L’anniversario del genocidio armeno e l’ideologia degli autori. La riflessione di Cristiano (Formiche.net 24.04.24)

a lezione del genocidio armeno è attualissima e riguarda la deriva che i nazionalismi e l’esclusivismo etnico possono causare. Ecco che emerge un’urgenza. La Dichiarazione sulla fratellanza umana firmata ad Abu Dhabi da papa Francesco e dall’imam dell’università islamica di al-Azhar, Ahmad al Tayyeb, mira a porci al riparo anche da queste degenerazioni. La riflessione di Riccardo Cristiano

Quella del 24 aprile è una data importante per gli armeni e per il riconoscimento del loro genocidio, ancora negato dai turchi. Ricordarlo è importante anche per capirlo, e coglierne la lezione, sempre valida.

Nella storia delle terre che furono dell’impero ottomano c’è stata da subito confusione tra comunità religiosa e nazione. Lo dice la stessa della parola che fu assunta per tradurre questo vocabolo sconosciuto , “nazione”, introdotto in quei territori dalla spedizione napoleonica. Non esistendo, all’inizio fu usato il vocabolo “millet”, che indicava le comunità religiose che vivevano nell’impero ottomano. Ecco come mai nelle cronache del tempo si parla così di sovente di “nazione cristiana”. Tutto sommato all’inizio del Novecento l’indipendenza della Bulgaria fu proclamata in una chiesa, nella chiesa dei quaranta martiri. E anche l’indipendenza greca fu molto segnata dal fattore religioso, con transfer di cristiani e musulmani da un paese all’altro, per creare la nazionalista uniformità: per dire greci in Grecia, Turchia in Turchia si diceva basta minareti in Grecia, basta campanili in Turchia. Finiva un mondo problematico ma plurale.

Il sistema ottomano non era di certo un sistema perfetto, ma per molto tempo era stato preferibile a quello europeo che al tempo non prevedeva alcuna convivenza con l’Altro, tanto che sappiamo della triste storia delle espulsioni degli ebrei e dei mori dalla cattolicissima Spagna, tanto per fare l’esempio più noto. Gli ottomani invece rendevano ebrei e cristiani cittadini protetti dal Sultano e dai minori diritti (non pochi) ad esempio non potevano portare armi, che a quel tempo faceva una bella differenza. Nei secoli d’oro dell’impero, ben precedenti la spedizione napoleonica, quando ebrei e mori furono espulsi dalla Spagna, è lì, nell’impero ottomano che trovarono riparo, nello stupore del Sultano del tempo che non capiva come si potessero cacciare intere comunità così operose e affluenti. Poi la storia prese una piega diversa, l’impero entrò in un lento e inesorabile declino, i paesi europei invece progredirono, nel modo complesso che tutti conosciamo. La convivenza stratificata ottomana entrò in crisi, il nazionalismo si mostrò sempre più “etno-confessionale”: un Paese, un popolo, un’etnia, una fede: tutto veniva ridotto a uno. C’erano però due Armenie, una parte dell’impero persiano, poi passata in quello russo, l’altra di quello ottomano. I nazionalisti turchi presero il potere a Istanbul all’inizio del Novecento, il Sultano ormai non contava più, tutto fu nelle mani dei “Giovani turchi”: nazionalisti e, ovviamente, militari.

Ricordando la notte tra il 23 e il 24 aprile 1915, Kamal Yazigi ha scritto: “Nella notte tra il 23 e il 24 aprile del 1915 il governo turco arrestò centinaia di leader della comunità armena di Costantinopoli, la capitale dell’impero ottomano. Furono mandati in una prigione dell’interno anatolico, e condannati a morte. Le persone arrestate quella notte comprendevano i più autorevoli membri della comunità armena: figure politiche e religiose, intellettuali, e professionisti. Nello stesso giorno 5000 dei più poveri armeni furono massacrati nelle strade di Costantinopoli e nelle loro case. […] Attraverso la storia, popolazioni civili sono state spesso vittime della brutalità degli eserciti occupanti. Quando un gruppo sottometteva un altro gruppo, era pratica comune uccidere tutti gli uomini, civili e militari, del gruppo conquistato. I nomi di Attila e Gengis Khan vengono facilmente alla mente. Nel caso armeno comunque un segmento della popolazione è stato sistematicamente decimato dal suo proprio governo. Come ladri nella notte, i turchi hanno perpetrato i loro crimini sotto la copertura della guerra mondiale”.

Yazigi ricorda successivamente la storia dell’impero, del suo lento e inesorabile declino, del nazionalismo dei cristiani balcanici che erano nell’impero e degli arabi, anche loro sottomessi agli ottomani. Questo nazionalismo non era però diffuso tra gli armeni, anche perché loro erano sparsi nel vasto territorio imperiale. Ci furono però, sul finire dell’Ottocento, alcune formazioni nazionaliste e separatiste, The Armenian Revolutionary Federation, o Dashnak, in particolare. A questo sia gli ottomani sia russi risposero con la repressione, più dura in Turchia. Ma il proposito genocidiario emerse più avanti, con i Giovani Turchi sulla base di un preciso impianto ideologico: i Giovani Turchi avevano reso il nazionalismo importato dall’Europa xenofobo, invocavano uno Stato la cui popolazione fosse soltanto etnicamente turca. Questo ai loro occhi giustificava la scelta di liquidare gli armeni. I capi che guidavano il governo del tempo sono noti: Mehmet Talaat e Ismail Enver.

Per realizzare i necessari massacri fu creato un apposito battaglione, costituito di “violenti criminali comuni” che ottennero in cambio la liberazione dalle patrie galere. I turchi che protessero gli armeni perseguitati furono uccisi anch’essi.

Il genocidio armeno ha introdotto una novità importante rispetto alla storia precedente: la deportazione. Agli armeni anatolici venne detto che sarebbero stati ricollocati in altro territorio imperiale, quindi costretti a marciare verso il deserto siriano. Lungo il tragitto molti maschi adulti e ragazzi venivano legati insieme, gettati in un fiume e il primo della catena ucciso con un colpo d’arma da fuoco: affogando avrebbe trascinato anche gli altri alla morte per annegamento. Le donne con i bambini invece marciavano in colonne sperate, a loro in molti casi veniva negato il cibo e l’acqua. Nè sono mancati, prima della morte, casi di stupro.

Tra il 1920 e il 1923 il genocidio venne portato avanti da un altro governo nazionalista, che aveva scalzato i Giovani Turchi, ma condivideva la loro ideologia di esclusivismo etnico.

La lezione del genocidio armeno è attualissima e riguarda la deriva che i nazionalismi e l’esclusivismo etnico possono causare. Ecco che emerge un’urgenza. La Dichiarazione sulla fratellanza umana firmata ad Abu Dhabi da papa Francesco e dall’imam dell’università islamica di al-Azhar, Ahmad al Tayyeb, mira a porci al riparo anche da queste degenerazioni con l’idea di comune cittadinanza, una realtà evidente per molti contemporanei ma che stenta a diventare realtà. L’Altro, anche nel nostro contesto nazionale, è una ricchezza, non un problema. Quel Documento apre le porte a una società post confessionale (prospettiva importantissima per il mondo musulmano ma non solo) e post secolare (prospettiva decisiva per l’Europa): una società cioè che si basi sulla non confessionalità o anticonfessionalità dello Stato e quindi sul reciproco apprendimento. Sarebbe ora di proporre che quel Documento diventi un Prologo alla Dichiarazione Universale dei Diritti umani.

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Brancaleone, domani il nuovo Tour esperienziale alla scoperta della Valle degli Armeni (IlReggino 24.04.24)

L’iniziativa per commemorare l’odierno anniversario (24 aprile 1915) del genocidio dimenticato, seguendo le tracce da questo antico popolo in Calabria

Brancaleone, domani il nuovo Tour esperienziale alla scoperta della Valle degli Armeni

(Foto di Carmine Verduci) – In alcune località calabresi, tra le quali il parco archeologico urbano di Brancaleone Vetus nel reggino, oggi la bandiera armena ha sventolato accanto a quella Italiana e quella Europea. Un segno di vicinanza ad un popolo che ancora sfida l’oblio della Storia, vittima del genocidio iniziato proprio il 24 aprile 1915, durante la Prima guerra mondiale. Il primo genocidio del Novecento e anche il massacro del primo popolo Cristiano della storia. Un dramma negato e dimenticato, con un milione e mezzo, come numero massimo ipotizzato, di vittime.

L’anima armena della Calabria

Un popolo che conobbe la persecuzione anche prima del Novecento, durante la nuova ondata anti cristiana di siriani e turchi islamizzati, verso la fine dell’VIII secolo d. C. . Fu allora che gli Armeni discesero l’Italia e, lungo la costa Ionica, arrivarono in Calabria, rifugiandosi sulle alture. Pare che un gruppo si fosse raccolto in solitaria preghiera tra le montagne – secondo le regole del monachesimo orientale diffusosi anche in Armenia grazie all’opera di San Basilio – per sfuggire alle incursioni degli arabi provenienti dal mare. Qui coltivarono usi e tradizioni religioseIntrapresero attività agricole come la vinificazione, con la creazione di veri e propri silos per custodire le derrate alimentari. Di queste ultime tracce esistono ancora tra i ruderi di Brancaleone Vetus, a Reggio Calabria.

Segni significativi di questo passaggio sopravvivono oggi nella toponomastica (la Discesa Armena a Bova o la Rocca Armena a Bruzzano Zeffirio). E anche nell’onomastica e nell’archeologia negli attuali comuni di Ferruzzano, Bruzzano Zeffirio, Brancaleone Vetus e Staiti, territori in cui palpita la memoria della Valle Armena.

In particolare la Rocca Armena custodisce in una grotta segni di celebrazioni religiose tipiche della cultura del più antico popolo Cristiano. Tra i ruderi di una chiesa rupestre, probabilmente unica nel suo genere a queste latitudini e di cui ne esisterebbe una simile solo in Georgia, vi sono i resti di un antico altare. Sul muro di antica arenaria, è possibile ancora intravedere una Croce armena e un Pavone adorante, caratteristici della cultura armena.

Alla scoperta della Valle Armena

«Anche quest’anno – ha spiegato Carmine Verduci, fondatore e segretario della comunità Armena di Calabria – Kalabria Experience e la comunità Armena di Calabria propongono, in concomitanza con la commemorazione delle vittime del genocidio armeno e con la partecipazione delle pro loco di Brancaleone, Staiti e Bruzzano Zeffirio, un tour esperienziale alla scoperta della “Valle degli Armeni”.

Il nostro viaggio inizierà con il ritrovo domattina alle ore 8:30 in piazza stazione a Brancaleone. Attraverseremo secoli di storia e vicissitudini, dalle prime colonie Greche al passaggio degli Armeni che in questo territorio. Qui vi sono tracce indelebili che da tempo ormai siamo impegnati a valorizzare e a raccontare. L’itinerario comprende una visita al Parco Archeologico Urbano di Brancaleone Vetus, con il sito storico-archeologico, la grotta-chiesa dell’Albero della Vita, icona indiscussa della cristianità Armena Calabrese.

 

Poi a Bruzzano Zeffirio raggiungeremo la leggendaria la Rocca degli Armeni e la visita al complesso fortificato del castello ed il meraviglioso Arco trionfale dei Principi di Carafa.

Il tour quest’anno si concluderà a Staiti, il comune più piccolo della Calabria. Qui visiteremo il Museo dei Santi Italo-Greci, la Chiesa di Santa Maria della Vittoria e il borgo di Staiti. Nel pomeriggio sarà l’Abbazia di Santa Maria di Tridetti a fare da cornice al cerimoniale in memoria dei Martiri del Genocidio Armeno. All’interno dell’edificio del XII secolo, dalle caratteristiche architettoniche uniche e rare, si procederà con l’accensione del braciere della memoria. Parteciperanno i rappresentanti della comunità Armena di Calabria e delle Istituzioni», ha spiegato ancora Carmine Verduci.

L’eco della Valle Armena del reggino

Il richiamo di questa Valle nel reggino è di ispirazione e, in un crescendo, alimenta sinergie virtuose.

«Nelle scorse settimane la Pro Loco di Brancaleone ha ricevuto in dono un modello in scala del complesso storico-monumentale di Rocca Armenia di Bruzzano Zeffirio, nel reggino. Esso è stato realizzato dal laboratorio Officina Medi_ter dell’università Mediterranea di Reggio Calabria. Gli studenti del corso integrato di Disegno e rilievo dell’architettura sono stati guidati da Gaetano Ginex. Prossimamente la esporremo per renderlo fruibile.

In occasione della prossima festa dell’albero in novembre pianteremo nel parco archeologico urbano di Brancaleone Vetus un fico e due albicocchi (Prunus armeniaca), espressione della cultura armena. Ci sono stati dal gruppo Italia nostra Paolo orsi di Soverato-Guardavalle.

E ancora il maestro iconografo messinese Paolo Lanza prossimamente donerà alla nostra comunità armena l’effigie della Madre di Dio, ispirata a all’icona ritrovata miracolosamente a Kazan nel 1579, fra le rovine di una casa bruciata. Secondo la tradizione, fu rinvenuta da una fanciulla di nome Matrona. A lei la Vergine Maria era apparsa ripetutamente per indicare il luogo del ritrovamento. Oggetto di devozione popolare e considerata prodigiosa, l’icona fu poi portata da Kazan a Mosca». Così ha concluso il presidente di Kalabria Experience e della pro loco di Brancaleone, nonché fondato della comunità armena di Calabria, Carmine Verduci.

Affinità “poetiche” nel segno di Yeghishe Charents

«La politica editoriale perseguita nei 20 anni di storia da Leonida Edizioni è stata segnata dall’apertura verso altri popoli e altre culture. In particolare abbiamo instaurato negli anni scorsi fruttuosi rapporti con due paesi del territorio caucasico: la Georgia e l’Armenia.  Due paesi distanti dal nostro solo dal punto di vista geografico perché, invece, molto vicini per affinità culturali.

Questo rapporto di collaborazione si è sviluppato attraverso la pubblicazione in lingua italiana dei libri di autorevoli rappresentanti del mondo della cultura di quei paesi.  Tra questi il poeta armeno Yeghishe Charents.  Per primi in Italia abbiamo pubblicato in lingua italiana la sua opera in tre volumi». È quanto ha spiegato il direttore editoriale Domenico Polito, in occasione del recente ventenalle della casa editrice Leonida.

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Il silenzio mediatico sul genocidio degli armeni (Articolo21 24.04.24)

Quasi 100 anni fa i Giovani Turchi guidati dal “padre della patria” Ataturk sterminavano 1milione e 500 mila cattolici Armeni su 2 milioni, anche con l’aiuto di ufficiali prussiani.
In Turchia ancora oggi la legge punisce severamente chi osa parlare di genocidio armeno.
Lo scrittore Premio Nobel (2006) Orhan Pamuk per averne scritto dovette rifugiarsi in esilio, sfuggendo alle ire del “dittatore democratico” Erdogan, quello che pur stando nella Nato, sta sterminando i Curdi(grazie ai quali è stato sconfitto il Califfato islamico in Siria e in Iraq) e riceve con tutti gli onori i capi del gruppo terrorista Hamas, solidarizzando per la loro lotta contro Israele “massacratore”.
Nel 2023 gli Armeni superstiti del Nagorno Karabak, 130 mila, dopo giorni di scontri armati, dovettero fuggire verso l’Armenia indipendente per non essere massacrati dagli islamici dell’Azerbaigian.
Negli scontri morirono decine di migliaia di Armeni.
Vivevano in quelle regioni pacificamente da alcuni millenni, ben prima della predicazione di Maometto.
Solo Papa Francesco ha commemorato questo genocidio e pregato per gli ultimi rifugiati, nell’ignavia dei paesi occidentali e dell’Unione Europea.
Nessuna manifestazione è stata organizzata dagli studenti e dalla società civile per questo ultimo massacro o per commemorato lo sterminio del 1915.
Come accusa Papa Francesco questo silenzio “è una vergogna”.
Credo che l’assenza della Memoria e dello studio della Storia siano due “cattive maestre”, che producono solo demagogia e ingiustizia. Specie tra le nuove generazioni.

Genocidio armeni, 109 anni da massacro nascosto dalla Turchia/ Erdogan vieta manifestazione sul “Grande Male (Ilsussidiario 24.04.24)

I 109 ANNI DAL “GRANDE MALE”, IL GENOCIDIO DEGLI ARMENI: COSA SUCCESSE E PERCHÈ VENNE NASCOSTO

Nella notte del 24 aprile 1915 l’Europa conobbe il primo vero genocidio del XX secolo. Peccato che per “scoprirlo” ci vollero anni visto che prima l’Impero Ottomano e poi la nuova “laicissima” Turchia di Kemal Ataturk fecero di tutto per nascondere la deportazione e il massacro di 1,5 milioni di cittadini armeni cristiani. Il Genocidio degli Armeni (e anche delle altre minoranze greche e assire) tra il 1915 e la fine della Prima Guerra Mondiale nel 1918 è uno degli orrori più grevi del Novecento, usato poi come “modello” dai nazisti con la Shoah ebraica ma anche dalle politiche genocidiarie della Russia sovietica.

Gli armeni lo chiamano “Medz Yeghern”, il Grande Male e ogni anno il 24 aprile dovunque si trovino nel mondo si ritrovano in lunghe processioni e commemorazioni per “tornare” a quella tragica prima notte di deportazione: in piena crisi per la guerra che stava andando molto male per gli ottomani, il Governo dei “Giovani Turchi” – frangia estremista del partito “Unione e Progresso” – ordinò la deportazione e il massacro della minoranza armena cristiana, confiscando terre e beni esattamente come “ripeteranno” pochi anni più tardi le SS e la Gestapo naziste in mezza Europa contro i cittadini ebrei. Ufficialmente “spostati” verso fuori dalla Turchia, realmente morti di fame, sfinimento, esecuzioni nei circa 2 anni di deportazione fisica di donne, anziani e bambini armeni. Per il resto, la pratica che tutti possiamo immaginare: la classe media giovane, politici, intellettuali, artigiani, insegnanti e anche giornalisti vennero uccisi o arrestati. Un popolo intero in fuga dalla furia cieca del totalitarismo islamista: sono passati 109 anni ma per fortuna molti testimoni – più che altro parenti e discendenti di testimoni diretti – non cessano di raccontare alle giovani generazioni cosa avvenne in Turchia contro gli Armeni a partire dalla notte del “Medz Yeghern”.

ERDOGAN SCRIVE AGLI ARMENI “NON VI DISCRIMINIAMO”, MA INTANTO VIETA MANIFESTAZIONE IN MEMORIA DEL GENOCIDIO

La Turchia non ha mai riconosciuto il Genocidio degli Armeni, né allora, né finita la guerra, né oggi: addirittura la legge turca prevede un reato se solo si fa cenno dell’esistenza di una strage di armeni tra il 1915 e il 1918. «Una volontà di negare, perché in qualche modo l’orgoglio nazionale turco che hanno cercato di coltivare dal tempo della presa di potere da parte di Kemal Atatürk è sempre stato centrato su di un insegnamento che viene fatto ai bambini sin dalle scuole elementari: “siamo un popolo straordinario, che non potrebbe mai commettere una cosa del genere», così raccontava a “Tempi” in una intervista nel 2019 la scrittrice Antonia Arslan in merito al mancato riconoscimento della Turchia anche moderna sul Genocidio degli Armeni.

Istanbul storicamente parla di un complotto armeno internazionale nel denunciare i fatti compiuti dai “Giovani Turchi”, ma nel corso dei decenni – con estrema lentezza, purtroppo – la comunità internazionale ha man mano riconosciuto in molti casi le atrocità commesse dalle frange estremiste ottomane. Molti ma non tutti e sopratutto mai dalla Turchia di Erdogan che anzi da anni minaccia alleati e non di sanzioni e ritorsioni qualora riconoscano il genocidio. Il Presidente Erdoğan in un messaggio inviato a Sahak Maşalyan, patriarca armeno di Türkiye, per il 24 aprile 2024 rivendica che la Turchia moderna «non permette e non permetteremo che nemmeno un singolo cittadino armeno venga emarginato, escluso o si senta di seconda classe nella sua patria». Peccato che non parli di genocidio ma di “fatti del 1915”, aggiungendo come la continuazione del clima di pace e tranquillità «ereditato dai nostri antenati può essere possibile solo con i nostri sforzi congiunti». La Turchia non discrimina, ufficialmente, eppure appena poche ore prima la prefettura di Istanbul non ha concesso il permesso per una manifestazione organizzata da una ong armena (“Piattaforma 24 aprile”) per ricordare l’anniversario dei 109 anni dal genocidio: «Riteniamo che il divieto imposto sul nostro evento commemorativo, senza peraltro alcuna giustificazione, sia un passo anti democratico», attacca il responsabile della ong che dal 2010 al 2019 è riuscita a organizzare la commemorazione. Lo stop per Covid e le ultime censure in questi anni hanno impedito il proseguire di tali manifestazioni per il genocidio meno “sponsorizzato” dalla Turchia e dalla comunità internazionale.

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Messaggio del Patriarca Minassian ai giovani: “Dopo gli orrori siete voi la nuova generazione che resisterà” (SIR 24.04.24)

Si commemora oggi, 24 aprile, il Genocidio degli armeni, una delle più oscure pagine della storia del ‘900, tra le meno conosciute e dimenticate. Tra il 1915 e il 1916, gli armeni subirono uno sterminio di 1,5 milioni di persone. Deportati nei deserti della Siria, massacrati, affamati, assetati, madri, figli e neonati.  Non ci fu pietà. Sua Beatitudine Raphael Bedros XXI Minassian, Patriarca di Cilicia dei cattolici armeni, ha deciso quest’anno di rivolgersi ai giovani

Raphael Bedros XXI Minassian, Patriarca di Cilicia dei cattolici armeni (Foto SIR)

“È vero che hanno cercato di sterminare, è vero che un milione e mezzo di persone sono state martirizzate per la loro fede cristiana, ed è vero che sono stati deportati nei deserti della Siria dove hanno trovato la loro morte in un’imboscata, affamati, assetati, madri, figli e neonati. E’ vero che hanno subito tutto questo male. Ma sono come l’albero degli ulivi che quando s’invecchia, lascia nascere dalle radici il nuovo albero che dà frutta, una frutta fresca e più gustosa”. In questo giorno, 24 aprile, in cui gli armeni – in patria e in diaspora  – fanno memoria dei martiri del Genocidio armeno, Sua Beatitudine Raphael Bedros XXI Minassian, Patriarca di Cilicia dei cattolici armeni, si rivolge ai giovani. “Così dopo gli orrori e la desolazione del Genocidio del 1915, siete voi la nuova generazione figli e nipoti dei martiri”, scrive nel messaggio. “Siete la rinascita e crescita. Le esperienze passate vi rendono più forti e saggi. Siete voi che affronterete le sfide future con maggior consapevolezza e determinazione”.

Tra le innumerevoli tragedie che hanno segnato la prima guerra mondiale, una delle più grandi e meno conosciute è quella dello sterminio della popolazione armena. Fu una strage di dimensioni enormi, per decenni coperta dall’oblio. Le deportazioni e le eliminazioni furono perpetrate tra il 1915 e il 1916 e causarono circa 1,5 milioni di morti. Nel suo viaggio in Armenia, nel giugno del 2016, Papa Francesco – il primo papa a parlare esplicitamente di “genocidio armeno” – fece visita al memoriale del “medz yeghern”, il “grande male” come viene chiamato in Armenia), situato in cima al colle di Tzitzernakaberd, la “Fortezza delle Rondini”, che sovrasta Yerevan. Qui il Papa dopo aver deposto dei fiori al centro del mausoleo circolare dove arde la “fiamma eterna”, si è fermato a pregare per le vittime del massacro.

Papa Francesco partecipa all’incontro ecumenico e alla preghiera per la pace nella Piazza della Repubblica (Yerevan, 25 giugno 2016)

Ma lo sguardo oggi della Chiesa cattolica armena punta al futuro e ai giovani. “Come gli ulivi che continuano a produrre frutti – scrive Minassian – anche voi continuerete a dare il meglio di voi stessi con un nuovo spirito di Fede cristiana. Metterete radici solide e crescerete con fiducia e resilienza. Siete Voi il nuovo albero, la nuova generazione che resisterà a tutte le persecuzioni e problemi della vita”. “Le nuove generazioni hanno il potere oggi di rompere il ciclo di violenza e ingiustizia, di diffondere l’amore e la compassione di Cristo in un mondo spesso caotico e spietato. Possono essere la luce della fede cristiana che brilla nelle tenebre, la speranza che sostiene che sostiene coloro che sono oppressi e privati dei loro diritti”. Nel messaggio, il Patriarca addita ai giovani due esempi di vita, il Beato Maloyan che ha testimoniato “Gesù con l’effusione del suo sangue e vita” e il card. Gregorio Agagianian, servo di Dio, salvato dal Genocidio. “Siate fieri di questi modelli e copiate il loro esempio”. “Sono certo che di fronte alle avversità, al male inspiegabile e a una storia  dolorosa e sanguinosa, occorre dilatare il nostro cuore nella speranza in Dio. La Speranza in Dio è la nostra Bandiera nazionale. Non piangete per il passato ma ricordatelo sempre per non ricadervi mai più. Non piangete per i nostri sacrifici perché sono stati offerti per amore a Dio, al contrario, siate orgogliosi di appartenere a  un’identità cristiana armena, che nessuna violenza può sottrarre. Fieri ed orgogliosi perché nonostante lo sterminio, oggi siamo ancora qui e abbiamo una Patria Madre, Hayastan”.

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«A 5 anni sapevo indossare un elmetto»: la guerra sconosciuta dei 20enni armeni in Nagorno-Karabakh (Corriere della Sera 24.04.24)

«E se dovessi descriverlo con una parola?»

«Calore. Ma non come quello del sole, o di una coperta. Calore come quello che senti passando da una stanza fredda ad una stanza calda, come quello di un tè quando hai freddo, di un abbraccio quando sei triste». Hrant parla del suo paese di origine con la delicatezza di un adulto, ma di anni ne ha 23. Le sopracciglia sono scure e spesse, le ciglia lunghe e corpose; gli occhi, del colore della terra che evoca, sembrano mancare proprio di quel calore: il suo sguardo è un racconto di nostalgie che non commuovono più.

I tratti del volto sono quelli tipici del suo popolo, gli armeni. Lui è nato e cresciuto in Nagorno-Karabakh, letteralmente «nero giardino dei monti», una regione separatista, autoproclamatasi Stato, situata tra Armenia e Azerbaijan. Azera di fatto, armena di composizione, ricca di giacimenti d’oro. Anche se quasi sconosciuta, è vicina: si trova alle porte d’Europa, in quella terra di mezzo che è il Caucaso, un Caronte geografico che traghetta merci e persone tra Oriente e Occidente. Dai tempi di Stalin, il Nagorno trascina con sé una storia infausta e complicata: nel 1923, nonostante una base demografica a stragrande maggioranza armena, venne incluso dal dittatore nei confini dell’Azerbaijan, un tentativo di aumentare le tensioni etniche e di evitare la coalizzazione contro il regime sovietico centrale. I risultati sono quelli desiderati e tra i due Stati anno dopo anno è un crescendo di episodi di violenza, fino ad arrivare allo scoppio di una prima guerra nel 1992, vinta dall’Armenia con un bilancio di 30 mila vittime, e di un’altra nel 2020, in cui prevale la parte azera: i morti sono oltre 5 mila.

«Io sono la mia guerra»

Hrant, nella seconda, indossava la divisa: esile e sbarbato, ha un’aria fragile e un sorriso timido; sembra un bambino che ha giocato a travestirsi da soldato. Partito da Chartar, il suo villaggio, ha passato 44 giorni con un berretto mimetico calcato in testa, la visiera ad ombreggiargli il volto. Arruolato volontario: perché, Hrant? Solleva gli occhi pensieroso. «Per rispetto. Non c’è una sola famiglia in Artsakh (nome armeno del Nagorno-Karabakh, ndr) che non sia collegata alla guerra. Tutti hanno perso qualcuno, è loro diritto continuare a vivere dove sono nati». Di fatto, non è così: a partire dal 19 settembre 2023 gli abitanti del Nagorno, 120.000 persone, sono fuggiti per rifugiarsi in Armenia. Dopo aver isolato e affamato l’area per mesi bloccando il corridoio di Lachin, unica via di accesso, gli azeri hanno sferrato un violento attacco durato un solo giorno, che ha causato un esodo di massa e fatto lanciare dall’Onu appelli di aiuto alla comunità internazionale.

«Perdere la tua terra di origine è come perdere qualcuno che ami. Ѐ lì che risiedono tutti i tuoi ricordi, è lì che hai passato l’infanzia: l’essenza delle cose sta nella loro memoria, ma anche quella svanisce. Per questo provo un dolore impossibile da curare». La ferita aperta in Nagorno non si è mai cicatrizzata: da quattro generazioni l’odio etnico concima il terreno del giardino, quasi il nero del nome fosse un presagio: «Le persone vivono la guerra, sono parte di essa. E così i loro figli: i bambini di cinque anni sanno indossare un elmetto, un’uniforme. E il brindisi degli anziani è “Ai nostri ragazzi, che non vedano mai quello che abbiamo visto noi”». Quando Hrant termina di parlare, ha gli occhi che si sono mantenuti asciutti. «I miei sentimenti sono congelati. Non provo più emozioni, non sono né triste né felice, non riesco a ridere o piangere come prima. Ma non voglio impietosire nessuno: desidero solo che si parli di questa situazione».

«A 5 anni sapevo indossare un elmetto. Ora non ho più sentimenti»: la guerra sconosciuta dei 20enni armeni

Anahit, prigioniera del Giardino

Anahit concorda: per questo ha scelto di studiare giornalismo. Ha 21 anni e anche lei è nata in Nagorno, a Togh. «Ora vivo a Yerevan, mi sono trasferita con l’aiuto della Croce Rossa a settembre. Penso spesso al mio villaggio; ricordo il grande gelso in giardino, le gare con mia sorella per scalarlo». Forse, lì accanto spiccava anche il colore vivace delle albicocche armene, così rappresentative del paese che gli azeri hanno boicottato i container destinati all’esportazione. A quell’arancio brillante si è sostituito il marrone slavato degli scatoloni di aiuti umanitari, al succo dolce che colava tra le dita, appiccicoso tra i polpastrelli, il sapore incolore del pane distribuito durante i razionamenti: Anahit era prigioniera del suo stesso Paese, un giardino all’ombra d’Europa, perennemente nascosto, invisibile ai vicini. Durante le ore in coda per approvvigionarsi, in piedi, seguiva le lezioni on-line: «Ogni volta speravo di tornare a casa avendo imparato qualcosa di nuovo, e con del cibo. Ma la connessione era terribile, sentivo a malapena il professore, e spesso quando arrivava il mio turno avevano esaurito gli alimenti».

Oggi, i villaggi di Hrant e Anahit sono irraggiungibili: dal primo gennaio 2024, il Nagorno-Karabakh ha cessato ufficialmente di esistere ed è pienamente sotto il controllo azero. Svuotato, come un albero preso di peso con le sue radici e trapiantato. In Artsakh, non c’è più nessuno. La terra è inanimata, cristallizzata in una memoria collettiva sospesa: vera solo per coloro che ci hanno vissuto, aleggia nei ricordi di chi su quell’erba si è rotolato da bambino, di chi su quegli alberi si è arrampicato. Come sul grande gelso nel giardino di Anahit: «A volte — dice lei — lo vedo ancora nei miei sogni».

Il conflitto in breve: le tappe

  • 1923: Stalin dichiara il Nagorno-Karabakh un oblast (provincia) autonomo dell’Azerbaijan, nonostante sia abitato al 94% da popolazione armena. Divide et impera: iniziano le tensioni etniche tra armeni e azeri
  • Gennaio 1992-marzo 1994: prima guerra del Nagorno-Karabakh, terminata con la vittoria armena. Lo scontro causa 30mila morti
  • Settembre-novembre 2020: la seconda guerra del Nagorno-Karabakh, detta «dei 44 giorni», si conclude a favore degli azeri. Il bilancio è di oltre 5mila vittime
  • 12 dicembre 2022: presunti attivisti ambientali azeri bloccano il corridoio di Lachin, unica strada che collega il Nagorno all’Armenia. La regione è isolata: chiudono le scuole, il cibo è razionato, i medicinali sono irreperibili
  • 19 settembre 2023: Baku lancia un’offensiva militare «antiterroristica» per annientare il «regime illegale» armeno. Stepanakert, la capitale, viene bombardata: inizia l’esodo di massa dei civili, presidenti e primi ministri vengono arrestati e deportati nelle carceri di Baku

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A 109 anni dal genocidio armeno, la storia rischia di ripetersi (Tempi 24.04.24)

L’Azerbaigian, sostenuto da Turchia e Russia, prosegue la sua politica per distruggere l’Armenia. Oltre a minacciare l’invasione, Baku cancella il patrimonio storico-culturale armeno in Artsakh

Commemorazione del genocidio armeno a Erevan, capitale dell'Armenia
Commemorazione del genocidio armeno a Erevan, capitale dell’Armenia (Ansa)

A 109 anni dal genocidio armeno, l’alleanza russo-turca è di nuovo fiorente. Il Cremlino ha aiutato il regime autocratico dello stato satellite della Turchia a espellere tutti gli armeni dall’Artsakh (Karabakh), ricevendo come ricompensa legami economici più profondi con Baku per aggirare le sanzioni occidentali durante l’invasione dell’Ucraina.

La Russia inganna l’Europa grazie agli azeri

A sua volta, Baku intensifica i legami commerciali ed economici con i paesi dell’Unione Europea, vendendogli il gas russo e i propri prodotti, ora comprese anche le risorse sottratte agli armeni del Karabakh. L’Italia è tra i primi partner commerciali dello Stato neo-turco.
Allo stesso tempo, sullo sfondo di dichiarazioni allineate di Mosca e Baku, l’Azerbaigian continua la sua politica anti-armena su diversi livelli: a seguito della pulizia etnica nell’Artsakh, il dittatore Ilham Aliyev ha inventato un nuovo progetto, intitolato “ritorno all’Azerbaigian occidentale”, (titolo anche delle olimpiadi scolastiche in Azerbaigian, con le quali i bambini azeri vengono indottrinati nell’odio nei confronti degli armeni).

Grandi maestri nel copiare, deformare e falsificare i nomi delle località geografiche (ricordiamo che il termine stesso “Azerbaigian” è stato copiato dal nome della provincia settentrionale iraniana), i politici della dittatura azera, ora come ritorsione al concetto di “Armenia occidentale”, hanno iniziato a far circolare la nozione fittizia di “Azerbaigian occidentale”.

Baku vuole occupare l’Armenia

Denominano così l’intera territorialità corrente della Repubblica d’Armenia, accennando a una nuova aggressione, volta a conquistare l’intera Repubblica democratica. Questo non è altro che un piano terroristico contro uno Stato sovrano confinante. Mentre l’Armenia riconosce l’integrità del suo vicino, l’Azerbaigian non solo non ricambia, ma prolunga la detenzione illegale di prigionieri di guerra e civili armeni nelle carceri di Baku, oltre che la demolizione sistematica del patrimonio cristiano-armeno (mondiale e dell’umanità) nell’Artsakh.

Il 18 aprile scorso si è conclusa la missione congiunta del centro di monitoraggio russo-turco ad Akna. Così è conclusa la deportazione della popolazione autoctona dell’Artsakh e la consegna dei suoi territori all’Azerbaigian, compito che Mosca e Baku non erano riusciti a realizzare nella prima guerra del Karabakh, pur avendo impiegato contro gli armeni, tra l’altro, 3.500 mujaheddin, centinaia di kazaki, combattenti del movimento islamico dell’Uzbekistan, forze della confederazione dei popoli del Caucaso, oltre che mercenari ceceni e ucraini.

È proprio in questo contesto storico-culturale, che il ministero degli Esteri russo dichiara sfacciatamente che la base militare 102 e le guardie di frontiera russe sarebbero «l’unica garanzia della sovranità dell’Armenia».

Riparte il genocidio culturale

La settimana scorsa il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha avviato concessioni unilaterali dei cosiddetti villaggi “storici azeri” nella regione armena di Tavush, sullo sfondo di un pronunciato risentimento e manifestazioni popolari contrarie; allo stesso tempo, le questioni del ritorno degli armeni in Artsakh e della salvaguardia del patrimonio storico-culturale armeno sembrano sempre più ignorati. Al momento esistono oltre 4.000 siti storico-culturali rimasti “prigionieri” in uno stato autocratico non nuovo a operazioni di genocidio culturale. È iniziata la distruzione o la snaturalizzazione sistematica di monasteri, cimiteri, fortezze e monumenti cristiani armeni, che possono essere riscontrati attraverso sistemi satellitari.

Sono visibili, via Google Maps, siti rappresentanti la presenza storico-culturale armena interamente rasi al suolo o eradicati. Ne sono esempi il villaggio di Karin Tak (nell’immagine sottostante il prima e il dopo) ormai cancellato dalla mappa, la chiesa di S. Giovanni Battista a Shushi, conosciuta anche come “Chiesa verde” (Kanach zham) , scomparsa nell’arco di qualche mese. Il regime barbaro non ha risparmiato neanche le statue di importanti figure culturali, quali il grande chansonnier armeno-francese Charles Aznavour, lo scrittore armeno Khachatur Abovyan a Stepanakert – forse a testimoniare il livello di integrazione e multiculturalismo nello stile dittatoriale, per il quale la first lady dell’Azerbaigian, Mehriban Aliyeva, era stata denominata “Ambasciatrice di buona volontà dell’Unesco”. Va da sé che particolare attenzione è rivolta alla rapida abolizione di qualsiasi simbolo dello stato e della millenaria presenza armena.

Aliyev come Putin

Tutto ciò per giustificare l’occupazione delle terre del popolo autoctono dell’Artsakh davanti a un Occidente sempre più qualunquista, dove gli azeri battezzati come “nazione” da Joseph Stalin in una parodia di multietnicismo/multiculturalismo e cresciuti in una dittatura semisecolare hanno più riconoscimenti internazionali e credito, rispetto alla sola democrazia nel Caucaso meridionale, quella, appunto, armena. Ecco perché alcuni stati e organizzazioni occidentali credono ancora alla propaganda panturchica, chiamando “separatisti” gli autoctoni dell’Artsakh, guardando alla presenza degli armeni nella loro patria millenaria come “illegale”.

Ora che i due regimi autocratici hanno assicurato la propria legittimazione per via elettorale – con Putin e Aliyev al potere, ciascuno per il quinto mandato, dove il primo ha incarcerato ed eliminato il proprio oppositore Alexei Navalny, mentre il dittatore di Baku è salito al potere circondato dagli elogi dei suoi “avversari” politici – la situazione nella regione del Caucaso meridionale potrà essere stabilizzata solo da un difficile e improbabile riavvicinamento tra Ue e Iran.

Il pericolo terrorismo

L’alternativa è il pericoloso corridoio pan-turco contro l’Iran, che sarà costruito tra l’altro poggiando sull’approvazione da parte dell’Occidente della brutale politica di Israele in Palestina e delle sue azioni anti-iraniane attraverso il territorio occupato dell’Artsakh. Questo scenario potrebbe comportare anche un’incursione militare nell’Armenia democratica da parte dei regimi neo-ottomani – abili doppiogiochisti anche nella questione israelo-palestinese. Un effetto collaterale di un simile scenario sarà l’aumento delle azioni terroristiche contro i civili.

Un esempio è stato l’attentato al Crocus City Hall di Mosca, che appartiene al miliardario azero Araz Agalarov, ex cognato del dittatore Aliyev. I terroristi, estremisti islamici con lo stesso modus operandi di quelli che terrorizzavano la popolazione armena dell’Artsakh, purtroppo vengono inclusi tra gli strumenti impiegati per diversi conflitti proxy. Si può capire il punto di vista del politologo e avvocato iraniano dottor Ahmad Ghazimi, secondo il quale «se la Nato formasse il Corridoio Turan, aumenterebbero gli attacchi degli estremisti dell’Asia centrale, sostenuti da Baku e Ankara».

Allora, per quanto idealistico possa sembrare, una vera democratizzazione delle organizzazioni per la sicurezza e il rispetto delle culture autoctone, come il ripristino del diritto all’autodeterminazione, sono processi intrecciati, fondamentali per salvaguardare l’attuazione di un processo di pace, nonché una convivenza dignitosa tra popoli e nazioni.

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Genocidio armeno. De Priamo (FdI): ricordare per condannare ogni forma di persecuzione (Lavocedelpatriota 24.04.24)

“Il 24 aprile si ricorda il genocidio del popolo armeno del 1915, ad opera dell’Impero ottomano, che costò la vita a più di un milione e mezzo di cristiani armeni e l’esodo per chi riuscì a sfuggire alle persecuzioni. Oggi ho partecipato alla cerimonia di commemorazione del 109º anniversario di questa mattanza organizzato nel Giardino del genocidio armeno di piazza Lorenzini, a Roma, dal Consiglio per la Comunità armena di Roma. Occasione, è stata, per rinsaldare ulteriormente il rapporto di amicizia con il popolo armeno e per celebrare quello che, a più di un secolo di distanza, è un genocidio dimenticato e addirittura in taluni casi negato. Il ricordo delle tragiche vicende del popolo armeno è uno strumento importante per vincere la battaglia del riconoscimento del genocidio e, soprattutto, un modo per ribadire la ferma condanna di ogni forma di persecuzione”.

Lo dichiara il senatore di Fratelli d’Italia Andrea De Priamo.

Saronno, il circolo La Bussola ricorda il Giorno della Memoria del genocidio armeno (Ilsaronno 24.04.24)

SARONNO – Il circolo saronnese “La Bussola” ricorda il giorno della Memoria del genocidio armeno. “In pochi se ne ricordano, ma il 24 aprile di ogni anno ricorre il Giorno della Memoria del genocidio armeno: tra l’indifferenza quasi generale, approfittando della cortina di fumo causata della Prima Guerra Mondiale che stava mettendo a fuoco l’intera Europa, un milione e mezzo di cristiani armeni venivano sterminati con i mezzi più brutali e odiosi”.

Il Circolo della Bussola aveva già affrontato il tema 2 anni fa con un commovente incontro in cui abbiamo ricostruito le fasi salienti del genocidio.

“Oggi la situazione non è cambiata: il piccolo stato dell’Armenia, occupa una superficie poco più grande della Lombardia in cui vivono poco meno di tre milioni di abitanti, per il 98,5% di popolazione ancora tenacemente ed orgogliosamente cristiani. Ma pochi sanno che questo piccolo lembo ti terra è ancora oggi sotto attacco da parte dei vicini dell’Azerbaigian che, giorno dopo giorno, strappano a morsi lembi del territorio armeno, in una guerra che, al più, occupa con dei minuscoli trafiletti le ultime pagine dei quotidiani o viene riferita in qualche servizio giornalistico che viene mandato in onda rigorosamente dopo la mezzanotte”.

E continuano: “Anche la vicinanza con la celebrazione italiana dell’Anniversario della Liberazione del 25 aprile non contribuisce a dare nessun rilievo a questa strage ancora oggi tristemente attuale: noi, del Circolo della Bussola, vogliamo tenere acceso questo piccolo segnale luminoso, per ricordate a tutti quelli che ci seguono che oggi, più che mai, è ancora possibile, nell’indifferenza generale, morire a causa della propria religione”.

La nota si conclude con l’intenzione del comitato di organizzare un nuovo incontro che “in prosecuzione ideale con il primo, faccia luce sulla situazione terribile in cui versa oggi l’Armenia”.

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Accadde oggi, 24 aprile (Riforma.it 24.04.24)

24 aprile 1915, inizia il genocidio del popolo armeno

Tutto incomincia nella notte fra il 23 e il 24 aprile del 1915.

I primi ad essere arrestati e poi deportati verso l’Anatolia sono intellettuali, giornalisti, scrittori, poeti che vivono a Costantinopoli. Hanno una caratteristica in comune questi sventurati: sono tutti armeni. Ha inizio uno dei più tremendi massacri di un secolo che di tragedie è costellato.

È scoppiata la prima guerra mondiale da meno di un anno e quello che rimane del mastodontico Impero ottomano prossimo all’implosione tenta gli ultimi colpi di coda disperati, terrorizzato dall’accerchiamento in atto da parte della Russia e della Francia.

Al governo ci sono i cosiddetti “Giovani Turchi”, una nuova generazione di tendenze teoricamente più progressiste, salita al potere nel tentativo di trasformare un gigante dalla testa di argilla in uno Stato più efficiente politicamente e militarmente.

Ma il loro principale timore, in quell’inizio di 1915 è di non cadere in mano straniera e veder dissolvere così un regno millenario. Loro alleati nella regione sono i tedeschi, secondo equilibri che affondano le radici nelle alleanze dei secoli precedenti.

Gli armeni, ampia minoranza cristiana all’interno dei territori ottomani, rappresentano lo spauracchio di turno agli occhi di chi cerca di compattare e centralizzare il potere. Si fa strada il disegno, non si sa quanto lucido e pianificato, ( e da qui le diatribe storiografiche fra chi considera quello perpetrato agli armeni un genocidio e chi opera terrificante, ma non strategicamente predeterminato) di spostare la popolazione armena ai confini orientali del regno per evitarne l’arruolamento fra le forze russe. Iniziano le marce forzate, le marce della morte, tragico preludio a quelle naziste di alcuni anni dopo. Forzati a camminare per decine di chilometri al giorno, senza cibo o acqua, i deportati muoiono come mosche, davanti agli occhi dei militari turchi e tedeschi che non risparmiano torture e violenze.

È una carneficina. Le cifre sono molto discordanti a seconda che si guardi la storia da una parte o dall’altra della barricata, ma gli storici affermano che non si sbaglia di molto se si considerano le vittime fra un milione e un milione e mezzo. In poco più di un anno.

Una tragedia immensa. Per lo storico Raphael Lemkin, colui che nel 1944 ha coniato il neologismo genocidio, quello ai danni della popolazione armena è il primo episodio in cui uno Stato ha pianificato ed eseguito sistematicamente lo sterminio di un popolo. Aspetto che la Turchia ha sempre negato e continua a fare, come testimoniano le recentissime polemiche seguite alle dichiarazioni di papa Bergoglio, tant’è che ancora oggi si finisce in carcere se si osa a contraddire la versione ufficiale. La pacificazione non è mai stata tanto lontana.

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