.04.16)

Dopo il tutto esaurito fatto registrare nei giorni scorsi dal pianista romano Arturo Stàlteri, venerdì 29 aprile la rassegna Le Salon de Musique di Cagliari prosegue con una serata dedicata alla cucina e alle tradizioni dell’Armenia, a più di 100 anni dal Genocidio.

L’appuntamento è alle 20,30 a Cagliari, nell’incantevole Palazzo Siotto in via Dei Genovesi 114, con “La cucina d’Armenia”, letture e musica attraverso cui sarà ripercorso l’omonimo romanzo di Sonya Orfalian, artista, scrittrice e traduttrice figlia della diaspora armena.

Sul palco Elena Pau (voce recitante) e Irma Toudjian (pianoforte e composizioni originali in prima assoluta) proporranno le pagine del suggestivo libro della Orfalian che, partendo dalla quantità di ciascun ingrediente di una data ricetta, ricostruisce oltre 130 piatti della ricchissima tradizione culinaria armena, salvando così un pezzo di memoria che rischiava di andare perduto.

La serata è organizzata in collaborazione con l’associazione Luna Scarlatta per il festival Pazza idea, il circolo dei lettori Miele amaro e La Fabbrica Illuminata.

Il prezzo dei biglietti è di 8 euro (intero) e di 6 euro (ridotto).

L’edizione 2016 di Le Salon de Musique – Piano è realizzata con il contributo di Regione Autonoma della Sardegna- Assessorato alla cultura e del Comune di Cagliari- Assessorato alla cultura, in collaborazione con: Fondazione “Giuseppe Siotto”, La Fabbrica Illuminata, Luna Scarlatta, Itaca e Ojos Design.

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Il genocidio armeno, una verità rinnegata: svista della storia o calcolo politico? (Spndasud.it 26.04.16)

di Bruno Scapiniex ambasciatore d’Italia in Armenia

 

Il 24 aprile si è commemorata la “grande tragedia” del popolo armeno: il Genocidio del 1915/18. Circa 1 milione e mezzo tra uomini, donne, anziani e bambini vennero uccisi con efferata crudeltà nel corso delle persecuzioni operate dalle milizie e dall’esercito turchi.

Con ostinata caparbietà, peraltro alimentata subdolamente da alcuni Paesi occidentali asserviti al volere di Ankara, il Governo turco si rifiuta ancor oggi di riconoscere il crimine di Genocidio nei confronti del popolo armeno, declinando qualsiasi responsabilità ufficiale e asserendo trattarsi di una mera persecuzione non organizzata dallo Stato, bensì da squadre di miliziani fuori controllo governativo. Tesi, questa, che pretestuosamente mira a negare l’esistenza di un progetto predeterminato e preordinato allo sradicamento dell’elemento etnico armeno dalla società ottomana. Dunque, nella speciosa interpretazione di Ankara, non si sarebbe trattato di una sistematica azione di eliminazione di un popolo su vasta scala, ma di delitti, commessi qua e là, riconducibili ad una incontrollabile sorta di guerra civile.

In rarissimi casi nella Storia si registra una tale ostinazione da parte di un Governo nel non voler riconoscere i propri crimini, per di più in presenza, al suo stesso interno, di diffusi movimenti di pensiero in aperto dissenso con la posizione ufficiale di Ankara. Ma evidentemente prevale ancora in Turchia l’attitudine al dispotismo, perfettamente incarnata nella sua attuale dirigenza capace di spingersi, nel confutare tesi avverse, fino alla repressione fisica degli oppositori – valga per tutti il caso del giornalista turco Hrant Dink ucciso nel 2007 – per metterli a tacere e non consentire loro di evocare fatti che possano turbare l’ordine precostituito del Governo.

Non bastano le ripetute condanne e reprimenda che ufficialmente provengono dal Consiglio d’Europa e dalle altre istituzioni operanti in materia di Diritti Umani, a far ravvedere la dirigenza turca. Anzi, il suo rifiuto a riconoscere il Genocidio, impostato pure giuridicamente attraverso la criminalizzazione della sua apologia, si è consolidato in un vero e proprio “negazionismo di stato” perseguito da Ankara con tutti i mezzi, anche all’ estero, e esercitando ovunque pressioni volte a contenere un pericoloso contagio delle idee. E c’è ancora chi si inchina al volere della Sublime Porta.

Mentre parecchi Governi si sono chiaramente schierati in favore del riconoscimento, la questione viene tuttavia in molti Stati ancora messa in sordina per tema di urtare le suscettibilità di Ankara. E’ ciò nella fallace convinzione di compiacere un Paese alleato e ritenuto ancora indispensabile per un Occidente che non vede esattamente quale sia oggi la direzione del corso della Storia.

A questi circoli politici “refrattari” al riconoscimento, che vedono ancora nella Turchia il baluardo dell’Occidente contro la Russia o un fattore di controllo sui fragili equilibri continuamente compromessi nell’area mediorientale da un irriducibile integralismo islamico, dovrebbe essere insegnato come convenga al mondo del futuro non singolarizzare la Russia quale nemico, ma anzi ritrovare con Mosca un rapporto fiduciario che, nel rispetto delle reciproche priorità, possa agire da migliore garanzia di cooperazione, stabilità e crescita comune.

La questione, comunque, è divenuta oggi non solo oggetto di forte attenzione, costituendo nella moderna Armenia indipendente, nata con il collasso sovietico, una delle priorità nazionali di politica estera, ma anche materia di analisi storica dopo il silenzio imposto dal sovietismo e dalla prevalente considerazione data all’Olocausto ebraico, la cui memoria è invece rimasta viva e accesa in virtù di una vasta storiografia sostenuta da motivazioni politiche. Storiografia che è invece mancata al Genocidio armeno, vuoi per via della ostinata azione repressiva svolta da Ankara, vuoi per la compiacenza dimostrata da alcuni stessi Paesi occidentali nei confronti della tesi sostenuta dai negazionisti turchi. Emblematica di questa ambiguità di fondo sarebbe proprio la condotta tenuta dai vari Presidenti americani che hanno sempre omesso nelle loro dichiarazioni ufficiali di citare la parola “Genocidio”, ricorrendo nel caso degli armeni, a definizioni consimili del tipo “ Grande Massacro” o “Grande Tragedia”. Una posizione, questa, che nell’intento di Washington dovrebbe far evitare di pregiudicare politicamente i rapporti intrattenuti con Ankara, beffando però al contempo il dovere etico di sposare la verità.

Per Yerevan, per contro, non si tratterebbe di ricercare un mero atto di compassione, né di solidarietà umanitaria e tanto meno di esprimere sentimenti di vittimismo. Bensì di conseguire, attraverso una “presa d’atto” politica del Genocidio da parte turca, la legittimità delle proprie aspirazioni a un riconoscimento di quella tragedia quale crimine contro l’ Umanità, quale elemento che, avendo sospeso la stessa identità nazionale di un popolo sradicato dalle sue terre di origine, esige oggi un conclamato atto riparatorio volto a restituire alla Nazione armena la dignità indispensabile per un suo giusto ricollocamento nella Storia, anzicché viverla pietisticamente solo ai suoi margini.

Nonostante, poi, la perseveranza negazionista di Ankara abbia sollecitato la cancellazione delle prove a conferma della riconducibilità dello sterminio a un preordinato progetto politico dell’allora Governo ottomano, esisterebbero amplissime evidenze documentali in senso contrario. E’ chiaro ormai oggi, sulla base delle tante inoppugnabili testimonianze disponibili – come quelle dell’Ambasciatore americano al tempo, Henry Morgenthau, di giornalisti e di religiosi stranieri e dello stesso Vaticano – che si è trattato di un vero e proprio disegno politico concepito da un regime che, preavvertendo la sua stessa fine, si sarebbe autodeterminato, nel disperato tentativo di ricompattare l’unità turca, a risolvere una volta per tutte quella che già al tempo passava per essere nell’Impero Ottomano la spinosa “questione armena”.

Non esiste, dunque, rimozione nella dimensione psicologica armena per questa immane tragedia. La memoria del massacro è sempre viva nelle coscienze individuali così come nell’anima collettiva di questo popolo. E il Genocidio, nella sopravvivenza della sua memoria, equivale oggi ancora a fattore di cementificazione dell’identità nazionale. Un fatto, o meglio, un misfatto che aggiungendosi al credo cristiano e al ruolo della lingua come strumento di transizione generazionale, vale per gli armeni come irrinunciabile causa unificante a dispetto di qualunque dispersione geografica o di diversità di destini. Ed è proprio a tale memoria che le comunità armene oggi affidano la speranza che questa tragedia non solo venga finalmente riconosciuta come crimine contro l’Umanità, ma anche, e sopratutto, che essa serva a non far dimenticare che il sacrificio da esse patito è parte integrante della Storia Universale e deve essere riconosciuto come tale per contribuire al progresso dei valori e dei Diritti dell’Uomo. Un interesse solo degli armeni? No. E’ interesse di noi tutti il riconoscimento di questo Genocidio. Ed è interesse in primo luogo di Ankara che soltanto da esso potrà trarre il doveroso riscatto morale, nonché la riconciliazione etica con la sua stessa Storia.

Genocidio armeno e 25 Aprile. Due anniversari “imbalsamati” nella ritualità (Articolo21.org 26.04.16)

Tra il 24 e il 25 Aprile si sono celebrati due anniversari diversi tra loro, ma di assoluta importanza storica: il 101° del Genocidio di 1 milione e 500 mila armeni cristiani da parte dei “Giovani ufficiali turchi” musulmani nel 1915; il 71° della Liberazione dal nazifascismo. Due date scritte col sangue, due momenti in cui i popoli si dovrebbero ritrovare uniti dalla memoria storica: per non dimenticare e per non commettere gli errori del passato. Ormai, siamo invece passati dalle celebrazioni popolari all’imbalsamatura della ritualità.

A livello mondiale, ma anche e soprattutto nell’Unione Europea, si cerca di non ricordare il primo grande sterminio (con la supervisione di ufficiali prussiani) di una popolazione che viveva da secoli nel territorio turco e che aveva contribuito a costruire la Turchia moderna dalla ceneri dell’Impero ottomano. E’ più importante per le cancellerie europee tenere rapporti di “buon vicinato” e di cooperazione militare-economica con il fondamentalista Erdogan, padre-padrone di una Turchia sempre più autoritaria, dove vige la censura e l’arresto preventivo dei giornalisti, ambiguamente collegata con gli aguzzini dell’ISIS, impegnata a sfruttare la situazione di “guerra atipica” che si sta combattendo ai confini con Siria ed Iraq, per sterminare i curdi indipendentisti e occupare porzioni di territorio iracheno e siriano. Per non parlare del ricatto oltraggioso nei confronti dell’UE su migranti e rifugiati: miliardi di euro in cambio delle espulsioni, pur sapendo che dietro ai barconi della morte e alle tratte di esseri umani ci sono proprio la Mafia turca e apparati collusi di Ankara.

Finora, era stata la tenace resistenza della Francia a bloccare l’ingresso della Turchia nell’UE, vista anche la numerosa presenza della comunità armena (tra i 500 e 750 mila). Ma le pressioni degli Stati Uniti (non hanno ancora riconosciuto ufficialmente il genocidio armeno, nonostante le promesse elettorali del presidente Obama), dove la comunità conta 1 milione e 250 mila individui e, soprattutto, della Germania (qui invece è massiccia la presenza di immigrati turchi: 3,2 milioni), hanno fatto sì che uno spiraglio verso l’annessione della Turchia nell’UE si riaprisse, dopo lo stop degli anni passati.

Sarà per questo clima di “intesa cordiale”, allora, che dell’anniversario del genocidio armeno non si è parlato su tutti i media europei? Sarà per questa riscoperta di una Turchia “collaborativa” con l’Occidente e ufficialmente alternativa all’integralismo islamico imperante in Medio Oriente, che i governi europei non hanno partecipato alle celebrazioni nella capitale armena di Erevan, dove era presente solo l’attore George Clooney? E che dire del comportamento del nostro paese, un tempo più sensibile a queste ricorrenze, quando si scopre che un documentario (“Il genocidio armeno” di Andrew Goldberg per la TV pubblica americana PBS), programmato dalla RAI per sabato 16 aprile, a 48 ore dalla messa in onda su RAI Storia è stato sospeso? Oscure le motivazioni: problemi di palinsesto o forse ripensamenti legati a “cortesie diplomatiche” verso l’ingombrante alleato della NATO? Fatto sta che, dopo le proteste della Comunità armena ai vertici di viale Mazzini e alla Commissione di Vigilanza, il documentario è poi stato riprogrammato per domenica 24 aprile alle 23 sempre su RAI Storia.

Si sa che spesso la finzione scenica, la narrativa, i film riescono ad avere un impatto maggiore presso l’opinione pubblica rispetto a documentari o ai saggi storici. E così, accade che un film molto intenso e lirico, dedicato alla tragedia del genocidio armeno, diretto dai fratelli Paolo e Vittorio Taviani, su sceneggiatura della scrittrice di origine armena, Antonia Arslan, “La masseria delle allodole”, pur realizzato nel 2007 e distribuito dalla 01 Distribution della RAI, non sia mai andato in onda sulle reti della TV pubblica!

A questo proposito, andrebbero ricordate le parole lucide e profetiche di Antonio Gramsci, che l’11 marzo del 1916, su “Il Grido del popolo” dedicò un articolo al genocidio:  “…Perché un fatto ci interessi, ci commuova, diventi una parte della nostra vita interiore, è necessario che esso avvenga vicino a noi, presso genti di cui abbiamo sentito parlare e che sono perciò entro il cerchio della nostra umanità…quando abbiamo sentito che i turchi avevano massacrato centinaia di migliaia di armeni, abbiamo sentito quello strappo lancinante delle carni che proviamo ogni volta che i nostri occhi cadono su della povera carne martoriata e che abbiamo sentito spasimando subito dopo che i tedeschi avevano invaso il Belgio? Così l’Armenia non ebbe mai, nei suoi peggiori momenti, che qualche affermazione platonica di pietà per sé o di sdegno per i suoi carnefici…Sarebbe stato possibile costringere la Turchia, legata da tanti interessi a tutte le nazioni europee, a non straziare in tal modo chi non domandava altro, in fondo, che di essere lasciato in pace. La guerra europea ha messo di nuovo sul tappeto la questione armena. Ma senza molta convinzione… Gli armeni che sono disseminati in Europa dovrebbero far conoscere la loro patria, la loro storia, la loro letteratura…E così quanti sanno che gli ultimi tentativi di rinnovare la Turchia furono dovuti agli armeni e agli ebrei? Gli armeni dovrebbero far conoscere l’Armenia, renderla viva nella coscienza di chi ignora, non sa, non sente….

L’oblio però rischia di offuscare anche la Resistenza. Il 25 aprile viene sempre più imbalsamato come una ricorrenza formale: le corone all’Altare della Patria con la banda militare che intona La leggenda del Piave (canzone militarista, amata dal regime fascista, per pochi anni divenuta anche l’inno d’Italia, prima dell’avvento della Repubblica per poi essere sostituita dall’Inno di Mameli); le due manifestazioni rituali a Roma e a Milano, ormai protagoniste di tafferugli tra gruppi filo-palestinesi e sindacati confederali; la visita dei massimi vertici dello Stato in alcuni dei luoghi simbolo della lotta antifascista; qualche film sul tema in TV; qualche documentario storico in orari relegati al pubblico di nicchia.

Si potrebbe e dovrebbe fare di più! Si dovrebbe ricordare che fu una guerra partigiana di popolo contro l’esercito invasore tedesco e contro altri italiani che avevano scelto di stare con i nazisti e perpetrare la dittatura fascista!

La colonna sonora di quel periodo “epico” fu la canzone “Bella ciao”, composta su motivi folklorici e popolari di un canto di lavoro delle mondine nelle risaie. Ma Bella ciao è bandita dalle manifestazioni ufficiali, all’altare della Patria, come in alcuni comuni del Nord, dove la Lega la fa da padrona, ed anche in TV non ha mai avuto la vita facile.

Eppure, in Francia e nel resto del mondo Bella ciao è un inno quasi ufficiale in difesa della patria, della libertà, di rivolta contro un nemico oppressore. Eppure, Bella ciao non contiene esortazioni verso scelte politiche o apologetiche della violenza. E allora perché, a 71 anni da quel 25 aprile, è ancora una canzone da censurare e da non affiancare a La leggenda del Piave, che comunque fu cantata dalle truppe italiane che andavano a morire contro gli austro-ungarici? Due colonne sonore che hanno contrassegnato epoche diverse, ma che hanno lo stesso diritto di essere conosciute e diffuse.

Se poi, dalla ritualità celebrativa, senza sentimenti, si passa alla ritualità di gesti extra-politici, allora si comprende come il 25 aprile sia divenuta per alcuni ambienti della cosiddetta “sinistra alternativa”, per i movimenti radicali e sociali, per quanti si sentono orfani di cortei “duri e puri”, un’occasione per stravolgerne l’essenza. Parliamo dell’assurdo e inconcepibile ostracismo che da qualche anno sta colpendo i pochi sopravvissuti e i loro affiliati della Brigata ebraica, osteggiati sempre da gruppi “filo-palestinesi”, che prendono a pretesto la loro presenza per accusare chi aveva lottato per la nostra libertà di essere “campioni del sionismo fascista e assassino, affamatori del popolo palestinese, ingiustamente oppresso da Israele”. Antisionismo militante per confondere in realtà un antisemitismo viscerale e pericoloso.

Anziché organizzarsi manifestazioni ad hoc, costoro non perdono quest’occasione di rilevanza nazionale, per mischiare artatamente problematiche legate al conflitto israelo-palestinese, con una storia limpida e coraggiosa di quanti, ebrei sopravvissuti alle leggi razziali, si organizzarono in una formazione partigiana per contribuire a liberare il nostro paese. Molti morirono in battaglia o nei campi di concentramento. Altri sopravvissero alle torture, come i reduci di Via Tasso a Roma. Chi cerca di mischiare le “carte della storia” dovrebbe ricordare che il Gran Muftì sunnita di Gerusalemme, la più alta autorità musulmana di allora, si schierò con Hitler nella sua paranoica guerra totale alle democrazie al popolo ebraico. Organizzò battaglioni di SS arabe e squadroni della morte per uccidere gli ebrei dei Kibbutz, scampati al Reich, e i palestinesi laici antinazisti.

Certo, il governo conservatore e oltranzista d’Israele attua una politica sbagliata nei confronti dei territori palestinesi, ma a Tel Aviv è in vigore una democrazia che non opprime le libertà fondamentali e tutela le diversità. Il diritto di voto e le libere elezioni sono una prassi. Nei territori governati dall’Autorità palestinese e da Hamas non si vota dal 2006 e sempre più ci si ispira alla sharia.

Chi prende a pretesto il 25 aprile per “regolare” unilateralmente stralunati conti con la storia, in realtà intende mandare in soffitta gli ideali della Resistenza e imbalsamare questo evento unificante in una data senza valore

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Armenia, esplosione su bus uccide una persona (Corrierequotidiano.it 25.04.16)

Il governo armeno ha corretto il bilancio dell’esplosione su un autobus nella capitale Erevan, a circa 6 chilometri dal centro. Una persona (e non 3 come comunicato in precedenza) e’ morta e 6 sono rimaste ferite, ha riferito un portavoce del ministero per le Emergenze. La polzia sta indagando sull’accaduto ma al momento le cause dell’esplosione non sono chiare. La deflagrazione e’ stata molto potente, tanto che i vetri di alcune finestre degli edifici vicini sono andati in frantumi. L’episodio e’ avvenuto all’indomani delle commemorazioni per il 101mo anniversario subito dagli armeni in Turchia durante la Prima guerra mondiale. Nelle ultime settimane si sono verificati violenti scontri tra armeni e azeri nell’enclave filo-armena contesa del Nagorno-Karabakh, riconosciuta dalla comunita’ internazionale come parte dell’Azerbaigian.

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 Armenia: la bomba su un bus non era terrorismo (Euronews.com 26.04.16) 

Il massacro degli armeni e la paura di chiamarlo genocidio (Il Giornale 25.04.16)

Tra il 23 e il 24 aprile del 1915 iniziava il genocidio del popolo armeno. Una vera e propria pulizia etnica, spietata e sistematica, che è costata la vita a circa un milione e mezzo di persone

Nell’aprile del 1915 iniziava uno dei più grandi massacri ai danni della comunità cristiana che la storia abbia mai conosciuto: il genocidio del popolo armeno.

Una vera e propria pulizia etnica, spietata e sistematica, che è costata la vita a circa un milione e mezzo di persone tra uomini, donne e bambini.

Lo sterminio della popolazione cristiana è ricordato dagli armeni con il nome di Medz yeghern, ovvero, “il grande crimine”. Le uccisioni iniziarono tra il 23 e il 24 aprile del 1915 quando più di mille intellettuali, tra cui giornalisti, scrittori, poeti e perfino delegati al parlamento, vennero deportati verso l’interno dell’Anatolia e massacrati lungo la strada.

“L’Armenia continuerà a chiedere all’intera comunità internazionale di riconoscere il genocidio del suo popolo”, ha detto il premier Hovik Abrahamyan in occasione della cerimonia per l’anniversario del massacro, che si è svolta ieri nella capitale Erevan.

Già, perché ancora oggi, a distanza di 101 anni, dopo esser stato a lungo dimenticato, il genocidio armeno è entrato a far parte della lunga lista di macabri accadimenti di cui la storiografia ufficiale, molte delle istituzioni ed i media si ostinano a sottacere se non, addirittura, a negare. Non solo la Turchia, che lo scorso anno – in occasione del centenario della strage – aveva duramente criticato le parole di Papa Francesco convocando l’ambasciatore della Santa Sede per l’uso della parola “genocidio”. Anche altri Paesi, fra i quali gli Stati Uniti ed Israele, preferiscono non usare questo termine. Molto probabilmente risulterebbe scomodo nei rapporti privilegiati con Ankara.

Ma è certo: quello degli armeni è il primo genocidio del Novecento, avvenuto prima dell’olocausto degli ebrei. E riconoscerlo subito, forse, avrebbe evitato molte atrocità. Comprese quelle ancora in atto.

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La memoria del genocidio armeno all’isola di San Lazzaro – Venezia (25.04.16)

CONGREGAZIONE ARMENA MECHITARISTA

Comunicato stampa

Venezia, 25 aprile 2016

Il giorno 24 aprile è il giorno in cui si commemorano i martiri del genocidio armeno del 1915. Fu il 24 aprile del 1915, infatti, che fu avviato, con il massacro degli intellettuali armeni di Costantinopoli, quel piano sistematico di sterminio della popolazione armena dell’Impero ottomano messo in atto dai Giovani Turchi e che avrebbe portato alla morte un milione e mezzo di cristiani armeni.

A 101 anni daDSC04446l genocidio, la Congregazione Armena Mechitarista di San Lazzaro di Venezia ha onorato il ricordo dei martiri attraverso una messa solenne presieduta dall’Abate generale della Congregazione, Padre Elia Kilaghbian. Al termine della celebrazione è stato presentato un grande tappeto armeno donato, per l’occasione, da Raffi Megerian e che è ha trovato posto nel coro della chiesa del monastero.

Nel chiostro dell’abbazia è stata inaugurata dall’Abate e dall’ambasciatore l’importante mostra “Oltre la passione di un popolo. Percorsi nella memoria del Genocidio Armeno” ideata e allestita sotto la supervisione di Padre Vahan Ohanian e sotto il patrocinio dell’Ambasciata armena presso la Santa Sede ed il Sovrano Militare Ordine di Malta. La mostra ripercorre, attraverso fotografie, testi e musiche, il dramma del genocidio, ma anche la vita quotidiana degli armeni all’inizio del Ventesimo secolo e i luoghi della memoria. Tra questi, vi è anche la fotografia della chiesa di Deir Zor nel deserto della Siria recentemente distrutta.

L’Abate generale della Congregazione ha ricordato, nel suo discorso, l’importanza della memoria e della testimonianza degli armeni uccisi nel 1915 e che sono legati, attraverso il sangue e la fede, ai loro discendenti oggi in Armenia o sparsi nella diaspora.DSC04599

 

L’ambasciatore armeno presso la Santa Sede Mikayel Minasyan è intervenuto con un discorso in lingua italiana, ribadendo l’importanza del 12 aprile 2015, quando Papa Francesco proclamò San Gregorio di Narek “Dottore della Chiesa” e celebrò il ricordo delle vittime del genocidio in Vaticano, assieme al Patriarca di tutti gli armeni, al Patriarca armeno di Cilicia ed al Patriarca armeno cattolico. Minasyan ha chiarito come il genocidio armeno, di oltre un secolo fa, sia in realtà profondamente legato a quanto sta succedendo oggi in Medio Oriente, dove la popolazione cristiana è al centro di terribili persecuzioni.

Padre Vahan Ohanian ha chiarito la genesi della mostra fotografica, un lavoro che lo ha impegnato, insieme a diversi collaboratori, per molti mesi e che sarà riproposto anche in altre città italiane per mantenere viva quella testimonianza di amore e fede che i martiri armeni hanno lasciato al mondo e perché la conoscenza di quella storia continui ad essere un monito contro la barbarie.

Cuore di metallo: System Of A Down (Rockol.it 25.04.16)

Stati Uniti e Armenia: due mondi agli antipodi che trovano una sintesi – praticamente come per magia – nella musica dei System Of A Down, quartetto con base a Glendale (California), ma fondato da musicisti con radici e discendenze armene. I nomi, del resto, sono più che eloquenti: Serj Tankian (voce, tastiere, chitarra), Daron Malakian (chitarra e voce), Shavo Odadjian (basso, cori), John Dolmayan (batteria).

Attivi dal 1994 – il nome della band deriva da una poesia scritta da Malakian – i SOAD sono dei veri campioni, per non dire la band più rappresentativa, del genere nu-metal/groove metal: un insieme di sonorità che ebbe un momento di grande esposizione a metà degli anni Novanta, per poi scomparire o quasi dalle mappe. Ma non i System Of A Down che, grazie a personalità e stile superiori, hanno trasceso la ciclicità di mode e sensazioni del momento… e infatti sono ancora vitali e creativi, perseguendo il proprio stile.

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Il debutto di Tankian e soci – l’omonimo album del 1998 – è ancora oggi una pietra miliare del metal, oltre a rappresentare un disco che cambiò lo scenario e la prospettiva di molti fan, in pratica portando a compimento e maturazione totale gli spunti di quello che tutti conoscono come nu-metal.
Intransigenti, cupi, capaci di repentini cambi d’atmosfera senza il minimo calo di tensione emotiva… all’epoca del loro debutto qualcuno li descrisse come un mix far il thrash-death degli Slayer più feroci e gli scenari genialoidi, imprevedibili, evocati dai Faith No More al top… una combinazione che sulla carta potrebbe sembrare indigesta, ma che fan e mercato erano più che vogliosi di sperimentare. E lo testimoniano i 12 milioni circa di copie vendute del loro secondo album – l’altrettanto mitico “Toxicity” (2001) – così come i due dischi del 2005, “Mezmerize” e “Hypnotize”, che schizzarono dritti in cima alle classifiche statunitensi all’uscita.

Grandissimi, quindi. Ma anche speciali. Tanto che all’apice della loro popolarità – nel 2006 – decisero di prendersi una pausa di ben quattro anni, per lavorare a progetti solisti e seguire collaborazioni con altri artisti. Un modo per prendere respiro e distaccarsi da un meccanismo che schiaccia tante band, incapaci di gestire il peso successo – tanto che il ritorno del 2010 è stato all’insegna di una ancor maggiore consapevolezza e caratterizzato dall’assoluta mancanza di fretta nel consegnare al mercato nuova musica: i SOAD seguono i propri ritmi e danno la precedenza al messaggio (soprattutto quello legato a temi sociali, politici e alla questione del genocidio del popolo armeno da parte della Turchia).

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A ROMA STRISCIONI ANTI TURCHIA E BALLI PER GENOCIDIO ARMENO (ANSA 24.04.16)

roma

(ANSA) – ROMA, 24 APR – E’ passato un altro anno, il centounesimo dal genocidio che ha massacrato il popolo armeno nel 1915 con un milione e mezzo di vittime da parte dell’Impero ottomano, e a Roma sullo striscione che ha aperto la cerimonia davanti al Pantheon, il messaggio era forte e chiaro: “La Turchia riconosca il genocidio armeno”. E’ la principale richiesta della comunità armena che nel pomeriggio si è fatta spazio a Roma tra la muraglia dei turisti, con striscioni, bandiere e balli tradizionali che hanno incuriosito i passanti.
Espliciti anche i cartelli contro Ankara (‘Democrazia non fa rima con Turchia’) o sull’enclave del Nagorno Karabakh (‘Libero e armeno’).
In piazza un centinaio di persone provenienti da più parti come Firenze, Bari, Venezia. La comunità armena in Italia è tra le più antiche e conta oggi circa 7000 persone sui 10 milioni di connazionali sparsi nel mondo.
“Nel 2000 l’Italia ha riconosciuto il
genocidio armeno – ha ricordato l’ambasciatore armeno in Italia Sargis Ghazaryan – L’anno scorso, in occasione del centenario, abbiamo ricevuto più di 4000 richieste di materiale didattico sull’argomento da parte di altrettante scuole. Questo allora è un luogo simbolico Da Roma parte un messaggio di pace, di contrasto al negazionismo e che è anche un messaggio culturale”. (ANSA).

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Armenia, 101 anni dal genocidio: Clooney in testa alla marcia di commemorazione (repubblica.it 24.04.16)

George Clooney ha sfilato a Erevan in testa alla marcia per commemorare il 101esimo anniversario del genocidio subito dagli armeni in Turchia durante la Prima Guerra Mondiale,
Impegnato da tempo a chiedere il riconoscimento internazionale dei massacri di centinaia di migliaia di armeni compiuti dai turchi, (un milione e mezzo secondo gli armeni, 300mila/500mila secondo i turchi), l’attore ha sfilato insieme a migliaia di armeni e al presidente Serzh Sarkisian fino alla collina dove si trova il memoriale che ricorda il genocidia e ha deposto fiori al Tsitsernakaberd, mentre in tutte le chiese del Paese si celebravano messe.
L’attore e regista statunitense fa parte del comitato che assegna il premio Aurora, voluto dal governo armeno a favore dei sopravvissuti. Il genocidio “è parte della storia dell’Armenia e anche parte della storia mondiale, non è solo il dolore di una nazione”, aveva dichiarato al suo arrivo a Erevan

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Erevan, George Clooney alla testa della marcia in ricordo del genocidio degli armeni (Quotidiano.net 24.04.16)

Clooney apre marcia per commerare genocidio turco degli armeni (Askanews  24.04.16)