Armenia, il sogno della pace. Viaggio nel più antico paese cristiano del mondo che tra pochi giorni accoglierà il Papa (Il Messaggero 20.06.16)

L’Ararat è laggiù, un fermo immagine sullo sfondo. Ovunque si vada,  la montagna sacra sovrasta il panorama armeno come una specie di fondale incantato. La neve sulla cima, l’azzurrino della sagoma imponente. Quasi un miraggio. È l’immensa montagna dell’arca di Noè, dove tutto è iniziato, secondo il racconto della Genesi, dopo il Diluvio Universale (“Nel settimo mese, il diciassette del mese, l’arca si posò sui monti dell’Ararat”).

La tradizione biblica in Armenia si intreccia con la storia del suo popolo. Il “Paese delle pietre urlanti”, viene chiamato, per  evocare i Khatchkar, le grandi croci incise come ricami  di tufo sulle steli di cui è disseminato il territorio e che nessuno è mai ancora riuscito a distruggere o a rovinare. Son lì a sfidare il tempo.  Una tradizione, quella di lavorare la pietra, iniziata a partire dai primi secoli, dall’introduzione del cristianesimo,  visto che l’Armenia è stata la prima nazione al mondo a convertirsi e ad adottare questa fede come religione di Stato, nel 301, anticipando di dodici anni la svolta dell’imperatore Costantino.

Da quel momento, inizia a prendere piede l’inconfondibile architettura religiosa, maestra nell’intagliare le pietre. Restano perfetti, integri, diversi monasteri scolpiti e scavati nella roccia, gioielli di cui è disseminato il territorio, aggrappati a strapiombi o a panorami di una bellezza mozzafiato. Alla fine di questo mese, dal 24 al 26 giugno, l’Armenia si prepara ad accogliere Papa Francesco. «È una visita che noi stiamo preparando per dirgli grazie. Un grazie dal profondo del cuore per avere avuto il coraggio di parlare del genocidio l’anno scorso, a san Pietro, durante la messa per le vittime», hanno commentato all’unisono  il vescovo cattolico, Minassian  e quello gregoriano Mikael Ajapahian.

Le vicende del 1915, lontane un secolo,  pesano ancora sull’anima dei questo popolo sopravvissuto. L’Armenia, 3,5 milioni e mezzo di abitanti su un territorio grande quanto la Lombardia, guarda avanti fiduciosa e resiste puntando molto sul turismo. Spagnoli, italiani, francesi, americani ma sempre di più anche comitive di giapponesi e cinesi. Una risorsa destinata ad avere un peso sempre maggiore nell’economia. Basta vedere gli investimenti che attrae il comparto. Per esempio le grandi catene alberghiere, ultima delle quali Radisson.

DIPLOMAZIA
Quasi il 50 per cento delle spese del bilancio statale finiscono per forza di cose al ministero della Difesa, per finanziare gli armamenti necessari a vigilare sulla frontiera turca e quella azera. Deterrenti inevitabili per la sicurezza del Paese. Come se il passato per gli armeni non passasse mai. Naturalmente, l’aspetto religioso non c’entra granché, eppure è difficile ignorare che ancora una volta un Paese tradizionalmente cristiano viene isolato sullo scenario internazionale, stretto com’è tra due nazioni musulmane. Da una parte la Turchia, dall’altra l’Azerbaigian. Calcoli economici e politici, il gas azero, gli idrocarburi, l’egemonia di Ankara, nodi diplomatici irrisolti sin dai tempi della fine della prima guerra mondiale.

Con buona pace di tutti, due trattati, quello di Sevrès e quello di Losanna, rispettivamente nel 1921 e nel 1923, hanno sepolto la giustizia. Da allora in poi divenne tabù riaprire il tema della causa armena, ovvero lo sterminio di massa pianificato a tavolino dal triumvirato Enver-Talat-Djemal, costato la vita a quasi due milioni di armeni che fino ad allora vivevano pacificamente sotto l’impero ottomano, per appropriarsi dei loro beni attraverso una legge. Eppure la memoria, essendo scriba dell’anima, come diceva Aristotele,  è destinata prima o poi a riemergere. Impossibile da soffocare. Così chi arriva a Yerevan, capitale di 1,5 milioni di persone, non può che iniziare con la visita al Memoriale del Genocidio, una sorta di Yad Vashem. Steli di pietra reclinati su un fuoco perenne che arde in un braciere ricordano tanti volti. Le marce nel deserto, la perdita della patria amata, i campi di concentramento nel deserto di Deir es Zor, oggi territorio siriano. Poi i massacri dei bambini piccoli, mentre invece quelli più grandicelli venivano venduti come schiavi al mercato al costo di un montone. Le bambine armene facevano le stessa fine che fanno oggi tante bambine yazide nelle mani dei miliziani dell’Isis.

Armenia, migliaia da città e villaggi saranno alla Messa del Papa (Radio Vaticana 20.06.16)

Di città in villaggio per mobilitare le persone nell’accoglienza del Papa. Da mesi, la Chiesa armeno-cattolica sta preparando con visite capillari e complesse la macchina organizzativa in vista del viaggio apostolico che Francesco compirà in Armenia questo fine settimana. A descrivere l’impegno messo in campo e i sentimenti della gente è un sacerdote della Chiesa locale. Il servizio di Davide Dionisi:

Ha percorso chilometri e chilometri per registrare migliaia di adesioni in vista della visita di Papa Francesco. Padre Karnik Youssefian sacerdote armeno cattolico della parrocchia di San Giuseppe a Kamishlié, nell’estremo nordest della Siria, fuggito d a seguito delle persecuzioni dell’Isis, oggi è a Gyumri e nei mesi scorsi ha visitato tutti i villaggi armeni per raccogliere i nomi dei partecipanti alle celebrazioni presiedute dal Papa e, nel frattempo, ha convinto circa 400 ragazzi ad andare a Cracovia per la Gmg.

R. – Ormai da più di un mese stiamo preparando questa visita storica per l’Armenia. Devo dire che ci sono tante cose da fare: abbiamo raccolto in molti villaggi armeni i nomi e i cognomi della gente che verrà a partecipare alla Santa Messa del Santo Padre. Fino ad ora siamo arrivati a quasi 18 mila fedeli, tranne quelli che verranno da fuori – dall’estero – che sono 2.000. Quindi ci saranno più o meno 20 mila persone alla Messa del Santo Padre. Devo dire che i preparativi sono difficili, perché per arrivare nei villaggi e scrivere tutti i nomi ci abbiamo messo un mese e anche di più.

D. – Cosa vi aspettate che il Papa dica, e cosa vi aspettate da questa visita?

R. – Essendo armeno siriano, della Siria, la prima cosa che desidero è la pace: che ci sia in tutto il mondo, ma specialmente in Siria, dove sono nato. E poi, speriamo che si avvicinino di più le due Chiese, quella armeno-apostolica e quella cattolica, in tutto il mondo.

D. – Un episodio particolare che l’ha colpita durante questa fase di preparazione, o anche un aneddoto che vuole raccontarci durante questa fase preparatoria…

R. – Tanti vogliono proprio vedere il Papa e poi salutarlo prendendogli la mano: tutti hanno questo desiderio, anche se credo sia un po’ impossibile riuscirci… Ma la gente ha proprio questo desiderio: di stare vicino al Santo Padre almeno per salutarlo.

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Genocidio armeno: “Ogni notte mio padre gridava” (Aleteia-org 20.06.16)

Armin T. Wegner ha gridato nel sonno fino all’ultimo giorno “sognando e risognando le tragedie viste e quelle subite”. Le immagini del massacro armeno erano impresse nella sua mente come nelle sue foto, che hanno immortalato il primo genocidio del XX secolo. E urlava la sua pena di esiliato dalla Germania, lui tedesco che aveva cercato di mettere in guardia il suo popolo dal ripetere simili orrori e che per questo era stato prima internato in un campo di concentramento e poi esiliato, spogliato della sua dignità, un dolore mai superato. Oggi quel grido può trovare finalmente pace dopo che la Germania ha “non solo riconosciuto il genocidio degli armeni, ma anche ammesso le proprie responsabilità, un mea culpa incredibile” sottolinea Mischa Wegner, il figlio che Armin ha avuto dalla seconda moglie. Attraverso i suoi occhi ripercorriamo la vicenda di un uomo che fu testimone di due genocidi (leggi qui la sua storia) e che cercò di far conoscere la verità, anche se non fu ascoltato, fu censurato, e le sue pubblicazioni bruciate, novello eretico nella Germania nazista.

Mischa Wegner nasce nel 1941 a Napoli, e cresce nelle strade di Positano. Negli anni ‘60 si trasferisce a Roma al seguito dei genitori. Non conosce un padre diverso da quello che a 55 anni è già segnato dai genocidi e dall’esilio, un padre che urla nel sonno: “L’urlo era parte della sua vita e pertanto fece parte del fardello della famiglia. Non si viveva come tragedia, ma come qualcosa di naturale”. Un padre che non ama parlare di ciò che ha visto e del dolore che porta nel cuore. Un padre silenzioso e lontano nei suoi pensieri: “da questa prigione non riusciva ad uscire, e quindi non poteva comunicare”. Mischa conosce la storia di suo padre, l’impegno prima sul fronte polacco e poi su quello orientale come sanitario al seguito delle truppe tedesche, il suo impegno per la pace e i diritti umani. Conosce le sue battaglie – scritti, appelli e conferenze – per svegliare le coscienze di un occidente (Europa, Germania e Stati Uniti) che non vuole guardare, lui

I mondi di Armin e Mischa sono già lontani cronologicamente e in realtà, oltre al dato biografico, Mischa non si è mai interessato più di tanto delle vicende del padre. Fino al ’95, quando Pietro Kuciukian si rivolge a lui per avere materiale fotografico per la mostra “Rifugio precario” sugli intellettuali tedeschi obbligati a lasciare la Germania perché non graditi a Hitler. “Non poteva immaginare che mi avrebbe trascinato in un volo nel profondo della mia esistenza, alla scoperta di mio padre e al contempo del mio passato” dirà anni dopo Mischa Wegner. “Noi ereditiamo molto dell’esperienza di vita dei nostri genitori. Fino al ’95, quando mi sono state chieste le foto di mio padre, non mi sono mai occupato degli armeni, mio padre non ne ha mai parlato e io non ho mai fatto domande. Appena ho cominciato a parlare a quella conferenza ho cominciato a piangere. C’era un cassetto dentro di me che non avevo mai aperto e che nascondeva cose che non sapevo”.

In quel cassetto, Mischa ha trovato le ferite di cui suo padre non lo ha mai caricato: “il tradimento verso se stesso per sopravvivere, l’ignominia della sottomissione ai guardiani della prigione (nei campi di concentramento, ndr), la sottomissione della dignità umana sotto lo stivale della rozzezza e della stupidità. Ho sentito mio padre come se mi fosse dentro e ho sofferto tremendamente la sua umiliazione come mia”. E ancora: “Mio padre è morto tante volte, nei deserti dell’Anatolia prima, nei campi di concentramento poi. È morto ogni volta che la dignità dell’uomo è stata calpestata. Avete mai pensato cosa significhi vedere l’uomo morire una, dieci, cento, mille, diecimila, centomila, un milione di volte? Di vederli con i vostri occhi, lì davanti a voi, morire con loro e non morire, non morire ma essere destinati a portare la memoria dentro di voi per il resto dei giorni”.

TURCHIA: Viaggio nella memoria della minoranza armena (East Journal 19.06.16)

Lo studio sui massacri subiti dalla minoranza armena alla fine del XIX secolo in Anatolia orientale, e l’analisi sul caso del vilâyet di Diyarbakir sono state le tematiche su cui si è concentrato, negli ultimi tre anni, il mio dottorato ricerca. Tuttavia vi sono elementi all’interno di questo argomento, che non è stato possibile comprendere esaustivamente soltanto attraverso i libri e i documenti d’archivio. Da qui la necessità e la volontà di avere un contatto diretto con l’Anatolia orientale al fine di avere un contatto diretto con i luoghi della memoria del popolo armeno vittima delle violenze di massa del 1894-1896.

Nel luglio del 2015, dunque prima dell’avvento degli attentati dello Stato Islamico e degli scontri a fuoco tra il PKK e le forze di sicurezza turche, mi sono recato nella città di Diyarbakir motivato dalla volontà di scoprire i luoghi che alla fine del XIX secolo venivano descritti nelle lettere dei diplomatici e dei missionari residenti. Durante il soggiorno nella città ho avuto modo di visitare non solo le varie chiese armene e il vecchio quartiere cristiano, oggi abitato in maggioranza da Curdi, ma anche di cercare la posizione del consolato francese e la missione religiosa dei Cappuccini.

La chiesa armena ortodossa di Surp Giragos, oggi chiusa a causa degli scontri armati tra Curdi e Turchi, la chiesa armena cattolica di Surp Yosep, restaurata dallo Stato turco e oggi utilizzata come oratorio per i bambini di Diyarbakir, sono solo alcune delle tracce lasciate dal popolo armeno in questa città dai tanti volti e colori. Ad esempio la chiesa armena ortodossa di Surp Sarkis, oggi in rovina e una parte di essa abitata una famiglia povera che mi ha permesso di visitare l’interno dove un tempo venivano svolte le funzioni religiose e custodita la reliquia del “Santo Chiodo”.

Nel resto della provincia la città di Mardin tra le sue vie, le sue case e le boutique di souvenir per i turisti, vi sono ancora chiese simbolo della cristianità armena e siriaca. All’esterno di queste due città, centri nevralgici dell’economia della provincia, le tracce della minoranza armena sono molto più rare. La toponomastica imposta dalla Turchia dopo l’avvento della Repubblica, ha quasi totalmente cancellato i nomi di piccoli centri urbani come ad esempio Kizıltepe (collina rossa) un tempo chiamata Tell-Ermen (collina armena). La turchizzazione dei nomi è solo uno degli strumenti utilizzati per cancellare la memoria di luoghi dove gli Armeni ottomani vivevano convivendo con Curdi, Siri, Zaza, ecc.

In altre zone, come fuori dal paesino di Chinkoosh, nel territorio di Elazig, la grande voragine naturale che numerosi studiosi hanno identificato come una delle foibe dove furono fatti precipitare centinaia di armeni nel 1915, oggi è sovrastata da una grande scuola pubblica dove sventola la bandiera turca. Nell’antica città fortezza di Kharput invece, i resti del quartiere armeno vengono utilizzati come panchine e per le grigliate da giovani che molto probabilmente sconoscono la storia di quel luogo.

Non lontano da Kharput, nel piccolo villaggio dei Eski Palu, alle pendici della grande montagna che lo sovrasta, vi sono le rovine dell’antico monastero armeno Madre di Dio. Oggi utilizzato da pastori come riparo, al suo interno s’intravedono ancora due affreschi con figure angeliche circondate qua e là da murales in lingua turca. Anche a Mus, qualcosa degli Armeni resiste ancora alle intemperie e alle trasformazioni del tempo. Le mura di una chiesa, scoperte grazie all’aiuto di un Imam, rappresentano a Mus l’unica testimonianza della comunità armena che fino al XIX secolo l’abitava con migliaia di famiglie. Probabilmente, fra qualche anno i resti di questa chiesa saranno spazzati in quanto situati all’interno di un quartiere periferico oggi sottoposto a grandi trasformazioni urbanistiche.

Il viaggio ha anche previsto la visita della città di Bitlis, le rovine dell’antica Lidje dove vi sono i resti di un villaggio armeno e la zona montuosa di Sassoun dove nell’estate del 1894 vi fu il primo massacro di Armeni durante il regno di Abdülhami II.

I luoghi visitati durante questo viaggio in Anatolia orientale, nonostante le profonde trasformazioni subite, sono ancora ricchi di storia e di tracce del popolo armeno. La popolazione curda, che abita in maggioranza queste province, negli ultimi anni sta cercando di riportare alla luce e valorizzare la memoria storica del territorio senza escludere da questo quadro l’eredità lasciata dagli Armeni ottomani. Tutto ciò in un ottica anti-nazionalista turca mira a difendere non solo l’identità del popolo curdo, ma anche importanti tratti della storia e della memoria di quelle comunità armene con cui i Curdi, fino al 1915, hanno convissuto nella buona e nella cattiva sorte.

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Giancarlo Casà è un dottore di ricerca in Storia presso l’Università di Pavia, laureato in Scienze Politiche Internazionali (Pisa) e Studi Afro-Asiatici (Pavia). Nel 2012 ha conseguito il Master in Diplomacy presso l’ISPI di Milano. I suoi principali ambiti d’intesse sono le relazioni internazionali, le violenze di massa, le trasformazioni della memoria storica e la geopolitica

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GERUSALEMME. Santo Sepolcro. Al via il restauro della Tomba di Cristo (nena-news.it 18.06.16)

Non è stato facile arrivare all’accordo per le riparazioni. Sono antichi i contrasti che dividono le varie Chiese sulla gestione del Luogo Santo più importante per la Cristianità. I lavori erano attesi da decenni

di Alessandra Angeloni*

Gerusalemme, 18 giugno 2016, Nena NewsSono finalmente cominciati  i lavori di restauro dell’Edicola che racchiude la Tomba di Cristo, diretti dalla professoressa Antonia Moropoulou dell’Università tecnica nazionale di Atene, su incarico delle tre principali comunità cristiane presenti all’interno della Basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme: chiesa cattolica Latina (francescani), Armeni e Greci ortodossi, che superando divisioni e contrasti hanno siglato, lo scorso 5 marzo ad Atene, l’accordo che stabilisce tutti i dettagli necessari a procedere.

Diversi fattori hanno contribuito al degrado del luogo santo.  Il più importante è stato il terremoto del 1927 ma incide anche l’alto numero di pellegrini e turisti che, assieme alle candele, genera l’umidità prodotta dalla condensa del respiro dei visitatori.  I lavori saranno seguiti da uno staff di docenti dell’università di Atene e da esperti cattolici ed armeni. Ai finanziamenti delle tre confessioni cristiane si aggiungeranno quelli del Governo greco, del Fondo Mondiale per la conservazione dei monumenti e del re giordano Abdallah, nella sua veste di Custode islamico dei luoghi santi di Gerusalemme.

L’Edicola attuale è stata realizzata dai Greci Ortodossi dopo l’incendio del 1808, che carbonizzò la precedente costruita dai francescani nel XVI sec. Le precarie condizioni in cui versa oggi sono dovute agli effetti del terremoto del 1927, che costrinse i tecnici del Mandato Britannico a consolidarla con una struttura in ferro.

La Basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme è l’edificio più rappresentativo della cristianità, poichè memoriale del massimo mistero cristiano della morte e della Resurrezione di Cristo. Mistero che si dipana attraverso una struttura architettonica apparentemente caotica, posta proprio nel cuore del Suq Gerosolimitano.

La chiesa della Resurrezione rimane un modello unico di monumento che è anche “reliquia” di se stesso, un luogo straordinario di cui non dimenticare la genesi storica, il peso simbolico e le necessità pratiche di conservazione.

E’ importante sottolineare che all’interno del Santuario ufficiano cinque diverse confessioni Cristiane: i Latini, i Greci, gli Armeni, i Copti e i Siriani e che per ogni cambiamento occorre tener conto di tutte le comunità, compresa quella Etiope che ha accesso al tetto sopra la cappella di Sant’Elena e ad alcune cappelle esterne alla chiesa.

Nel secolo XIX la questione dei Luoghi Santi divenne un contenzioso politico, specialmente tra Francia e Russia. La Francia ottenne la protezione esclusiva sui diritti dei Cattolici, mentre la Russia quella sui cristiani ortodossi. Un accordo tra le parti fu ratificato da un firmano dell’8 febbraio 1852 e indicato col termine di “Statu quo”.

Da allora lo Status Quo non fu più modificato, e tutt’oggi stabilisce concretamente gli spazi dentro il Santuario, gli orari e i tempi delle funzioni e il loro svolgimento, gli spostamenti e i percorsi. Ciò legittima anche lo stato proprietario delle comunità delle diverse parti della Basilica e fa si che raggiungere accordi per lavori di vasta entità, come i restauri dell’Edicola, sia il risultato di lunghe trattative. Nena News

 

*Alessandra Angeloni, laureata in Architettura all’Università degli studi di Firenze, è specializzata in Archeologia e Storia delle Arti all’Università degli studi di Siena.  Dal 2009 lavora nel Vicino Oriente.  E’ membro dell’Albright Institute of Archaeological Research di Gerusalemme (Glassman Holland Research Fellow) dove svolge ricerca sul metodo dell’analisi stratigrafica degli elevati applicata  ai paramenti murari del Santo Sepolcro.

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Nagorno-Karabakh, Baku: visita di Sahakyan a Bruxelles una provocazione (Il Velino 16.06.16)

La visita del presidente della Repubblica del Nagorno-Karabakh a Bruxelles è una provocazione. Lo ha dichiarato un portavoce del ministero degli Esteri azero, Hikmat Hajiyev. Nel mese di giugno, il presidente dell’autoproclamata Repubblica del Nagorno-Karabakh, Bako Sahakyan, ha visitato Bruxelles dove ha tenuto incontri con i rappresentanti di un Gruppo di amicizia con l’Armenia nel Parlamento federale belga e con i membri del Parlamento fiammingo. “La visita a Bruxelles è la prova che l’Armenia continua a ricorrere alle provocazioni, danneggiando gli sforzi per una soluzione pacifica del conflitto armeno-azero, invece di avviare negoziati concreti” ha detto Hajiyev. Il portavoce ha aggiunto che la visita di Sahakyan a Bruxelles non è stato altro che un viaggio turistico. Il conflitto del Nagorno-Karabakh ha avuto inizio nel 1988, quando la regione autonoma ha cercato di separarsi dalla Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaijan. La regione proclamò l’indipendenza nel 1991.

The visit of the president of the self-proclaimed Nagorno-Karabakh Republic (NKR) to Brussels is a provocation, a spokesperson for the Azerbaijani Foreign Ministry, Hikmat Hajiyev, said Thursday. In June, the president of the unrecognized Nagorno-Karabakh Republic, Bako Sahakyan, visited Brussels where he held meetings with representatives of a friendship group with Armenia in the Belgian Federal Parliament and with the members of the Flemish Parliament. “The visit of this man to Brussels is evidence that Armenia is continuing to resort to provocations, damaging the efforts for a peaceful settlement to the Armenian-Azerbaijani conflict, instead of starting substantive negotiations,” Hajiyev told RIA Novosti. Hajiyev stressed that Sahakyan’s visit to Brussels was nothing but tourist trip. The latest wave of violence in Azerbaijan’s breakaway Nagorno-Karabakh region, mostly inhabited by Armenians, intensified on April 2, leading to multiple casualties before Armenia and Azerbaijan reached a shaky ceasefire deal three days later. The Nagorno-Karabakh conflict began in 1988, when the autonomous region sought to secede from the Azerbaijan Soviet Socialist Republic. The region proclaimed independence when the Soviet Union collapsed in 1991. The move triggered a war that lasted until a Russia-brokered ceasefire was signed in 1994.

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Armenia, il Fmi sblocca altri 22 milioni in aiuti economici (Il Velino 16.06.16)

Il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha completato la revisione delle performance economiche dell’Armenia, sbloccando altri 22,01 milioni di dollari in aiuti nell’ambito del programma triennale Extended Fund Facility (Eff). Lo rende noto il Fmi in un comunicato. In tutto il Fondo, ha concesso finora a Yerevan 71,53 milioni. “L’outlook rimane impegnativo, ma i rischi per il programma sono gestibili – ha affermato il vice direttore esecutivo e presidente esecutivo dell’Organismo, Mitsuhiro Furusawa -. La veloce implementazione del pacchetto di misure stabilito che sta procedendo, manterrà il programma sui binari, ricostruirà i buffer e lo spazio politico, nonché accelererà il raggiungimento degli obiettivi chiave in agenda”. Furusawa, comunque, ha sottolineato che ulteriori riforme in Armenia sono cruciali per il sostegno della crescita economica a medio e lungo termine.

The International Monetary Fund (IMF) has completed a review or Armenia’s economic performance, unlocking an additional $22.01 million in aid under a three-year program, the fund said in a statement. The total IMF allocations under the Extended Fund Facility (EFF) program now stand at $71.53 million. “The outlook remains challenging, but the risks to the program are manageable. Steadfast implementation of the agreed set of measures going forward will keep the program on track, rebuild buffers and policy space, and accelerate achieving key reform agenda objectives,” IMF Deputy Managing Director and Acting Chair Mitsuhiro Furusawa said on Wednesday. Furusawa stressed that further structural reforms in Armenia are crucial for supporting medium-term economic growth.

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Francesco pellegrino in Armenia. Più comunione tra i diversi riti cattolici (Farodiroma.it 16.06.16)

“Tra pochi giorni mi recherò pellegrino in una terra orientale, l’Armenia, prima tra le Nazioni ad accogliere il Vangelo di Gesù”. Lo ha detto Papa Francesco incontrando questa mattina nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico i partecipanti all’Assemblea della Riunione delle Opere di Aiuto per le Chiese Orientali (ROACO), e pregando per la pace in Oriente e per la comunione tra cattolici latini e orientali.

“Sotto le incrostazioni materiali e morali, anche sotto le lacrime e il sangue provocate dalla guerra, dalla violenza e dalla persecuzione, c’è un volto luminoso come quello dell’angelo del mosaico”, ha detto Bergoglio facendo riferimento a un angelo in mosaico rinvenuto su una parete della Basilica della Natività a Betlemme in cui sono in corso i lavori di restauro. “Cooperate a questo restauro”, ha chiesto, “perché il volto della Chiesa rifletta la luce di Cristo Verbo incarnato” che “bussa alla porta del nostro cuore in Medio Oriente, così come in india o in Ucraina”, paese quest’ultimo a cui Francesco nel mese di aprile ha indirizzato una colletta straordinaria tra le Chiese d’Europa.

“Questo fatto – ha commentato Bergoglio – ci fa pensare che anche il volto delle nostre comunità ecclesiali può essere coperto da ‘incrostazioni’ dovute ai diversi problemi e ai peccati”. Poi il Papa ha salutato con affetto padre Francesco Patton, nuovo Custode di Terra Santa succeduto a padre Pierbattista Pizzaballa il 20 maggio scorso, e ha espresso gratitudine per il continuo e instancabile lavoro svolto da tutti i Frati Minori che “da secoli – ha ricordato – garantiscono il mantenimento dei Luoghi Santi e dei Santuari”.

Ricordando le sofferenze dell’Ucraina, “paese quest’ultimo a cui – ha sottolineato – ho voluto che si destinasse una colletta straordinaria indetta nello scorso mese di aprile tra le Chiese d’Europa”, il Papa ha ripetuto infine “le indicazioni dei predecessori” cioè l’invito “al rispetto del diritto proprio di ciascuno, senza spirito di divisione, ma favorendo la comunione nella testimonianza dell’unico Salvatore Gesù Cristo. Tale comunione, in ogni parte del mondo dove cattolici latini e orientali vivono fianco a fianco, ha bisogno delle ricchezze spirituali dell’Occidente e dell’Oriente, alle quali possono attingere le giovani generazioni di sacerdoti, religiosi e religiose e operatori pastorali, secondo quanto ha affermato san Giovanni Paolo II dicendo ‘le parole dell’Occidente hanno bisogno delle parole dell’Oriente perché la Parola di Dio manifesti sempre meglio le sue insondabili ricchezze. Le nostre parole si incontreranno per sempre nella Gerusalemme del cielo, ma invochiamo e vogliamo che quell’incontro sia anticipato nella Santa Chiesa che ancora cammina verso la pienezza del Regno”.

Alessandro Notarnicola

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Una via nel nuovo polo universitario dedicata al primo rettore veronese (Veronasera.it 16.06.16)

Una via nel nuovo polo universitario dedicata al primo rettore veronese

Si è svolta questa mattina, 16 giugno, la cerimonia di intitolazione di una nuova via a Hrayr Terzian, medico neurologo e primo rettore dell’Università di Verona. La via è situata nella nuova area di circolazione, posta tra via Campofiore e via dell’Università, creatasi all’interno della recente lottizzazione caserma Passalacqua.
La targa è stata posta in occasione del 33° anniversario della nomina di Terzian a rettore dell’ateneo scaligero, nel 1983, l’anno successivo al riconoscimento dell’autonomia dell’Università di Verona, avvenuta con il distaccamento dall’ateneo patavino nel 1982.
Presenti alla cerimonia il Sindaco Flavio Tosi, il rettore Nicola Sartor, il vice presidente della Provincia Andrea Sardelli, l’assessore ai Servizi demografici Alberto Bozza, la presidente della 1ª Circoscrizione Daniela Drudi, il presidente dell’Unione degli Armeni d’Italia Minas Lourian, l’autrice delle memorie biografiche di Terzian Antonia Arslan, la vedova di Terzian Giuliana Ferri con la figlia Emanuela, oltre a numerosi rappresentanti delle istituzioni civili e religiose cittadine.

“La scelta di dedicare una via, all’interno di quello che sarà il campus della nostra Università, a uno dei padri fondatori del nostro prestigioso ateneo è più che mai appropriata – ha detto il Sindaco – un riconoscimento doveroso anche nei confronti della comunità armena presente a Verona e in Italia, una comunità che mantiene salde le proprie radici e, nonostante le vicissitudini passate, ha saputo imporsi per capacità ed intelligenza”.
Il rettore Sartor ha espresso “gratitudine all’Amministrazione comunale per aver proposto questa intitolazione che onora la nostra Università e testimonia il l’interazione e la positiva collaborazione tra l’ateneo e la città”. Sartor ha ricordato Hrayr Terzian come “un rettore che ha investito completamente la propria energia, il proprio entusiasmo e la propria lungimiranza a servizio dell’Università, facendola decollare verso quei progressi che fanno del nostro ateneo un punto di riferimento a livello nazionale”.
L’assessore Bozza ha sottolineato “lo sforzo, in questa fase di nuove intitolazioni, profuso dall’Amministrazione nel cercare di cogliere gli aspetti storici e civici più significativi per la nostra città, da legare alle moderne urbanizzazioni e riqualificazioni”.

CHI ERA HRAYR TERZIAN – Hrayr Terzian nacque ad Addis Abeba il 18 agosto 1925. Fu medico neurologo, professore di clinica neurologica, nonché direttore dell’istituto di neurologia. Figlio di armeni rifugiati in Etiopia durante la prima guerra mondiale in seguito al massacro e alla cacciata che la popolazione di quell’etnia subì dai turchi, ancora adolescente si trasferì in Italia per studiare presso il Collegio degli armeni a Venezia. Nel 1948 si laureò a Padova e iniziò a frequentare la clinica neurologica diretta da uno dei maggiori neurologi del Novecento, Giovanni Battista Belloni. La sua preparazione scientifica si arricchì a Londra nel reparto neurologico del National Hospital, a Marsiglia, dove apprese le frontiere più avanzate della neurofisiologia mondiale. La sua carriera universitaria iniziò a Padova come assistente, poi professore a Cagliari nel 1966 per approdare a Verona nel 1970 quando la facoltà di medicina era ancora un distaccamento dell’ateneo patavino. Fu insignito di alcuni premi, ottenne la presidenza della Società italiana elettroencefalografia e di neurofisiologia (1965 – 1968), fece parte – nel comitato scientifico – di importanti riviste internazionali. Nei diciotto anni della sua direzione, l’istituto di neurologia di Verona ha raggiunto una strutturazione moderna ed efficiente, acquisendo capacità di elaborazione culturale e di ricerca, che ne hanno permesso l’affermazione in ambito nazionale e internazionale; fu tra i primi a riflettere sulla gravità del fenomeno della tossicodipendenza, analizzandone cause e conseguenze sociali e organizzando in Clinica un centro di studio e assistenza per tossicodipendenti. Fu uomo attento agli aspetti sociali e politici della pratica medica; fondamentale fu l’incontro con Franco Basaglia con cui lavorò per la riforma della moderna psichiatria, ponendo al centro dell’agire medico il rispetto per il malato. Quando, nel 1982, l’Università di Verona divenne autonoma, ne fu il primo Rettore, capace di una visione progettuale della ricerca che fece la fortuna del neonato Ateneo. All’inaugurazione del primo anno accademico volle la presenza di Sandro Pertini, allora Presidente della Repubblica. Nella sua instancabile attività si è battuto per il ruolo centrale dell’Università come luogo di elaborazione e diffusione del sapere, come comunità plurale nella quale si creano e si consolidano le basi del progresso culturale, tecnico, scientifico e sociale. Hrayr Terzian scomparve a Verona, per un aneurisma, nel 1988.

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Intitolata una strada al primo rettore: è Via Terzian (L’Arena 16.06.16)

Negazionismo, prevenire o reprimere? Di Marcello Flores (Gariwo.net 15.06.16)

È triste dover ritornare ancora una volta sul reato di negazionismo, ma l’approvazione recente alla Camera, dopo che il Senato aveva già approvato dal canto suo una versione rivisitata del decreto che da anni gira tra le due sedi parlamentari, impone un commento. Che non può che essere totalmente negativo.

Sembra quasi che non si sia voluto fare tesoro delle discussioni che da anni hanno coinvolto storici e giuristi, non si sia ascoltato il parere e la testimonianza degli storici invitati alla Commissione Giustizia al Senato, ma si sia preferito accogliere la pressione della comunità ebraica e di tutti coloro che ritengono un dovere morale protestare contro la circolazione di posizioni aberranti e pericolose.
Quello che i promotori della legge non sembrano capire è che proprio questa legge crea una serie di pericoli di non poco conto, spingendo la magistratura a intervenire nel giudizio storico su temi e questioni che da sempre dividono gli stessi storici o gli stessi giuristi.

Questa legge, infatti, non introduce una pena (che varia da 2 a 6 anni, ben più di quanto accade negli altri paesi europei) solamente per chi nega la Shoah – che è l’oggetto della maggior parte delle leggi antinegazioniste europee – ma per chiunque fonda la propria istigazione, propaganda e incitamento di tipo razzista “in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra”, così come questi crimini sono definiti dallo statuto della Corte penale internazionale.

Se si fosse fatto riferimento alle “sentenze” dei tribunali internazionali (o anche nazionali, volendo), la negazione di genocidi o crimini di guerra o contro l’umanità avrebbe avuto una chiara indicazione, lasciando per il momento in sospeso la questione della libertà d’espressione, della ricerca e giudizio storico, dell’aberrazione di imporre verità di Stato che sono proprie solamente di regimi totalitari. Senza quel richiamo, e riferendosi invece allo “statuto” della Corte penale internazionale, quegli articoli compositi, complessi, in cui sono indicate una quantità di fattispecie criminose oggi riconducibili al genocidio o al crimine di guerra o contro l’umanità, rischiano di potere essere interpretati da qualsiasi magistrato in un modo arbitrario e al di fuori di una logica non solo storica, ma anche processuale. Nelle ultime sentenze dei tribunali internazionali vi sono stati spesso dei giudizi di dissenso di minoranza, a testimonianza che nemmeno tra quei giudici che da anni si occupano di questi crimini si riesce sempre a stabilire e a concordare cosa sia stato davvero un crimine di guerra o un genocidio, un crimine contro l’umanità o un “semplice” massacro.

Prendiamo i crimini di guerra: secondo la definizione dello Statuto, per quanto possa sembrare a uno studioso di questo settore come me che non è però un giurista ma uno storico, dovrebbero essere considerati crimini di guerra una quantità incredibile di azioni, dai bombardamenti sulle città inglesi o tedesche o giapponesi nella Seconda guerra mondiale a quelli nel Vietnam e via fino a molti di quelli commessi in Iraq e Afghanistan, dove sono stati civili le vittime innocenti di questi “danni collaterali”. Sappiamo anche che in molti – giuristi, storici, giornalisti, persone qualsiasi – ritengono che solo alcuni di questi siano stati crimini di guerra e non altri: toccherà a un qualsiasi giudice, probabilmente digiuno di storia, stabilire se Hiroshima e Nagasaki sono stati crimini di guerra e quindi non si può negarlo, se lo sono stati i bombardamenti col gas in Etiopia da parte dell’esercito italiano, se lo sono stati i bombardamenti israeliani a Gaza o quelli della Nato su Belgrado? Questo è ciò che questa legge permette, anche se possiamo tranquillamente ritenere che nessun giudice dotato di buon senso si avventurerà su questa china e si limiterà probabilmente, solo in qualche caso, a sanzionare la negazione della Shoah, creando immediatamente polemiche sul mancato utilizzo della legge per tutti gli altri crimini di genocidio, di guerra e contro l’umanità.

Da parte di qualcuno si sarebbe voluto, in effetti, che solo la Shoah fosse oggetto della legge, come avviene in molti Paesi europei; anche se non si possono dimenticare le leggi antinegazioniste contro i crimini del comunismo in alcuni Paesi ex-comunisti o quelle relative al genocidio armeno, in cui non è mai chiaro se a essere oggetto della repressione penale sia la negazione dell’uso del termine genocidio o la negazione del fatto storico avvenuto, e cioè dei massacri che hanno annientato oltre un milione e duecentomila armeni tra il 1915 e 1916.

Se i parlamentari che si sono impegnati tanto a lungo e così numerosi alla preparazione di una legge così ambigua, confusa e arbitraria che ha ricevuto una critica vastissima sia da parte di giuristi che di storici, si fossero impegnati a cercare di capire quali misure di tipo culturale, educativo, sociale sarebbero state opportune per cercare di limitare la diffusione del negazionismo soprattutto tra certi gruppi giovanili, quali esperienze in positivo si sarebbero potute fare nelle scuole o nei quartieri, attraverso la radio e la televisione, ne sarebbe venuto fuori probabilmente un elenco ricchissimo di potenzialità di contenimento reale al fenomeno del negazionismo. Con questa legge penale la società (in realtà la politica che si arroga di interpretare la società) si dovrebbe sentire rassicurata, perché c’è sempre il carcere pronto per chi dovesse infrangere la legge, e quindi autorizzata a non pensare più alle uniche e vere strategie di contrasto al negazionismo che potrebbero avere la possibilità di successo.

Se mai qualche magistrato dovesse prendere alla lettera questa legge e decidesse di incriminare qualcuno, si può stare certi che la battaglia – processuale, mediatica – si focalizzerebbe soprattutto sulla libertà di espressione, riuscendo così a dare ai negazionisti in questione la possibilità di ergersi a paladini del libero pensiero soprattutto se in questione dovessero esserci crimini su cui – e sono molti più di quanto si possa presumere – non c’è concordanza neppure tra esperti e studiosi.

Nel caso del negazionismo, più ancora che in tantissimi altri casi, la prevenzione dovrebbe prendere il sopravvento sulla repressione: avendo scelto la strada penale, invece, si abbandona di fatto qualsiasi strategia preventiva sul terreno dell’educazione, della cultura, della socializzazione. E questo è il guasto peggiore che questa legge difficilmente applicabile ha introdotto nella nostra vita sociale.

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