Serj Tankian (System of a Down) suona ‘Artsakh’, un inedito per i combattenti armeni – VIDEO, TESTO (Rockol.it 04.05.16)

Il frontman dei nu metallers System of a Down, Serj Tankian, ha inciso e condiviso un brano solista acustico intitolato “Artsakh”. La canzone ha un tema molto attuale e politicamente connotato. parla, infatti, delle tensioni e del conflitto in corso nella zona del Nagorno-Karabahk, una enclave armena cristiana ufficialmente parte dell’Azerbaigian musulmano che sta tentando di riunirsi all’Armenia (un’aspirazione che si ripresenta puntualmente – e in maniere sempre purtroppo violente e con dispendio di vite umane – fin dal 1923, quando fu scorporata dalla madrepatria per volere di Stalin). Il brano è nella lingua delle radici di Tankian, cioè l’armeno (ricordiamo che lui, come gli altri componenti dei SOAD, sono tutti di origine armena, nonostante siano cittadini statunitensi). Questo è il testo integrale tradotto:

Abbiamo sempre vissuto in queste terre
seminato e raccolto da questi campi
generazioni sono nate dai tuoi fiumi
bambini sono nati dalle tue montagne

La pubblica maschera della tradizione
la lotta per essere liberi o la morte
lo sguardo del nemico sulla tua terra
i nostri sorrisi verso il tuo grembo
verso la tua volontà inesauribile

Canteremo coi nostri pugni
con la bandiera tricolore della giustizia
amore umanitario per la pace
con la santa benedizione del viso di un bambino
noi vinceremo con la cultura
noi vinceremo con la cultura
noi vinceremo perché siamo armeni

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Turchia: la guerra degli espropri (Osservatorio Balcani e Caucaso 03.05.16)

Nel sud-est della Turchia, sconvolto dagli scontri tra esercito e formazioni armate curde, ora è in gioco anche il futuro urbanistico dei centri urbani devastati dalle armi. Nostro approfondimento

Mentre continuano incessanti i combattimenti tra l’esercito turco e i militanti dei movimenti curdi autonomisti, il futuro urbanistico delle città del sudest a maggioranza curda è diventato il nuovo terreno di una battaglia combattuta non con le armi, ma con il cemento della futura ricostruzione.

Con una mossa che era nell’aria da diverso tempo, il 25 marzo scorso il governo turco ha avviato le procedure legali per l’esproprio d’urgenza di molte proprietà private nei distretti amministrativi di Sur (Diyarbakir) e Silopi (Sirnak). Quattro giorni dopo in una discussione parlamentare il ministro dell’Ambiente e della Pianificazione Urbana Fatmagül Demet Sarı ha motivato la decisione come legata a progetti di riqualificazione urbana avviati nel paese.

In una recente visita a Diyarbakır, il primo ministro Davutoĝlu ha poi annunciato un piano d’azione da 9 miliardi di dollari per “rimediare ai danni causati dal terrorismo” in città e di voler fare di Sur la “nuova Toledo”, in riferimento alla città spagnola ricostruita dopo la guerra civile. Non si conoscono i dettagli di questo piano d’intervento, pubblicizzato anche tramite un video caricato su Youtube.

Distruzione

In conseguenza ai pesanti scontri degli ultimi mesi, molti distretti provinciali quali Sur, Nusaybin, Silopi, Cizre, Idil, Silvan, Yuksekova, dove i movimenti curdi hanno cercato di creare delle zone autonome de facto, appaiono irriconoscibili. Ovunque si vedono cumuli di macerie ed edifici fatiscenti crivellati dai colpi delle armi. Lo spostamento del conflitto dalle aree rurali a quelle urbane, mesi di coprifuoco ininterrotto, l’uso di congegni esplosivi, carri armati ed altre armi pesanti si sono rivelati devastanti per aree dove, fino a poco tempo fa, vivevano in centinaia di migliaia.

Oltre 90mila persone hanno dovuto abbandonare le proprie case, spesso senza alcun preavviso e senza poter portare nulla con sé, altre volte invece carichi di tutto ciò che era salvabile. Molte famiglie hanno ricevuto dalle autorità governative avvisi di allontanamento coatto dalle abitazioni, pesantemente danneggiate dagli scontri. Altre sono state fatte allontanare dallo YDG-H, la milizia urbana del PKK. Molte lamentano l’impossibilità di ritornare alle proprie case anche solo per recuperare beni di prima necessità. La maggior parte degli sfollati si è spostata verso le periferie o verso i villaggi nei dintorni, trovando ospitalità e riparo solo grazie alla disponibilità di parenti, amici o alla generosità degli altri abitanti.

Quella in corso è un’emergenza umanitaria che non viene riconosciuta né dallo stato turco né dalla comunità internazionale, ma che sta assumendo risvolti di giorno in giorno sempre più drammatici.

Confische seriali

La drammaticità degli scontri ancora in corso rende implausibile al momento ogni tentativo di avviare attività di ricostruzione e la confisca delle proprietà è finora l’unico intervento di natura non militare condotto dal governo nella regione.

In molti cominciano a vedere il conflitto in corso non soltanto come il risultato dell’antagonismo tra stato turco e PKK, ma anche come la volontà del governo di intervenire con opere di ingegneria sociale direttamente sul tessuto urbanistico della regione, oltre che come il frutto della pressione della potente lobby della speculazione immobiliare.

A Sur, il cuore antico della città di Diyarbakir e sotto protezione UNESCO, è previsto l’esproprio di oltre l’80% delle proprietà, coinvolgendo oltre 50mila persone. Tra le confische anche quelle dei maggiori edifici monumentali come ad esempio la moschea Ulu Camii, la Casa dei Dengbej, chiese siriache, caldee e armene.

Le reazioni

Le opposizioni politiche e numerosi esponenti del mondo civile hanno duramente contestato la decisione del governo, accusandolo non solo di infliggere ulteriore sofferenza ad una popolazione già duramente colpita dal conflitto, ma di voler in questo modo attaccare il tessuto urbano-sociale della società curda. L’associazione degli avvocati di Diyarbakir ha annunciato di voler fare ricorso contro un’iniziativa considerata illegale secondo le norme turche ed internazionali, come riportato da Bianet, partner di OBC.

Anche alcune autorità religiose come l’arcivescovo armeno Aram Ateşyan di Diyarbakir, città che ospita luoghi di culto di diverse confessioni, hanno manifestato la propria opposizione al piano di confisca.

La popolazione locale è preoccupata anche dal ruolo attivo che il TOKI, l’Ente governativo per l’edilizia pubblica, potrebbe avere nella fase di ricostruzione. Si temono conseguenze pesanti sull’identità culturale e storica dei centri urbani, oltre che sul tessuto sociale già martoriato dalla guerra. Il TOKI è noto per essere stato al centro dei contestati progetti di gentrificazione in numerose città del paese e per aver spesso privilegiato l’immediato ritorno economico rispetto alla qualità degli interventi. Un coinvolgimento dell’ente è stato smentito dal vice primo ministro Kurtulmuş, una rassicurazione che non sembra poter far breccia nella maggioranza della popolazione locale, tanto più che già nel 2009 a Sur lo stesso TOKI aveva tentato di avviare un progetto di ristrutturazione del tessuto urbano, fermato solo dopo forti proteste.

Il conflitto continua

Anche se il conflitto armato cessasse immediatamente, e in realtà la tendenza è opposta, buona parte della popolazione non nutre alcuna fiducia nelle buone intenzioni dichiarate dal governo, che dopo il crollo del processo di pace ha risposto con il pugno di ferro dell’esercito alle rivendicazioni di autonomia e di rispetto dei diritti della minoranza. Inoltre, non esiste alcuna cooperazione tra il governo centrale AKP e le istituzioni locali, governate dalle rappresentanze curde, dopo che negli ultimi mesi sono stati centinaia gli arresti nelle file dell’HDP e delle altre sigle di rappresentanza curda, spesso con l’accusa di collusione con il terrorismo.

Per questo qualsiasi piano calato coercitivamente dall’alto, anche volendo assumerne le migliori intenzioni, verrebbe totalmente rigettato a livello locale. Nella regione lo stato riesce ad imporre la propria autorità solo con la violenza e con costi altissimi in termini umanitari, sociali ed economici. L’intervento militare non solo ha distrutto il processo di pace ed ogni capacità di fare presa sugli abitanti, ma sta anche spingendo sempre più persone nelle fila del PKK, specie tra i giovani.

Di fatto il PKK sta riguadagnando nuovo prestigio tra i curdi e sta riaffermando la propria leadership all’interno del movimento autonomista, ruolo che durante il processo di pace aveva in parte perduto in favore dell’HDP e del suo approccio politico e non armato alla questione curda.

È difficile che gli espropri a cui si assiste in queste settimane possano favorire una conciliazione. Il timore generale è che, concluse le operazioni militari, accanto alla necessaria ricostruzione, il governo avvierà unilateralmente il proprio piano di ristrutturazione sociale e di spopolamento, che passerà anche attraverso la riedificazione dei centri abitati.

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ASIA/TURCHIA – Aumentano i ricorsi delle comunità cristiane contro l’espropriazione delle chiese a Diyarbakir (Agenzia Fides 03.05.16)

Diyarbakir (Agenzia Fides) – Mentre a Diyarbakir si prolunga il coprifuoco disposto dalle autorità turche, si moltiplicano anche i ricorsi presentati dai rappresentanti legali delle fondazioni legate alle comunità cristiane contro l’ordine di esproprio urgente con cui il governo turco, a fine marzo, ha sequestrato un’ampia area della metropoli che sorge lungo la riva del fiume Tigri, nel quadro delle operazioni militari messe in atto nella Turchia meridionale contro le postazioni curde del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK).
Nell’area urbana sequestrata sorgono tutte le chiese presenti a Diyarbakir: la chiesa armena apostolica di San Giragos (Ciriaco), la chiesa siriaca dedicata alla Vergine Maria, la chiesa caldea di Mar Sarkis (San Sergio), la chiesa armeno-cattolica e un luogo di culto protestante, oltre a più di 6mila abitazioni, dislocate in gran parte nel centro storico. Già al momento dell’esproprio, nessuna chiesa cristiana di Diyarbakir risultava aperta al culto.
I rappresentanti della Fondazione siriaca e gli esponenti della locale comunità cristiana evangelica avevano presentato ricorso contro l’esproprio alla Corte di Diyarbakir già a metà aprile (vedi Fides 19/4/2016). Adesso – riferiscono fonti locali consultate dall’Agenzia Fides – anche la Fondazione della chiesa armena apostolica di San Giragos ha depositato davanti al Consiglio di Stato un ricorso in cui si chiede di annullare l’ordine di esproprio. La richiesta chiama direttamente in causa il Primo Ministro turco, Ahmet Davutoglu, e il Ministro per l’ambiente e la pianificazione urbana, Idris Gulluce. Secondo Ali Elbeyoglu, avvocato della Fondazione, i motivi dell’esprorpio non sono indicati con chiarezza, contrariamente a quanto previsto dalla legislazione vigente.
La disposizione di esproprio del governo (vedi Fides 30/3/2016) era stata pubblicata anche sulla Gazzetta ufficiale del Consiglio dei Ministri. Il sequestro dell’area era stato giustificato come misura preventiva presa con procedura d’urgenza per salvaguardare il centro storico di Diyarbakir dalle devastazioni provocate dal conflitto. (GV) (Agenzia Fides 3/5/2016).

Nagorno-Karabakh, Yerevan discuterà su indipendenza della regione (Il Velino 03.05.16)

I ministri armeni discuteranno oggi una proposta di legge che riconosce l’indipendenza del Nagorno-Karabakh. La regione a maggioranza armena in Azerbaigian è stata al centro di una disputa territoriale tra i due Stati confinanti dalla fine del 1980. “Il disegno di legge sarà approvato dopo consultazioni tra Armenia e Karabakh che esamineranno ulteriori sviluppi e fattori esterni”, si legge in una nota. Se il gabinetto approverà, la legge sullo stato del Nagorno Karabakh andrà davanti al Parlamento armeno.

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L’accoglienza di un 82enne armeno di una famiglia scampata al genocidio (La Stampa 03.05.16)

Mentre ad Aleppo i bombardamenti hanno preso di mira ancora una volta un ospedale e l’Europa sembra non saper più accogliere chi ne ha bisogno, sono arrivati all’aeroporto di Roma Fiumicino 101 profughi siriani del secondo corridoio umanitario creato dalla comunità di Sant’Egidio e dalle chiese evangeliche. Si tratta di 37 famiglie siriane e una irachena partite da Beirut. Il gruppo è stato selezionato in base alla “vulnerabilità”. Ad essere accolti quindi sono persone con gravi malattie, donne sole, anziani. Ci sono due ottantenni di Aleppo, in giacca e cravatta, perché per la loro generazione e per la loro classe sociale, uscire di casa senza giacca è inimmaginabile. Anche se si sta lasciando tutto per andare a chiedere asilo in un Paese diverso. C’è una famiglia armena i cui antenati erano fuggiti da Marash nel 1915, mettendosi in salvo dal genocidio in corso nell’impero ottomano. Avevano trovato rifugio ad Aleppo dove hanno vissuto fino a quando non sono dovuti fuggire di nuovo due anni fa perché la vita era diventata impossibile. Ci sono le donne che hanno perso i mariti o che hanno dovuto lasciarli in Siria che cercano un futuro per i loro figli. Ci sono famiglie che sono venuti a curare i figli malati. in totale sono 97 siriani e 4 iracheni. In 37 sono cristiani e in 44 sono bambini. “E’ un piccolo microcosmo della sofferenza del Medioriente – ha detto Andrea Riccardi, della comunità di S. Egidio – questa è l’Europa dei ponti, non dei muri. Basta con la guerra in Siria, queste persone devono avere la possibilità di rientrare”. “Stiamo lanciando l’idea – ha aggiunto – di proporre corridoi umanitari in tutta Europa perché l’Europa dei muri non è più Europa”. All’Europa si è rivolto anche Mario Giro, viceministro al ministero degli Affari Esteri: “Il vero dramma non è il nostro ma quello di chi fugge, questo pensa il governo italiano. Rivolgiamo un appello all’Europa: si può accogliere in maniera calma, con ragionevolezza chi è in difficoltà”.

Di Flavia Amabile

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Nagorno-Karabakh, ministro Esteri armeno: Serve meccanismo indagine su violazione cessate il fuoco (Il Velino.it 02.05.16)

L’Azerbaigian si oppone all’introduzione di un meccanismo volto a indagare sulle violazione del cessate il fuoco nel Nagorno-Karabakh e quindi impedisce la soluzione del conflitto nella regione contesa. Lo ha detto il ministro degli Esteri armeno Edward Nalbandian. “Senza il consolidamento tangibile del regime di cessate il fuoco, il processo di negoziazione diventerà ostaggio del ricatto azero. In questo contesto la comunità internazionale ha sottolineato che è necessario creare un meccanismo di indagine sulle violazioni del cessate il fuoco. Armenia e Nagorno-Karabakh hanno sempre accolto queste proposte”, ha detto Nalbandian in un discorso alla Aleksanteri Institute dell’Università di Helsinki. L’Azerbaigian, tuttavia, si rifiuta di attuare un simile meccanismo considerandolo una “proposta strana e ridicola”, ha aggiunto il ministro che ha inoltre accolto con favore l’attività del Gruppo di Minsk dell’Osce sulla risoluzione del conflitto del Karabakh, così come del gruppo Russia, Stati Uniti e Francia, che “conoscono le radici del conflitto e le possibili soluzioni”. Nalbandian, infine, ha ribadito l’impegno di Armenia a una soluzione pacifica del conflitto attraverso i negoziati.

Azerbaijan opposes the introduction of a mechanism aimed at investigation of ceasefire violation in Nagorno-Karabakh and therefore prevents the settlement of the conflict in the disputed region, Armenian Foreign Minister Edward Nalbandian said Monday. “Without tangible consolidation of ceasefire regime the negotiation process will become hostage to Azerbaijani blackmailing. In that context the international community… have emphasized that it is necessary to have the mechanism of investigation of ceasefire violations. Armenia and Nagorno-Karabakh have always welcomed these proposals,” Nalbandian said in a speech at Aleksanteri Institute of University of Helsinki, as quoted by the foreign ministry’s press release. Azerbaijan rejects the implementation of such mechanism and labels the ceasefire consolidation measures as a “strange and ridiculous proposal,” the minister added. The minister also welcomed the activity of the existing Organization for Security and Co-operation in Europe’s (OSCE) Minsk Group on the Karabakh conflict settlement, as the group’s three co-chairs, Russia, the United States and France, “know the roots of the conflict and its possible solutions.” Nalbandian reiterated Armenia’s commitment to a peaceful settlement of the conflict by means of negotiations. The violence in Nagorno-Karabakh escalated on April 2. Baku and Yerevan have accused each other of provoking hostilities. The conflict in the region began in 1988, when the autonomous region sought to secede from the Azerbaijan Soviet Socialist Republic. The region proclaimed independence when the Soviet Union collapsed in 1991. The OSCE Minsk Group has been mediating the Nagorno-Karabakh conflict settlement since 1992. Aside from the three co-chars, the Group includes eight permanent members – Belarus, Germany, Italy, Sweden, Finland, and Turkey, as well as Armenia and Azerbaijan.

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Nagorno-Karabakh, ministero Esteri azero avverte: Se Armenia riconosce zona contesa, fine colloqui pace ( Il Velino 03.05.16)

Il martirio delle Chiese d’Oriente, il mondo tace (Avvenire 30.04.16)

Il martirio come esperienza quotidiana. Da evento piuttosto discontinuo e circoscritto a situazioni individuali, l’estrema testimonianza del sangue è tornata a essere un fenomeno di massa con la nuova vampata di terrorismo che investe buona parte del Medio Oriente, allargando i suoi tentacoli verso diverse zone dell’Asia e dell’Africa. Come definire diversamente la decapitazione di decine di fedeli copti in Libia, l’assassinio di suore missionarie nello Yemen, il rapimento di vescovi sacerdoti e suore in Siria, la cacciata di migliaia di famiglie dalla Piana di Ninive, la presa di ostaggi nella Valle del Khabur, l’imposizione della jizya ai fedeli di al-Qaryatain, l’incendio di decine di chiese in Egitto, la distruzione e rimozione di croci e altri simboli cristiani a Mosul e Raqqa?

Certamente, il martirio non è una “novità” per le Chiese d’Oriente. Il calendario copto, detto Calendario dei Martiri, fa partire la sua era il 29 agosto del 284 a ricordo di coloro che morirono sotto Diocleziano, mentre la memoria collettiva di tanti altre Chiese orientali è costellata di tragedie difficili da cancellare, non ultime i due genocidi di cui si è celebrato il centenario proprio l’anno scorso: il Genocidio armeno e “l’Anno della Spada” che ha cancellato la presenza siriaca e assira dal sud dell’Anatolia. Le avvisaglie dell’ultima fiammata di violenza anticristiana si erano mani-festate, dieci anni fa, con l’assassinio di due religiosi italiani: don Andrea Santoro, sacerdote fidei donum a Trebisonda, e suor Leonella Sgorbati a Mogadiscio, morta pronunciando per tre volte la parola «perdono» verso il suo uccisore. Il 17 settembre 2006, giorno del suo martirio, il Vangelo di Marco riportava le parole di Gesù: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo la salverà».

Da allora, il martirologio cristiano si è costantemente arricchito di nuovi nomi. Anzitutto in Iraq, dove la scure della violenza ha unito le diverse denominazioni cristiane in un autentico “ecumenismo del sangue”. Della lunga schiera di martiri fanno, infatti, parte sacerdoti siro-ortodos- Isi come Boulos Iskander Behnam, pastori protestanti come Mundher Aldayr, prelati e religiosi caldei come monsignor Paulos Faraj Rahho e il padre Ragheed Ganni, senza contare le centinaia di fedeli che hanno perso la vita in oltre ottanta attentati contro luoghi di culto cristiani nel Paese. Le successive agitazioni in Egitto e la guerra in Libia e Siria hanno poi contribuito a estendere ampiamente il raggio delle persecuzioni. La Chiesa copta ha così deciso di inserire nel proprio Sinassario – equivale a una loro canonizzazione come martiri – i 21 cristiani sgozzati dal Daesh nel febbraio 2015 sulle coste di Sirte. «Icone, manoscritti e storici ci hanno testimoniato le gesta dei martiri fin dall’alba del cristianesimo, aveva dichiarato un vescovo copto-ortodosso, ma questo è il più grande caso di martirio cristiano del nostro tempo».

In Siria, le testimonianze di fedeli uccisi “in odium fidei” non si contano più. Come quella di padre Frans van der Lugt, gesuita olandese, ucciso a Homs il 7 aprile 2014. Dei suoi 76 anni, ne aveva trascorsi una cinquantina in Siria. «Sono l’unico sacerdote rimasto», aveva detto in un’intervista. «Qui c’erano decine di migliaia di cristiani, ora appena 66. Come potrei lasciarli soli?». Ma ci sono anche le testimonianze dei “martiri viventi”. Come Shamiran, una donna assira di 60 anni, prelevata con altri 230 cristiani del Khabur nel febbraio 2015 e rimasta per sette mesi tra le mani dei jihadisti. «In carcere – racconta Shamiran – abbiamo improvvisato una celebrazione della Pasqua. Abbiamo prima cantato degli inni, poi alla comunione, in mancanza di un prete e del vino, ci siamo scambiati a vicenda del pane imbevuto di acqua». Il martirio un déjà vuper i cristiani orientali, dicevamo. Eppure, quel che avviene oggi in Medio Oriente ha dell’assurdo perché, sebbene succeda “in diretta” davanti a noi, ostentato con orgoglio dalla macchina propagandistica dei carnefici, fa fatica a risvegliare l’Occidente dalla sua distrazione.

Anche per questo ci voleva un gesto forte come quello di ieri a Roma. Nessuna parte del mondo, in fondo, può dirsi esonerata dalla sequela di Gesù fino in fondo. L’ha detto papa Francesco, due settimane fa, ricordando nell’udienza concessa al Pontificio Collegio scozzese di Roma come «oggi i cristiani sono chiamati a imitare il coraggio dei martiri in una cultura spesso ostile al Vangelo». Nella prefazione di un libro appena uscito in Francia papa Bergoglio ha così ricordato i sette monaci trappisti sequestrati e uccisi in Algeria nel 1996: «Non sono fuggiti di fronte alla violenza: l’hanno combattuta con le armi dell’amore, dell’accoglienza fraterna, della preghiera comunitaria. I fratelli cistercensi dell’Atlas hanno reso testimonianza con il loro sangue.

Nella loro carne, hanno vinto l’odio nel giorno della grande prova. Ma è con l’intera loro vita che sono testimoni (martiri) dell’amore». Un campanello d’allarme l’aveva suonato nel febbraio 2015 il cardinale Angelo Scola invitando gli europei a prendere il fenomeno martirio «molto sul serio» alla luce di quanto stava accadendo nell’islam. «Non è detto – aveva precisato l’arcivescovo di Milano – che il martirio del sangue ci sarà evitato come abbiamo pensato fino a dieci anni fa quando credevamo che la cosa non ci avrebbe riguardato».

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Nagorno-Karabakh, Due soldati dell’esercito regolare hanno perso la vita nella serata di ieri (Il Velino 30.04.16)

“Come risultato di bombardamenti da parte delle forze armate azere, sul finire del 29 aprile, i militari dell’esercito di Difesa Karabakh Garik Movsisyan, nato nel 1997, e Vazgen Harutyunyan, nato nel 1968, sono stati feriti mortalmente”. E’ quanto recita laconicamente il comunicato del servizio stampa del Ministero della non riconosciuta Repubblica del Nagorno-Karabakh diffuso solo oggi.

L’ultima ondata di violenza nella regione del Nagorno-Karabakh dell’Azerbaigian, per lo più abitata da armeni, si è intensificata lo scorso 2 aprile, aumentando in maniera decisa il numero delle vittime; Armenia e Azerbaigian hanno raggiunto un accordo per il cessate il fuoco tre giorni più tardi, che però è stato violato quasi quotidianamente come testimoniano i rapporti di entrambe le parti in conflitto.

Il conflitto del Nagorno-Karabakh ha avuto inizio nel 1988, quando la regione autonoma ha cercato di separarsi dalla Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaijan; la regione ha poi proclamato la propria indipendenza nel 1991 con il crollo dell’Unione Sovietica: da allora l’area è in guerra fino al cessate il fuoco mediato dalla Russia nel 1994: da un lato l’Azerbaigian insiste nel mantenere la propria integrità territoriale, l’Armenia sta difendendo gli interessi della NKR organizzazione già accreditata nei colloqui di pace del 1992.

Defense Ministry of the unrecognized Nagorno-Karabakh Republic on Saturday said that two of its army servicemen were killed in shelling from the Azerbaijani side the night before. “As a result of shelling by the Azerbaijani Armed Forces, late on April 29, Karabakh Defense Army servicemen Garik Movsisyan, born in 1997, and Vazgen Harutyunyan, born in 1968, were deadly wounded,” the ministry’s press service said in a statement. The latest wave of violence in Azerbaijan’s breakaway Nagorno-Karabakh region, mostly inhabited by Armenians, intensified on April 2, leading to multiple casualties before Armenia and Azerbaijan reached a shaky ceasefire deal three days later, which has been followed by near-daily reports of truce violations. The Nagorno-Karabakh conflict began in 1988, when the autonomous region sought to secede from the Azerbaijan Soviet Socialist Republic. The region proclaimed independence when the Soviet Union collapsed in 1991. The move triggered a war that lasted until a Russia-brokered ceasefire was signed in 1994. Azerbaijan insists on maintaining its territorial integrity, while Armenia is defending the interests of the self-proclaimed NKR, which has not been part of the peace talks conducted since 1992.

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Il Nagorno Karabagh, l’Armenia e la “la tela di ragno” (Spondasud.it 30.04.16)

La ricerca di nuovi equilibri per il Transcaucaso

di Bruno Scapiniex ambasciatore d’Italia in Armenia

Il recente attacco azero al Nagorno Karabagh, dimostratosi nei fatti più una vera e propria guerra che semplice violazione del “cessate-il-fuoco”, per quanto deprecabile sul piano umano, ha tuttavia avuto un merito: quello di smentire finalmente l’ipocrita posizione attendista di quanti – OSCE inclusa – credevano che con quel processo di pace in formato “ Co-chairs” e con quei mal combinati “principi di Madrid“, si sarebbe potuta trovare la soluzione definitiva al conflitto che vede fronteggiarsi da più di un ventennio ormai Armenia e Azerbaijan.

A riprova di tale smentita giunge peraltro la dichiarazione, rilasciata il 25 aprile u.s. dal Ministero degli Esteri armeno, secondo la quale l’ Azerbaijan avrebbe diffuso il precedente 14 aprile in seno all’Assemblea Generale dell’ONU una lettera provocatoria con cui denunciava unilateralmente l’accordo sul “cessate-il-fuoco” sottoscritto da Armenia, Azerbaijan e Nagorno Karabagh il 12 maggio del 1994. Una denuncia, questa, che nelle intenzionalità di Baku acquista il sapore di una malcelata nuova dichiarazione di guerra con indubbi effetti destabilizzanti rispetto alla situazione fin qui registratasi.

Ma ancora. La Turchia, che non ha fatto mai mistero di appoggiare i “fratelli azeri”, si sarebbe successivamente accordata con l’Azerbaijan minacciando di utilizzare congiuntamente il territorio del Nakhichevan, exclave azera benché storicamente armena, per scopi non meglio precisati, ma intuibilmente al fine di intimidire Yerevan frustandone le capacità di reazione. Orbene, alla luce di questi elementi che hanno portato il conflitto ad un punto di “non ritorno”, nuovi scenari verrebbero ad aprirsi sul futuro dell’area transcaucasica.

Premesso che mai Baku avrebbe osato avventurarsi in un attacco al Nagorno Karabagh senza un preventivo “benestare” della NATO – nelle forme di un sostegno turco sollecitato dalle incoraggianti parole del Segretario di Stato americano Kerry al Presidente azero Alijev nell’ incontro del 31 marzo scorso a Washington – sembrerebbe lecito oggi sospettare l’esistenza da parte occidentale di un più ampio disegno politico volto a cogliere le simpatie pro-NATO dell’Azerbaijan per porre ancora un’altra sfida a Mosca creando – nella prospettiva di un suo accerchiamento – un ulteriore avamposto militarizzato turco e questa volta addirittura nel Nakhichevan a ridosso dell’Armenia, eludendo in tal modo lo stesso controllo svolto dai militari russi limitato ai soli confini tra Armenia e Turchia.

In tale contesto, e nella probabile prospettiva che il conflitto sul Nagorno Karabagh venga ad assumere una portata ben oltre i limiti di gestibilità finora avuti da Yerevan, spetterà a quest’ultima non tanto valutare l’eventualità di una ripresa dei negoziati di pace, quanto riconsiderare i fondamentali della sua politica estera nell’intento di realizzare un “re-setting” delle principali linee direttrici quale condizione per tornare a gestire le dinamiche regionali che la vedono protagonista, anziché venire da esse passivamente gestita.

Nella considerazione, pertanto, della fondatezza non solo politica ma anche giuridica della pretesa della popolazione del Nagorno Karabagh all’indipendenza – una fondatezza che trova giustificazione sia nel principio di autodeterminazione, sia , e più propriamente, nella Legge dell’allora Unione Sovietica del 3 aprile 1990, a termini della quale (art. 3) “ una regione autonoma all’ interno di una Repubblica che decideva per il distacco dall’ Unione aveva diritto di scegliere attraverso una libera manifestazione di volontà popolare se seguire o meno la Repubblica secessionista – , Yerevan dovrebbe convincersi dell’inutilità di proseguire un dialogo pacificatorio in seno all’ OSCE senza che vengano preventivamente soddisfatte alcune imprescindibili pregiudiziali. E tra queste in primo luogo la necessità di introdurre nel negoziato un meccanismo garantistico di rispetto dell’indipendenza del Nagorno Karabagh basato sul pari e identico diritto esercitato dall’Azerbaijan per la secessione dall’Unione Sovietica (e al riguardo è da notare come la Corte Costituzionale Sovietica respingesse al tempo il maldestro tentativo di Baku di abolire ex-post lo statuto autonomo del Karabagh).

Sul piano psicologico, poi, Yerevan dovrebbe convincere quei Paesi che, per tema di urtare le suscettibilità di Ankara o per interessi legati agli idrocarburi azeri, oggi tentennano, esitano o temporeggiano nel riconoscere la giusta causa del Nagorno Karabagh, che nessuna sicurezza energetica ci potrà mai essere nell’area, fin tanto che l’ Armenia e il Nagorno Karabagh saranno sotto la minaccia di un attacco da parte azera. La vulnerabilità delle condotte petrolifere e gasifere dell’Azerbaijan, infatti, potrebbe essere per Yerevan una opzione difensiva imprescindibile qualora si dovesse verificare una “escalation” del conflitto sul piano militare al punto da compromettere l’integrità fisica del Paese.

Ma è sopratutto in termini di alleanze e allineamenti che l’ Armenia dovrebbe costruirsi una forza di deterrenza in grado di dissuadere l’Azerbaijan da pericolose avventure militari.

La più stretta cooperazione registratasi ora tra Ankara e Baku – con il rischio, non remoto, che la Turchia possa mettere piede nello stesso Nakhichevan -, la più intensa collaborazione promossa da Ankara negli ultimi tempi con la Georgia – altro Paese confinante con l’ Armenia e simpatizzante della NATO -, i tentativi della Turchia di manipolare – con “mano libera” concessa da Washington – le crisi del Medio-Oriente e di imporre il proprio ruolo egemone negli altri Paesi dell’area euro-asiatica nel presupposto di una loro affinità turcomanna, e, infine, il rischio che gli effetti del terrorismo sollecitato dalla Turchia possano riversarsi in prospettiva, tramite l’ Azerbaijan, nella stessa Armenia, sono tutte circostanze di cui Yerevan dovrebbe ben tenere conto in vista di assicurarsi la propria sicurezza fisica e territoriale.

A questo scenario si aggiungerebbero, poi, almeno due fattori di natura geopolitica che la dirigenza armena dovrebbe considerare per portato strategico: la nuova posizione internazionale dell’Iran dopo l’abolizione delle sanzioni – tra l’altro unico Paese confinante con cui l’ Armenia si trova obbligata ad avere un rapporto di amicizia – e la prefigurazione di un asse di più stretta cooperazione tra Pechino e Teheran. Circostanza, quest’ultima, che nell’avvicinamento strategico attuato dalla Russia verso la Cina verrebbe a realizzare una cintura di sicurezza, in funzione di contenimento dell’espansionismo della NATO in Asia, che sostanzierebbe al contempo l’interesse cinese per le risorse del ricco altopiano iraniano.

In questa proiezione, dunque, si rivelerebbe strategicamente indispensabile per Yerevan rompere il pericoloso accerchiamento che la Turchia è riuscita a realizzare lungo i suoi confini e controbilanciare questa pericolosissima condizione di vulnerabilità per il Paese trovando i necessari sostegni e appoggi non solo nel partenariato strategico con Mosca – peraltro rivelatosi insufficiente quale deterrente nei confronti di Baku -, ma anche lungo l’asse Pechino-Teheran per giungere ad accordi di cooperazione strategica con queste Capitali e nell’ambito della stessa Shangai Cooperation Organization. A una tale visione non dovrebbe, peraltro, mancare il rafforzamento dei rapporti con i Paesi amici del fronte europeo e la ripresa di quella politica della “complementarietà’ che aveva assicurato a Yerevan una posizione di vantaggioso equilibrio tra Est ed Ovest fino alla vigilia di quella “svolta” decisa improvvisamente nell’autunno del 2013 in favore dell’Unione Euro-asiatica.

Un ripensamento a “tutto campo” si imporrebbe dunque oggi per Yerevan. Una revisione, cioè, in termini strategici della linea fin qui seguita onde evitare che la” tela di ragno” che Ankara ha in corso di tessitura l’avvolga completamente rendendo così in futuro un recupero di posizioni estremamente caro e inibendole qualunque capacità di reazione.

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Armenia, Cambogia, Rwanda gli studi comparati sui genocidi dell’università di Yale (Gariwo 28.04.16)

Aprile detiene il triste primato di essere il “mese dei genocidi”. Nel mese che sta finendo ci sono stati ben tre tragici anniversari: quello dei massacri degli armeni, quello del “democidio” cambogiano e quello dello sterminio dei tutsi in Rwanda. Abbiamo chiesto un’opinione a David Simon, Direttore dei “Genocide Studies” della prestigiosa università americana di Yale.

Com’è iniziato il progetto di Studio dei Genocidi (Genocide Studies Project) di Yale?

È iniziato dal lavoro del nostro direttore e fondatore, Ben Kiernan, che aveva raccolto una grande quantità di dati sul genocidio cambogiano, ancora negli anni ’80. Kiernan si rese conto che lo studio di queste informazioni era coerente con quanto lui e altri stavano appena cominciando a fare in quel momento: studiare comparativamente i genocidi. Quindi fu fondato il Centro per lo Studio dei Genocidi con il sostegno dell’università di Yale.

Qual è il suo tipo di esperienza con lo studio della Cambogia e come vede i recenti sforzi per ottenere giustizia per le vittime del genocidio dei Khmer Rossi?

Io personalmente non ho moltissima esperienza di Cambogia. Il professor Kiernan, invece, è uno dei più eminenti studiosi di questo Paese e del relativo genocidio per il quale si deve ottenere giustizia. Gli sforzi attuali (ad es. le Corti Penali sostenute dall’ONU che stanno processando i khmer rossi, ndr) sono importanti, e hanno portato a una certa comprensione e a fare i conti con il passato, nel popolo cambogiano. Io ritengo che potrebbero essere molto più ambiziosi, ma alcune questioni politiche si sono messe in mezzo.

E per quanto riguarda il Rwanda?

Penso che il Tribunale Penale per il Rwanda abbia svolto un ruolo importante nello stabilire un consenso a proposito degli elementi basilari del genocidio in Rwanda. Auspicherei più condanne dei leader del “Complotto per Compiere il Genocidio”, perché penso che senza alcun dubbio le atrocità di massa del Rwanda riflettano una complessa pianificazione precedente al 7 aprile 1994. Penso anche che la questione degli eventuali processi a responsabili dell’Esercito patriottico ruandese sia stata gestita male. I casi sono due: o non avrebbe dovuto essere inserita nel mandato della corte dall’inizio, o vi sarebbe dovuta essere un’indagine pubblica completa.

Ci potrebbe fare un esempio di come trattate i casi di genocidio alla Vostra Facoltà? Proponete un’educazione volta alla prevenzione? 

Anche se ci piacerebbe poterli prevenire, la nostra mission non prevede di trattare direttamente della prevenzione dei genocidi. Invece, ciò che possiamo fare è di studiare passati episodi di atrocità di massa, cercare di capire i loro denominatori comuni e usare queste conclusioni per cercare di cogliere i segnali che anticipano pericoli di genocidi futuri, e stimolare la consapevolezza della possibilità di futuri scoppi di violenza genocida.

Tenete speciali commemorazioni dei genocidi?

Sì, in maniera sporadica. Abbiamo prodotto uno spettacolo teatrale e un successivo dibattito come parte delle commemorazioni del centenario dell’inizio del Genocidio Armeno l’anno scorso. Due anni fa, abbiamo tenuto un simposio per commemorare il 20° anniversario del genocidio ruandese, e analizzare il lascito di questo tremendo crimine.

Trattate il tema del coraggio civile o dell’opposizione morale ai genocidi?

Nel 2008 abbiamo incentrato i nostri seminari sul tema del “salvataggio” e tenuto un simposio sul tema ancora nel 2009. Uno dei principali relatori di questi eventi ha intrapreso un progetto per pubblicizzare il ruolo del coraggio morale in diverse situazioni genocide.

Com’è organizzato il Suo dipartimento?

Non offriamo lauree o corsi sotto una qualifica di “Genocide Studies”. Professori associati come me, il prof. Kiernan o il prof. Timothy Snyder teniamo certamente corsi su temi legati ai genocidi, ma entro i nostri propri dipartimenti.

C’è qualcuno nel suo dipartimento che segue i temi della Responsabilità di proteggere di Obama o della Prevenzione Genocidi in generale? Quali sono le sue raccomandazioni in proposito?

In qualche misura me ne sono occupato. Direi che la R2P non è un concetto di Obama, ma una dottrina che è in circolazione fin da circa il 2001, ed è stata approvata dall’Assemblea Generale dell’Onu nel 2005, 3 anni e mezzo prima che Obama diventasse Presidente, quindi! La mia raccomandazione è che tutti i Paesi incorporino qualche versione della “Responsabilità di Proteggere” nelle proprie politiche estere, e che le Nazioni Unite riformino il proprio Consiglio di Sicurezza in modo tale da riuscire almeno in parte a rendere più difficile violare o trascurare questa responsabilità.

È d’accordo con il prof. Yehuda Bauer e con la sua proposta di parlare di “atrocità di massa” invece di genocidio, per rendere possibile alla comunità internazionale intervenire, se del caso anche militarmente, in un numero maggiore di casi?

Sì, concordo. Le vittime di uccisioni arbitrarie in definitiva non sono interessate a sapere se la loro morte è coerente con quanto afferma una Convenzione ONU del 1948. Il resto del mondo non dovrebbe soltanto avere a cuore i casi di genocidio, ma dovrebbe agire. E dovrebbe passare meno tempo a discutere se la specifica definizione è rispettata, tranne se ci si trova in una corte giudiziaria a considerare un’accusa di quel particolare crimine.

Che cosa pensa dell’ISIS? È un nuovo nazismo? Come si potrebbe agire a riguardo dei casi della crisi siriana e di quella libica?

Sembra abbastanza chiaro che l’ISIS sta compiendo un genocidio, sia in situazioni particolari che per quanto riguarda il suo perdurante modo di perseguitare i membri di alcuni gruppi. Non so se sia così utile paragonare il gruppo al regime nazista, tranne per affermare che entrambi abbracciano nozioni condannabili di esclusione sociale ed entrambi non riescono a riconoscere il valore intrinseco e universale delle vite umane.

Il professore di Yale Timothy Snyder è diventato molto popolare con i suoi saggi, incluso il recente Terra nera. Le piacerebbe indicare altre pubblicazioni rilevanti?

Il libro di Kiernan Blood and Soil, anche se un po’ più datato, è un volume essenziale per comprendere i genocidi in chiave comparatistica.

Potrebbe considerare di piantare un albero per i Giusti a Yale?

È un’ottima idea. Penso che sarebbe meglio che lo facesse un gruppo di studenti, ma certamente li consiglierei e sosterrei.

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