Azerbaijan, la terra del fuoco (Osservatorio Balcani e Caucaso 20.05.16)

Una delegazione del Parlamento europeo in visita in Azerbaijan, dopo che lo scorso settembre l’eurocamera ha condannato in modo netto le violazioni dei diritti umani. Reportage

Gelo polare fra Bruxelles e Baku. Non è un bollettino meteorologico che preannuncia paurosi sconvolgimenti climatici nel vecchio continente; si tratta semplicemente dello stato delle relazioni fra il parlamento europeo e il Milli Mejlis, l’assemblea legislativa dell’Azerbaijan. A scatenare la tempesta diplomatica è stata una risoluzione dell’eurocamera che il 10 settembre dello scorso anno ha condannato in modo netto e inequivocabile le persistenti violazioni dei diritti umani nella repubblica caucasica. “Si chiede l’immediata ed incondizionata liberazione di tutti i prigionieri politici e dei difensori dei diritti umani, dei giornalisti e degli attivisti della società civile” recita il testo adottato che sollecita le autorità a cessare la repressione in corso ponendo termine alle pratiche correnti di persecuzione criminale selettiva. Parole dure, senza mezzi termini, con tanto di nomi e cognomi delle vittime e richieste di intervento da parte della diplomazia europea che hanno provocato la stizzita reazione del governo di Baku che ha subito rispedito al mittente la risoluzione in oggetto. D’altronde l’Unione Europea ha fame di idrocarburi e chi meglio dell’Azerbaijan può provvedere al suo fabbisogno considerando le tensioni con la Russia? Chi controlla i rubinetti di gas e petrolio, ritengono a torto o a ragione gli azeri, non può essere sottoposto a critiche pena pesanti ritorsioni commerciali. Più che una risposta una minaccia.

Heidi Hautala è una esperta e volenterosa eurodeputata finlandese che presiede l’assemblea parlamentare Euronest, l’organo che comprende le delegazioni dei parlamenti dei sei paesi del Partenariato Orientale oltre a quella dell’europarlamento. A lei e al suo collega georgiano Viktor Dolidze è stato affidato il compito di recarsi a Baku per cercare di riannodare le relazioni con la controparte azera sempre più trincerata su posizioni di scontro. All’ultimo momento anch’io vengo aggiunto alla missione che ottiene il semaforo verde dopo un lezioso rimpallo di corrispondenza con le autorità azerbaijane cui fanno seguito alcuni tentativi andati a vuoto e pretestuosi intoppi burocratici. Viaggio fuori programma ma ordine di servizio quanto mai benvenuto se si tratta di raggiungere luoghi che presentano aspetti che vanno al di là del lavoro. Fra una riunione e l’altra è sempre piacevole approfittare delle pause per fare due passi fra piazze, monumenti e mercati gettando uno sguardo veloce sugli scorci di maggiore interesse. Ci sono città che offrono sempre qualcosa di nuovo anche all’ennesima visita e Baku è una di queste. Passo, così, nel giro di poche ore dall’atmosfera surreale dell’aeroporto devastato di Bruxelles, appena riaperto dopo gli attentati terroristici, a quella sfavillante dello scalo della capitale azera inaugurato nel giugno scorso in occasione dei primi giochi olimpici europei.

L’hotel dove alloggio si trova in centro, vicino al lungomare e non lontano dalla città vecchia. E’ lo stesso della scorsa volta, un cinque stelle dal design moderno con vista mare, solo che nel giro di tre anni i prezzi delle camere sono dimezzati. Questo, ovviamente, per chi paga in euro ma non per chi paga in manat, la moneta locale. Due svalutazioni a distanza di pochi mesi, di cui l’ultima a seguito della decisione della banca centrale di lasciare fluttuare liberamente la valuta sui mercati internazionali, hanno portato il cambio con il dollaro da 0,78 a 1,55. E per un paese come l’Azerbaijan che importa quasi tutto ciò ha comportato un aumento generalizzato del costo della vita compreso i generi di prima necessità. La gente, quindi, è tornata dopo tanto tempo a manifestare nelle piazze della capitale e delle principali città trattenuta a stento dalle forze di polizia. Tempi duri per i petro-stati. Se poi si considera che l’export dell’Azerbaijan è basato al 95% sugli idrocarburi si fa presto a intuire la parabola dell’economia del paese precipitata in poco tempo dall’opulenza sfarzosa alla crisi recessiva. I tassi di crescita a due cifre di inizio decennio sono ormai un lontano ricordo e non si intravede ancora luce in fondo al tunnel. Secondo stime approssimate nel 2008, quando il prezzo del petrolio aveva raggiunto i 145 dollari al barile, le casse dello stato hanno incamerato 36 miliardi di dollari e il flusso di denaro è continuato fino al 2013 quando si sono manifestati i primi segni di cedimento dei prodotti petroliferi. Si tratta di quantità enormi se si pensa che la repubblica caucasica conta meno di dieci milioni di abitanti. Dove, poi, sia realmente finito questo fiume di dollari e chi ne abbia veramente beneficiato è tutta un’altra storia.

Panem et circenses

Appuntamento alle otto per la colazione con l’ambasciatrice dell’Unione Europea e puntualmente alle otto mi faccio trovare, come da programma, nella sala da pranzo dell’hotel dove un collega ancora assonnato mi avverte dell’inconveniente. “Anche tu hai sbagliato l’ora?”, mi accoglie ironico Philippe mentre sorseggia il caffè. “No, non posso essermi sbagliato”, ribatto io mostrando l’orario sul mio cellulare. Purtroppo ha ragione lui indicandomi l’orologio appeso alla parete che segna le sette. Entrambi cerchiamo di capire come possa essere accaduto il pasticcio. Come in tutti i paesi europei anche quest’anno in Azerbaijan a fine marzo avrebbe dovuto entrare in vigore l’ora legale. Un ripensamento dell’ultimo momento, però, ha indotto il presidente Alyiev a convocare una riunione straordinaria della commissione scientifica delegata in materia che ha stabilito che per l’anno in corso non ci sarebbe stato il cambio dell’ora. Essendo computer e smart phone programmati oramai da tempo sull’orario estivo i cittadini azeri hanno fatto ricorso in tutta fretta a software di aggiornamento messi a disposizione gratuitamente dalle case produttrici. Non così i viaggiatori stranieri che capitano da queste parti che usano apparecchi elettronici ignari, ovviamente, delle decisioni prese dalle autorità azere. Inconveniente bizzarro a prima vista salvo scoprire, poi, che, secondo le malelingue, sono state esigenze televisive ad obbligare il repentino contrordine. Il 14 giugno fa tappa in Azerbaijan per la prima volta il circo della Formula 1. L’ora legale avrebbe messo a rischio l’indice di ascolto, e quindi gli interessi degli sponsor, nei paesi europei tradizionalmente legati alle corse automobilistiche quindi meglio soprassedere e confermare l’ora solare con buona pace di chi non vuol saperne di Hamilton, Vettel, Ferrari e Mercedes. D’altronde in città fervono ovunque i preparativi per il Gran Premio. Si tratta di un circuito cittadino che attraversa i viali principali della capitale. Operai e mezzi meccanici passano il giorno a stendere e lisciare sulle strade una nuova coltre di almeno venticinque centimetri d’asfalto creando non pochi problemi di inciampo ai pedoni distratti. Dopo i giochi olimpici europei del 2015 il regime offre in pasto all’opinione pubblica internazionale, e a quella domestica, un’altra vetrina dove sfoggiare lustro e prestigio. “Panem et circenses” è una ricetta antica che funziona sempre e garantisce lunga vita a chi è al potere. Salvo poi dover fare i conti il giorno dopo con una realtà tutt’altro che idilliaca rispetto a quanto messo in mostra.

Dalla collina su cui si trova il grande edificio che ospita il Milli Mejlis si gode una splendida vista della baia di Baku. Samad Seyidov, presidente della Commissione Esteri, ci da il benvenuto nel parlamento azero in un’ampia sala accompagnato da altri deputati. Il sorriso e le parole di circostanza mascherano a fatica il disappunto. “Siamo stati i pionieri di Euronest e del dialogo interparlamentare”, esordisce, “ma oggi non ne capiamo più le ragioni”. “Questa assemblea”, aggiunge asciutto, “ci ha portato più mal di testa che benefici e mi riferisco, in particolare, ad alcune risoluzioni adottate che pregiudicano gli interessi del mio paese”. Per Seyidov ormai l’assemblea parlamentare del Partenariato Orientale è una perdita di tempo e di denaro che non merita più alcuno sforzo. L’incapacità europea di gestire i flussi migratori, inoltre, ha messo a nudo la debolezza dell’UE agli occhi dell’opinione pubblica azera. “Noi siamo fondamentalmente pro-europei”, aggiunge il deputato che gli siede a fianco, “ma dopo la fine dell’Unione Sovietica non abbiamo bisogno di un altro grande fratello”, sottolinea usando il termine tradizionalmente riferito all’ingombrante vicino russo. Anche la crisi ucraina, secondo le parole di Seydov, avrebbe contribuito a raffreddare i rapporti con Bruxelles consigliando alla diplomazia di Baku di evitare di cadere nella trappola in cui è precipitata Kiev.

Idrocarburi e frutta secca

Sulla stessa lunghezza d’onda è anche Ogtay Asadov che dal 2005 presiede il parlamento azero. La sala in cui ci accoglie è, forse per ragioni di rango, ancora più spaziosa di quella che ha ospitato il nostro precedente incontro e il corteo degli accompagnatori, fra segretari, portaborse, consiglieri e personale di servizio, ancora più numeroso. Volti attempati sormontati da folte capigliature pettinate all’indietro ricordano per l’aspetto la nomenklatura sovietica. “L’atteggiamento del Parlamento europeo nei confronti del mio paese è fondato su pregiudizi”, inizia con tono pacato ma fermo. “Ho scritto personalmente al presidente Schulz per manifestargli il mio disappunto ma non ho ancora ricevuto risposta”, puntualizza richiamando le risoluzioni di condanna dell’Azerbaijan adottate dall’assemblea di Strasburgo. E riferendosi ai prigionieri politici, che lui accompagna sempre con il termine “cosiddetti” per accentuare che si tratta solo di una nostra opinione, si lamenta del ruolo giocato nella campagna in corso dalle organizzazioni non governative usate, a suo dire, da agenti esterni per aumentare la pressione sul governo di Baku. Per ultimo Asadov mette sul tavolo la carta degli idrocarburi come fosse l’asso nella manica. “Tanap e Tap (NB i due gasdotti complementari che dovrebbero portare il gas azero in Europa attraverso la Turchia, i Balcani e l’Italia)”, enfatizza, “ridefiniranno la situazione energetica del vecchio continente dando una boccata di ossigeno a tutta l’Unione”, conclude convinto che la partita volga a suo favore.

Frutta secca da sgranocchiare sorseggiando il tè sui divani del salone a lato del ristorante riservato ai deputati del Milli Mejlis. Arachidi, pistacchi, noci, nocciole, prugne e albicocche secche sono fra i pochi generi, oltre a gas e petrolio, di cui l’Azerbaijan abbonda tanto da riuscire ad esportarne ai paesi vicini. Ci concediamo una pausa con i padroni di casa in attesa dell’incontro successivo e l’atmosfera si fa più amichevole superando la fredda accoglienza e il clima di sospetto iniziali. Gli scambi di vedute sono più concilianti, qualche battuta ammorbidisce i toni e si intravede anche qualche sorriso. Avevo notato prima di partire che nel programma della visita non era previsto alcun ricevimento ufficiale. Chi frequenta queste zone sa benissimo che l’assenza di un qualsivoglia invito a pranzo o cena è il segnale che gli ospiti non sono graditi. Bastano, però, pochi momenti di cordialità per far cambiare idea al presidente della Commissione Esteri che ci dà inaspettatamente appuntamento la sera in un ristorante della città vecchia rinunciando ad impegni precedenti.

Mahmud Mammad-Guliyev è uno dei quattro sottosegretari che affiancano il ministro degli Esteri. Il nostro arrivo a Baku coincide con la ripresa delle ostilità in Nagorno Karabakh, il conflitto che dalla fine degli anni ottanta contrappone l’Azerbaijan all’Armenia. Era dal 1994, anno in cui venne firmato dalle parti il cessate-il-fuoco, che non si registravano scontri così violenti sulla linea di contatto. Fonti ufficiose parlano di quasi 200 morti e parecchi feriti soprattutto fra i civili. Baku e Yerevan si rimpallano le responsabilità accusandosi a vicenda. La guerra è tornata al centro dell’agone politico con il conseguente vortice di patriottismo che obnubila le coscienze e storna l’attenzione dalla crisi che attanaglia il paese. Inevitabile, quindi, che il vice-ministro concentri il suo intervento sugli ultimi avvenimenti. “La nuova escalation è partita dall’Armenia”, attacca, “con l’obiettivo di impedire l’imminente costruzione del gasdotto che porterà il metano del Mar Caspio in Europa”. “Ci fa piacere, però – aggiunge Mammad-Guliyev – che l’Unione Europea si sia pronunciata a sostegno dell’integrità territoriale dell’Azerbaijan analogamente a quanto ha fatto in precedenza con Georgia, Moldova e Ucraina”. E per quanto riguarda le violazioni dei diritti umani il sottosegretario fa presente come nessun paese della regione possa considerarsi indenne dal fenomeno. “E’ sbagliato puntare il dito solo contro di noi”, afferma, “bisogna guardare cosa avviene anche in casa d’altri”, rimarca alludendo a quanto accade nel resto d’Europa.

Bandiere rosse, verdi e blu, i colori azeri, sono appese ovunque. Non c’è pace nel Caucaso vittima di vampate periodiche di nazionalismo con la complicità, il beneplacito e la mano nascosta dopo avere lanciato il sasso della Russia. Mosca è il principale fornitore di armi di entrambi i contendenti. E’ legata all’Armenia da un accordo bilaterale di difesa che contempla anche lo stazionamento di soldati e mezzi militari russi e allo stesso tempo dal 2009 al 2011 ha venduto armamenti all’Azerbaijan per un valore di quattro miliardi di dollari. La guerra conviene a tutti: ad armeni e azeri che periodicamente ricorrono al richiamo dell’unità di patria per tacitare gli oppositori e, soprattutto, ai russi che fanno soldi con la vendita di armi e tengono sotto scacco sia gli uni che gli altri mantenendoli agganciati alla propria area di influenza.

Crisi economica

Un sole lucido e splendente si riflette sulle acque del Caspio. Tante sono le persone che passeggiano nei floridi giardini del lungomare meticolosamente, quasi maniacalmente curati per dar lustro alla capitale. Gli scheletri di due grandi grattacieli con le gru ferme e i cantieri chiusi in bella vista a ridosso della riva ricordano drammaticamente, però, che siamo in tempi di crisi. Secondo le stime ufficiali fornite dalle autorità il tasso di disoccupazione è al 6%. Basta leggere fra le righe per accorgersi, però, che la realtà è ben diversa. Chi possiede anche un piccolo appezzamento di terra per esempio, e sono in molti, in base ai criteri statistici delle agenzie governative viene automaticamente catalogato come agricoltore anche se non svolge attività agricola o se la proprietà non è sufficiente a garantire il sostentamento minimo per campare.

Analisi indipendenti collocano ormai la percentuale dei disoccupati attorno al 20% con più di un milione di azeri partiti per la Russia alla ricerca di un futuro migliore. Le difficoltà economiche sono più evidenti nelle campagne mentre in città gli standard di vita appaiono ancora  accettabili senza considerare il numero abnorme di negozi di generi di lusso che ancora fiancheggiano le vie pedonali del centro, esibendo articoli più per gli occhi che per le tasche degli improbabili clienti.

Dal molo dove partono i battelli che collegano l’Azerbaijan al Turkmenistan si può cogliere una splendida vista di Baku dal basso che si stende e si appoggia sulle alture retrostanti. Spiccano nuovi edifici nello skyline, in particolare il complesso delle “torri di fuoco” nei pressi del parlamento. Sono tre grattacieli di vetro le cui forme stilizzate richiamano una lingua di fuoco dando l’idea da lontano, insieme, di un’unica fiamma. Sono, ormai, diventate il simbolo della capitale di un paese che si definisce con l’appellativo di “terra di fuoco”. E’ in Azerbaijan e nel confinante Iran, infatti, che nacque e si sviluppò migliaia di anni fa il culto di Zaratustra i cui seguaci adoravano il fuoco. C’è ancora un tempio di questa antica religione nella vicina penisola di Absheron che ho avuto occasione di visitare in passato. E le viscere di questo paese in alcune zone sbuffano spontaneamente gas naturale in superficie producendo spettacolari fuochi perenni. L’industria del petrolio ha fatto la storia di Baku determinandone splendori e miserie. La zona sudorientale della capitale ospitava un tempo gli insediamenti principali del settore petrolifero. Veniva chiamata “black city”, città nera. Quando la produzione si spostò altrove rimase solo desolazione, degrado, rovine e sporcizia. Negli anni scorsi il governo della città ha adottato un ambizioso piano di recupero ribattezzando idealmente la vasta area “white city”, città bianca, con l’obiettivo di costruire moderni quartieri residenziali per 50.000 persone. L’unica testimonianza del passato rimasta è Villa Petrolea, la residenza della famiglia Nobel venuta dalla Svezia sulle sponde del Caspio a fine Ottocento per cercare fortuna. E’ una tappa obbligata per l’eurodeputata finlandese che accompagno la cui nonna centenaria nacque proprio qui da una delle tante famiglie europee chiamate dallo zar in Azerbaijan a sviluppare la tecnologia di estrazione degli idrocarburi. Foto, cimeli e mobili d’epoca arredano le stanze dell’elegante edificio trasformato oggi in un club esclusivo dall’élite petrolifera locale.

Baku e i diritti umani

Baku è bella di giorno ma forse lo è ancora di più quando cala l’oscurità. In un caratteristico ristorante ricavato da un vecchio caravanserraglio riadattato nella città vecchia ci aspettano di nuovo i rappresentanti del parlamento azero. E’ molto più facile discutere a tavola che nelle austere sale del Milli Mejlis. Anche se fra le genti del Caucaso meridionale sono quelli che più hanno mantenuto il compassato stile sovietico, gli azeri a cena manifestano allegria e convivialità. Cibo e vino non mancano sull’imponente desco in legno massiccio con verdure di stagione e piatti freddi di salse appena speziate che precedono le tradizionali portate principali di carne, in particolare di montone, che io, da buon vegetariano guardo appena. Si parla di tutto e non appena si presenta l’occasione solleviamo di nuovo la questione dei diritti umani. “Se fosse per me”, confessa Seyidov, “avrei già rimesso in libertà tutti quelli che voi chiamate prigionieri politici ma occorre rispettare l’indipendenza della magistratura”. “Non bisogna dimenticare”, aggiunge, “che queste persone sono accusate di gravi reati”. Frode fiscale, malversazione, finanziamenti illeciti, alto tradimento sono alcuni dei capi di imputazione che il regime azero ha usato in questi anni per silenziare attivisti come Leyla Yunus, Rasul Jafarov e Khadija Ismayilova, coraggiosi esponenti del mondo non governativo locale che si battono da anni per difendere e fare rispettare i diritti di tutti.

Ci congediamo convinti di essere riusciti a rompere il ghiaccio facendo breccia nell’iniziale diffidenza della controparte. Fuori ci aspetta Baku di notte che appare fascinosa, rivestita di un’efficace e abile illuminazione che ne valorizza gli angoli più suggestivi. Passeggiare lungo le mura della città vecchia costeggiando gli eleganti edifici di inizio secolo scorso è una bella esperienza con i giochi di luce sullo sfondo che trasformano in fiamme ardenti le torri di fuoco simulando quasi un incendio.

Appelli, lettere e risoluzioni non sono caduti nel vuoto. Già un paio di settimane prima della nostra partenza il presidente Ilham Aliyev aveva concesso la grazia ad una decina di difensori dei diritti umani. Il compito non dichiarato della missione era anche quello di ristabilire i contatti con la società civile azera portando sostegno e solidarietà a chi guarda e si rivolge all’Europa come modello di democrazia e di tutela delle libertà civili. Molto si è discusso e si discute fra le forze politiche a Bruxelles sull’opportunità e l’efficacia dei testi adottati dal Parlamento europeo. C’è chi li giudica controproducenti e dannosi perché complicherebbero e renderebbero ancora più difficile la vita di chi si vorrebbe difendere, mentre altri ritengono che non sia possibile tacere di fronte a violazioni flagranti che contraddicono i valori su cui è nata e si fonda la stessa Unione Europea. Nel redigere le risoluzioni anch’io mi interrogo, a volte, sull’utilità di quello che scrivo e ogniqualvolta si presenta l’occasione di incontrare le persone oggetto dei miei testi pongo loro la domanda per ottenere conforto.

Intigam Aliyev (nessun legame di parentela con il presidente) è il più noto avvocato azero protagonista di tante battaglie in difesa dei diritti umani. Lo incontriamo nell’ambasciata dell’UE pochi giorni dopo la sua scarcerazione. Due anni di prigione non sono pochi e risultano ancora più pesanti se si basano su accuse inventate di sana pianta dal regime, miranti solo ad impedire il suo instancabile impegno civile. “Grazie del vostro sostegno e del sostegno di tutto il Parlamento europeo”, esordisce sorridente, “ma non so se debbo essere felice per la mia liberazione o triste per la situazione in cui versa la società civile in Azerbaijan”. “E’ importante che nei colloqui con le autorità voi solleviate la questione dei finanziamenti internazionali alle organizzazioni non governative”, osserva preoccupato, “che, di fatto, le nuove leggi rendono impossibile”. Intigam si riferisce alle recenti disposizioni che obbligano donatori come l’Unione Europea a passare attraverso complicate procedure burocratiche che in pratica bloccano gli aiuti alle associazioni che si occupano dei diritti dell’uomo. Lo trovo in forma e per nulla provato nonostante il lungo periodo di detenzione. E alla mia domanda se fosse servita alla sua causa la risoluzione dell’europarlamento di settembre risponde determinato: “Quando ci è arrivata la notizia abbiamo festeggiato in cella”. “Quello che avete fatto”, afferma risoluto, “ci ha dato forza, morale e legittimità”, conclude sottolineando come sia necessario non rinunciare mai ai principi per cui ci si batte, specialmente con i regimi autoritari. Lo stesso concetto ci viene ripetuto anche dagli altri rappresentanti della società civile che incontriamo successivamente. “Una volta tornati a Bruxelles non dimenticate che i miei colleghi sono in galera per gli stessi vostri ideali europei”, ci ricorda una di loro con un appello accorato che suona come monito.

Una moderna superstrada trafficata collega la capitale all’aeroporto. Ai lati passano davanti ai miei occhi in rapida successione il villaggio olimpico, oggi riadattato in quartiere residenziale, il nuovo stadio e l’arena. Tutto luccica, tutto risplende. Fuoco nel sottosuolo, fuoco in superficie. Bella gente, bella città. Ghiaccio bollente fra Baku e Bruxelles.

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Genocidio degli Armeni: Canosa primo Comune della Bat che lo riconosce come crimine contro l’umanità (Ilovecanosa.it 19.05.16)

Il Comune di Canosa è il primo nella provincia di “Barletta-Andria-Trani” ad aver riconosciuto ufficialmente il genocidio degli Armeni come crimine contro l’Umanità. Ad annunciarlo è l’assessore alla Cultura e Pubblica istruzione, Sabino Facciolongo.

“L’Amministrazione comunale di Canosa – dichiara Facciolongo – nella seduta di Giunta del 17 maggio scorso, ha espresso la propria condanna per le violenze perpetrate a carico di quel popolo, ormai da un secolo a questa parte. Il problema della sopravvivenza fisica e culturale del popolo armeno è infatti questione ormai annosa, che coinvolge grandi potenze europee e mondiali, come la Turchia e la Russia, ed ha riflessi diretti sulla stessa adesione della Turchia all’Unione Europea”.

Un problema talmente sentito da convincere la Comunità internazionale a determinare il 24 aprile come “Giornata del ricordo per il genocidio degli Armeni”. “La domanda potrebbe nascere spontanea – prosegue Facciolongo -: perché un Comune pugliese dovrebbe ricordare una tragedia così distante geograficamente da esso? Cosa accomunerebbe la nostra realtà a quella di quel Paese? La risposta è semplice: il valore della pace che è strettamente interconnesso alla qualità del nostro vivere civile. Perciò prendere coscienza della necessità di sostenerlo in qualunque parte del mondo esso appaia un pericolo, è uno dei modi per poterne ribadire la necessità anche per il nostro territorio. Non siamo un’isola e ciò che ci accade è anche frutto di ciò che succede a livello nazionale ed internazionale,  è bene ricordarlo. Viviamo infatti in un mondo sempre più interconnesso e, pur stando attenti a ciò che succede nella nostra città, non possiamo di tanto in tanto non sollevare lo sguardo oltre il nostro immediato orizzonte. Lo ha compreso bene anche l’attivissimo Club per l’Unesco di Canosa, con la sua presidente Patrizia Minerva ed i suoi collaboratori , anima e principale fonte di stimolo di questa iniziativa. Un’associazione che si sta facendo sempre più incisiva sul territorio svolgendo, al pari delle altre di cui è fortunatamente ricca la città, un’azione encomiabile nell’inserire la nostra Comunità nell’alveo delle nobili iniziative di cui  l’Unesco si fa promotrice a livello internazionale”.

E proprio in tale contesto si inserisce l’incontro “Armenia tra fede e cultura”, che si svolgerà il prossimo 21 maggio presso la Cattedrale di Canosa, alle ore 20.00, alla  presenza delle figure più rappresentative della comunità canosina, oltre che di autorevoli  studiosi della questione armena. L’incontro sarà preceduto, all’inaugurazione, nell’androne del Museo dei Vescovi, della mostra fotografica “Lo sguardo di Aznive”, che sarà visitabile dal 22 al 28 maggio. “Incontrarsi in uno dei luoghi più significativi della nostra Città – conclude il sindaco Ernesto La Salvia – ed il riconoscimento ufficiale dell’Amministrazione comunale, a nome di tutti i canosini, evidenziano quanta importanza annetta Canosa al ricordo di questo evento, certi come siamo che il valore della pace non abbia colore o latitudine, e che sia quanto mai necessario riaffermarlo soprattutto mentre piccole o grandi illegalità purtroppo  continuano a  caratterizzare la nostra convivenza civile”.

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L’Armenia entra a far parte di Horizon 2020 (Eunews.it 19.05.16)

Il Paese eurasiatico diventa il 16° associato al programma per la ricerca e l’innovazione dell’Ue

Bruxelles – L’Armenia entra a far parte di Horizon 2020. Ricercatori e innovatori provenienti dallo stato eurasiatico potranno ora accedere al programma per la ricerca e l’innovazione dell’Unione europea alle stesse condizioni dei loro colleghi cittadini Ue o di altri Stati associati. L’intesa è stata firmata oggi dal commissario Ue per la Ricerca, Carlos Moedas, e dal ministro per l’Educazione e la scienza armeno, Levon Mkrtchyan.

L’Armenia diventa così il 16° Paese associato a Horizon 2020, il programma pubblico per la ricerca più grande al mondo. Finora lo Stato aveva potuto parteciparvi solo come Paese terzo, non avendo quindi accesso a parti importanti del programma, come le iniziativa di supporto al business innovativo.

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Armenia – Azerbaigian: La “guerra dei quattro giorni” non è finita (Il Manifesto 19.05.16)

REPORTAGE. Nel Nagorno-Karabakh si spara ancora in seguito all’escalation di aprile che ha riacceso il conflitto tra armeni e azeri come mai era avvenuto dal cessate il fuoco del 1994. Con centinaia di vittime militari e civili. Il piccolo centro di Talish è un villaggio fantasma. Tra campi abbandonati, mine, cecchini. E bombe a grappolo israeliane inesplose

di Simone Zoppellaro – Il Manifesto

Stepanakert (Nagorno Karabach), 19 maggio 2016, Nena News – «Stai lontano dalla finestra, lì ci sono i cecchini azeri». Il funzionario dei servizi segreti che mi accompagna mi indica la prima linea del conflitto, visibile ad occhio nudo dal vano. Tutt’intorno, libri e quaderni sparsi per terra fra i calcinacci e la polvere. Siamo in una scuola elementare colpita dai razzi Grad, nel villaggio di Talish, in Nagorno-Karabakh. Oggi una città fantasma dopo i combattimenti di inizio aprile, che hanno provocato in questo piccolo insediamento la morte di decine di soldati, ma anche di alcuni civili.

Qui si è combattuto casa per casa, e i segni di proiettili e esplosioni sono ben visibili sulla larga parte degli edifici presenti nel villaggio. Altri sono sventrati da bombe e razzi, come un grande salone usato per matrimoni e feste, completamente distrutto. L’emblema di una guerra senza fine, quella fra armeni e azeri, combattuta alla frontiera dell’Europa da un quarto di secolo, ma che il mondo si ostina a dimenticare.

Anche i trattori sono bersagli

E si continua a sparare, anche dopo l’escalation di aprile. Poche ore prima del nostro arrivo, proprio a Talish un soldato armeno è stato ucciso dai colpi di un cecchino.

L’intero villaggio, abitato ormai solo da soldati e volontari, è rimasto scoperto e inagibile. Gli azeri a inizio aprile hanno guadagnato terreno, spostando in avanti la prima linea del fronte di circa un chilometro, come mi spiega il funzionario, che chiede di rimanere anonimo.

Fino a un mese fa qui i contadini lavoravano ancora la loro terra, ormai abbandonata. Anche i trattori oggi sono possibili bersagli. Ma non è solo il villaggio di Talish a essere sotto tiro. Anche l’unica strada per arrivarci da Martakert è assai pericolosa. Il fronte corre parallelo ad essa a pochi chilometri, e più ci si avvicina a Talish più la distanza si riduce, fino ad arrivare a meno di un chilometro. Per ripararla dal fuoco nemico, gli armeni del Karabakh hanno fatto una nuova strada, con a fianco un alto terrapieno ancora in costruzione. Una scavatrice lavora senza sosta per completarlo, a rischio della vita di chi la guida. In questa strada i mezzi accelerano più che possono, per evitare di essere colpiti dall’artiglieria o dai cecchini.

Gli edifici di Talish, spesso semidistrutti, sono oggi abitati dai soldati del Karabakh e dai volontari armeni accorsi da ogni parte del mondo dopo la grande paura di inizio aprile. Mentre passiamo, si scorge un soldato farsi la barba all’aperto, nello scheletro di un edificio, altri lavarsi e mangiare.

Scene desolanti dominate da povertà, precarietà e sporcizia. Frequenti i posti di blocco della polizia militare, e continua mentre passiamo il viavai di gruppi di volontari che vanno e vengono da questo villaggio dimenticato da Dio.

A Stepanakert incontro alcune famiglie di sfollati provenienti da Talish. Sarebbero oltre una cinquantina, secondo le stime che ci fornisce il Ministero degli Esteri dello stato de facto del Karabakah. Si tratta di donne con figli, alloggiate in alcuni hotel cittadini, come il Nairi. Sole, dato che i mariti sono rimasti al fronte a combattere. Alla domanda fatta ad una di loro, se pensa di tornare un giorno a vivere a Talish, la donna risponde con un no secco: manca la sicurezza, troppa la paura dopo quei giorni terribili. Sua figlia di pochi anni in quel momento scoppia in lacrime: «Mi manca la mia casa».

L’episodio incriminato

Avevano fatto un grande scalpore in Armenia a inizio aprile le foto di alcuni civili di Talish uccisi e mutilati, diffuse dalla stampa. Fonti ufficiali del Karabakh parlano dell’incursione di un commando di una cinquantina di persone, che dopo aver fatto irruzione nel villaggio da tre punti diversi della frontiera avrebbe sparato su civili e soldati. Questo, secondo quanto riportano le fonte armene, sarebbe stato l’episodio all’origine di quella che ormai tutti qui chiamano la seconda guerra del Karabakh (dopo quella dei primi anni novanta) o guerra dei quattro giorni.

Dal 2 al 5 aprile hanno perso la vita alcune centinaia di soldati e civili da entrambe le parti. Tanti i feriti e i mutilati, come ho modo di vedere nell’ospedale militare di Stepanakert. In quei pochi giorni di aprile, sono stati abbattuti elicotteri, droni e carri armati. Una tragedia che non si è conclusa, non solo per il perdurare degli scontri e delle vittime. Solo pochi giorni fa, durante la visita nelle trincee del Karabakh insieme ai soldati, abbiamo sentito esplodere non lontano da noi alcuni colpi di artiglieria. Ma i danni collaterali e le vittime dureranno ancora per mesi, forse per anni. Le bombe a grappolo di produzione israeliana lanciate lungo tutta la linea del fronte vanno ad aggiungersi alle mine anti-uomo e anti-carro di cui il Karabakh è pieno fin dagli anni novanta. Ogni razzo – spiega Yuri Shahramyan, programme manager dell’organizzazione inglese Halo Trust – contiene 104 bozzoli, che una volta raggiunto l’impatto lanciano schegge di metallo tutt’intorno per ferire e uccidere. Sono tanti – mi spiega – i bozzoli ritrovati in villaggi e insediamenti lungo la frontiera.

 Molte le armi di ultima generazione in mano agli azeri, anche di produzione russa. Al boom petrolifero degli anni duemila è seguita una corsa al riarmo vertiginosa. Difficili valutare gli armamenti in mano agli armeni del Karabakh, che in molti casi hanno in dotazione vecchie armi sovietiche. Altre sono invece reperite sul mercato nero. Non essendo uno stato riconosciuto, non c’è altro modo per Stepanakert di procurarsi le armi. Certo, anche da questa parte del conflitto non mancano le armi moderne, droni inclusi, ma per una precisa scelta delle autorità non vengono mostrate ai giornalisti.

Trincee e soldati d’altri tempi

Ed ecco allora che la visione che mi si apre davanti nella trincea a Mataghis, nei pressi di Talish, è una scena di altri tempi. Giovani soldati con un fucile in mano che aspettano giorni e mesi nel fango, come nella grande guerra. A meno venti d’inverno, o nel calore dell’estate, poco importa. Un’attesa che logora e sfinisce. Forse più ancora che il conflitto, qui a pesare sono l’isolamento, la noia e la solitudine senza appello. File di barattoli di latta vuoti pendono ai lati delle trincee: un espediente per scongiurare, con il rumore, possibili incursioni nella notte. Cani lupo hanno la stessa funzione, ma a far la differenza sono soprattutto le mine. Frequenti, indicate da una M maiuscola sul tratto corrispondente della trincea. Tanti, in questo tratto di frontiera, anche i mezzi nascosti dietro la prima linea armena, per scongiurare un attacco come quello di aprile.

Quando – anche se sembrano in pochi a accorgersene – si è combattuto davvero, come mai era avvenuto dopo il cessate il fuoco del 1994. Tanti gli interrogativi sul futuro di un conflitto che si trascina ormai da un quarto di secolo. E una sola certezza: oggi in Karabakh la pace è più lontana che mai. Nena News

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Viaggio del Papa in Armenia: resi noti il motto e il logo (Radio Vaticana 19.05.16)

Sono stati resi noti oggi il motto e il logo del viaggio apostolico che Papa Francesco compirà dal 24 al 26 giugno prossimi nella Repubblica d’Armenia. Il motto è ”Visita al primo Paese cristiano”. La conversione dell’Armenia, infatti, risale al 301, grazie all’opera di San Gregorio l’Illuminatore e può dunque definirsi – come ha detto Papa Francesco – “la prima tra le nazioni che nel corso dei secoli hanno abbracciato il Vangelo di Cristo” (Messaggio agli Armeni, 12 aprile 2015).

Il logo
Il logo, di forma circolare, raffigura il Monte biblico Ararat, simbolo dell’Armenia, e il “Khor Virap” di Artashad (“pozzo profondo”) in cui San Gregorio l’Illuminatore venne imprigionato per quasi 14 anni, dove oggi sorge il Monastero omonimo. Una volta liberato, San Gregorio, che divenne il primo primate dell’Armenia, dichiarò, insieme a Re Tirdate III, il cristianesimo religione di Stato dell’Armenia. Nel logo sono riportati gli emblemi e i colori, il viola e il giallo, della Chiesa Armeno Apostolica e della Santa Sede.

Programma del viaggio
Secondo il programma ufficiale, Francesco arriverà il pomeriggio di venerdì 24 nella capitale Yerevan. Subito la preghiera alla Cattedrale armeno apostolica di Etchmiadzin con il saluto al Catholicos, quindi l’incontro con il presidente e le autorità civili e il discorso al corpo diplomatico. Sabato 25 sui passi di San Giovanni Paolo II, il Papa visiterà il Memoriale dell’eccidio degli armeni sotto l’Impero ottomano tra il 1915 e il 1916. A Gymuri, seconda città più popolosa in Armenia colpita da un violento sisma a fine anni Ottanta, Francesco celebrerà la Messa e visiterà la Cattedrale armeno apostolica delle Sette Piaghe e la Cattedrale armeno cattolica dei Santi Martiri. In serata, di nuovo a Yerevan l’incontro ecumenico e la preghiera per la pace. Domenica 26 giugno, terzo e ultimo giorno della visita in Armenia, l’incontro del Papa con i vescovi cattolici armeni nel Palazzo Apostolico ad Etchmiadzin e la partecipazione alla Divina Liturgia nella Cattedrale armeno apostolica. Dopo il pranzo, l’incontro con i delegati e benefattori della Chiesa armena apostolica e la firma di una Dichiarazione congiunta. Prima del rientro in Vaticano il Santo Padre pregherà nel Monastero di Khor Virap.

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Avvicinare le culture? A Canosa un incontro sull’Armenia (Pugliain.net

Un incontro ed una mostra fotografica per favorire il dialogo e l’avvicinamento tra culture distanti ma vicine

canosa-armenia

A sostegno del Decennio Internazionale UNESCO per l’avvicinamento delle culture (The International Decade for the Rapprochement of Cultures, 2013-2022) il Club per l’UNESCO di Canosa di Puglia ha organizzato, con la collaborazione delle associazioni cittadine Inner Wheel, Rotary Club, IDAC, FIDAPA, Fondazione Archeologica Canosina, UTE e Proloco, con il Patrocinio della Regione Puglia Assessorato all’industria turistica e culturale, della Provincia Barletta Andria Trani e del Comune di Canosa di Puglia e dell’assessorato alla Cultura, l’incontro culturale che si terrà nella  Cattedrale di S. Sabino alle ore 20,00 di sabato prossimo, 21 maggio dal titolo “Armenia, tra cultura e memoria“.

“L’idea di fondo – racconta Patrizia Minerva, che è presidente del Club Unesco – è che  “la nostra diversità culturale è patrimonio comune dell’umanità. Si tratta di una fonte di rinnovamento delle idee e delle società, attraverso il quale aprirsi agli altri e creare nuovi modi di pensare. Questa diversità offre opportunità per la pace e lo sviluppo sostenibile“ (Irina Bokova, Direttore Generale UNESCO), attraverso un dialogo che faciliti la mutua comprensione fra soggetti appartenenti a culture diverse. L’incontro sarà tenuto da illustri relatori, cui seguirà, a partire da domenica 22 maggio fino al 28 maggio, l’esposizione di una mostra fotografica, allestita per l’occasione preso l’androne del Museo dei Vescovi,  tratta dal  ricco archivio del Centro Studi Hrand Nazariantz di cultura armena ed orientale di Bari”.

Dunque nella Giornata Internazionale della Diveristà culturale e del dialogo, questo incontro può rappresentare anche un valido strumento per favorire un proficuo scambio tra culture e paesi differenti, in un momento nel quale la curiosità e la conoscenza hanno lasciato il posto a sentimenti di intolleranza e paura.

Nagorno Karabagh e vertice di Vienna: un orologio in contro-tempo (Spondasud 18.05.16)

di Bruno Scapini – ex ambasciatore d’Italia in Armenia

L’incontro a Vienna tra i due Presidenti dell’Armenia e dell’Azerbaijan, svoltosi lo scorso 16 maggio a Vienna nella cornice dell’ OSCE, ha dato i suoi frutti: è riuscito infatti a riportare indietro le lancette dell’orologio cui si lega il processo di pace per una soluzione del conflitto sul Nagorno Karabagh.

Un orologio in “contro-tempo” che conferma quanto doveva essere già scontato e acquisito a livello negoziale dopo tanti anni – se non decenni – di ondivaghe trattative e di incontri inconcludenti.

In ogni caso, da un esame degli esiti dell’incontro di Vienna possiamo con certa fondatezza affermare che il risultato è andato sicuramente in favore dell’Armenia. Yerevan, infatti, oltre a porre la questione delle violazioni azere del “cessate-il-fuoco” sul tavolo di un negoziato allargato questa volta alla partecipazione del Segretario di Stato USA , John Kerry, e al Ministro degli Esteri russo, Lavrov, ha ottenuto – e questo non è poco – il riconoscimento dell’impegno di tutte le parti, e sopratutto di Baku, a riaffermare come punto di ripartenza per una soluzione del conflitto, gli accordi del “cessate-il-fuoco” del 1994/1995. Una circostanza, questa, non indifferente in quanto ammette implicitamente la partecipazione all’impegno di rispettare gli accordi dello stesso Nagorno Karabagh – che Baku vorrebbe invece estromettere – , ovvero riconosce l’originario formato “trilaterale” cui ispirare un potenziale futuro processo negoziale che possa includere – come auspicato da Yerevan – la stessa dirigenza di Stepanakert.

Altro risultato del vertice sarebbe, poi, la “disponibilità” manifestata da Baku ad accettare un qualche meccanismo di monitoraggio da parte dell’ OSCE lungo la “linea di contatto”. Parliamo di “disponibilità” e non di altre espressioni negoziali semplicemente perché non si è trattato di vere e proprie decisioni assunte al riguardo, bensì di mera “buona volonta’” esplicitata da parte azera a considerare possibili formule di controllo sul rispetto del “cessate-il-fuoco” che dovranno essere proposte e accettate in sede di prossimi incontri.

Sul terreno, intanto, Baku non demorde, né si lascia dissuadere da questo incontro al vertice dalle provocazioni. Le violazioni del “cessate-il-fuoco”, infatti, continuano sui confini, con mortali colpi di sniper, mortai e varia artiglieria, per cessare momentaneamente solo in occasione dei sporadici controlli di “monitoring” condotti dai “Co-chairs” in qualche punto della linea di contatto.

Una vittoria per l’Armenia, dunque, quella di Vienna. Una “vittoria di Pirro” però, potremmo definirla, in quanto vittoria inutile sul piano tecnico-negoziale avendo unicamente prodotto come esito il “riconoscimento” di quello che avrebbe dovuto essere già acquisito da anni di trattative bi-multilaterali, e che è stato improvvisamente compromesso dall’improvvido tentativo dell’Azerbaijan di risolvere il conflitto militarmente con l’attacco condotto ad inizio aprile contro il Nagorno Karabagh.

L’orologio del negoziato è così tornato indietro. Le sue lancette sono state riportate dove avrebbero dovuto essere: si torna al tavolo del negoziato, si riapre lo scorcio della speranza, si ripropone una prospettiva risolutiva negoziata. E ciò nel presupposto di un più convincente impegno alla pacificazione di tutte le parti interessate. Una vittoria, però, di cui avremmo ben fatto a meno, che serve unicamente il fine di rilanciare un ruolo dei “Co-chairs” dell’ OSCE, palesemente paludato e inconcludente negli ultimi anni, come forse, anche quello di restituire credibilità ad un negoziato in cui nessuno realisticamente ispirato più crederebbe. E tanto meno la stessa Yerevan che, avvezza ormai alla inaffidabilità azera, certamente non si lascerà illudere da queste “promesse” di buona volontà per guardare con disincanto agli eventi, traendone la giusta esperienza per mettere in atto una “real politik” capace di servire effettivamente il legittimo interesse all’auto-determinazione del popolo del Nagorno Karabagh.

Una vittoria – aggiungeremmo ancora – di cui avremmo ben fatto a meno sopratutto per evitare l’inutile spendita di vita dei soldati caduti il cui orologio, contrariamente al negoziato, non potrà mai più tornare indietro.

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Tensioni Ankara-Germania sul genocidio armeno (Cdt.ch 18.05.16)

BERLINO – La decisione del Bundestag tedesco di votare il prossimo 2 giugno una risoluzione che riconosce come genocidio le uccisioni di massa degli armeni avvenute 101 anni fa nell’Impero ottomano è stata ufficialmente criticata dalla Turchia.

Come riporta lo Spiegel online, il portavoce del presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha definito “un abuso politico” la scelta del parlamento tedesco. “Parlare di questa vicenda senza prove storiche e giuridiche è un abuso politico”, ha detto.


Germania | al Bundestag mozione per riconoscere genocidio armeni in Turchia (Zazoom social news 17.05.16)

Germania, al Bundestag mozione per riconoscere genocidio armeni in Turchia (Di martedì 17 maggio 2016) Nel Bundestag, il Parlamento tedesco, è stata introdotta una risoluzione che chiede di riconoscere il genocidio della popolazione armena nell’Impero Ottomano. Lo riporta il giornale “Bild am Sonntag”. Il documento si chiama “Memoria delle vittime del genocidio degli armeni e delle altre minoranze cristiane nell’Impero Ottomano 101 anni fa.” La mozione è stata presentata in una … L’articolo Germania, al Bundestag mozione per riconoscere genocidio armeni in Turchia


 

Germania, al Bundestag mozione per riconoscere genocidio armeni in Turchia (Sputinik 16.05.16)

Nel Bundestag, il Parlamento tedesco, è stata introdotta una risoluzione che chiede di riconoscere il genocidio della popolazione armena nell’Impero Ottomano. Lo riporta il giornale “Bild am Sonntag”.

Il documento si chiama “Memoria delle vittime del genocidio degli armeni e delle altre minoranze cristiane nell’Impero Ottomano 101 anni fa.” La mozione è stata presentata in una sessione parlamentare dai deputati del partito dei “Verdi”, del “Partito Socialdemocratico di Germania” (SPD) e da altri gruppi.

Come affermato dal leader dei Verdi Cem Özdemir, uno degli autori della mozione, “è possibile che possano sorgere dei problemi nei rapporti con Ankara. Ma il Bundestag non si presterà ai ricatti di un despota come Erdogan”.

“I documenti del ministero degli Esteri sulle uccisioni di massa degli armeni parlano da soli. Dopo la nostra decisione per la Turchia sarà molto più difficile negare il genocidio ancora a lungo,” — ha aggiunto Özdemir.

A sua volta il capogruppo dei socialdemocratici tedeschi Thomas Opperman ha detto: “La Germania ha una particolare responsabilità storica in qualità di ex alleato dell’Impero Ottomano. E’ una questione del tutto indipendente dal dibattito politico sulla crisi migratoria. Sono contrario all’obbedienza nei rapporti con Erdogan.”

Nel Bundestag il voto sulla risoluzione è previsto per il prossimo 2 giugno.

Ad aprile dello scorso anno il Bundestag aveva approvato a larga maggioranza una risoluzione in cui le uccisioni di massa degli armeni nell’Impero Ottomano venivano equiparate ad un genocidio.

Il genocidio armeno è l’annientamento sistematico della comunità armena nell’impero Ottomano avvenuto durante e dopo la Prima Guerra Mondiale. Secondo varie fonti, a seguito delle azioni delle autorità turche sono rimasti uccisi da 800mila a 1,5 milioni di armeni.

La Turchia nega il nesso di questi fatti con la definizione di genocidio. Secondo la posizione ufficiale di Ankara, non era voluto lo sterminio degli armeni.

Il genocidio armeno ufficialmente è stato riconosciuto da molti Paesi, compresa la Russia. In alcuni Paesi (Francia, Svizzera, ed altri) la negazione del genocidio armeno è un reato penale.

Leggi tutto: http://it.sputniknews.com/politica/20160516/2694655/Ottomani-sterminio-Erdogan-profughi.html#ixzz49Cyols2D

 


 

Veritice Vienna. Accordo per cessate il fuoco in Nagorno-Karabakh tra Armenia e Azerbaigian (Euronews e altri 17.05.16)

Il Presidente armeno Serge Sarkissian e l’azero Ilham Aliev si sono incontrati per la prima volta da quando il conflitto si è aggravato in Nagorno-Karabakh.

A Vienna Stati Uniti, Russia, Francia, sotto l’egida dell’Osce, fanno da mediatori per una distensione tra Armenia ed Azerbaigian sul conflitto nel territorio conteso del Caucaso meridionale. Protagonisti della mediazione sono il Segretario di Stato Americano John Kerry, il Ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov e il Segretario di Stato francese agli Affari Europei Harlem Désir.

L’incontro ha permesso di evidenziare la comune volontà di stabilire un cessate il fuoco e lanciare un processo di pace. Un prossimo incontro tra le parti è stato fissato per giugno. L’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce) finanziera un piano di monitoraggio per il rispetto della tregua.

Nel mese di aprile sono stati circa 110 i morti nei nuovi, duri scontri scoppiati in Nagorno-Karabakh, sia civili che militari. Si è trattato dei peggiori scontri dalla sottoscrizione del precedente cessate il fuoco, risalente al 1994 e stipulato dopo una guerra che aveva fatto 30.000 morti e centinaia di migliaia di rifugiati, principalmente in Azerbaigian.

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Armenia e Azerbaijan si impegnano per la pace in Nagorno-Karabakh (Tpi.it 17.05.16)


Karabakh, nuova tregua tra Armenia e Azerbaigian (Askanews.it 17.05.16)

Vienna, 17 mag. (askanews) – I presidente di Armenia e Azerbaigian hanno concordato un nuovo cessate il fuoco nella regione contesa del Nagorno Karabakh e la ripresa del dialogo politico. Il presidente azero Ilham Aliyev e l’omologo armeno Serzh Sarkisian hanno annunciato la tregua in una nota congiunta con i mediatori Usa, russo e francese. Baku ed Erevan hanno concordato anche un sistema di osservatori del cessate il fuoco, sotto l’egida dell’Ocse, e la ripresa dello scambio di dati sulle persone scomparse nel conflitto, vecchio di un quarto di secolo. “Abbiamo ragione di credere che i negoziatori armeni e azeri saranno inclini a cercare un compromesso” ha detto il capo della diplomazia russa Sergei Lavrov, presente all’incontro.


ARMENIA: Il governo di Yerevan riconoscerà il Nagorno-Karabakh? (East Journal 17.05.16)

L’Armenia starebbe seriamente pensando di riconoscere ufficialmente la Repubblica del Nagorno-Karabakh. In seguito alle recenti tensioni che hanno riportato la questione del Karabakh all’attenzione della comunità internazionale, a oltre vent’anni dalla fine della sanguinosa guerra tra armeni e azeri per il controllo della regione, conclusasi con la secessione dell’Artsakh (nome con cui gli armeni riconoscono il Karabakh) dall’Azerbaigian, il governo di Yerevan ha iniziato a valutare il riconoscimento dell’indipendenza della regione, come risposta alle azioni militari di Baku.

La questione del riconoscimento è tornata improvvisamente d’attualità in seguito ai violenti scontri verificatisi nel Nagorno-Karabakh all’inizio di aprile, considerati i più gravi degli ultimi vent’anni, in quanto hanno causato la morte di centinaia di persone e hanno visto l’utilizzo contemporaneo di carri armati, elicotteri, missili e artiglieria pesante. Nonostante non si possa stabilire con certezza quale dei due schieramenti abbia fatto la prima mossa, considerate anche le versioni contrastanti a riguardo, le autorità della Repubblica de facto del Nagorno-Karabakh hanno denunciato un massiccio attacco da parte dell’esercito azero, che avrebbe invaso diversi villaggi armeni situati lungo la linea di confine. Questa breve ma intensa escalation di violenza è stata seguita con grande coinvolgimento in tutta l’Armenia, tanto che parte dell’opinione pubblica si è mossa per convincere il governo di Yerevan a trattare il riconoscimento della regione.

Per rispondere all’aggressione azera, all’inizio di maggio due parlamentari dell’opposizione, Zaruhi Postanjyan (Patrimonio) e Hrant Bagratyan (Movimento Nazionale Pan-Armeno), hanno deciso di presentare al governo una proposta di legge riguardante proprio il riconoscimento del Nagorno-Karabakh. Lo scorso 5 maggio la proposta di legge è stata presentata al Consiglio dei ministri, che l’ha approvata senza obiezioni, passando così la palla al parlamento, al quale spetta l’ultima parola. Secondo quanto previsto dalla legislazione armena, infatti, ogni proposta di legge deve venire approvata dal governo prima di essere portata in parlamento per la decisiva votazione.

Se la proposta di legge venisse approvata anche dal parlamento, l’Armenia diventerebbe il primo paese delle Nazioni Unite a riconoscere ufficialmente la Repubblica del Nagorno-Karabakh. Attualmente infatti, il governo di Stepanakert è riconosciuto solamente da tre altre repubbliche dallo status a loro volta discusso come Abkhazia, Ossezia del Sud e Transnistria. Negli ultimi 25 anni l’Armenia ha sempre sostenuto sia economicamente che militarmente il Nagorno-Karabakh, chiedendo a più riprese anche alla comunità internazionale di sostenerne la causa. Nel corso di questi anni diversi parlamentari armeni hanno inoltre provato più volte a chiedere al proprio governo di riconoscere l’indipendenza del Karabakh, anche se fino a questo momento Yerevan si è sempre dovuta trattenere dal riconoscere ufficialmente Stepanakert a causa delle imposizioni dettate dal Gruppo di Minsk, struttura presieduta da Russia, Francia e Stati Uniti incaricata di trovare una soluzione pacifica al conflitto.

L’ipotesi di un riconoscimento armeno del Karabakh ha fatto infuriare le autorità azere, che da anni denunciano l’occupazione di questa regione da parte proprio dell’esercito di Yerevan. Il  Ministero degli Esteri dell’Azerbaigian, attraverso il proprio portavoce Khikmet Gadzhiyev, ha affermato che riconoscendo l’indipendenza del Nagorno-Karabakh l’Armenia verrebbe meno alle promesse fatte al Gruppo di Minsk, mettendo così fine ai colloqui di pace, in quanto lo stesso Gruppo di Minsk dovrebbe rinunciare al suo mandato. Per Gadzhiyev questa decisione avrebbe pesanti ripercussioni, e la responsabilità ricadrebbe sull’Armenia e sul proprio governo. Secondo Arye Gut, politologo israeliano vicino alle posizioni di Baku, la recente minaccia di riconoscere il Karabakh non è altro che l’ennesima provocazione messa in atto dall’Armenia, che però è sia geopoliticamente che economicamente dipendente dal Cremlino, senza l’approvazione del quale Yerevan non può essere libera di prendere questo tipo di decisioni.

Da parte armena, a cercare di chiarire la situazione ci ha pensato Shavarsh Kocharyan, vice ministro degli Esteri di Yerevan, il quale ha dichiarato che il governo ha approvato la discussa proposta di legge in seguito ad una serie di colloqui tra i rappresentanti dell’Armenia e del Karabakh, aggiungendo però che il riconoscimento del Karabakh è subordinato all’evolversi della situazione nella regione. Se l’Azerbaigian lancerà una nuova offensiva militare la questione del riconoscimento del Nagorno-Karabakh entrerà all’ordine del giorno nell’agenda del parlamento armeno. Dello stesso parere è sembrato essere Davit Babayan, collaboratore di Bako Sahakyan, presidente de facto del Nagorno-Karabakh, il quale ha affermato che il riconoscimento avverrà solo nel caso in cui l’Azerbaigian dovesse scatenare una nuova guerra. Inoltre, nonostante il governo de facto di Stepanakert faccia il possibile per promuovere la propria causa, per una serie di ragioni politiche esso ritiene che l’Armenia non dovrebbe essere la prima nazione a riconoscerne l’indipendenza.


 

Papa in Armenia. Il programma del viaggio (Radio Vaticana 14.05.16)

La Sala Stampa vaticana ha reso noto il programma del viaggio apostolico di Papa Francesco in Armenia, dal 24 al 26 giugno prossimi. Il servizio di Paolo Ondarza:

Francesco arriverà il pomeriggio di venerdì 24 nella capitale Yerevan. Subito  la preghiera alla Cattedrale apostolica di Etchmiadzin con il saluto al Catholicos, quindi l’incontro con il presidente e le autorità civili e il discorso al corpo diplomatico. Sabato 25 sui passi di san Giovanni Paolo II, il Papa visiterà il Memoriale dell’eccidio degli armeni sotto l’impero ottomano tra il 1915 e il 1916. A Gymuri, seconda città più popolosa in Armenia colpita da un violento sisma a fine anni Ottanta, Francesco celebrerà la messa e visiterà la Cattedrale armeno apostolica delle Sette Piaghe e la Cattedrale armeno cattolica dei Santi Martiri. In serata, di nuovo a Yerevan l’incontro ecumenico e la preghiera per la pace. Domenica 26 giugno, terzo e ultimo giorno della visita in Armenia, l’incontro del Papa con i vescovi cattolici armeni nel Palazzo Apostolico ad Etchmiadzin e la partecipazione alla Divina Liturgia nella Cattedrale armeno apostolica. Dopo il pranzo, l’incontro con i delegati e benefattori della Chiesa armena apostolica e la firma di una Dichiarazione congiunta.Prima del rientro in Vaticano il Santo Padre pregherà nel monastero di Khor Virap, luogo del pozzo in cui, secondo la tradizione, fu tenuto imprigionato per 12 anni Gregorio l’Illuminatore, fondatore del Cristianesimo in Armenia.

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BERGOGLIO IN ARMENIA, ECCO IL PROGRAMMA DEL VIAGGIO (In Terris 14.05.16)