Preservare il patrimonio spirituale dell’Artsakh: Invito all’azione. Un Convegno a Roma, 18-19 Novembre (Stilum Curiae 17.11.24)

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, offriamo alla vostra attenzione questo convegno, che dopo la pulizia etnica compiuta dall’Azerbaijan in Artsakh-Nagorno Karabagh ci sembra di grande importanza. Buona lettura e diffusione.

 

 

CONVEGNO INTERNAZIONALE SULLA TUTELA DEL PATRIMONIO CULTURALE E RELIGIOSO DEL NAGORNO KARABAKH  – ARTSAKH

Preservare il patrimonio spirituale dell’Artsakh: Invito all’azione

Come museo all’aperto ricco di arte e architettura armena antica e medievale, l’Artsakh (oggi noto come Nagorno-Karabakh) è testimone di secoli di espressione religiosa e culturale. Chiese, monasteri e santuari di valore tratteggiano il suo paesaggio, fungendo da toccanti promemoria del profondo significato storico della regione.

Tuttavia, l’esodo forzato della popolazione armena nel settembre 2023 ha sollevato allarmanti interrogativi sul destino di questi monumenti insostituibili, una situazione che richiede un’azione collettiva immediata da parte della comunità cristiana di tutto il mondo.

La prossima conferenza internazionale e interdisciplinare, che si terrà il 18 e 19 novembre presso la Pontificia Università di San Tommaso d’Aquino a Roma, rappresenta un passo cruciale per affrontare queste urgenti preoccupazioni.

Organizzato congiuntamente dalla Rappresentanza della Chiesa Apostolica Armena presso la Santa Sede e dall’Istituto per gli Studi Ecumenici dell’Angelicum, questo evento fornirà una piattaforma per discutere della conservazione del patrimonio spirituale dell’Artsakh da molteplici prospettive: ecumenica, culturale, storica e legale.

L’importanza di questa conferenza è sottolineata dai messaggi di importanti leader della chiesa, tra cui Sua Santità Karekin II, Catholicos di tutti gli Armeni, e le Sue Eminenze il Cardinale Kurt Koch, il Cardinale Claudio Gugerotti e il Cardinale Jose Tolentino de Mendonça, che affronteranno l’importanza dell’unità cristiana nella salvaguardia del patrimonio culturale e religioso.

Questi messaggi sottolineano la responsabilità globale che i cristiani condividono nel proteggere la sacralità dei siti storici, in particolare nelle regioni devastate dal conflitto.

L’agenda della conferenza prevede una serie di presentazioni di esperti provenienti da Europa, Stati Uniti, Armenia e Medio Oriente. Gli argomenti chiave ruoteranno attorno alle intersezioni tra patrimonio culturale, siti religiosi e diritti umani, nonché al ruolo dei media nel dare forma alle narrazioni sui conflitti che minacciano questi tesori.

Le discussioni approfondiranno anche le sfide specifiche affrontate dai monumenti armeni in pericolo in Artsakh, esplorando il contesto più ampio del patrimonio culturale minacciato nelle zone di conflitto. C’è un’urgenza impellente per i cristiani di mobilitarsi in risposta a queste sfide. Le iniziative collaborative incentrate sulla difesa, la documentazione e la sensibilizzazione possono svolgere un ruolo fondamentale nella preservazione del patrimonio spirituale di Artsakh.

Unendo gli sforzi, i cristiani possono promuovere un ambiente che incoraggi la cooperazione internazionale per il riconoscimento e la protezione di questi siti. Ciò potrebbe comportare il coinvolgimento dei decisori politici, l’avvio di un dialogo con le organizzazioni culturali e la formazione di partnership con altre comunità religiose per amplificare la loro voce collettiva.

In conclusione, la conferenza internazionale e interdisciplinare funge da piattaforma cruciale per galvanizzare l’azione per la preservazione dei siti religiosi e culturali di Artsakh. Questo sforzo collettivo è essenziale non solo per salvaguardare il patrimonio di una comunità specifica, ma anche per promuovere una cultura di coesistenza e rispetto tra tutte le religioni.

È giunto il momento che i cristiani di tutto il mondo si uniscano, sostengano questi siti in pericolo e garantiscano che l’eredità spirituale dell’Artsakh  e non solo duri per le generazioni a venire.

 

L’evento potrà essere seguito da remoto connettendosi con il seguente link: https://www.youtube.com/live/-wTfyI4N8Kg

In allegato il programma e il poster del Convegno.

 

COP 29: Greta dall’Armenia di nuovo contro il vertice di Baku (Quotidianocontribuenti 16.11.24)

L’attivista svedese Greta Thunberg è tornata ad accusare lo svolgimento del vertice sul clima COP29 in Azerbaigian, un paese che, a suo avviso, “esercita repressione e vuole aumentare la produzione di combustibili fossili”, durante un evento nella vicina Armenia. “Si tratta di ipocrisia e di doppi standard. L’Azerbaigian non solo riesce a commettere tutti questi crimini e a non assumersene la responsabilità, ma è anche dotato di una piattaforma per legittimarli”, ha denunciato l’ambientalista intervenendo ad una conferenza a Erevan.
Thunberg ha aggiunto che “gli attivisti azerbaigiani vivono come se fossero in una prigione, senza diritti”. “La pulizia etnica di cui è responsabile l’Azerbaigian, le difficoltà e le sofferenze provate da molti armeni a causa dell’aggressione militare dell’Azerbaigian, le torture e gli spostamenti forzati dei prigionieri e degli ostaggi, le atrocità fisiche e psicologiche che hanno subito sono del tutto inaccettabili”, ha continuato. E intanto “il mondo tace” e permette a Baku di effettuare un “greenwashing” della propria immagine. “È anche inaccettabile che i paesi continuino ad acquistare risorse naturali dall’Azerbaigian”, ha sottolineato.
In questi giorni, l’attivista svedese sta sviluppando un’agenda parallela alla COP in Armenia e nella vicina Georgia, entrambe confinanti con l’Azerbaigian. Secondo l’attivista, “l’intera economia dell’Azerbaigian è basata sui combustibili fossili”, poiché le esportazioni di petrolio e gas della compagnia petrolifera statale Socar rappresentano quasi il 90% delle esportazioni del paese. (AGI)

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LA VERITÀ SUL GENOCIDIO DEGLI ARMENI (Vanillamagazine 15.11.24)

Il Medz Yeghern, il Grande Male. Così viene chiamato dagli armeni di tutto il mondo il genocidio iniziato la notte tra il 23 e il 24 aprile del 1915 da parte dei Giovani Turchi, che è stato anche il primo, ma non l’ultimo, genocidio del XX secolo. Non se ne parla molto, anche se è costato la vita a quasi due milioni di persone. Infatti, ad oggi, ovvero al 2024, solamente una trentina di Paesi hanno effettivamente riconosciuto il genocidio di questo popolo. E in Turchia parlarne è ancora reato. La Turchia, infatti, rifiuta di ammettere che questo massacro sia mai avvenuto. Oggi ci parla di questo terribile episodio storico Letizia Ghidoni, vi lascio nelle sue ottime mani. Prima di cominciare però, se volete sostenere il nostro progetto di divulgazione culturale fate clic qui sotto, ci sono i tasti iscrivi e abbonati. Grazie mille a tutti.

LA STRAGE DIMENTICATA

Come è iniziato il genocidio degli Armeni? Perché è avvenuto? Per poter comprendere a fondo gli avvenimenti, bisogna, come al solito, fare un passo indietro nel tempo, alle origini di quella che viene chiamata “la questione armena”.

Ma ancora prima di poter parlare della questione armena, è meglio spiegare la “questione Oriente”, per cui dobbiamo tornare indietro di circa 90 anni rispetto ai fatti avvenuti nel 1915, e soprattutto dobbiamo parlare della storia di più paesi.

Il 21 febbraio del 1828, infatti, attraverso il Trattato di Turkmenchay, l’impero persiano (il moderno Iran) perde i suoi territori settentrionali, che per la maggior parte sono abitati da armeni e da azeri. E questi territori vengono quindi annessi all’Impero Russo.

La Persia è stata in realtà obbligata a firmare questo “trattato di pace” con lo zar Nicola I, perché è uscita sconfitta dalla guerra russo-persiana e perché la Russia aveva minacciato di conquistare Teheran in 5 giorni se le condizioni non fossero state accettate. Bene, il territorio dell’Armenia Persiana, quindi stiamo parlando delle province di Eereván e di Nahicevan, passa ora sotto ai russi.

Ovviamente a Teheran, a questo punto, inizia a respirarsi un clima molto pesante, con i fanatici religiosi che cercano di accendere nella gente l’odio verso i russi. E ci riescono.

La miccia tra la Persia e la Russia si riaccende infatti circa un anno dopo, a causa di un episodio molto particolare. Dovete sapere, infatti, che nel Trattato di Turkmenchay vi è una clausola in cui si dice che tutti prigionieri cristiani della Persia possono trasferirsi nella provincia di Erevan, che ora fa parte della Russia. Approfittando di ciò, due ragazze armene e un eunuco dell’harem dello scià di Persia, Fath Alì, corrono all’ambasciata russa chiedendo asilo, chiedendo di potervisi rifugiare. Infatti, gli harem persiani, a quel tempo, erano pieni di donne armene.

Lo scià però non accetta questo affronto, rivuole indietro i suoi prigionieri, e quando il diplomatico russo Aleksandr Griboedov rifiuta, e lo invita a fare questa richiesta al ministro degli Esteri dello zar, il popolo persiano si ribella. Dai minareti delle moschee arrivano le voci dei mullah, che incitano le persone a vendicare l’offesa che Griboedov, un infedele, ha arrecato al loro scià.

La gente di Teheran, quindi, l’11 febbraio del 1829, circonda gli edifici della legazione russa e riesce a penetrarvi, uccidendo tantissime persone, tra cui l’eunuco e lo stesso Griboedov, che viene addirittura gettato da una finestra e poi decapitato da un venditore di kebab che ha in seguito esposto la sua testa nel proprio stand.

Lo zar Nicola I però agisce molto cautamente, perché non vuole ricominciare una guerra, proprio ora che ha appena sconfitto la Persia e anche l’Impero Ottomano, con cui ha firmato, sempre nel 1829, il trattato di Adrianopoli. Il desiderio dello zar non è quello di vedere questi due Imperi coalizzati contro la Russia. Di più: al sovrano sono giunte delle voci che sostengono che l’attacco alla legazione russa a Teheran sia in realtà stato istigato dagli ottomani, oppure addirittura dagli inglesi.

Inghilterra e Russia, infatti, di lì a poco sarebbero stati in lotta per il controllo dei territori tra i confini asiatici dell’Impero Russo e l’India britannica, che è il gioiello della corona inglese. Lo zar, infatti, vorrebbe conquistare nuovi territori verso est e verso sud, per aprire nuovi mercati ed eventualmente avere uno sbocco diretto sull’Oceano Indiano, che gli avrebbero consentito un’espansione commerciale. Gli inglesi, proprio per questo motivo, hanno paura che i russi invadano l’India dall’Afghanistan.

Inizia quindi quello che verrà chiamato Il Grande Gioco.

Un altro territorio conteso tra le due super potenze è, appunto, l’Impero Ottomano, che è già in crisi da tempo. Gli europei erano già penetrati in questo territorio a partire dal XII secolo attraverso il sistema delle CAPITOLAZIONI. Le capitolazioni, almeno inizialmente, erano dei veri e propri privilegi commerciali, che venivano concessi ai mercanti provenienti dall’Europa. Questo sistema permetteva agli abitanti non musulmani dell’impero di diventare dragomanni, quindi di poter essere assunti da uno straniero come guida, come impiegato nelle relazioni politiche e commerciali, o come interprete. La cosa curiosa è che questi dragomanni potevano avvalersi di uno statuto giuridico molto particolare, perché potevano farsi proteggere dallo Stato straniero a cui prestavano servizio.

Ecco, i russi hanno cercato di dare la propria protezione agli abitanti dell’Impero Ottomano che professano la religione cristiano-ortodossa utilizzando questo sistema. Nel 1800, però, gli ottomani cercano di limitare, se non proprio abolire, il regime delle capitolazioni, e questo soprattutto perché la Russia le utilizzano ovviamente per espandere la propria influenza sugli abitanti dell’Impero.

E gli ottomani trovano un sostegno, inaspettatamente, dall’Inghilterra, dove Lord Palmerston, il ministro degli Esteri, adotterà un’audace politica in favore della conservazione dell’Impero Ottomano. Questo perché l’Inghilterra teme che l’indebolimento, o addirittura la scomparsa dell’Impero Ottomano, possa lasciare campo libero alla Russia, che vuole arrivare a controllare lo stretto del Bosforo, oltre che alla Francia che mira invece al Nilo.

In Europa, quindi, si inizia a guardare con timore alle mire espansionistiche dello zar, che, come abbiamo visto, già da un po’ sta cercando di destabilizzare l’Impero Ottomano. Però questo non lo sta facendo in modo tanto palese, attraverso grandi conquiste territoriali, ma dall’interno, attraverso l’appoggio che dà alle battaglie per l’indipendenza dei popoli slavi, o attraverso la protezione delle minoranze ortodosse che si trovano sul territorio del sultano. L’obiettivo dello zar è, quindi, quello di ottenere una sorta di protettorato sul governo del Sultano, cosa a lui molto utile perché ciò gli consentirebbe due cose:

un accesso al Mediterraneo, cosa che la Russia voleva da tantissimo tempo;

e il controllo sugli stretti del Bosforo e dei Dardanelli.

Nel 1853, però, scoppia la guerra di Crimea, che contrappone la Russia all’Impero Ottomano.

Il conflitto ebbe origine da una disputa tra lo zar e Napoleone III per il controllo dei luoghi santi della cristianità, situati nel territorio dell’Impero Ottomano. La controversia coinvolgeva i monaci cattolici e ortodossi, in disaccordo sulla gestione di questi luoghi. Nicola I e Napoleone III, spinti dalla necessità di tranquillizzare rapidamente l’opinione pubblica dei loro paesi, trasformarono la situazione in una vera e propria sfida di forza.

Le truppe zariste, a un certo punto, invadono i principati di Moldavia e Valacchia, sudditi del sultano, e inizia quindi una vera e propria crisi internazionale. Francia e Inghilterra mandano le flotte, ma ancora non dichiarano guerra. Anche questi due Paesi non vogliono rinunciare al controllo che già esercitano sull’Impero Ottomano, e non vogliono assolutamente spartirsi il commercio nel Mediterraneo con lo zar. Il sultano ora si sente protetto da queste due superpotenze, quindi decide di dichiarare guerra alla Russia.

Inghilterra e Francia arrivano in Crimea nel 1854, precisamente in settembre, e cingono d’assedio l’importantissima base navale russa di Sebastopoli, che si trova sul Mar Nero. I russi resistono per ben 389 giorni, ma poi le truppe francesi, inglesi e anche del Regno di Sardegna, riescono a fiaccare la resistenza e la città cade.

La Russia di Alessandro II, che è succeduto a Nicola I nel 1855, viene quindi costretta a sottoscrivere il trattato di Parigi, il 30 marzo del 1856, un accordo di pace che però, per lo zar, significa la smilitarizzazione del Mar Nero, la fine del protettorato sui cristiani che abitano nell’Impero Ottomano e la cessione, alla Sublime Porta, quindi al Sultano, di tutte le zone dei Balcani che i russi avevano conquistato. E anche della foce del Danubio, che si trova al confine tra Romania e Ucraina, sempre sul Mar Nero.

Ma la lotta tra le superpotenze non termina con la fine della guerra di Crimea, anzi, durante la seconda metà del 19° secolo l’Impero Ottomano diventa ancora più appetibile, perché è sempre più in crisi.

Gli slavi cristiani del territori dell’Impero Ottomano che si trovano in Europa, quindi, ne approfittano per sollevarsi nel 1875, e ovviamente vengono appoggiati dallo zar. Bosnia, Montenegro, Serbia e Bulgaria si rivoltano, e qui, precisamente a Bátak, poi nel distretto di Filippopoli, le truppe irregolari dell’Impero Ottomano massacrano migliaia di cittadini cristiani completamente inermi.

La Russia, immediatamente, si mobilita per difendere i suoi protetti, e, nell’aprile del 1877, inizia la guerra contro il Sultano Abdul Hamid II, la quale terminerà nel marzo del 1878 con la firma del vantaggioso (per i russi) trattato di Santo Stefano. La Russia, infatti, impone alla Turchia la rinuncia a buona parte dei suoi possedimenti europei, dichiarando l’indipendenza di Serbia, Montenegro e Romania, oltre che l’autonomia della Bulgaria, che diventa protettorato russo, e i territori della Bessarabia e parte dell’Anatolia orientale.

Gli inglesi, però, continuano a temere questa espansione russa, e cercano di ridimensionare le loro conquiste durante il congresso di Berlino. Ci riusciranno, la Russia dovrà restituire al sultano oltre la metà dei territori conquistati.

Ecco quindi spiegata la complicata situazione della questione orientale. Ora, però, è giunto il momento di parlare della questione armena, che sono sicura risulterà molto più chiara alla luce di ciò che abbiamo appena raccontato.

Le potenze europee pensano quindi di aver messo un punto alla Questione d’Oriente con il Congresso di Berlino, ma piano piano emerge sempre più chiaramente una “questione armena”. Perché? Perché i prodromi al genocidio degli armeni li possiamo trovare all’interno di tutte queste interferenze esterne, che spaccano definitivamente i rapporti tra l’Impero ottomano e il popolo degli armeni.

L’Armenia è un territorio molto particolare, e il popolo armeno ha una storia millenaria. All’inizio del 19° secolo questo popolo vive diviso in 3 imperi diversi: quello persiano, quello ottomano e quello russo. E, sempre in questo periodo, circa 3 milioni di armeni abitano le province orientali dell’Impero Ottomano.

Una delle cose che aveva già creato molto attrito tra gli armeni e i turchi era già avvenuta nel ‘700, quando Pietro I di Russia, anche conosciuto come Pietro il Grande, aveva iniziato la sua espansione verso il Caucaso e i Balcani. Infatti, lui aveva cercato di attirare i cristiani verso i confini, ricacciando invece i musulmani verso il cuore dell’Impero ottomano. E, secondo lo storico dei genocidi Marcello Flores, tutto ciò ha contribuito a modificare la geografia etnica dell’Anatolia orientale, e di conseguenza tutti i rapporti esistenti tra i vari gruppi etnici e religiosi che qui abitavano. Infatti, l’Impero Ottomano è da sempre composto da un fitto mosaico di etnie e religioni: non solo armeni, ma anche greci, assiri, ebrei e tanti altri.

E perché allora proprio gli armeni? Beh, gli armeni erano molto numerosi, inoltre erano cristiani e avevano assorbito tutti quegli ideali tipicamente occidentali, che si sono tradotti in richieste di uguaglianza. E ciò era un grosso problema per il regime ottomano.

Andiamo con ordine.

Il XIX secolo, per l’Impero Ottomano, è stato anche un’epoca di riforme. Il più importante complesso di riforme è stato il Tanzimàt, il quale apre un periodo di riorganizzazione interna che inizia nel 1839 e termina nel 1876. Il Tanzimat ha lo scopo di modernizzare l’Impero perché la Sublime porta non prosegua il suo lento declino sulla scacchiera internazionale. E, ovviamente, cerca anche di porre un freno alle mire indipendentiste delle varie etnie che vivono in queste zone.

In questo periodo vengono modernizzati l’amministrazione statale, l’esercito, il sistema finanziario che si baserà sul modello francese, vengono riorganizzati sia il codice civile che quello penale sul modello napoleonico ( rendendo, ad esempio, i processi pubblici), vengono fondate le prime accademie e le prime università moderne; viene poi tolta l’imposta di capitazione sui non musulmani, vengono costruite ferrovie e strade.

E oltre a tutti questi cambiamenti pragmatici, poi, ce ne sono stati anche molti culturali: fra i tanti, vengono ad esempio incoraggiati l’abbigliamento e lo stile di vita moderni.

Nel 1856, Abdulmecid I promette la piena uguaglianza legale a tutti i cittadini, indipendentemente dalla propria fede religiosa. Nel 1863, poi, viene presentato un nuovo statuto del Millet armeno. Ma cos’è un millet innanzitutto? Con questo termine si indicano le comunità religiose non musulmane che abitano l’impero ottomano e il loro sistema di governo amministrativo. I millet sono concepiti su base etnica: c’è quello dei cristiani armeni, quello dei greco-ortodossi, quello degli ebrei, quello dei cattolici, quello dei siro-ortodossi, e altri ancora. Bene.

Nel 1863 viene introdotto un nuovo statuto del millet armeno, che viene chiamato Costituzione Nazionale, il quale prevede l’elezione di un’assemblea nazionale. E quindi, in questi anni, il Sultano inizia a ricevere sempre più richieste da parte del Patriarcato armeno, il quale, ovviamente, si lamenta a causa dell’aumento delle tasse, della spoliazione delle loro terre, del fatto che la vita nelle province sia sempre meno sicura. Vi sono anche delle vere e proprie rivolte fiscali da parte delle comunità armene di Zeytun, Erzurum e Van.

Gli armeni, in questo periodo, infatti, vedono ciò che sta accadendo sulla scena internazionale, e vogliono quindi ottenere gli stessi vantaggi degli altri popoli. Ad esempio, in Libano, grazie soprattutto alla Francia di Napoleone III, è stato creato il mutasarrifato cristiano autonomo dell’area di Monte Libano, che da questo momento in poi verrà considerato la terra d’origine dei maroniti, i quali ottengono anche la garanzia di essere protetti dai francesi stessi in caso di attacco dei drusi. Questo a causa dei massacri che ci sono stati nel 1860 tra maroniti (che sono cristiani cattolici di rito maronita, una delle Chiese orientali cattoliche) e drusi, che invece sono gruppo etnoreligioso arabo musulman sciita.

Ovviamente, come abbiamo detto, tutto ciò influenza tantissimo il movimento di liberazione armeno. Gli armeni, infatti, vengono oppressi dai turchi da molto tempo, soprattutto nelle questioni collegate al possedimento dei terreni, da cui gli armeni spesso vengono espropriati e cacciati con la complicità delle autorità locali. Per questo, nel 1876, l’Assemblea nazionale armena presenta un rapporto in cui descrive in modo dettagliato tutti i soprusi che la propria comunità ha subito in oltre 300 villaggi e città tra il 1872 e il 1876.

Vi ricordate che poco fa vi ho citato il trattato di Santo Stefano, quella pace firmata nel 1878 dopo la guerra russo-ottomana? Beh, quando questo trattato viene revisionato a Berlino, la delegazione armena chiede che le proprie province godano della stessa autonomia di quelle dei maroniti in Libano. Nello specifico, gli armeni richiedono innanzitutto che sia nominato dal Sultano un governatore cristiano, che si stabilisca a Erzurum. Inoltre, richiedono anche un piano di riforme fiscali e giudiziarie che venga però controllato da una commissione internazionale. ovviamente, però, queste riforme non verranno mai applicate.

Ciò fa provare alla comunità armena un grande senso di delusione, che porta alla creazione inizialmente di società segrete molto simili alla nostra Carboneria, e poi a veri e propri partiti rivoluzionari che si battono per la propria indipendenza, come ad esempio l’Armenakan, fondato nel 1885 da un giornalista e insegnante nella città di Van, cittadina dell’odierna Turchia orientale; o come il DASHNAK, ovvero la Federazione rivoluzionaria armena, un partito di ispirazione socialista fondato a Tiblisi nel 1890. E anche questi partiti denunciano i soprusi da parte delle autorità ottomane e delle tribù curde.

Parliamo un attimo anche dei curdi, che avranno un ruolo fondamentale nel genocidio degli armeni. Per consolidare il proprio potere e contrastare le aspirazioni indipendentiste delle minoranze cristiane, infatti, il sultano Abdül Hamid II, che è stato in carica per molto tempo, dal 1876 al 1909, adotta una strategia di divisione e conquista, favorendo l’ascesa sociale e militare dei musulmani non turchi, in particolare dei curdi. Infatti, il sultano vuole che la religione musulmana diventi il fondamento della coesione nazionale.

Questa politica, sebbene inizialmente mirata a indebolire l’autonomia curda, finisce per inasprire le relazioni tra curdi e armeni. Gli armeni, infatti, iniziano a essere considerati dai curdi come strumenti dell’Impero per limitare la loro libertà e la loro autonomia. Il sultano, riconoscendo il potenziale militare dei curdi, istituisce la Scuola delle Tribù e crea dei reggimenti composti prevalentemente da cavalieri curdi, per rafforzare il controllo centrale e proteggere le frontiere. Questa strategia, se da un lato consolida il potere di Abdülhamid II, dall’altro contribuisce a creare un clima di tensione e violenza che culminerà nei massacri degli armeni.

Ecco quindi come curdi e armeni sono diventati nemici. Prima di tutto ciò, infatti, alcune tribù curde, anche se hanno sempre vessato gli armeni, in un certo modo li proteggevano dalle incursioni e dalle razzie di altre tribù curde. Ora questa fase è finita.

Poi scoppia uno (possiamo definirlo) scandalo, che verrà ricordato come la Storia di Gülizar. Gülizar è una ragazza armena di 14 anni, che nel 1889 viene rapita da un potente capo tribù curdo, Musa Bek. Musa Bek la rapisce come atto di vendetta nei confronti dello zio della ragazza, un capo-villaggio della parte orientale della Valle di Mush. Lo zio, infatti, si era recato dal governatore di Bitlis per sporgere denuncia contro Musa Bek, colpevole di perpetrare violenze e soprusi nei confronti degli armeni della regione.

Contrariamente a ciò che ci si sarebbe aspettati da una ragazza così giovane, lei resiste al suo rapitore e si rifiuta categoricamente di convertirsi. Alla fine il capo curdo, dopo tre mesi di prigionia, decide di portarla davanti al governatore di Bitlis per farle fare la dichiarazione di fede islamica, ma Gulizar ha altri piani. Davanti al governatore e a tutte le altre personalità importanti della regione, questa giovane ragazza dice di essere una cristiana, che non ha nessuna intenzione di convertirsi, che vuole tornare a casa, nel suo villaggio e racconta tutti i crimini commessi nei suoi confronti da parte di Musa Bek e dei suoi uomini.

Musa Bek, incredibilmente, viene incriminato, e un caso giudiziario viene istruito alcuni mesi dopo addirittura nella capitale, a Costantinopoli. Musa Bek, alla fine, viene condannato a un anno d’esilio alla Mecca, e Gulizar diventa un’eroina per il suo popolo, un simbolo di resistenza. Ma durante il processo, alcuni uomini armeni intenzionati a leggere un manifesto contro il sultano, vengono arrestati dopo aver spintonato il patriarca che li ha invitati a moderare i toni.

Queste piccole “agitazioni” da parte degli armeni nei confronti dell’Impero Ottomano sono però tutt’altro che rare, e le divisioni tra i due popoli si profilano sempre più nette. Le cose si aggravano fino a quando viene sospesa la Costituzione Nazionale armena, quella che era stata approvata negli anni ‘60 dell’800, ricordate? e anche l’assemblea dei millet fa la stessa fine. Inoltre, molti personaggi importanti della comunità armena e alcuni vescovi vengono arrestati, e ciò non fa che aumentare la tensione.

Ma è la ribellione di Sasun del 1894 a dare inizio alla vera e propria crisi. Durante l’estate di quell’anno, 3 villaggi armeni si rifiutano di pagare le tasse, ma non per negligenza, ma perché le avevano già pagate e non lo volevano fare una seconda volta. Iniziano quindi i primi scontri tra una milizia irregolare armena e la Cavalleria dell’Impero Ottomano, la quale inizia a compiere un vero massacro.

Questo “modello di pacificazione” che , sfortunatamente, il Sultano decide di adottare per placare i moti rivoluzionari degli armeni, verrà ripetuta nei mesi e negli anni a seguire in quelli che saranno chiamati “i massacri Hamidiani”, o anche “i massacri del sultano rosso”, una serie di eccidi perpetrati tra il 1894 e il 1897 nei confronti del popolo armeno sotto il regno di Hamid II.

In ogni caso, il massacro di Sasun attira l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, che protesta con veemenza contro questo massacro, e porta una commissione d’inchiesta composta da russi, inglesi e francesi ad andare sul posto per analizzare i fatti. Le suddette potenze preparano una lista di riforme, che però non verranno mai messe in atto.

Ma la protesta armena, nonostante non abbia attivamente alcun sostegno, si espande fino ad arrivare alle province orientali, dove vive una più nutrita comunità.

Arriviamo quindi alle porte del XX secolo, quando i sentimenti nazionalistici stanno iniziando a contagiare anche gli stessi turchi.

Per questo motivo, nel 1889, 5 giovani studenti musulmani creano un’organizzazione segreta che si oppone al sultano Hamid, anzi, il loro obiettivo è proprio quello di rovesciarlo e di restaurare la Costituzione e il Parlamento che il sultano aveva affossato, e di modernizzare l’Impero. Viene quindi creato il Comitato di Unione e progresso, quello che poi andrà a formare il Partito Politico dei Giovani Turchi, il cui obiettivo sarà quello di salvare l’impero ottomano dal collasso causato dal suo Sultano.

Questo movimento è diviso in due. Da una parte abbiamo i liberali, e tra di loro troviamo anche greci, ebrei, addirittura armeni. Il sogno dei liberali è, come abbiamo detto prima, quello di creare uno stato moderno governato da un Parlamento le cui fondamenta poggino su di una Costituzione. Dall’altra parte, invece, abbiamo i nazionalisti sotto la guida di Ahmed Riza. Ecco, loro sostengono un’ideologia panturchista, sognano di governare un immenso territorio che va dal mar Mediterraneo al cuore dell’Asia Minore, ma soprattutto, il loro desiderio è quello di riformare il proprio Stato su una base monoetnica e linguisticamente e culturalmente omogenea.

Nel 1902, a Parigi, si tiene il primo congresso dell’opposizione ottomana, ma liberali e nazionalisti si ritrovano ad essere d’accordo solamente sul ritorno al costituzionalismo. Infatti, mentre i liberali desiderano mantenere dei rapporti stretti con le potenze straniere, soprattutto con Francia e Inghilterra, e vedono di buon occhio un accordo con gli armeni dell’Anatolia Orientale che richiedono una maggiore autonomia, i nazionalisti rifiutano categoricamente di avere rapporti con gli altri stati, in quanto li incolpano di aver contribuito enormemente al declino del proprio paese. E assolutamente non vogliono nemmeno sentire parlare di concedere più autonomia agli armeni.

Armeni già mal visti dalla maggior parte dei nazionalisti turchi. Infatti, a molti turchi, (i quali erano) in larga parte contadini, non va giù la presenza di questa “agiata” borghesia armena, che fa affari d’oro nel LORO paese e che oltretutto commercia con gli occidentali, a cui sono troppo legati. La realtà dei fatti è che anche la maggior parte degli armeni, circa l’80%, lavorano la terra e vengono sfruttati alla stregua dei contadini turchi, anzi, anche peggio, perché questi ultimi non subiscono continue vessazioni e coercizioni. Però è vero che alcuni armeni hanno tra le mani una grossa fetta dei commerci in questa parte di mondo.

Quindi, nella mente dei nazionalisti inizia a prendere piede la consapevolezza che questa minoranza non può venire in alcun modo assimilata al popolo turco a causa delle loro colpe e delle loro caratteristiche, come ad esempio una maggiore cultura o una presunta protezione da parte delle potenze straniere. E gli armeni vengono oltretutto incolpati di frenare il decollo dell’economia turca e del progresso.

Al congresso di Parigi sembrano però aver vinto le istanze liberali, ma la loro vittoria è solo temporanea. Sono in realtà i nazionalisti turchi, chiamati COALIZIONE, a essere al comando dei comitati locali dei Giovani Turchi e dei giornali del Movimento.

All’inizio del secolo scorso, quindi, passiamo da un nazionalismo ottomano più inclusivo a un nazionalismo turco, il quale avvia un processo di radicalizzazione etnica. Il rifiuto delle identità non islamiche ha aumentato la tensione tra i turchi e gli armeni, e l’arrivo di musulmani in Anatolia, in fuga dai Balcani, ha peggiorato la situazione. Il nazionalismo turco e quello armeno si sono quindi così rafforzati a vicenda.

Le notizie che escono sui giornali di stampo nazionalista, poi, fomentano tantissimo l’odio verso gli armeni. Leggiamo ad esempio un articolo uscito nel 1904 sul giornale «Sûra-yi Ümmet1»:

“esiste un’altra nazione cui è garantito un magnanimo trattamento come agli armeni, che non hanno fatto nulla per il mantenimento della patria comune, che non hanno versato per questo una goccia di sangue? Quali sono le ragioni dietro la rivolta armena? Cosa vogliono? Amministrazione autonoma nelle terre che osano chiamare Armenia? Se è così la rivolta degli armeni non è una ribellione ma una guerra”

Capiamo quindi che le condizioni degli armeni in questo territorio, da che sono sempre state precarie, stanno peggiorando sempre di più.

Arriviamo però al 1908, precisamente al 24 luglio, data in cui i Giovani Turchi insorgono imponendo al sultano il ritorno alla Costituzione del 1876. E questo avviene, grazie al benestare di tutti i popoli dell’Impero Ottomano, perché sono in tanti a desiderare una forma di governo democratica.

Anche il partito social democratico armeno Dashnak appoggia in questo caso il Comitato Unità e Progresso dei Giovani Turchi, con la speranza che la propria condizione sarebbe migliorata in un Impero laico e moderno.

Ma il governo dei Giovani turchi sostiene ora una politica i cui 3 pilastri sono:

panturchismo (un’ideologia che cerca di promuovere l’unione di tutti i popoli turchi)
panislamismo (un’ideologia che promuove l’unione di tutti i popoli musulmani in risposta alle interferenze politico-culturali europee)
e infine panturanesimo (un’ideologia che mira all’assimilazione culturale di tutti i popoli che parlano la stessa lingua, ovvero il turco).
I Giovani Turchi, però, iniziano a incontrare un po’ di resistenza ai loro obiettivi, ai loro piani. E ciò si traduce in enormi episodi di violenza. Una protesta armena nella provincia di Adana, in Cilicia, ad esempio, finisce in massacro. Nella notte tra il 25 e il 26 aprile del 1909, i soldati ottomani uccidono circa 30 mila armeni, razziando i loro averi, e perfino le loro scuole.

Poi, nel 1912, scoppia la guerra nei Balcani, e ciò porta a una nuova fase la questione armena. In questo contesto, gli Stati della Lega Balcanica, ovvero Bulgaria, Montenegro, Serbia e Grecia, unendo le loro forze, riescono a conquistare agli ottomani la Macedonia e gran parte della Tracia.

Nel 1913, alcuni estremisti del Comitato Unione e Progresso decidono che non è più tollerabile, per loro, perdere altri territori. Per questo motivo, il 23 gennaio del 1913, Ismail Enver, anche conosciuto come Ismail Pascià, sancisce la creazione di un regime militare attraverso un colpo di stato. Questo regime durerà fino alla fine della Prima Guerra Mondiale.

Il sultano, nell’Impero Ottomano, c’è ancora, si chiama Mehmet V, ma di fatto non ha alcun potere. Tutte le decisioni, da questo momento in poi, vengono prese invece da un TRIUMVIRATO militare composto appunto da Ismail Pascià, che diventa ministro della guerra, Talaat Pasha, il ministro degli interni e da Cernal Pascià, il ministro della marina.

Il 30 maggio del 1913 termina anche la Guerra nei Balcani, e l’Impero Ottomano perde praticamente tutti i suoi territori in Europa.

Poi, nel 1914, precisamente l’8 febbraio, ad Istanbul viene firmato un accordo russo-turco per realizzare alcune riforme nell’Armenia occidentale. Russia e Impero ottomano giungono a un’intesa: nell’Anatolia orientale, dove vivono gli armeni, devono venire create due unità territoriali-amministrative, ovvero Erzurum e Van, che devono essere sottoposte a dei governatori provenienti dall’Europa.

Il sociologo e storico armeno Dadrian ci dice quindi che, dopo l’approvazione di questo accordi, ci si aspetta che i cittadini siano considerati tutti uguali, che finalmente si metta un punto alla discriminazione sulla base della religione e della nazionalità, e quindi di conseguenza che ogni nazionalità venga rappresentata adeguatamente nei tribunali, nella polizia ma anche negli organi amministrativi.

Però il governo dei Giovani Turchi non ha questi obiettivi, anzi: approfittando dell’inizio del primo conflitto mondiale, si rifiuta categoricamente di mettere in pratica queste riforme. I governatori europei sono già stati nominati, ma non verrà mai data loro la possibilità di iniziare a svolgere i loro compiti.

In realtà, però, gli armeni sperano che, grazie alla guerra e all’aiuto dell’esercito russo, venga ripristinata l’Armenia storica, liberando finalmente l’Armenia occidentale dal giogo turco. I partiti nazionali armeni, quindi, danno il loro pieno appoggio ai paesi dell’Intesa, quindi stiamo parlando di Russia, Gran Bretagna, Francia e Serbia. E 150 mila armeni si uniscono all’esercito russo e vengono inviati sui fronti europei.

Ma le cose non vanno come sperato.

Fin dall’inizio della Guerra, le autorità turche iniziano a cacciare dalle proprie terre gli armeni dal territorio dell’Armenia Occidentale, e inizia anche una martellante propaganda contro di loro.

Alla vigilia della prima guerra mondiale, la comunità armena conta circa 3 milioni di persone, maggiormente concentrate nei vilayet orientali dell’Impero Ottomano. In queste regioni, gli armeni, pur non essendo la maggioranza assoluta, anzi, sono il 10% della popolazione totale, costituiscono però un gruppo demografico ed economicamente molto rilevante, in quanto controllano una parte significativa del commercio, sia con l’estero (controllano circa il 60% delle importazioni), sia interno (circa l’80%).

Ma ciò che fa accendere la miccia è un’altra cosa.

Il viceré del Caucaso, Voronkov DaŠkov, propone la creazione di corpi volontari armeni per aiutare la Russia. Simon Vratsian, membro del partito Dashnak, consapevole delle pericolose implicazioni politiche di questa decisione, lancia un allarme, temendo che i Giovani Turchi possano sfruttare questa iniziativa per giustificare nuove violenze. Nonostante le sue preoccupazioni, molti armeni si arruolano volontari, spinti dal desiderio di liberare la loro patria. Ma Vratsian aveva ragione. Le autorità turche percepiscono le azioni di questi volontari armeni come azioni ostili al loro paese.

Il 29 ottobre 1914, quindi, l’Impero Ottomano si schiera dalla parte di Germania e Austro-ungheria ed entra ufficialmente in guerra. Due settimane dopo, il 14 novembre, i turchi dichiarano la Jihad, ovvero la Guerra Santa, contro tutti i gävur, cioè contro tutti i cristiani infedeli (tranne ovviamente i loro alleati). Infine, i Giovani Turchi annunciano il loro vero obiettivo: unire in un unico stato tutti i popoli che parlano la lingua turca.

La guerra a fianco della triplice alleanza, però non va come sperato per i turchi, il loro esercito è costretto a ritirarsi e subiscono varie sconfitte sul fronte orientale. Ma ciò non li ferma dal risolvere una volta per tutte la questione armena, anzi, li motiva ancora di più ad agire contro un popolo che ha addirittura offerto aiuto al loro nemico, lo zar di Russia. I soldati armeni e non islamici che fanno parte dell’esercito ottomano, quindi, vengono smobilitati e trasferiti, attraverso la direttiva 8682, nei battaglioni di lavoro, e ciò significa che questi soldati non hanno bisogno di armi. Ovviamente questa è una scusa: gli armeni ora disarmati, quindi sostanzialmente inermi, vengono presto assassinati dalle truppe ottomane.

La Prima Guerra Mondiale, infatti, fornisce ai Giovani Turchi l’opportunità di attuare il loro piano di sterminio degli armeni, iniziato da Abdul-Hamid II. La guerra infatti serve da pretesto per eliminare gli oppositori interni, in particolare le minoranze cristiane, senza temere l’intervento delle potenze straniere, che già hanno i loro problemi.

Per agevolare le deportazioni in massa, i Giovani Turchi sospendono il parlamento nel marzo 1915. Talaat Pascià, leader dell’Ittihad, inizia a richiedere rapporti dettagliati sulle comunità armene, per pianificare accuratamente le operazioni di trasferimento forzato. Quaderni e registri testimoniano la meticolosità con cui è stato organizzato questo sterminio. Accusando gli armeni di tradimento e di separatismo, le autorità ottomane iniziano la vera e propria deportazione di questo popolo in nome di una presunta sicurezza nazionale, e incominciano dalla città di Zeythun, in Cilicia, nel marzo del 1915.

In solamente 3 settimane, 20 mila armeni vengono fatti marciare a forza nel deserto di (DERIZOR) Deyr-es-Zor, 20 mila donne, bambini e anziani.

Viene anche creata la cosiddetta ORGANIZZAZIONE SPECIALE (Teşkilât-i Mahsusa), un’unità paramilitare composta da 30 mila ex detenuti per sorvegliare ed eliminare le minoranze etniche che si comportano in modo sleale nei confronti dell’Impero. Ecco, questa unità non deve osservare regole e regolamenti come invece devono fare le organizzazioni statali, e infatti saranno loro a commettere le prime stragi nei villaggi armeni vicino alle frontiere con la Russia.

Nella notte tra il 24 e il 25 aprile 1915, il governo turco arresta, deporta ad Ankara e poi giustizia 270 uomini, tra avvocati, deputati, studiosi, medici, preti, insomma, l’elite intellettuale e politica della comunità armena. A maggio, migliaia di armeni sono deportati da molte zone della Cilicia, che si trova nella Turchia meridionale. Il 29 maggio viene anche approvata la cosiddetta “legge provvisoria di deportazione”, la quale autorizza il governo ottomano a deportare chiunque sia percepito come una minaccia per la sicurezza dell’Impero. A luglio 1915, praticamente nemmeno 3 mesi dopo l’inizio delle deportazioni, gli armeni sono stati praticamente sterminati dall’Anatolia orientale.

In agosto, sempre nel 1915, il New York Times pubblica un articolo dove si racconta che le strade e il fiume Eufrate sono pieni dei cadaveri degli armeni morti durante le marce forzate, e che quelli che sono ancora vivi, sono condannati a una morte certa. Non solo per lo sforzo fisico inumano, dato che in questa marcia sono coinvolti principalmente donne, bambini ed anziani (perché gli uomini sono stati spesso già uccisi prima ancora di partire), ma anche a causa della fame e delle malattie, e delle violenze da parte dei soldati ottomani.

I massacri continuano fino al 1916. Circa un milione e mezzo di persone, ma forse anche di più, sono morte in quelle che verranno definite le “marce della morte”.

Nonostante l’arresto e l’inquisizione di 144 alti ufficiali turchi a Malta da parte dell’Alta Commissione Britannica dopo la sconfitta ottomana, non sono state trovate prove formali di un ordine di sterminio sistematico. Tuttavia, le testimonianze raccolte indicano chiaramente un’intenzione da parte dell’élite ottomana di eliminare la popolazione armena. Le dichiarazioni di Tallat Pascià, ministro dell’Interno, che ammise di voler “essersi finalmente liberati di ¾ degli armeni’, sono emblematiche di questa volontà.

Siamo quindi arrivati alla fine di questa terribile vicenda. Come abbiamo detto all’inizio del video ancora oggi la Turchia si rifiuta di riconoscere questo crimine, anzi lo giustifica dicendo che chi è stato ucciso era un traditore, e che i trasferimenti forzati sono stati portati avanti per una questione di sicurezza nazionale.

Io vi ringrazio per aver visto il video, e vi saluto.

FONTI

Marcello Flores, Il genocidio degli armeni

Uğur Ümit Üngör, The Making of Modern Turkey. Nation and State in Eastern Anatolia, 1913-1950, Oxford, Oxford University Press, 2012

V.N. Dadrian, Storia del genocidio armeno – Conflitti nazionali dai Balcani al Caucaso

M. Impagliazzo, Il martirio degli armeni. Un genocidio dimenticato

https://www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2024/04/23/news/genocidio_degli_armeni_la_strage_dimenticata_di_109_anni_fa_che_molti_si_ostinano_a_ricordare_ogni_24_aprile-422713669
https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/E-6-2005-0707_IT.html#:~:text=Nonostante%20le%20ripetute%20pressioni%20operate,%C2%ABepisodio%C2%BB%20costituisce%20un%20reato.
Peter Hopkirk, Il grande gioco

https://www.treccani.it/enciclopedia/palmerston-henry-john-temple-3-u00b0-visconte-di_(Enciclopedia-Italiana)
https://www.treccani.it/enciclopedia/guerra-di-crimea
https://biblio.toscana.it/argomento/Guerra%20russo-turca%20(1877-1878)
https://muse.jhu.edu/pub/258/edited_volume/chapter/2086618
https://it.wikipedia.org/wiki/Ribellione_di_Sasun_del_1894#:~:text=La%20ribellione%20di%20Sasun%20del,nazionale%20armeno%2C%20nella%20regione%20del

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Esiste una settimana della moda armena. E ha il suo perché (Amica.it 15.11.24)

Dalla Cina all’Armenia, le settimane della moda si allargano ben oltre il vecchio blasonato perimetro di New York-Londra-Milano-Parigi. Non è tempo di snobismi, le nuove fashion week sono espressione del cambiamento della geopolitica globale, sottolineano nuovi equilibri e nuove zone di interesse. Come la Yerevan Fashion Week, andata in scena dal 7 al 10 novembre nella capitale armena (in italiano, Ervan). Qui la moda inquadra e racconta la condizione e le aspirazioni di una società in evoluzione che si rialza nonostante una storia tragica anche recente, con la guerra combattuta negli ultimi anni contro l’Azerbaigian, dove proprio in questi giorni si tiene la COP 29.

Dall’Artsakh, la provincia persa durante l’ultimo conflitto e ora sotto il controllo degli azeri, provengono ad esempio alcune delle rifugiate che hanno realizzato le collezioni della serata di apertura insieme a Crelab, progetto sostenibile supportato dal governo inglese volto all’empowerment rosa. In realtà tutte le sfilate andate in scena in questi giorni sono lo specchio di una nuova condizione femminile nel Paese. A differenza di una manciata di anni fa, le ragazze oggi lavorano e guardano oltre i confini.

«Sono donne tra i 25 e i 50 anni che hanno studiato. Libere professioniste, business manager, ma anche artiste», spiega Alla Pavlova, fondatrice del brand Z.G.EST (uno dei più interessanti), descrivendo le sue clienti. “Più si ritagliano la propria indipendenza e più apprezzano una moda ricercata e sostenibile. Stiamo cambiando. Veniamo in contatto con figure straniere”, spiega, riferendosi alle grandi aziende come Prada e Moncler che qui hanno importanti manifatture. «E poi abbiamo iniziato a viaggiare», racconta con l’enfasi di chi appartiene a uno stato sigillato fino agli anni 90, che ha tutt’ora chiuse le frontiere con Turchia e Azerbaigian e in cui la prima compagnia di voli low cost è arrivata due anni fa, consentendo per la prima volta ai giovani di mettere il naso fuori dal paese a cifre accessibili.

Un look della stilista armena Sona Hakobyan, fondatrice di Soncess, che ha sfilato alla Yerevan Fashion Week.

Se bisogna guardare oltre i confini, dove si va? Ogni punto cardinale, visto da qui, ha un suo magnetismo. Perché, nonostante a Yerevan le architetture sovietiche abbiano quasi soppiantato le tracce di una storia millenaria (sopravvissuta nella provincia, tra monasteri cristiani e templi greci) l’Armenia rimane un ricettacolo di culture, spartiacque tra Oriente e Occidente.

I brand più applauditi sono proprio quelli che riescono a far confluire le molte anime del luogo in collezioni sintetiche ma complesse. Come Mariko, stilista fuggita dal Kazakistan che ha fatto sfilare capi realizzati in lana da lei customizzata, cardata e lavorata a telaio come da tradizione, con un imprinting contemporaneo.
Ariga Torosian, stilista iraniana armena che nel 2016 ha fondato il suo marchio omonimo: la sua ultima collezione ispirata agli edifici brutalisti è complessa e minimal allo stesso tempo, composta da dettagli scultorei e minuziosi declinati in bianco e nero. I palazzi dell’ex Repubblica socialista hanno ispirato anche Sona Hakobyan, fondatrice di Soncess, altro brand he merita attenzione: «Siamo a cavallo tra l’Est e l’Ovest del mondo e dobbiamo mostrarlo», conferma.

Ariga Torosian e una modella che indossa le sue creazioni.

Anche i mercati da raggiungere sono orientati su più coordinate. Verso Sud, oltre l’Iran, fa da bussola il ricco sogno degli Emirati Arabi. A Est c’è la vicina Russia e i suoi controsensi: più accessibile, fa sperare a qualche giovane stilista di arrivare fino alla fashion week di Mosca mentre, allo stesso tempo, la capitale armena accoglie una corposa comunità di cittadini russi fuggiti dalla repressione dopo lo scoppio della guerra in Ucraina.
L’Occidente, nonostante si tratti di un mercato difficile e saturo, rappresenta ancora l’Eldorado della moda con la M maiuscola. E l’Italia rimane un punto di riferimento per i designer, oltre che una cultura molto amata (si rimane sorpresi nel sentire suonare Mina e Celentano nelle hall degli hotel e come soundtrack dei fashion show).

Un look di Z.G.Est che ha sfilato alla Yerevan Fashion Week.

A Milano poi c’è il White, con cui la Yerevan Fashion Week collabora da anni e tramite cui alcuni stilisti scelti hanno l’occasione di mostrare le proprie collezioni. «Da diverse stagioni lavoriamo con Ariga Torosian, Z.G.EST e Naira Khachatryan, armena che vive e lavora in Italia, dove dal 2008 produce la sua collezione di maglieria» spiega Simona Severini, general manager di White, volata a Erevan per selezionare i nomi più talentuosi. Cosa cerca? «In questo momento storico il compratore non ha né tempo né denaro per fare esperimenti. Il cliente finale è disinnamorato, perciò la portabilità, la vestibilità e la versatilità di un capo diventano elementi chiave affinché sia vendibile. Ci troviamo davanti a collezioni acerbe, ma c’è spazio di crescita perché i designer possono contare su un polo produttivo dal forte know how». Infatti, a differenza di altri paesi dell’Est dove, con la delocalizzazione delle manifatture, dai Novanta in poi i product manager italiani sono andati a insegnare il mestiere, gli armeni hanno sempre avuto una propria cultura manifatturiera. «Con qualche accorgimento sono diventati maestri nella realizzazione di capispalla, denim e maglieria» conclude Simona.

Un look di Mariko. Dal backstage della Yerevan Fashion Week.

Inoltre, la produzione interna garantisce ai marchi locali prezzi competitivi sui mercati esteri. D’altro canto, sono stati anni molto difficili per i sostenitori della Yerevan Fashion Week. In primis per Vahan Khachatryan, il designer con un passato da Dolce&Gabbana che l’ha ideata. «Prima il Covid, poi la guerra. Per i brand emergenti non è stato semplice, è già tanto che non abbiano mollato», racconta. «Siamo molto fieri della nostra resilienza. E guardiamo lontano».

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BARI – Spazio Murat – Venerdì 15 novembre in scena Giorgia Ohanesian Nardin in «Premonition» (Puglialive 14.11.24)

L’artista di discendenza armena Giorgia Ohanesian Nardin porta in scena «Premonition», progetto artistico coreutico che oscilla tra parola, movimento e panorama sonoro.

Venerdì 15 novembre, ore 21

Spazio Murat – Bari

Venerdì 15 novembre, alle 21, in Spazio Murat a Bari, prosegue il BIG – Bari International Gender Festival. In scena la performance di danza «Premonition» di e con Giorgia Ohanesian Nardin, artista italiana di discendenza armena che pratica nei contesti della danza e della performance dal vivo.

Biglietti su dice.fm e al botteghino in sede, info su bigff.it.

Premonition è un adattamento di «Anahit» (altro solo coreutico della stessa artista) per spazi all’aperto o non teatrali. «Anahit» – la relazione tra sedimenti e detriti, geografie inscritte nel corpo – guarda alla vibrazione come metodo. Legando la ricerca iniziata con «gisher» al lavoro di ri-narrazione delle geografie somatiche, che conduce da anni nel contesto di «Pleasure Body», Giorgia Ohanesian Nardin disegna con «Anahit» un solo per il proprio corpo, una costellazione, un formato ad appunti che oscilla tra parola, movimento e panorama sonoro. «Anahit» è la divinità armena che sta a protezione dell’acqua e di tutte le creature fluide.

 

Dal 2018 Giorgia Ohanesian Nardin tiene regolarmente Pleasure Body, spazio di facilitazione a pratiche e conversazioni legate al piacere e al riposo, mettendo in discussione il linguaggio attorno al lavoro di cura. Da anni mantiene una pratica di pensiero e scrittura con l’artista Jamila Johnson-Small, con cui ha curato una serie di eventi di riflessione e critica sulla relazione tra soggettività subalterne e istituzioni culturali. Il lavoro di Giorgia è prodotto e sostenuto, tra gli altri, da: Associazione Culturale VAN, VIERNULVIER, Centrale Fies Art Work Space, AtelierSi, BASE Milano, .ّةيطّسوتملا وناليم Lavanderia a Vapore, Milano Mediterranea.

CREDITI

 

BIG | Bari International Gender Festival è promosso e organizzato dalla Cooperativa sociale AL.I.C.E. (Area Arti Espressive), sostenuto dal FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo), Regione Puglia, PACT Puglia Culture a valere sul Fondo Speciale Cultura e Patrimonio Culturale L.R. 40/2016 art. 15 comma 3, Puglia Culture, Comune di Bari, dall’Ufficio Tecnico – Tavolo Tecnico LGBTQI del Comune di Bari, Ambasciata di Norvegia, il Performing Art Hub Norway e il patrocinio dell’Ambasciata del Portogallo. Il festival è realizzato in collaborazione con Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’ – Dipartimento ForPsiCOm, Archivio di Genere, Università LUM, Città Metropolitana di Bari – Biblioteca De Gemmis, Teatri Di Bari e Teatro Kismet, Fondazione Museo Pino Pascali, insieme a Articolo 12, ResExtensa, Toi Toi, Officina degli Esordi, Imago, Palazzo Fizzarotti, Fondazione H.E.A.R.T.H, Armata Brancaleone, Fondazione Dioguardi, Cantiere Evento, Octopost, Coordinamento Festival Lgbtq, Anticorpi XL – Network Giovane Danza D’autore, Spine Bookstore, AiSG, LoStabile, Fondazione H.E.A.R.T, Aendor Studio, Dittongo, Experience Room, Frulez, Buò.

Media partner Salgemma Project, Radio Uniba, Uzak.

 

Il Focus Arte contemporanea è realizzato in coproduzione con Spazio Murat.

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L’artista Giorgia Ohanesian Nardin porta in scena a Bari ‘Premonition’ 15 novembre 2024
https://www.baritoday.it/eventi/giorgia-ohanesian-nardin-spazio-murat-bari-15-novembre-2024.html
© BariToday

Cop29, le ragioni di Greta Thunberg: “Non partecipo a Cop29 per l’estrema ipocrisia dell’Azerbaijan” (Repubblica 14.11.24)

Greta Thunberg torna a puntare il dito contro lo svolgimento del vertice sul clima Cop29 in Azerbaijan, un paese che, a suo avviso, “esercita repressione e vuole aumentare la produzione di combustibili fossili”. Durante un’intervista a Yerevan, la capitale armena, l’attivista svedese che nel 2018 parlò alla platea della Cop24, a soli 15 anni, definisce oggi inaccettabile “l’estrema ipocrisia del petro-Stato responsabile di pulizia etnica”, mentre i “paesi (che partecipano a Cop29, ndr) continuano ad acquistare risorse naturali dall’Azerbaijan”, ha sottolineato. In questi giorni Greta sta sviluppando un’agenda parallela alla Cop in Armenia e nella vicina Georgia, entrambe confinanti con l’Azerbaijan.

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Giorgia Meloni pragmatica a Baku con il sorriso (Korazym 13.11.24)

Nell’articolo Azerbajgian – Paese fossile e autocratico che disprezza l’azione per il clima e per i diritti umani – ospita la COP29 sui cambiamenti climatici dell’8 novembre 2024 [QUI] abbiamo scritto: «Non possiamo rimanere in silenzio. L’Azerbajgian, il Paese fossile e autocratico, che mostra disprezzo per l’azione per il clima e campione della violazione dei diritti umani, ospiterà a Baku dall’11 al 22 novembre 2024 la 29ª Conferenza quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP29) [QUI]». Ieri sera, nella sezione Rassegna Internazionale della Rassegna Stampa Il mondo visto dagli altri su Il Punto, la newsletter del Corriere della Sera, è stato pubblicato un commento dell’editorialista Luca Angelini in riferimento alla 29° Conferenza degli Stati parte alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (COP29) a Baku.

Il commento di Angelini è introdotto con un corsivo dal titolo I crimini dell’Azerbajgian: «Coerenza zero Che l’Azerbajgian, Paese che basa quasi tutto il suo export su gas e petrolio, non fosse il luogo più indicato per ospitare la COP29 sul clima, l’hanno notato in molti. Poche ore fa, la Corte internazionale di giustizia ONU si è incaricata di ricordare anche un’altra macchia: la «pulizia etnica» ai danni degli armeni portata a termine, poco più di un anno fa, dal Presidente azero Ilham Aliyev in Nagorno-Karabakh. Dove ora vorrebbe realizzare una grande Green energy zone per darsi una mano di «verde». Luca spiega perché è molto improbabile che, a Baku, l’Europa e l’Italia si diano la pena di far notare al governo azero che c’è molto che non quadra. A riprova che il diritto internazionale spesso vale solo quando serve».

 

Il Presidente del Consiglio dei Ministri, Giorgia Meloni ha partecipato alla sessione plenaria della 29° Conferenza ONU sui cambiamenti climatici. È stato una missione lampo a Baku – arrivo nella notte e volo di rientro in Italia, dopo un intervento di pochi minuti, nel quale ha concentrato l’impegno e l’indirizzo del governo italiano, con un messaggio diretto: “Serve un approccio pragmatico e non ideologico”, ribadito dall’inizio alla fine del suo discorso, quando chiude con un richiamo a William James, psicologo e ‘padre’ del pragmatismo in filosofia: “Agisci come se tu potessi fare la differenza, perché la fa”. E un richiamo, tutt’altro che velato al “nucleare”, perché “attualmente non c’è una singola alternativa ai combustibili fossili, dobbiamo avere una visione realistica globale”.

La COP29 azera e le ipocrisie europee (e italiane) sul Nagorno-Karabakh «ripulito»
di Luca Angelini
Il Punto, 12 novembre 2024

Non sono stati in pochi a storcere il naso vedendo la COP29 sul clima ospitata a Baku da un Paese che vive di gas e petrolio (del resto era già avvenuto l’anno scorso, con la COP28 negli Emirati Arabi Uniti e l’anno prima con la COP27 in Egitto). La ribalta internazionale sembra però aver fatto dimenticare anche che l’Azerbajgian del Presidente Ilham Aliyev, poco più di un anno fa, ha portato a termine un’operazione di vera e propria «pulizia etnica» in Nagorno-Karabakh, l’enclave a (ex) maggioranza armena. Come ha scritto, all’epoca, Sabato Angieri su Aspenia [QUI], «il Nagorno-Karabakh armeno non esiste più. È bastata una sola settimana per porre fine a trent’anni di indipendenza di fatto dell’enclave separatista denominata Repubblica dell’Artsakh tra le montagne dell’Azerbajgian sud-occidentale. Oltre 100 mila sfollati hanno oltrepassato la frontiera armena a Kornidzor, un villaggio trasformato in centro d’identificazione e prima accoglienza, e ormai non resta che una piccola parte dei 120 mila residenti Armeni che abitavano la Repubblica dell’Artsakh prima dell’operazione fulminea di Baku di mercoledì 20 settembre».

E, come ha denunciato di recente Tigran Balayan, Ambasciatore armeno presso l’Unione Europea in un’intervista a Leone Grotti del mensile d’ispirazione cattolica Tempi [QUI], il furore anti armeno nell’enclave è continuato anche dopo che gli Armeni sono scappati. «Nonostante i negoziati di pace che proseguono, l’Azerbajgian continua con la sua ostilità armenofoba. L’ultimo esempio è il discorso aggressivo e pieno di minacce di Ilham Aliyev davanti al Parlamento azero, dopo un altro dubbio “processo elettorale” (quello del febbraio scorso, boicottato dalle opposizioni e definito privo di una vera competizione democratica anche dall’OCSE: il presidente in carica ha vinto con il 92,12% dei voti, ndr). La distruzione dell’eredità religiosa e culturale armena è stata una delle principali componenti della politica anti-armena dell’Azerbajgian, che ha conosciuto un’escalation a partire dal conflitto del 2020 ma che c’è sempre stata. Avviene su scala industriale e sfortunatamente la comunità internazionale non ha preso iniziative pratiche sufficienti a prevenire questo fenomeno o a proteggere ciò che resta». E, ancora, «l’armenofobia del governo azero e l’assenza di impegni chiari in questo senso, come anche le notizie sulle torture e le umiliazioni inflitte dagli Azeri agli Armeni, compresi bambini e anziani, ci fanno concludere che è molto difficile immaginare un ritorno sicuro e la permanenza degli Armeni in Nagorno-Karabakh».

Non che quel che sta succedendo in Nagorno-Karabakh sia sconosciuto alla comunità internazionale (QUI il sito di Caucasus Heritage Watch, che documenta le distruzioni di chiese, croci, cimiteri e altri siti armeni). «Nel dicembre 2021 — ricorda Balayan, peraltro proprio nativo dell’enclave — la Corte Internazionale di Giustizia ha ordinato all’Azerbajgian di prendere misure adeguate a prevenire i vandalismi e la profanazione dell’eredità armena. Allo stesso modo, nel marzo 2022, il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione condannando la distruzione e la cancellazione della cultura armena. Ha anche riconosciuto l’ampia componente armenofoba dell’Azerbajgian a livello statale e il revisionismo storico promosso da Baku. Organizzazioni come UNESCO o Europa Nostra devono però prevenire la distruzione sistematica dell’eredità armena in modo più attivo e far sì che i responsabili paghino. L’Unione Europea è a conoscenza del problema, i funzionari UE continuano a rassicurarci sul fatto che solleveranno questo problema nei loro colloqui con Baku. Fino ad ora, però, la distruzione sta andando avanti ed è anche peggiorata rispetto a prima» (QUI un recente approfondimento di Aldo Ferrari su Avvenire).

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Pregare per la pace in Armenia (NEV 12.11.24)

Roma (NEV), 12 novembre 2024 – Il Consiglio ecumenico delle chiese e la Conferenza delle chiese europee hanno fatto propria l’iniziativa di una Giornata di preghiera mondiale per la pace in Armenia per domenica 10 novembre. La giornata cade alla vigilia dell’apertura della Conferenza delle Nazioni Unite sul clima (COP29) nel vicino Azerbaigian, ed è stata indetta dal Catholicos Karekin II, capo della Chiesa apostolica armena, una chiesa ortodossa orientale fondata all’inizio del IV secolo.

L’intento della giornata, subito prima dell’importante appuntamento mondiale sul clima, è quello di attirare l’attenzione su un conflitto dimenticato: la situazione dell’enclave armena del Nagorno-Karabakh, regione che gli armeni chiamano Artsakh, con 120.000 persone che hanno dovuto abbandonare le loro case, 23 ostaggi armeni detenuti dagli azeri, il blocco prolungato del corridoio di Lachin che collega l’enclave all’Armenia.

La proposta di Karekin II è quella di una giornata ecumenica di preghiera per la pace nella regione, per il sostegno ai rifugiati e la liberazione degli ostaggi di guerra, nella speranza, ha detto, che “questo sforzo spirituale accresca a livello globale la consapevolezza della crisi umanitaria in corso e promuova una soluzione che porti a una pace fondata sulla verità e la giustizia”.

L’Armenia ha bisogno delle nostre preghiere, ha affermato il moderatore del Consiglio ecumenico delle chiese, il vescovo luterano tedesco Heinrich Bedford-Strohm, sottolineando che “la fede cristiana ha accompagnato il popolo armeno sin dagli inizi della Chiesa apostolica armena nel 301 dopo Cristo. Il futuro è incerto”. Il Consiglio ecumenico promuove un incontro di preghiera per oggi pomeriggio a Ginevra, nella cattedrale protestante di Saint-Pierre, in collaborazione con la locale Chiesa armena. Analoghi incontri si svolgeranno in varie città del mondo, Roma inclusa.

“Dio di misericordia – si legge in una preghiera proposta dal sito del Consiglio ecumenico delle chiese – noi oggi mettiamo davanti a te il popolo dell’Armenia. Ti lodiamo per i doni con cui li hai benedetti: la forza della loro fede, la bellezza delle loro chiese, l’ispirazione delle loro liturgie, i talenti straordinari espressi nell’arte e nella cultura, la resilienza con cui hanno superato le sfide della loro storia. Portiamo davanti a te ciò che oscura le loro vite in questi giorni: le lacrime di chi ha perso i suoi cari, vittime di aggressione militare, l’incertezza di chi ha dovuto fuggire dalle proprie case e teme per il futuro, la distruzione di preziose chiese durante la guerra. Tu sei la luce del mondo: invia la tua luce nei cuori di tutti coloro che sono colpiti e ispirali ancora con il tuo spirito di fede, amore e speranza”.


La Giornata mondiale di preghiera per la pace in Armenia è stata celebrata anche a Roma, domenica 10 novembre, con una celebrazione ecumenica organizzata dal Pontificio Collegio armeno presso la chiesa di san Nicola da Tolentino. La cerimonia è stata presieduta dall’arcivescovo Khajag Barsamian, l’omelia è stata tenuta dal l’arcivescovo Ian Ernst, direttore del Centro anglicano di Roma. Tra i presenti, la pastora Tara Curlewis dell’Ufficio ecumenico riformato a Roma, e il pastore Luca Baratto, segretario esecutivo della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI).

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Inizio della missione del nunzio apostolico in Armenia (Osservatore Romano 12.11.24)

L’arcivescovo Ante Jozić, giunto in auto a Yerevan il 25 settembre scorso, è stato accolto dal signor Samvel Mkrtchyan, direttore del dipartimento europeo del ministero degli Affari esteri, e dalla signora Victoria Poghosyan, officiale della Sezione bilaterale del medesimo dipartimento.

Lo stesso giorno il rappresentante pontificio ha consegnato copia delle lettere credenziali al signor Paruyr Hovhannisyan, vice-ministro degli Affari esteri, accompagnato dal signor Davit Asoyan, officiale della Sezione bilaterale del dipartimento d’Europa, e dalla signora Poghosyan.

Il 26 settembre il nunzio apostolico ha assistito a Gyumri al rito di intronizzazione del nuovo ordinario armeno cattolico, l’arcivescovo Kevork Noradounguian. Alla cerimonia, presieduta da Sua Beatitudine Raphaël Bedros xxi Minassian, patriarca di Cilicia degli Armeni, il rappresentante pontificio ha avuto l’occasione di conoscere da vicino la comunità cattolica, armena e latina, del Paese.

Il giorno seguente l’arcivescovo Jozić si è recato presso la Sede Madre della Santa Etchmiadzin dove, alla presenza dell’arcivescovo Nathan Hovhannisyan, capo del dipartimento per gli Affari esteri del Catolicossato, dell’arcivescovo Khajag Barsamian, rappresentante del Catholicos presso la Santa Sede, e del reverendo Garegin Hambardzumyan, direttore del dipartimento per le Relazioni inter-ecclesiali, è stato ricevuto da Sua Santità Karekin ii, Supremo Patriarca e Catholicos di tutti gli Armeni, con il quale si è intrattenuto in un cordiale colloquio.

Il 2 ottobre il rappresentante pontificio si è recato, accompagnato dal capo del Protocollo del ministero degli Affari esteri e dal direttore del dipartimento europeo, al Palazzo presidenziale, dove ha presentato le lettere credenziali al presidente della Repubblica di Armenia, il signor Vahagn Khachaturyan. Alla cerimonia hanno preso parte, tra gli altri, anche i signori Paruyr Hovhannisyan, vice-ministro degli Affari esteri, e Tigran Samvelian, direttore del dipartimento per gli Affari esteri della Presidenza. Nel colloquio che ha seguito la consegna delle lettere credenziali, il nunzio apostolico ha trasmesso al presidente gli auguri del Santo Padre e ha promesso di lavorare per la pace e lo sviluppo dei rapporti bilaterali tra i due Paesi.

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Le strade interrotte dell’Armenia. Viaggio tra confini ostili e nuove rotte commerciali (Altreconomia 12.11.24)

Le tensioni geopolitiche continuano a pesare sulla quotidianità dei cittadini armeni. La vita scorre faticosamente sui confini di guerra con l’Azerbaigian, chiusi da oltre trent’anni, mentre il futuro del Paese ruota intorno a una striscia di terra nel Sud, punto strategico dell’asse Iran-Armenia-Georgia, che collega il Golfo Persico al Mar Nero. Tra avamposti militari e pesanti bilici che si arrampicano su tornanti innevati

Anahit è una signora composta e gentile di 61 anni che abita nel villaggio armeno di Yeraskh, 70 chilometri a Sud della capitale Yerevan. Troppo anziana per trovare lavoro e troppo giovane per la pensione, prepara il caffè riempiendo il tavolino del salotto con mele, formaggio, dolci fatti a mano e frutta secca di ogni tipo. “Fino a quando c’era il soviet convivevamo in pace, addirittura la maestra della scuola elementare era azera”, dice, e intanto copre con un lenzuolo la torre di lavash, il pane tipico armeno, sottile e grande come un tavolo, cucinato poco prima. “Poi iniziarono ad esserci i morti e quello fu il punto di non ritorno, la convivenza non era più un’opzione. Allora ci mettemmo d’accordo per organizzare lo scambio di case, ognuno doveva tornare da dove era venuto”.

Nel suo villaggio quella che fu l’autostrada principale che conduceva in Iran, attraverso l’exclave azera del Nakchivan, è ora sbarrata da un terrapieno alto diversi metri e decorato da un’enorme croce di pietre bianche. Oltre il muro di terra c’è una collina dove due avamposti avversari si fronteggiano a pochi metri uno dall’altro, difesi ciascuno dalla propria bandiera e da qualche giovane recluta.

A causa della guerra tra Armenia e Azerbaigian, scoppiata nel 1992 dopo il crollo dell’Urss, le frontiere fra i due Paesi sono state chiuse, portando allo smantellamento della rete di infrastrutture che li collegava con Teheran. La rotta commerciale che si sviluppa sull’asse Iran-Armenia-Georgia ha un’importanza strategica in quanto collega il Golfo Persico al Mar Nero, permettendo alle merci provenienti da India e Cina di raggiungere i mercati europei

La casa di Anahit è separata dal terrapieno solamente da una sbilenca strada sterrata, lungo la quale sfilano camion carichi di soldati e gruppi di operaie in camice bianco disposte in fila indiana per far passare i mezzi, mentre cercano di non infangarsi le ciabatte. Sono le lavoratrici dell’unica attività rimasta nel villaggio, uno stabilimento che produce vino, cognac e vodka e che fa lavorare quasi tutte le famiglie di Yeraskh, anche se a intermittenza.

La signora Anahit di fronte alla pila di lavash appena sfornato © Kevork Hayrabedian

Avere un buon lavoro in questa zona è difficile, per questo il figlio di Anahit è emigrato a Mosca per mantenere la moglie e le due figlie piccole che vivono in casa con la nonna. Hermine, la madre delle bambine, racconta che cerca sempre di accompagnare le figlie quando vanno e tornano da scuola anche se è consapevole che non può sempre proteggerle. “Da qualche parte devono pur poter giocare- spiega- quindi le lascio andare sulla strada che corre di fronte al terrapieno, ma rimango sempre allerta”. Sa che sono costantemente sotto lo sguardo dei soldati nemici.
Nonostante la tensione, negli ultimi mesi la situazione è relativamente calma. L’incidente più recente è del luglio 2023, quando l’esercito azero ha sparato sul villaggio in direzione dell’acciaieria in costruzione a Yeraskh, ferendo due lavoratori e colpendo l’ambulanza che li aveva soccorsi. Dopo quei fatti il progetto dello stabilimento è stato spostato in un altro distretto, più lontano dal confine, impoverendo ulteriormente le prospettive degli abitanti.

Dal 1992 i due Paesi non sono mai giunti ad un equilibrio di non belligeranza. Le frontiere rimangono quindi chiuse e l’Armenia è stata obbligata a individuare altre vie di comunicazione per raggiungere il confine con l’Iran. Ad oggi tutto il traffico tra Armenia e Iran, oltre ad essere esclusivamente su gomma, si snoda lungo strade di montagna, spesso molto strette e inadatte ai bilici che transitano ogni giorno.

Gli autotrasportatori armeni, georgiani e iraniani si avventurano lungo boschi, montagne e passi innevati, spesso su mezzi precari e antiquati. Per fare questo lavoro serve pazienza, soprattutto nel periodo invernale, quando le bufere di neve rendono inagibili alcuni tratti, costringendoli a fermarsi anche per diversi giorni in attesa che il tempo migliori e le strade vengano rese nuovamente accessibili.

Arthur non ha neanche trent’anni ma ha tre figli che lo aspettano a Yerevan. Per ritornare a casa deve condurre un bilico dal confine con l’Iran alla capitale. “È il primo anno che faccio questo lavoro, prima guidavo trattori”, racconta mentre guarda l’asfalto spaventato dalle condizioni del tempo. Il peso del mezzo è importante e le sue mani tremano quando la strada costeggia uno strapiombo; proseguiamo quindi a velocità estremamente ridotta, quasi snervante, per la maggior parte del tragitto.

Si ferma in mezzo a greggi di pecore condotti da pastori bambini, superando poi carcasse di camion abbandonati e attraversando villaggi sfiorando le finestre delle case. Arthur nei punti critici ferma il mezzo più volte per scendere a controllare quanto sia ghiacciata la strada, la giornata sta finendo e il buio incombe, bisogna cercare un posto adatto dove passare la notte. Una serie infinita di tornanti conduce nel letto di una vallata dove decine di camion si fermano a bordo strada per la notte. Finalmente può riposare e concedersi due sorsi di vodka fatta in casa per digerire l’adrenalina. La mattina successiva, a causa del guasto di un mezzo, l’intera colonna resta bloccata per ore, paralizzando il traffico in entrambi i sensi.

Un autotrasportatore armeno su un vecchio scuolabus riadattato al trasporto merci © Sebastiano Teani

La strategica importanza di questo collegamento ha spinto l’Armenia, insieme all’Unione europea e all’Eurasian development bank, a finanziare il cosiddetto “corridoio Nord-Sud”, un progetto che prevede la realizzazione di infrastrutture che percorreranno l’Armenia, dal confine con la Georgia a quello con l’Iran.

Al momento i lavori sono stati realizzati solo nel Nord del Paese, nonostante gli espropri siano già avvenuti anche nell’estremo Sud, conferma Monte, giovane di Meghri, la cui casa di famiglia è stata rilevata dalla società che porta avanti il cantiere. Gli abitanti sperano in collegamenti migliori con le altre città, dove spesso devono recarsi per usufruire di servizi fondamentali. “Per poter accedere a visite mediche specialistiche, uffici pubblici, studi legali e addirittura l’obitorio dobbiamo andare a Kapan, a due ore di macchina da qui”. Monte sospira, “sempre che la strada sia agibile”.

Al progetto di collegamento tra Iran e Armenia si contrappongono gli interessi degli altri attori strategici del Caucaso, Turchia e Azerbaigian. Ad oggi, infatti, i due Paesi sono separati solamente da venti chilometri di territorio armeno, il cosiddetto “corridoio di Zangezur”.  Questa sottile striscia di terra rappresenta l’unico ostacolo alla realizzazione del “sogno panturco”, quello cioè di collegare direttamente tutti i popoli turcofoni, da Istanbul agli Uiguri della Cina.

In questa cornice, risultano preoccupanti le recenti dichiarazioni belligeranti del presidente azero İlham Aliyev, il quale ha minacciato direttamente l’integrità territoriale dell’Armenia alludendo alla possibilità di annettere il “corridoio di Zangezur”.

La tensione tra i due opposti interessi si riversa sull’Armenia meridionale che da un lato percepisce la morsa azero-turca, mentre dall’altro riceve l’appoggio di Iran, India e Unione europea, interessati a mantenere aperta la rotta commerciale.

Dagli ultimi sviluppi, tuttavia, sembra che Armenia e Azerbaigian stiano cercando di risolvere le dispute territoriali attraverso la diplomazia, concentrandosi in particolare sul processo bilaterale di demarcazione dei confini. Ciononostante, la questione del “corridoio di Zangezur” mantiene alta la tensione, alimentando ulteriormente il disprezzo e il risentimento reciproco che anima i due popoli, esasperati da oltre trent’anni di guerra.

Il rancore resta vivo anche in Anahit ma non sfocia mai nell’odio. “Se si tratta di bambini darei da mangiare anche a quelli che vivono oltre il confine, senza distinzione -dice salutandoci-. Bisogna iniziare a spezzare questa spirale”.

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