Abrahamian, vescovo armeno: “Il Papa porterà la pace” (La Stampa 28.05.16)

simone zoppellaro

Talish, Nagorno-Karabakh

«Visita al primo Paese cristiano»: questo il motto scelto dalla Santa Sede per l’imminente viaggio del Papa in Armenia. Ma a giugno Francesco non incontrerà solo la prima nazione al mondo ad abbracciare il cristianesimo, all’inizio del IV secolo. Troverà anche un Paese impegnato da più di vent’anni in una guerra infinita, quella per la regione del Nagorno-Karabakh, ufficialmente parte dell’Azerbaigian ma da tempo in mano agli armeni. Un conflitto che si trascina dai primi anni novanta senza che si riesca a trovare un accordo di pace. 30mila morti, oltre un milione di profughi e sfollati: questo il tragico bilancio di questa guerra dimenticata.

E proprio in questa regione contesa, a pochi chilometri dalla prima linea del conflitto, abbiamo intervistato il vescovo armeno Vrtanes Abrahamian, vicario generale dell’Ordinariato militare per la Chiesa apostolica, in visita per officiare nella chiesa di Santa Maria. L’intervista ha luogo dopo una funzione religiosa a Talish, un paese di frontiera dove ad aprile sono morte decine di persone, in uno degli episodi più drammatici avvenuto da molti anni a questa parte. Oggi Talish è villaggio fantasma, tutti i civili sono stati evacuati dopo le recenti violenze, e alla funzione prendono parte solo volontari e soldati.

Qual è la ragione della sua presenza oggi a Talish, in questo villaggio che ad aprile è stato segnato dalla violenza e dove sono morti diversi civili?

«La nostra Chiesa nel corso dei secoli è sempre stata a fianco della nazione armena e del suo esercito. Essendo vicario generale dell’ordinariato militare per la Chiesa apostolica, è mio compito essere vicino ai soldati. Ma sono anche qui per ricordare all’esercito e alla nostra gente che la nostra religione e la Chiesa sono per la pace, e noi siamo qui per promuoverla e per predicarla. In questa chiesa dove ci troviamo, dedicata a Maria, madre di Dio, la nostra presenza assume diversi significati. In primis, volevamo fare sentire ai nostri uomini che siamo con loro, in questo momento difficile. Quindi ritenevamo importante officiare una liturgia per coloro che sono morti di recente proprio in questo luogo. Siamo qui anche per pregare Dio affinché riporti la pace in questo villaggio, di modo che i civili possano ritornare presto alle loro case, alla loro terra e in questa chiesa costruita dai loro padri nel XVIII secolo. Questo è inoltre un luogo simbolico perché ci troviamo alla frontiera estrema della cristianità. Qui finisce il mondo cristiano e inizia la terra dell’islam».

In questo luogo un esercito cristiano, quello armeno, e un altro musulmano, quello dell’Azerbaigian, si confrontano da più di due decenni. Qual è la Sua opinione: la religione ha un importante ruolo in questo conflitto? Siamo di fronte a uno scontro di civiltà?

«Credo che il mondo si stia muovendo in un’altra direzione, rispetto a quella da lei menzionata, e che si tenda oggi verso la comunione, il dialogo e la pace fra le religioni. Io stesso ho preso parte a diversi meeting ecumenici nel mondo, dove non solo cristiani di diverse fedi, ma anche ebrei e musulmani si incontrano e pregano insieme per la pace. Credo pertanto che il futuro del mondo e della religione tenda sempre più a unire gli uomini, anziché a dividerli. Quanto a questo conflitto, posso affermare senza dubbio che non si tratta di una guerra di religione. Da parte nostra, cerchiamo in ogni modo di evitare che questa componente vi rientri, ora o in futuro. Certo, non posso garantire che lo stesso valga per l’altra parte, l’Azerbaigian».

Qual è la sua speranza per il futuro di Talish e di questo conflitto? Vedremo un giorno la pace in Nagorno-Karabakh?

«Purtroppo questo non è semplice. Prego per la pace e affinché i civili possano tornare un giorno in questo villaggio. Questo è quello che posso fare. Ma conserviamo la intatta speranza che si arrivi presto alla pace».

Volevo chiederle infine della visita del Papa, che sarà a giugno in Armenia. Crede che il suo arrivo possa dare un contributo alla pace nella regione?

«Certo, la visita del Papa ha per noi un enorme significato, anche da un punto di vista geopolitico. Riconosciamo in lui una grande figura di fede del nostro tempo, e noi armeni – che abbiamo tanto a cuore la religione – ci sentiamo vicini a lui. Siamo certi che la sua visita darà un grande contributo alla pace, non solo per l’Armenia, ma anche per l’intera regione. L’intera biografia del Pontefice racconta di un uomo che ha una grande fede nel bene e nell’umanità, e questo è vero sia prima che dopo che è divenuto Papa. Il riconoscimento del genocidio armeno lo scorso aprile ne è stato un’ennesima riprova, e una conferma del suo impegno per rendere migliore il nostro mondo».

Radio Vaticana: 50° del Programma armeno, si è spento Michel Jeangey (Radio Vaticana 28.05.16)

Si è spento questa mattina a Roma Michel Jeangey, nostro collega della Radio Vaticana, per 20 anni responsabile del Programma armeno dell’emittente pontificia: avrebbe compiuto 71 anni il prossimo 13 luglio. Sposato, due figlie, era diacono permanente. E’ venuto a mancare proprio durante il Giubileo dei Diaconi – domani c’è la Messa con il Papa in Piazza San Pietro – e alla vigilia dei 50 anni di attività del Programma armeno della Radio Vaticana, inaugurato il 29 maggio 1966. Michel aveva preparato fino a ieri sera i festeggiamenti nella sede della nostra emittente per questo importante anniversario: nonostante fosse in pensione, continuava ad offrire la sua collaborazione ai colleghi. Lo ricordiamo sempre al servizio di tutti, con il suo sorriso gentile, la sua positività, la sua disponibilità, la sua fede forte e serena. Il 27 settembre 2007 era stato insignito da Benedetto XVI con l’onorificenza di Commendatore del Santo Ordine di Papa Silvestro. Per tanti anni è stato anche presidente della vivace comunità armena a Roma.

Michel ha dato un grande impulso all’attività del Programma armeno della nostra emittente al servizio dell’annuncio del Vangelo, soprattutto quando l’Armenia faceva parte dell’Unione Sovietica e i cristiani, perseguitati dal regime comunista, ascoltavano di nascosto la parola del Papa attraverso le onde corte. Un’azione evangelizzatrice che si è sempre estesa a tutta gli armeni dispersi nel mondo a causa dei massacri compiuti nel 1915 sotto l’Impero Ottomano. Michel se n’è andato a meno di un mese dal viaggio del Papa in Armenia che si svolgerà dal 24 al 26 giugno: il 25 giugno avrebbe partecipato alla Messa presieduta da Francesco a Gyumri per la comunità cattolica armena. I funerali si svolgeranno lunedì alle 11.00 nella Chiesa armena di San Nicola da Tolentino a Roma. (A cura di Sergio Centofanti)

Genocidio armeno, Germania prepara una risoluzione di condanna (Askanews.it 26.05.16)

E riconosce la sua parte di responsabilità nell’accaduto

Ankara, 26 mag. (askanews) – Sarà sottoposta a inizio giugno al voto del Bundestag, la camera bassa del parlamento tedesco, la risoluzione che riconosce per la prima volta il genocidio degli armeni da parte dell’Impero ottomano, oltre che “la parte di responsabilità” della Germania in questi crimini. Il testo è in via di definizione e la France Presse ne ha ottenuta una bozza.

Il Bundestag “deplora gli atti commessi dal governo turco dell’epoca, che hanno portato allo sterminio quasi totale degli armeni”, si legge in questo testo intitolato “In ricordo e commemorazione del genocidio degli armeni e delle altre minoranze cristiane nel 1915 e 1916”.

La risoluzione presentata da entrambi i partiti della coalizione al potere a Berlino – conservatori della Cdu-Csu e socialdemocratici dell’Spd – e dal gruppo di opposizione dei Verdi, parla “delle deportazioni e dell’annientamento pianificato di oltre un milione di armeni”; deve essere votata il 2 giugno, giovedì prossimo.

Il Bundestag condanna inoltre “il deprecabile ruolo del Reich tedesco che, in quanto principale alleato militare dell’impero ottomano e malgrado le esplicite informazioni provenienti da diplomatici e missionari tedeschi riguardo le deportazioni e lo sterminio organizzato degli armeni, non ha fatto nulla per fermare questo crimine contro l’umanità”.

“Il Reich ha una parte di responsabilità in questi avvenimenti”, sottolinea il testo della risoluzione, ribadendo quanto aveva dichiarato lo scorso anno il presidente Joachim Gauck, primo alta carica tedesca ad aver definito ‘genocidio’ il massacro degli armeni da parte dell’Impero ottomano nel 1915.

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“La maschera della verità”, il genocidio armeno con Elena Pau e Irma Toudjian (Sardiniapost.it

Dopo il concerto che ha visto sul palco il pianista jazz Alessandro Di Liberto, la rassegna Le Salon de Musique, organizzata dall’associazione Suoni & Pause, prosegue venerdì 27 maggio con una serata dedicata al Genocidio Armeno. L’appuntamento è alle 20.30, sempre nei suggestivi spazi del Palazzo Siotto (a Cagliari, in via Dei Genovesi 114), con “La maschera della verità”, reading tratto dall’omonimo libro di Pinar Selek, autrice turca considerata tra le più interessanti del panorama contemporaneo.

Sotto i riflettori a ripercorrere il romanzo della Selek saranno l’attrice Elena Pau e la pianista Irma Toudjian, che daranno così corpo al racconto personale e impegnato di una delle pagine più buie della storia turca: quella del Genocidio degli armeni, avvenuto nel 1915. Un argomento, questo, che in Turchia è considerato tabù e che l’autrice della Maschera della verità riporta a galla insegnando al lettore dall’interno cosa significhi crescere e costruirsi declamando a scuola slogan che proclamano la superiorità nazionale, studiando su manuali lacunosi o menzogneri; vivendo accanto a compagni timorosi e silenziosi, in una città dove i nomi armeni sono stati cancellati dalle insegne.
Sociologa, femminista, antimilitarista e attivista per la pace, Pinar Selek per lunghi anni ha vissuto tacciata di terrorismo, accusa mossale dal governo turco in seguito all’esplosione al Bazar delle Spezie di Istanbul del 1998, e per ben due volte caduta grazie all’assoluzione davanti al tribunale. Per lo stesso motivo il governo sta ora cercando di accusarla per la terza volta, per questo i suoi legali hanno deciso di portare il suo caso davanti alla Corte Europea dei diritti dell’uomo.

L’edizione 2016 di Le Salon de Musique, Piano è realizzata con il contributo di: Regione Autonoma della Sardegna, Assessorato alla cultura e del Comune di Cagliari, Assessorato alla cultura. In collaborazione con: Fondazione “Giuseppe Siotto”, La Fabbrica Illuminata, Luna Scarlatta, Itaca e Ojos Design.

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Russia, tempi duri anche per l’integrazione eurasiatica (L’infro 25.05.16)

Non si può dire che l’Unione economica eurasiatica, fortemente voluta dalla Russia, sotto la spinta politica della crisi ucraina, come una sorta di sia pur modesto contraltare all’Unione europea, sia nata sotto i migliori auspici. Al contrario, è stata messa quasi al tappeto dalla crisi economica russa, con inevitabili ricadute sui partner minori più o meno strettamente legati all’ex componente di gran lunga più grossa della defunta Unione Sovietica.

Innanzitutto, cioè, su Bielorussia e Kazakistan, già affiancati ad essa in un’Unione doganale che costituiva, dal 2010, il nucleo originario dell’UEE, chiaramente concepita almeno a Mosca come strumento per la reintegrazione economica (ma con ovvii risvolti anche politici) di quanto più possibile dello spazio ex sovietico, dalla parte europea come da quella asiatica. Già il decollo, nel gennaio 2015, non era stato dei più felici, avendo poi risposto all’appello, per di più con scarso entusiasmo, solo la piccola Armenia e la prevalentemente pastorale Kirghisia.

Tutte le altre repubbliche non più ‘sorelle’ all’insegna della bandiera rossa si sono chiamate fuori, anche se qualcuna si è mostrata possibilista circa un’eventuale futura adesione. Sulle loro diserzioni hanno pesato la crescita esponenziale dei multiformi legami con la Cina, in particolare nell’Asia centrale (Turkmenistan, Uzbechistan e Tagichistan), la ricchezza energetica (Azerbaigian) e la perdurante attrazione per la UE (Moldavia e Georgia). Senza ovviamente contare, oltre all’Ucraina, le tre repubbliche baltiche ormai da tempo passate armi e bagagli nel campo occidentale. Nella quindicina di mesi sinora trascorsi è successo un po’ di tutto il necessario per scoraggiare eventuali ripensamenti e semmai incoraggiarne tra gli aderenti, pur fermo restando il timore presumibilmente generale che il ‘grande fratello’ possa finire col ricorrere almeno in qualche caso alle maniere forti, dal cui uso ha chiaramente dimostrato di non rifuggire.

L’effetto combinato del crollo del rublo e dell’unificazione doganale, con l’estensione a tutti i membri della UEE di dazi vicini a quelli russi, più alti degli altri, è stato micidiale. Gli scambi commerciali del Kazakistan con il resto del gruppo si sono ridotti del 34% e rotti, ossia di circa un quarto le esportazioni e del 40% le importazioni. La Kirghisia ha visto non solo contrarsi il flusso dei propri emigrati in Russia e falcidiate le loro vitali rimesse, ma anche il drastico ridimensionamento del fiorente bazar Dordoi, il più importante mercato di tutta l’Asia centrale, che dava lavoro a 55 mila persone e vantava un giro d’affari annuale di 2,8 miliardi di dollari.

A complicare le cose è sopraggiunto il riaccendersi dell’interminabile conflitto tra Armenia e Azerbaigian. Al secondo non è mancato l’appoggio non solo morale degli altri paesi musulmani contro la rivale cristiana. Nella fattispecie, soprattutto del Kazakistan, che si è fermamente opposto all’inclusione nella UEE del Nagorno-Karabach, la provincia già azera abitata in maggioranza da armeni, conquistata di forza da questi ultimi ventiquattro anni fa e trasformata provvisoriamente in repubblica indipendente priva di qualsiasi riconoscimento internazionale. Ne è nata una disputa che ha assunto aspetti quasi grotteschi. Già nel 2014 l’insistenza armena e l’opposizione kazaka avevano ritardato l’ammissione dell’Armenia nella nuova Unione, e nel marzo dello scorso anno il presidente armeno Serzh Sarkisian aveva disertato il suo primo vertice svoltosi ad Astana, la capitale del Kazakistan.

Adesso è stata la volta del presidente kazaco, Nursultan Nazarbaev, a rifiutarsi di partecipare al vertice che era stato fissato per l’8 aprile a Erevan, la capitale armena, benchè nel frattempo Sarkisian e compagni si fossero rassegnati all’ostracismo alla pseudorepubblica. La scusa, questa volta, è stato l’asserito persistere armeno nel violare la tregua d’armi nel Karabach, pur non essendo affatto sicuro che non lo faccia almeno altrettanto (e più credibilmente) la controparte azera.

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NAGORNO-KARABAKH: Il conflitto arriva all’Eurovision 2016 (Eastjournail 25.06.16)

Si parlava ancora di Repubbliche Socialiste Sovietiche, quando Armenia e Azerbaigian entrarono nel vivo di quello che sarebbe stato uno dei conflitti più efferati del Caucaso. Sulla scia delle neonate dottrine di Gorbachev, nel 1988 il Soviet del Nagorno-Karabakh, all’epoca oblast’ autonoma dell’Azerbaigian, fece riemergere le rivendicazioni nazionali chiedendo l’annessione all’Armenia e dando il via a campagne militari e pulizie etniche che si sarebbero susseguite per anni tra le due repubbliche. Nonostante il cessate il fuoco raggiunto nel 1994 e la mediazione dell’OSCE attraverso il Gruppo di Minsk, le tensioni lungo la linea di confine non si sono mai arrestate. Al contrario, lo scorso autunno è stata registrata un’escalation di violenza nella regione, che ha raggiunto il suo picco all’inizio di Aprile e sembra essere ancora in corso.

Quello che per più di vent’anni è rimasto all’apparenza un conflitto congelato ha da sempre determinato gli affari interni, e ancor di più quelli internazionali, dei due Paesi protagonisti. Ma non è tutto: le rivalità che intercorrono tra le due parti non sono mai state celate, neanche quando si tratta di eventi che vanno al di là della politica.

E’ il caso di Eurovision. Da quando Armenia e Azerbaigian sono stati ammessi al concorso canoro europeo (rispettivamente nel 2006 e 2008) molte sono state le occasioni in cui la disputa è stata portata sul palco. Ed era quasi prevedibile che quest’anno le polemiche di natura politica non sarebbero mancate, proprio alla luce degli ultimi avvenimenti in Nagorno-Karabakh e con i due presidenti impegnati in nuovi dialoghi a Vienna.

La provocazione è arrivata dalla cantante armena Iveta Mukuchyan. Durante la prima semifinale di Eurovision 2016, in diretta da Stoccolma, l’esuberante artista ha esultato per il suo passaggio in finale mostrando la bandiera del Nagorno-Karabakh.
In conferenza stampa, chiamata a rispondere del gesto da un giornalista svedese di Aftonbladet, l’artista si è espressa in maniera piuttosto neutra: negando la matrice politica del gesto, ha affermato che gli artisti in gara sono i rappresentanti del proprio paese, e in quanto tali, portano con se’ “il cuore, i pensieri, i sentimenti e tutte le emozioni legate alla madrepatria. L’unica cosa che voglio diffondere – ha continuato – è la pace. Io voglio solamente la pace ai confini, l’Armenia vuole la pace.”
Nonostante gli sforzi del moderatore, intervenuto per ricordare che i giornalisti sono tenuti a porre domande agli artisti, e non ad esprimere commenti di natura politica, la situazione è diventata successivamente piu’ tesa, quando un giornalista azero ha preso la parola per puntualizzare che il gesto viola ogni norma di diritto internazionale, oltre che a quelle del concorso, poiché la regione appartiene de jure all’Azerbaigian.

Le polemiche non sono tardate ad arrivare. Immediatamente si è espresso il ministro degli esteri azero Hikmet Hajiyev, che ha denunciato l’azione come provocatoria e inaccettabile, accusando gli armeni di usare la visibilità data dall’evento per perseguire fini politici, oltre che per supportare le formazioni illegali che combattono in quello che gli azeri considerano il proprio territorio.

La reazione degli organizzatori è arrivata invece il giorno dopo. Attraverso una dichiarazione ufficiale pubblicata su Facebook, l’UER (Unione Europea di Radiodiffusione) si è detto consapevole della tensione esistente tra Armenia e Azerbaigian sulla questione del Karabakh, motivo per cui reputano l’azione di estrema gravità. L’ente organizzatore ha condannato la vicenda e avvertito che un ulteriore atto di questa natura sarebbe costato la squalifica dall’edizione in corso o dalle successive. Inoltre, i responsabili hanno affermato che un procedimento è in corso per sanzionare l’emittente armena AMPTV.

Ad aggravare la posizione armena rispetto alla sanzione, che verrà stabilita in Giugno, c’è anche una precedente dichiarazione di Gohar Gasparyan, capo della delegazione armena, la quale avrebbe dichiarato già in Aprile di voler portare con se’ la bandiera del Nagorno-Karabakh, a seguito della pubblicazione della lista delle bandiere non permesse allo spettacolo.

Infatti, al fine di salvaguardare la natura non-politica di Eurovision, poco prima dell’inizio del concorso era stata pubblicata una lista di stati non riconosciuti, i cui simboli non potevano essere esposti presso la Stockholm Globe Arena che ospitava la kermesse. La lista si aggiunge all’articolo 1.2.2h del regolamento di Eurovision Song Contest 2016, il quale afferma che “nessun messaggio che promuova organizzazioni, istituzioni, cause politiche o altro, aziende, marchi, prodotti o servizi potrà apparire durante la trasmissione.”

La vicenda che ha coinvolto la delegazione armena è tuttavia solo una delle tante occasioni in cui eventi culturali o sportivi vengono politicizzati. E’ ormai consolidata la teoria secondo cui molti paesi, tra cui la Russia e l’Azerbaigian, utilizzino la partecipazione o l’organizzazione di mega-events per fini meramente politici, come mezzo di rivendicazione nazionale o di promozione internazionale: basti pensare alle Olimpiadi Invernali di Sochi del 2014 o ai giochi Olimpici Europei di Baku del 2015.

Lo stesso ragionamento può essere applicato ad Eurovision: nonostante norme e provvedimenti che vietano la pratica, anno dopo anno la politica sovrasta la performance artistica e il sogno dell’Europa unita svanisce, persino dai palchi televisivi. Nei giorni scorsi, infatti, una polemica di portata ancora maggiore ha investito la cantante ucraina Jamala, che ha vinto proprio questa ultima edizione del concorso canoro con una provocatoria canzone anti-russa.

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Il doppio dramma degli armeni siriani (Il Giornale d’Italia 23.05.16)

L’arcivescovo di Aleppo racconta la situazione della sua comunità, vittima del genocidio ottomano prima e delle bombe jihadiste oggi

Genocidio. E’ questa, purtroppo, la parola che viene subito in mente quando si parla degli armeni. Un dramma che quel popolo ha vissuto esattamente cent’anni fa: era infatti il 1915 quando l’impero ottomano mise in atto deportazioni e stermini, che causarono un milione e mezzo di morti. Questa terribile pagina della loro storia, che gli armeni chiamano “Grande crimine” e che commemorano il 24 aprile, oggi viene rivissuta in Siria.

Qui, prima dello scoppio della guerra, vivevano più di centomila armeni. Una minoranza perfettamente integrata nella società siriana in quanto, come ha spiegato a Sputniknews il professor Baykar Sivazliyan, Presidente dell’Unione Armeni d’Italia e docente di lingua armena presso l’Università degli studi di Milano, abitavano nel Paese già molto prima che esso divenisse uno Stato indipendente. La stragrande maggioranza degli armeni di Siria “è costituita da sopravvissuti al Genocidio e loro discendenti. L’ultima fermata delle deportazioni era infatti il deserto siriano, tanto che a Dir al Zor vi era una chiesa armena che fungeva da memoriale” e che custodiva le reliquie delle vittime del 1915. Un luogo sacro, che i terroristi di al Nusra hanno distrutto. Oggi il numero di armeni siriani si è ridotto a sedicimila, “concentrati per lo più ad Aleppo, a Damasco e in Latakia, nella zona del villaggio di Kessab – ha detto ancora il professore – più volte caduta nelle mani del Califfato e liberato dalle forze siriane”.

Aleppo dunque, che le cronache delle ultime settimane vedono al centro di una furiosa battaglia. Alla quale, per la popolazione, si aggiunge il dramma della mancanza anche di generi di prima necessità. A poco sembra essere servita, in questo senso, la fragile tregua che si sta tentando in tutti i modi di mantenere. E il futuro non appare per niente roseo.

Sembra esserne convinto l’arcivescovo degli armeni cattolici della città, che in un’intervista rilasciata a Zenit.org ai margini della sua recente visita a Roma, ha espresso tutta la sua disperazione per le sorti della popolazione di Aleppo. La situazione in città attualmente “è molto drammatica. Il cessate il fuoco è ormai terminato e sono ricominciati i bombardamenti” ad opera dei ribelli jihadisti che controllano una parte della città: “sono loro a lanciare missili, bombe e colpi di mortaio – spiega monsignor Boutros Marayati – sui quartieri controllati dall’esercito regolare, dove vivono le comunità cristiane e i musulmani moderati. Il punto è che i ribelli hanno in mano la centrale elettrica e l’acquedotto, dunque controllano gli approvvigionamenti e non consentono di farli arrivare a noi. Chi paga il prezzo di questa contrapposizione tra i due blocchi siamo noi civili, soprattutto i bambini”. E nonostante le Chiese stiano cercando di “aiutare la gente a rimanere, sta avvenendo un nuovo esodo da Aleppo. Del resto manca tutto. La nostra speranza è che ci siano i margini affinché le parti in conflitto si mettano d’accordo. Il popolo di Aleppo sogna la fine di queste atrocità, è davvero stanco di subire” dice ancora l’arcivescovo. Che, per quanto riguarda il contesto internazionale, si dice convinto che la soluzione del conflitto “è nelle mani delle grandi potenze” ovvero Usa e Russia. “Dobbiamo solo augurarci che si arrivi ad un’intesa tra loro per aprire un futuro di speranza per la Siria”.

E anche per l’Europa. Perché risulta evidente che fino a che non si apriranno scenari di pace, la crisi dei profughi nel Vecchio Continente è destinata a peggiorare. “Se c’è davvero interesse a risolvere questo dramma – dice monsignor Marayati – bisogna impiegare ogni energia per far cessare la guerra in Siria” ovvero “impegnarsi ad aiutare i profughi a non fuggire dalla propria terra. Ricordo sempre che prima che iniziasse questa guerra, noi siriani non eravamo mai stati dei profughi. Al contrario, era la Siria ad aver sempre ricevuto persone che fuggivano dalle guerre: dal Libano, dalla Giordania, dall’Iraq. E ora è arrivato il nostro turno. Una cosa che sembrava davvero impensabile, perché la Siria è storicamente un Paese di convivenza, di pace, di cultura”.

Le Chiese cristiane per arginare l’esodo “stanno dando un grande contributo” in termini di aiuti. “Ma la gente è stanca di soffrire. I siriani non vogliono più piangere i loro morti, non vogliono più veder scorrere fiumi di sangue. Ciò che chiediamo è che l’impegno che viene profuso per mandarci gli aiuti venga impiegato per far pressione alle potenze internazionali affinché cessino i bombardamenti”.

Cristina Di Giorgi

NAGORNO-KARABAKH: Sargsyan e Aliyev si incontrano a Vienna, ma al fronte si continua a sparare (East Journal 23.05.16)

Lo scorso 16 maggio Serzh Sargsyan e Ilham Aliyev, presidenti di Armenia e Azerbaigian, si sono incontrati a Vienna per parlare della problematica situazione del Nagorno-Karabakh, regione contesa dai due paesi che negli ultimi mesi sta vivendo una situazione sempre più instabile. L’evento è avvenuto nell’ambito di una serie di incontri organizzati dal Gruppo di Minsk, struttura creata nel 1992 dall’OSCE (all’epoca CSCE) per crecare di mediare una soluzione pacifica al conflitto del Nagorno-Karabakh.

L’incontro tra Sargsyan e Aliyev è stato il primo dalla grave escalation di violenza verificatasi all’inizio di aprile nel Nagorno-Karabakh, la più violenta degli ultimi vent’anni, che in pochi giorni ha causato la morte di oltre un centinaio di persone e che ancora oggi non sembra essersi del tutto esaurita, come confermano le continue morti che si registrano lungo la linea di confine che separa l’autoproclamata repubblica del Nagorno-Karabakh dall’Azerbaigian. L’ultima volta che Sargsyan e Aliyev si sono incontrati ufficialmente per discutere della situazione in Nagorno-Karabakh è stato lo scorso dicembre a Berna, in Svizzera, sempre durante un colloquio organizzato attraverso la mediazione del Gruppo di Minsk.

Oltre ai presidenti di Armenia e Azerbaigian e alle loro delegazioni, all’incontro di Vienna hanno preso parte tra gli altri anche John Kerry, segretario di stato degli Stati Uniti, Sergej Lavrov, ministro degli Esteri della Russia, e Jean-Marc Ayrault, ministro degli Esteri della Francia, in rappresentanza dei tre paesi che attualmente siedono alla presidenza del Gruppo di Minsk; mentre a rappresentare l’OSCE è stato Andrzej Kasprzyk, rappresentante personale del presidente in esercizio.

Durante l’incontro Sargsyan e Aliyev hanno convenuto sulla necessità di rispettare il cessate il fuoco (imposto nel 1994 in seguito all’Accordo di Bishkek ma da allora più volte violato), e sul voler risolvere la questione attraverso vie esclusivamente pacifiche. Riguardo agli incidenti lungo la frontiera armeno-azera, per far fronte alle continue violazioni del cessate il fuoco, i rappresentanti del Gruppo di Minsk hanno proposto di aumentare il monitoraggio in loco installando delle telecamere lungo la linea di confine per documentare eventuali future violazioni. Al termine del colloquio, entrambe le parti, che hanno mostrato una apparente sintonia, hanno espresso la volontà di incontrarsi nuovamente verso giugno per valutare la situazione, tenendo nel frattempo sotto controllo l’evolversi del contesto. Nella stessa giornata, Sargsyan e Aliyev hanno avuto anche due colloqui separati con Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, durante i quali si è ribadita la necessità di risolvere il conflitto del Karabakh attraverso vie diplomatiche.

Nonostante sia Sargsyan che Aliyev si siano dichiarati soddisfatti dell’esito dei colloqui di Vienna, sostenendo la necessità di trovare una soluzione pacifica al conflitto, la realtà dei fatti mostra però come al fronte l’atteggiamento dei due eserciti non rispecchi le buone intenzioni sostenute dai rispettivi leader durante i colloqui, come dimostrano i continui incidenti con tanto di nuove vittime registrati lungo la linea di confine; il tutto proprio poche ore dopo l’incontro dei due presidenti nella capitale austriaca e nonostante le molteplici promesse di pace fatte davanti ai rappresentanti del Gruppo di Minsk.

La verità è che le due parti sono attualmente molto distanti dal trovare un accordo, e al contrario i leader dei due paesi negli ultimi anni hanno più volte dichiarato di essere pronti all’uso della forza per difendere i propri interessi nella regione. Il presidente azero Aliyev ad esempio, nel caso la diplomazia internazionale non dovesse rivelarsi efficace, ha spesso affermato di essere disposto a ricorrere alla guerra per riprendersi il Karabakh; inoltre, come affermato recentemente da Elkhan Sahinoğlu, membro del think tank azero “Atlas“, nel caso l’incontro di Vienna non dovesse aiutare a migliorare concretamente la situazione nella regione, il rischio che in futuro si verifichi un’altra escalation di violenza come quella dello scorso aprile rimarrebbe alto.

Il conflitto tra armeni e azeri per il possesso del Nagorno-Karabakh è scoppiato nel 1988, con l’Unione Sovietica ormai in fase di collasso, mentre si è trasformato in guerra aperta nel 1992, in seguito al raggiungimento dell’indipendenza di Armenia e Azerbaigian. Dopo una dura guerra durata due anni, che è costata la vita a circa 30.000 persone e che ha visto gli armeni prendere il controllo dell’intera regione e di altri sette distretti situati in territorio azero, nel 1994 le due parti si sono accordate per un cessate il fuoco che ha congelato il conflitto. Attualmente la regione è amministrata dal governo della Repubblica de facto del Nagorno-Karabakh, la quale non è però riconosciuta da alcuno stato della comunità internazionale.

Proprio recentemente, come conseguenza dei violenti scontri di inizio aprile, il governo armeno ha approvato una proposta di legge sul riconoscimento del Nagorno-Karabakh, dopo che già più volte negli ultimi anni diversi parlamentari avevano provato a sostenere questa causa. Dopo avere ottenuto l’approvazione del governo di Yerevan, prima di entrare in vigore la proposta di legge dovrà però ricevere anche l’approvazione del parlamento, che per il momento non ha voluto prendere in esame la questione, temendo una reazione azera, preferendo aspettare l’evolversi del contesto.

A complicare ulteriormente la situazione vi è l’ambiguo ruolo della Russia, che da una parte manda Lavrov a Vienna a rappresentare Mosca in occasione dei colloqui di pace organizzati dal Gruppo di Minsk, del quale proprio la Russia è co-presidente, mentre dall’altra continua a vendere armi a entrambi gli schieramenti, contribuendo così alla frenetica corsa agli armamenti di Yerevan e Baku, che secondo una classifica elaborata dal BICC (Bonn International Center for Conversion) si posizionano rispettivamente al 3° e all’8° posto tra le nazioni più militarizzate al mondo.

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Nagorno-Karabakh, la pace può attendere (Lastampa.it 21.05.16)

Per qualcuno è una guerra dimenticata. Per altri un conflitto congelato. C’è anche chi parla di proxi war, un confronto indiretto tra Turchia e Russia: Ankara alleata alla famiglia Aliyev, da cinquant’anni al potere in Azerbaigian; Mosca al fianco dell’Armenia con il suo consistente contingente militare schierato nella regione. È lo scontro che da quasi venticinque anni contrappone Armenia e Azerbaigian per il controllo del Nagorno-Karabakh. Questa piccola Repubblica incastrata a sud del Caucaso, negli Anni 90 ha dichiarato unilateralmente l’indipendenza dall’Azerbaigian a cui era stata concessa in epoca sovietica. È uno Stato de facto perché nessuno lo ha mai riconosciuto, neanche la madrepatria armena. Drammatico il bilancio, perché la guerra fino ad oggi è costata trentamila morti, un milione di profughi e miliardi di dollari in armamenti. La tensione tra i due Paesi a inizio aprile ha subito una nuova drammatica escalation: oltre trecento le vittime, centinaia gli sfollati, interi villaggi evacuati, case e scuole distrutte. Per comprendere il dramma in corso, basta uscire pochi chilometri da Stepanakert, capitale del Karabakh. La strada per Martakert e Talish, obiettivi dell’ultima incursione nemica, è forse l’immagine più eloquente della situazione. Una dopo l’altra, non lontano dalla prima linea che segna il confine con l’Azerbaigian, scorrono le città rase al suolo dal conflitto scoppiato nel ‘92. Ci sono le rovine di Aghdam, – un tempo popolata da oltre ventimila azeri uccisi o costretti alla fuga – battezzata Hiroshima del Caucaso. Poco oltre i resti di Maragha, al centro di uno degli episodi più sanguinosi di questa lunga guerra, il pogrom in cui vennero trucidati decine di armeni inermi.

 

A Martakert si fondono gli orrori di ieri e di oggi, perché alle distruzioni di vent’anni fa si sono aggiunti i danni della recente offensiva che, secondo gli armeni, sarebbe stata scatenata da Baku. Opposta la versione azera, che accusa i nemici di aver lanciato per primi l’attacco. In ogni caso la città è stata colpita da razzi che hanno danneggiato seriamente molte abitazioni e ferito o ucciso alcuni civili. Non solo. «Alcuni villaggi sono stati bersagliati con cluster bomb di fabbricazione israeliana» sostiene Halo Trust, fondazione inglese dal 2000 impegnata nello sminamento del Nagorno-Karabakh. «Hanno lanciato centinaia di bombe a grappolo vietate dalle convenzioni internazionali: gli azeri hanno colpito obiettivi civili tra cui i villaggi di Nerkin Horatagh e Mokhratagh» spiega Yuri Shahramanyan, responsabile degli interventi nella regione. A Mataghis ne ha fatto le spese la scuola: un Grad ha centrato l’edificio mandando in frantumi tutti i vetri e solo per un miracolo non ci sono state vittime. Ora la cittadina – a una manciata di chilometri dalla frontiera – è diventata il crocevia dei mezzi militari che a decine, incessantemente, trasportano uomini e rifornimenti verso le trincee. La vecchia strada, dopo l’offensiva di aprile è stata abbandonata perché battuta dall’artiglieria. Ne è stata aperta una nuova protetta da un argine di terra che gli escavatori stanno completando sfidando il tiro dei cecchini. Fuoristrada Uaz ammaccati arrancano a tutta velocità schivando buche e proiettili: oltre la barriera artificiale, campi verdi a perdita d’occhio che resteranno a lungo incolti per il timore che gli azeri sparino anche ai trattori.

Lo sterrato termina a Talish, villaggio fantasma incuneato tra montagne cupe e umide. Ora è popolato da soldati in mimetica: hanno visi stanchi, giacche a vento fradice, mitragliatori Ak47 in spalla. Molti sono volontari, armeni della diaspora giunti da tutto il mondo per difendere questo lembo di terra che chiamano orgogliosamente Artsakh. Gli abitanti hanno invece abbandonato tutto, sono fuggiti a Stepanakert, oltre due ore di macchina che su queste strade sembrano non finire mai. «Lassù era troppo pericoloso – mormora un’anziana sfollata con la nuora e i nipoti nella capitale – mio figlio è invece rimasto là a combattere». A Talish gli azeri hanno trucidato tre anziani. Poi li hanno mutilati, gli hanno reciso le orecchie «come fanno le milizie islamiste: erano mercenari giunti dalla Siria ora al soldo dell’Azerbaigian» sostengono gli armeni. Sul conflitto si è così allungata l’ombra della guerra di religione: «L’Islam è alle porte, siamo l’ultimo baluardo della cristianità» ripete un ufficiale. Il commando si è dileguato sparando all’impazzata contro le case sgangherate abitate da pastori e agricoltori. La battaglia per riprendere il villaggio è stata dura, ovunque macchine dilaniate dalle esplosioni, tetti sfondati dalle granate, muri crivellati da proiettili.

Un razzo Grad è piovuto sulla scuola demolendo l’unica parte terminata del vecchio edificio sovietico: i frammenti hanno ucciso un ragazzino, nelle aule restano banchi ammassati, quaderni sparsi, vetri rotti, la lavagna aggrappata al muro per miracolo. Un altro ordigno ha completamente demolito il fabbricato in cui gli abitanti si radunavano per le feste riducendolo a un ammasso di macerie, lamiere contorte, sedie annerite. Nelle case abbandonate ora si rintanano i soldati che stanno cercando di ricacciare i nemici oltre le alture perdute, a poche centinaia di metri. Non sarà facile, i militari si riparano dietro vecchi muri in pietra che i tiratori scelti azeri battono con precisione chirurgica, mietendo vittime, specie all’imbrunire. Un mese fa è stato un blitz in piena regola: il Karabakh, colto di sorpresa e impreparato, ora accusa Erevan di non aver dato l’allarme. Perchè non è stata una scaramuccia qualsiasi, sul terreno sono rimaste centinaia di vittime, è stato l’attacco più violento dal cessate il fuoco del 1994. «Lo abbiamo respinto con decisione» sostiene un alto funzionario dei servizi segreti. Non ne vuol sapere di svelare il nome, ma mostra senza esitare il video dei carrarmati azeri – mezzi di ultima generazione forniti dalla Russia, il principale alleato dell’Armenia – che avanzano sicuri, vengono colpiti, ripiegano nel caos. «La gente è stanca del doppio gioco di Mosca, che vende armi a entrambi le parti e specula da troppo tempo su questo conflitto», accusa Karen Ohanjanyan, coordinatore locale di Helsinki Initiative 92, organizzazione non governativa impegnata da anni nella pacificazione dell’area. Qualcuno teme una nuova guerra del Nagorno-Karabakh sia alle porte. La prima è durata un quarto di secolo ed è stata combattuta nel silenzio e nell’indifferenza della comunità internazionale.

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“Chi siete?” di Doriana Vovola, ponte tra Oriente ed Occidente a S. Lazzaro degli Armeni (Infooggi.it 21.05.16)

Memorie e musica armene e “Chi siete?” di Doriana Vovola, ponte tra Oriente ed Occidente a S. Lazzaro degli Armeni
VENEZIA – L’ Arcivescovo e filosofo armeno di Istanbul Boghos Levon Zekiyan, insignito da Papa Francesco in occasione del Centenario del Genocidio Armeno, la drammaturga per i diritti umani Doriana Vovola, di calibro internazionale e pluripremiata, che con il suo libro “Chi siete?” unisce l’ Occidente e l’ Oriente e ildudukista armeno Aram Ipekdjian, interprete sonoro delle Messe a S. Pietro di Papa Francesco si uniscono il 24 maggio 2016 alle ore 17 al monastero mechitarista dell’ isola S. Lazzaro degli Armeni (Venezia) per dare vita ad un evento unico tra filosofia armena e non solo, teatro, musica armena e riflessione su temi d’ attualità ed eterni quali memoria, libertà e prigionia da persecuzione, fratellanza, negazionismo, resistenza spirituale, identità, genocidio.
Una Lezione toccante, appositamente ideata, dell’ Arcivescovo Boghos Levon che ruoterà attorno al libro di D. Vovola “Chi siete?” (Europa edizioni) che tratta di prigionia e libertà psichica e fisica, elettricità emotive e perdita di baricentro esistenziale. Sensitività, poesia, filosofia e mistica in paradigma teatrale come atto di presenza verso popoli, etnie, culture, sensibilità devastate dalle persecuzioni e dalle guerre… un libro che, con successo di pubblico e critica, mette d’ accordo le culture umane del mondo, dall’ ebraica alla tibetana, dall’ armena alla nativa americana.

Doriana Vovola, autrice e attrice che reciterà frammenti del libro in dialogo con le melodie del duduk del Maestro Ipekdjian, ha all’ attivo, tra i molti successi, la scena alla Biennale di Venezia 2015- Padiglione Tibet e i prestigiosi “Premio Eudonna 2013/2014” per le eccellenze femminili europee – sezione speciale drammaturgia e “Premio Italia Diritti Umani 2013” – Amnesty International e Free Lance International Press.

Il duduk è un antico strumento musicale armeno che custodisce e sprigiona la memoria sonora del suo popolo e che l’ Unesco ha dichiarato “patrimonio orale e intangibile dell’umanità”.

L’ Isola di S. Lazzaro si raggiunge col traghetto che parte da Piazza S. Marco, Venezia

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