Le mosse ardite dell’armeno Pashinyan, verso la pace e contro la Russia (Haffingtonpost 13.06.24)

Non manca certo il coraggio politico a Nikol Pashinyan, che sta imponendo un profondo cambio di rotta all’Armenia. Con vista sull’Occidente, attraverso un progressivo allontamento dall’area di influenza della Russia. Con vista su una pace che manca da oltre 30 anni in Nagorno-Karabakh, attraverso decisioni difficili e impopolari, considerate necessarie per concludere la lunga guerra con l’Azerbaigian. Se stavolta qualcuno crede davvero a una pace nella regione contesa del Caucaso meridionale è soprattutto per il lavoro che negli ultimi mesi sta facendo il primo ministro armeno.

L’ultimo picco della tensione fra Armenia e Azerbaigian risale a settembre 2023, quando gli azeri avevano condotto con successo un blitz militare, costringendo 100mila armeni a lasciare il Nagorno Karabakh. Successivamente l’Armenia aveva chiesto alla Corte internazionale di Giustizia di imporre all’Azerbaigian di ritirare le truppe e consentire il rientro dei residenti armeni, e a novembre la corte dell’Aja aveva ordinato a Baku di garantire un rientro sicuro per chi volesse rientrare. Ad avviare un percorso di pace è stato poi l’accordo siglato a fine aprile fra Yerevan e Baku sulla delimitazione dei confini: in particolare la decisione di Pashinyan di restituire 4 villaggi occupati da forze armene nel 1990 – Askipara, Baghanis Ayrum, Gizilhajili e Kheirimly – che all’epoca dell’Urss appartenevano all’Azerbaigian. Una mossa “inevitabile”, secondo Pashinyan, per scongiurare una guerra da cui l’Armenia sarebbe uscita malissimo, ma anche necessaria per il percorso verso le firme sulla pace che ora spera di raggiungere “prima di novembre”.

 

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La reazione interna in Armenia è stata veemente, con proteste particolarmente accese per quello che è stato giudicato un tradimento di Pashynian: il fronte contrario è guidato dall’arcivescovo Bagrat Galstanyan, che ha proclamato altri quattro giorni di proteste – il primo domenica 10 giugno, con una grande folla scesa pacificamente in piazza nella capitale armena Yerevan per chiedere le dimissioni del primo ministro, mentre nella giornata di mercoledì il bilancio include feriti e arresti, dopo l’intervento duro della polizia (anche con granate stordenti) contro i manifestanti che provavano a forzare il blocco davanti al Parlamento. L’arcivescovo Galstanyan ha detto alla piazza di aver chiesto un incontro a Pashinyan per discutere “i termini della sua uscita pacifica”; il religioso chiede la nomina di un governo di transizione per “attuare la riconciliazione”, gestire le relazioni estere e convocare elezioni anticipate. L’assenza di una reale alternativa politica, finora, non ha consentito il salto di qualità. Lo stesso arcivescovo, pur essendosi dimesso dai suoi incarichi religiosi, non può ricoprire cariche politiche secondo la legge armena perché ha passaporto canadese. Anche l’idea di portare in Parlamento una mozione di impeachment si scontra contro i numeri dell’assemblea, favorevoli al primo ministro. In definitiva Pashinyan, ex giornalista salito al potere in scia alle proteste di piazza del 2018, sta resistendo alle pressioni.

 

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Parallelamente, Pashinyan sta imponendo all’Armenia un altro cambio di rotta, di profilo storico. Il governo di Yerevan ha criticato pubblicamente i russi per aver abbandonato l’Armenia a sé stessa contro Azerbaigian (e Turchia) – e Mosca, che ha una base militare in Armenia, ha sostenuto che le truppe russe non avevano il mandato per intervenire. Proprio oggi i caschi blu russi hanno completato il loro ritiro dal Nagorno Karabakh, dopo che l’Azerbaigian lo scorso settembre ha ripreso il controllo della regione: il mandato durava fino al 2025, ma la Russia ha accelerato il ritiro (iniziato lo scorso aprile, concordato da Putin e l’azero Aliyev) probabilmente per riposizionare i soldati sul fronte ucraino. Così Pashinyan ha iniziato a volgere lo sguardo verso Occidente, puntando di più sull’Europa e sugli Stati Uniti. Un gesto di sfida era stato, a fine gennaio scorso, l’adesione dell’Armenia alla Corte penale internazionale, quella che ha incriminato Vladimir Putin per crimini di guerra legati al conflitto in Ucraina. Ieri è arrivato un annuncio: l’Armenia intende ritirarsi dall’alleanza militare Csto (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva) dominata dalla Federazione Russa e composta anche da Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan. “Lasceremo la Csto, decideremo quando. E non torneremo”, ha detto il premier Pashinyan in Parlamento, dopo che già di recente aveva congelato la partecipazione al formato, cancellato la partecipazione alle esercitazioni militari e snobbato i summit. Poco dopo il ministro degli Esteri armeno Ararat Mirzoyan aveva parato il colpo, dicendo che non c’è una decisione presa sul ritiro. Ma le parole di Pashinyan sono pesanti: “Si è scoperto che i membri della Csto non hanno rispettato i loro obblighi ai sensi del trattato e hanno pianificato la guerra contro di noi insieme all’Azerbaigian”, ha detto, senza entrare nel merito. Oggi poi ha puntato il dito sulla Bielorussia: Pashinyan ha ritirato l’ambasciatore, ha detto che nessun funzionario armeno visiterà la Bielorussia finché il suo leader Alexander Lukashenko resterà al potere e ha aggiunto che prenderà in considerazione di modificare la sua decisione sulla Csto solo in caso di scuse del governo di Minsk o di un suo ritiro dall’alleanza.

 

 

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Nella scelta di nemici come Putin e Lukashenko in una fase di altissima tensione interna c’è la cifra del coraggio politico – o dell’incoscienza, sarà il tempo a dirlo – di Nikol Pashinyan, il quale insiste che il trattato di pace è alla portata, malgrado restino alcuni importanti nodi da sciogliere. Uno su tutti, la richiesta del presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev all’Armenia di modificare la propria Costituzione per rimuovere un riferimento indiretto all’indipendenza del Karabakh prima di siglare un accordo di pace. Di nuovo ieri Pashinyan si è detto contrario ad accogliere la richiesta di modifica costituzionale, sostenendo che l’insistenza sugli emendamenti rappresenta un tentativo di “silurare” il processo di pace. A conferma che, per firmare un trattato di pace sul Nagorno-Karabakh, servirà ancora buona volontà e molto lavoro.

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Gli Stati Uniti hanno offerto all’Armenia un partenariato strategico (OpinionePubblica 12.06.24)

Erevan e Washington istituiranno una commissione sul partenariato strategico: è quanto emerso all’apertura della sessione finale del Dialogo strategico tra Armenia e Stati Uniti.

Le dichiarazioni in merito sono state rilasciate dal sottosegretario di Stato per gli Affari europei ed eurasiatici James O’Brien e dal ministro degli Esteri armeno Ararat Mirzoyan.

Perché gli Stati Uniti hanno bisogno di un partenariato strategico con l’Armenia?

Il direttore generale dell’Istituto di studi strategici del Caspio (Russia), l’analista politico Igor Korotchenko, in una conversazione con il corrispondente di “Vestnik Kavkaza” ha parlato degli interessi degli Stati Uniti nel trasferire le relazioni con l’Armenia allo status di partenariato strategico.

“Si tratta di una continuazione della stessa linea iniziata sotto le precedenti autorità armene, quando a Erevan fu istituita la più grande ambasciata americana nello spazio post-sovietico. Gli obiettivi degli Stati Uniti in Armenia sono quelli di ottenere un punto d’appoggio nel Caucaso meridionale, estromettere la Russia da lì e riformare la regione per adattarla agli obiettivi geopolitici americani.

La firma dell’accordo di partenariato strategico segna una tappa importante nel radicamento di Washington nella regione e, allo stesso tempo, la chiusura delle aree di cooperazione militare e di difesa russo-armena”, ha dichiarato.

“A lungo termine, questo potrebbe portare alla comparsa di basi militari americane in Armenia. Innanzitutto, stiamo parlando della creazione di una base dell’aeronautica statunitense a Erebuni e del dispiegamento di un centro di intelligence elettronica della NSA statunitense per condurre lo spionaggio elettronico, soprattutto contro l’Iran, ma anche contro la Russia e altri Stati della regione. Da questo punto di vista, ovviamente, l’Armenia è di indubbio interesse per le autorità americane. Ma del resto, uno dei compiti di Washington è quello di avviare processi distruttivi nello spazio post-sovietico. In futuro, cercheranno di creare una fascia di instabilità per aprire un secondo fronte contro la Russia nel sud del Paese”, ha dichiarato Igor Korotchenko.

L’analista politico ha richiamato l’attenzione sulla contraddizione tra le dichiarazioni dei diplomatici statunitensi sul sostegno al trattato di pace tra Azerbaigian e Armenia e i veri obiettivi di Washington nella regione. “Gli Stati Uniti cercano di impedire alle parti di raggiungere un vero e proprio trattato di pace tra Baku e Yerevan. Inoltre, sostengono le ambizioni militari di Yerevan fornendo vari tipi di armi e addestrando ufficiali e generali armeni nelle scuole e accademie militari americane. Con il passaggio delle relazioni al livello di partenariato strategico, la CIA diventerà un partner importante del servizio di intelligence estero dell’Armenia. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti mirano a rompere completamente il formato alleato delle relazioni tra Armenia e Russia e a garantire a Erevan di non avere problemi in caso di ritiro dalla CSTO”, ha sottolineato.

Perché l’Armenia accetta la proposta statunitense?

Il direttore generale della KISI ha sottolineato la disponibilità delle autorità armene a una cooperazione completa e il più possibile approfondita con gli Stati Uniti. “Il Primo Ministro Nikol Pashinyan e la sua squadra sono una clientela filo-occidentale. Hanno intrattenuto rapporti di vario tipo con le ONG americane per molto tempo, quando erano all’opposizione. Naturalmente, dopo la vittoria della Rivoluzione di velluto nel 2018, la deriva di Pashinyan verso l’Occidente è stata etichettata come il mainstream della politica armena. Dopo la fine della guerra del Karabakh nel 2020 e ancor più dopo le misure antiterrorismo in Karabakh nel 2023, l’Armenia non guarda indietro in particolare alla Russia, cercando di riformulare completamente le sue priorità di politica estera”, ha spiegato Igor Korotchenko.

“Naturalmente, in questo programma politico, il tallone d’Achille dell’Armenia rimane l’economia, che è in gran parte legata alla Russia. I legami commerciali ed economici all’interno dell’UEEA hanno permesso al PIL armeno, anche in presenza di sanzioni anti-russe, di raggiungere cifre assolutamente fantastiche. Questo ovviamente non è un ostacolo per la squadra di Pashinyan; il loro compito principale è quello di mantenere il potere. A questo proposito, l’affidamento agli Stati Uniti come nuovo partner strategico sarà un fattore che determinerà in larga misura gli ulteriori processi geopolitici e militari nella regione”, ha concluso l’analista politico.

“Gli Stati Uniti hanno offerto all’Armenia un partenariato strategico”, su “Vestnik Kavkaza”, 11.06.2024.

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COP29 A BAKU: IL LEMKIN INSTITUTE FOR GENOCIDE PREVENTION CHIEDE CHE NON SI FACCIA (GariwoMag 12.06.24)

Il Lemkin Insitute for Genocide Prevention ha invitato le Nazioni Unite a ritirare il suo sostegno all’Azerbaigian per ospitare il vertice sul clima Cop29, che si terrà a Baku dall’11 al 22 novembre 2024.

In un raro accordo tra Armenia e Azerbaigian a dicembre, Yerevan ha accettato di non opporsi alla richiesta dell’Azerbaigian di ospitare il vertice internazionale sul clima in cambio del ritorno dei prigionieri politici armeni detenuti illegalmente a Baku. A seguito dell’accordo, l’Azerbaigian ha rilasciato 32 prigionieri armeni, mentre molti altri rimangono nelle carceri azere, tra cui gli ex leader dell’Artsakh, la cui detenzione preventiva continua a essere estesa dai tribunali di Baku, nonostante gli appelli internazionali per il loro ritorno.

Nella sua dichiarazione rilasciata il 4 giugno, l’Istituto Lemkin ha citato le azioni genocidarie commesse dall’Azerbaigian in Artsakh, così come le politiche armenofobiche del presidente azero Ilham Aliyev e la vasta corruzione e le violazioni dei diritti umani in patria, come motivo del suo appello alle Nazioni Unite.

“Concedendo all’Azerbaigian l’onore di ospitare questo importante evento, le Nazioni Unite approvano i discorsi sul genocidio, le politiche genocide e la dittatura, che non giova né al clima né ai popoli del mondo”, ha affermato il Lemkin Institute. “La scelta dell’Azerbaigian come paese ospitante della Cop legittima, razionalizza e normalizza il genocidio nella politica mondiale. Inoltre, minaccia la credibilità dei principi stabiliti dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Nell’interesse della prevenzione dei genocidi, dei diritti umani e della legittimità delle Nazioni Unite come organizzazione che rappresenta i popoli del mondo, le Nazioni Unite devono revocare il riconoscimento dell’Azerbaigian come paese ospitante della Cop29 e trovare un altro paese ospitante o tenere l’incontro di quest’anno a Bonn, in Germania, il luogo di incontro predefinito della Cop”, ha aggiunto la dichiarazione.

“L’Azerbaigian è stato scelto per ospitare la Cop29 attraverso un meccanismo stabilito dalle Nazioni Unite nel dicembre 2023, meno di tre mesi dopo aver supervisionato il genocidio attraverso la ‘pulizia etnica’ degli armeni dalla regione del Nagorno-Karabakh e a seguito di un blocco genocida del territorio durato dieci mesi. L’esodo dall’Artsakh – che ha posto fine a una presenza continua di quasi 4.000 anni da parte di una delle più antiche comunità cristiane del mondo – è stato uno dei genocidi più efficaci degli ultimi tempi”, ha sottolineato il Lemkin Institute. “Per ‘celebrare’ la ‘vittoria’ dell’Azerbaigian contro gli armeni dell’Artsakh, il presidente Aliyev ha persino acceso un falò nella capitale dell’Artsakh, Stepanakert, per quella che ha definito una ‘pulizia finale’ in occasione del Nowruz. Il presidente Aliyev ha visto la scelta dell’Azerbaigian come paese ospitante della Cop29 come un’approvazione delle sue politiche genocide nei confronti degli armeni”, ha aggiunto la dichiarazione.

“Non si può dimenticare che durante la guerra del 2020 tra Azerbaigian e Artsakh, i soldati azeri si sono resi colpevoli di atrocità estreme e orribili contro soldati armeni disarmati e civili armeni, compresi anziani e disabili. Queste atrocità documentate includono decapitazioni, mutilazioni di armeni ancora in vita, torture e umiliazioni rituali di armeni solo a causa della loro identità, come evidenziato dall’uso di bandiere e canzoni. Quando l’Azerbaigian ha iniziato una guerra di aggressione contro l’Armenia nel 2022, si è impegnato in atrocità simili, tra cui l’uso della violenza sessuale contro le donne armene e il massacro di soldati armeni disarmati. Non c’è stata alcuna condanna per questi crimini. Ricordano le atrocità commesse contro gli armeni da truppe, gendarmi, soldati e civili turchi e azeri dal 1915 al 1923 e aiutano a spiegare perché è stato così facile per l’Azerbaigian terrorizzare gli armeni dell’Artsakh e metterli in fuga con la sua invasione del territorio del 19 settembre 2023“, si legge nella dichiarazione.

L’Istituto Lemkin ha ricordato che, oltre a bloccare i circa 120.000 armeni del Nagorno-Karabakh per dieci mesi, invadere il territorio e costringere alla fuga quasi la totalità di quella popolazione, l’Azerbaigian ha anche metodicamente distrutto il patrimonio culturale armeno in Artsakh. “Se non si fa nulla al riguardo, l’Artsakh diventerà come Nakhchivan, l’exclave azera che un tempo aveva una significativa presenza armena ma ora non ne ha nessuna, dove l’Azerbaigian ha già distrutto circa il 98% del patrimonio culturale armeno, tra cui chiese, cimiteri e monasteri”, ha spiegato la dichiarazione.

“Oltre a questi crimini, l’Azerbaigian continua a detenere illegalmente prigionieri di guerra armeni, civili e membri democraticamente eletti del governo dell’Artsakh, tra cui Ruben Vardanyan, il noto filantropo umanitario che ha co-fondato l’Aurora Humanitarian Initiative. Ci sono prove evidenti dell’uso ripetuto della tortura contro gli ostaggi armeni”, ha dichiarato l’Istituto Lemkin.

“L’Azerbaigian si fa regolarmente beffe del diritto internazionale ignorando i trattati e le sentenze dei tribunali internazionali. La guerra del 2022 contro l’Armenia, il blocco di dieci mesi dell’Artsakh e l’invasione dell’Artsakh dello scorso 19 settembre sono state tutte violazioni della Dichiarazione tripartita di cessate il fuoco concordata da Azerbaigian, Armenia e Russia nel novembre 2020, che ha posto fine alla guerra di quattro anni fa. Inoltre, l’Azerbaigian ha ignorato e violato le misure provvisorie ordinate dalla Corte internazionale di giustizia il 7 dicembre 2021, il 22 febbraio 2023, il 6 luglio 2023 e il 17 novembre 2023″, ha aggiunto la dichiarazione.

“Vale anche la pena ricordare che l’Azerbaigian ha un bilancio negativo in materia di diritti umani in patria, che sta solo peggiorando. Dal 2023 al 2024, il record di libertà dell’Azerbaigian è diminuito di 2 punti, da 9 a 7 (su 100), rendendolo uno dei governi più autoritari al mondo. Inoltre, le azioni dell’Azerbaigian e del regime di Aliyev per quanto riguarda l’uso del suolo e la conservazione del clima naturale sono in diretto contrasto con i principi fondamentali al centro della conferenza Cop29. Non solo l’economia dell’Azerbaigian si basa sulle esportazioni di combustibili fossili, ma le industrie energetiche e le risorse naturali statali sono anche piene di corruzione, ponendo il paese in diretta opposizione a uno degli obiettivi dichiarati della Cop29, che è il completamento del primo quadro di trasparenza rafforzato”, ha sottolineato la dichiarazione.

“I funzionari azeri hanno affermato di voler ‘rendere la Cop29 una Cop di pace’. Il Lemkin Institute ritiene che tali affermazioni siano assurde, imbarazzanti e profondamente ciniche, dato ciò che tutti sappiamo del regime di Aliyev”, afferma la dichiarazione. “Se l’Azerbaigian vuole davvero dimostrare il suo impegno per la costruzione della pace, dovrebbe iniziare facilitando il rilascio immediato e incondizionato dei suoi prigionieri politici. Se questo piccolo passo non può essere fatto, le loro vere intenzioni sono chiare. In un momento in cui la popolazione mondiale ha perso fiducia nelle istituzioni internazionali, le Nazioni Unite devono tirare fuori la testa dalla sabbia e porre fine alla loro sponsorizzazione diplomatica dello Stato genocida dell’Azerbaigian, a partire dalla Cop29″, ha affermato il Lemkin Institute.

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Premier, l’Armenia uscirà da alleanza militare con Mosca (Ansa 12.06.24)

L’Armenia si ritirerà dall’Organizzazione del Trattato sicurezza Collettiva (Csto), l’alleanza militare guidata dalla Russia che riunisce diverse ex repubbliche sovietiche.

Lo ha annunciato il primo ministro, Nikol Pashinyan, senza precisare quando ciò avverrà.

Lo riferiscono le agenzie russe. Dell’alleanza fanno parte attualmente, oltre alla Russia e all’Armenia, la Bielorussia, il Kazakhstan, il Kirghizistan e il Tagikistan. La decisione di Yerevan conferma l’allontanamento progressivo dalla sfera di influenza russa dell’Armenia, finora un fedele alleato di Mosca.


Armenia, la tragedia raccontata con i fumetti (Il Messaggero veneto 12.06.24)

Il disegnatore friulano Paolo Cossi sta lavorando a un nuovo libro sull’eccidio. A Sacile un incontro con Antonia Arsland per i 20 anni del suo romanzo

MARIA BALLIANA

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Due immagini delle tavole realizzate per il libro dal friulano Paolo Cossi

SACILE. Appuntamento, mercoledì 12 giugno, nell’ex chiesa di San Gregorio a Sacile con “Festa per Antonia. I vent’anni della “Masseria delle allodole” di Antonia Arslan”.

L’Ute di Sacile rende così omaggio alla scrittrice padovana di origine armena che ha avuto il merito di far conoscere agli Italiani la storia del genocidio del suo popolo. Alle 16 l’autrice incontrerà il pubblico insieme con Paolo Cossi, il fumettista friulano che proprio alla storia del genocidio ha dedicato alcuni suoi lavori le cui tavole saranno esposte per l’occasione in San Gregorio.

Del suo interesse per gli Armeni parliamo con lui.

Alle volte le storie compiono giri particolari per arrivare a destinazione ovvero là dove possono mettere radici e dare frutti spesso inaspettati.

è capitato anche al fumettista friulano Paolo Cossi che, a distanza di 17 anni dal primo libro sugli Armeni, continua a occuparsi della tragedia che nel 1915 annientò 1 milione e mezzo di persone per volere del governo turco. Cossi, infatti, sta ultimando un nuovo lavoro, di cui è solo disegnatore, dedicato ad Armin Wegner, il tedesco che fu testimone oculare del genocidio armeno e lo documentò fotograficamente.

«Non sapevo assolutamente nulla di quello che era accaduto in Anatolia all’epoca della Prima guerra mondiale – racconta – Il primo a parlarmene fu l’alpinista bellunese Tito De Luca, reduce da una serie di esplorazioni sul monte Ararat durante le quali aveva rinvenuto delle ossa umane riconducibili a quei tragici fatti. Subito scattò in me l’esigenza di saperne di più, di conoscere quanto più potevo di questa storia che in Italia quasi tutti ignoravano e di cui i libri di storia non facevano neanche cenno».

Nel 2004 era uscito il dirompente romanzo di Antonia Arslan, “La masseria delle allodole” (divenuto film nel 2007 a opera dei fratelli Taviani) e quindi fu naturale che le loro strade si incrociassero.

«Incontrai Antonia più volte – racconta Paolo Cossi – e lei mi suggerì una serie di opere e fonti per documentarmi. A quel punto nacque il mio libro “Medz Yeghern, il grande male”, a cui poi seguì “Ararat, la montagna del mistero” e un altro lavoro, come disegnatore, uscito solo in Francia, Armenia e Usa, “Special mission Nemesis”».

Finalmente, nel 2012, Paolo Cossi si recò di persona in terra armena, invitato alla prima edizione del Festival del fumetto di Yerevan. «L’ambasciata di Francia, dove il mio libro era stato tradotto, aveva organizzato una presentazione. Ora avevo modo di vedere con i miei occhi quel minuscolo Paese che avevo solo immaginato nelle mie tavole un Paese dove vive gente mite e semplice che esprime una grande dignità e una cultura aperta e vivace».

Il libro di Cossi suscitò allora e in seguito molto interesse, ma anche le minacce dei Lupi Grigi, il gruppo estremista nazionalista turco (autore, tra l’altro, dell’attentato a papa Woytila nel 1981).

«Fecero recapitare a me, all’editore italiano e a quello francese una lettera minatoria che ci costrinse a usare la massima prudenza in alcuni luoghi o addirittura a evitarne altri. L’editore tedesco, che avrebbe dovuto pubblicare il mio libro, rinunciò perché in Germania vive un’importante comunità turca. E in Belgio, in occasione dell’assegnazione di un premio, dovetti uscire anzitempo da una porta posteriore ed essere scortato in albergo».

Accanto al forte impatto del romanzo di Antonia Arslan e al film dei Taviani, anche le graphic novel di Paolo Cossi hanno contribuito a far conoscere la storia del primo genocidio del Novecento.

Spiega il fumettista: «Come artista sentivo il dovere di raccontare qualcosa che era stato tenuto nascosto, di far conoscere alla pubblica opinione i fatti che sicuramente hanno ispirato i nazisti nell’ideare e organizzare l’Olocausto ebraico. Come si dice, un genocidio senza padre diventa padre di altri genocidi».

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La pace nel Nagorno-Karabakh è sempre più vicina (Agi 12.06.24)

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Relazioni tra Russia e Azerbaigian: una convergenza sancita dalla guerra (ll Caffe Geopolitico 10.06.24))

Caffè Lungo  L’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia ha avuto conseguenze sull’assetto geopolitico del Caucaso meridionale. Impegnata nel conflitto, quando le forze azere hanno compiuto incursioni in territorio armeno e successivamente attaccato il Nagorno-Karabakh, Mosca non è intervenuta a sacrificio delle relazioni con l’Armenia. Oggi il Cremlino sembra infatti intenzionato a rafforzare la cooperazione con l’Azerbaigian, che gode di una posizione geografica strategica e risorse naturali.

LA RIDEFINIZIONE DELLE ALLEANZE NEL CAUCASO

L’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022 non solo ha riportato l’attenzione verso i complicati rapporti tra il Cremlino e le nazioni dell’Europa orientale, ma anche verso le relazioni con un’altra regione storicamente legata a doppio filo alla Russia: il Caucaso meridionale. L’aggressione russa al vicino ucraino ha avuto profonde conseguenze sulla situazione geopolitica della regione. L’isolamento di Mosca in Europa e la mancata volontà di fornire assistenza all’Armenia durante le operazioni azere del 2022 e l’offensiva nel Nagorno Karabakh del 2023 hanno sancito l’allontanamento di Yerevan e l’avvicinamento di Mosca a BakuIl rapporto tra Russia e Azerbaigian, tradizionalmente marcato da alti e bassioggi sta diventando progressivamente più solido. I due Paesi collaborano su molti fronti in virtù di una serie di accordi siglati negli ultimi anni, i quali hanno reso l’Azerbaigian un importante partner della Russia. Un legame che sembra destinato a rafforzarsi, tanto per le necessità di Mosca quanto per la nuova direzione della politica estera azera impressa dal Presidente Ilham Aliyev dopo la sua rielezione nel febbraio 2024.

Fig. 1 – Manifestazione armena a Parigi con la bandiera della defunta Repubblica di Artsakh, 24 aprile 2024

L’ALLINEAMENTO TRA RUSSIA E AZERBAIGIAN

Benché la ricomposizione degli equilibri geopolitici nel Caucaso abbia portato a una maggiore cooperazione tra Russia e Azerbaigian, le relazioni sono state storicamente tese. La repressione violenta dei nazionalisti azeri da parte dell’esercito sovietico nel gennaio 1990 ha certamente lasciato un segno sui loro rapporti. In aggiunta a ciò l’Azerbaigian ha sempre malvisto il ruolo della Russia come protettrice dell’Armenia. Le tensioni sono ad esempio salite alla fine del 2022, quando il Governo azero ha accusato il contingente di peacekeeper russi stazionato nel Nagorno-Karabakh dalla fine della guerra del 2020 di fornire armi ai separatisti armeni attraverso il Corridoio di Laçın. Da parte sua, invece, la Russia non è soddisfatta del sostegno dell’Azerbaigian all’Ucraina. Alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza tenutasi nel febbraio 2024, il Presidente Aliyev ha persino reiterato al Presidente ucraino Volodymyr Zelensky il supporto di Baku per l’integrità territoriale di Kiev. Similmente, il Cremlino non ha gradito l’allontanamento dell’Armeniaalla quale le politiche azere hanno contribuito. Tuttavia, la decisione del Presidente russo Vladimir Putin di invadere l’Ucraina ha di fatto imposto alla Russia la reclusione politica ed economica dal resto d’Europa. Una situazione che ha spinto Mosca a cercare nuove alleanze ed eventualmente trovarla nella Repubblica azera, la quale non ha mancato l’occasione per coltivare le relazioni con il Cremlino a proprio vantaggio. Il documento chiave che ha portato i rapporti bilaterali tra Russia e Azerbaigian su un livello superiore è la Dichiarazione sulle Relazioni di Alleanza del febbraio 2022, che tra i propri obiettivi cita appunto l’intenzione di rafforzare la cooperazione tra i due Paesi. In seguito all’offensiva azera del settembre 2023, che ha portato allo scioglimento della Repubblica di Artsakh, e all’accettazione di Mosca della soluzione alla questione del Nagorno-Karabakh a scapito di Yerevan, le relazioni tra Russia e Azerbaigian hanno acquisito nuova linfa. Il 22 gennaio 2024 è stato svelato un piano d’azione congiunto finalizzato allo sviluppo di aree chiave della cooperazione bilaterale per il periodo 2024-2026. Un’agenda che garantisce continuità a quello implementata nel 2018-2023, che ha contribuito a raddoppiare il volume di scambi tra le due parti, per un valore superiore ai quattro miliardi di dollari. Nei frequenti incontri dei mesi successivi tra esponenti dei Governi russo e azero, al centro del tavolo delle discussioni è stato in particolare il Corridoio di trasporto internazionale Nord-Sud, un network di strade e ferrovie per connettere San Pietroburgo al Golfo Persico.

Fig. 2 – Il Presidente azero Aliyev e quello russo Putin durante un recente incontro al Cremlino, 22 aprile 2024

I BENEFICI PER MOSCA E BAKU NEL NUOVO SCENARIO REGIONALE

Il positivo sviluppo dei rapporti tra Russia e Azerbaigian si può dunque spiegare principalmente con ragioni economiche e geopolitiche. Il Paese caucasico è strategicamente importante per Mosca per almeno tre questioni. Innanzitutto, rappresenta per la Russia la possibilità di rilocalizzare le proprie imprese e attività finite nel mirino delle restrizioni occidentali. In secondo luogo, l’esportazione di petrolio e gas russo in Azerbaigian, che utilizza per i propri consumi interni oltre che rivenderlo sui mercati UE, permette a Mosca di mitigare gli effetti delle sanzioni e talvolta di raggirarle. Infine, Baku è un partner strategico per il trasporto di beni da e verso l’Iran e il Golfo Persico, e lo diventerà ancor più una volta completato il Corridoio. Articolato in tre arterie principali, il tratto che attraversa l’Azerbaigian è quello di maggiore interesse per Mosca, in quanto è l’unico Paese che confina sia con la Russia che con l’Iran e dispone già di collegamenti tra i due Stati. L’importanza strategica di completare ed espandere il Corridoio risiede nella possibilità di condurre i commerci bypassando l’Europa. Per quanto riguarda l’Azerbaigian, già importante partner dell’Unione Europea, invece, il miglioramento delle relazioni con la Russia ha contribuito ad aumentare il peso strategico del Paese. A dispetto del raffreddamento dei rapporti tra Baku e Bruxelles, quest’ultima è consapevole del ruolo critico che l’Azerbaigian svolge nella sicurezza energetica europea. Il nuovo posizionamento nel mutato assetto geopolitico sta inoltre portando benefici economici grazie a un incremento delle esportazioni verso il continente. In conclusione, nonostante i rapporti altalenanti tra Russia e Azerbaigian e la tendenziale volontà delle leadership azere di mantenere uno strategico equilibrio tra Occidente e Russia, motivazioni di natura economica oltre che un rapporto sempre più incrinato tra Azerbaigian e Istituzioni europee stanno spingendo i Governi azero e russo a rafforzare la cooperazione.

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Armenia, violenza silenziosa sugli anziani (Osservatorio Balcani e Caucaso 10.06.24)

La violenza contro le persone anziane è un problema reale e poco studiato a livello globale, ma sentito anche in paesi come l’Armenia e il Caucaso in generale. Anche perché gli anziani tendono a vivere isolati, e faticano a trovare aiuto

10/06/2024 –  Armine Avetisyan Yerevan

“Un giorno mi ucciderà”

Anahit, 73 anni, vive a Gyumri, la seconda città dell’Armenia. Il suo unico riferimento è il figlio di 50 anni, che vive nella porta accanto. Va a trovare sua madre più volte alla settimana, se necessario, fa la spesa, l’aiuta nelle faccende quotidiane. Negli ultimi mesi, tuttavia, la vita della donna è diventata un inferno dopo che il figlio, un tempo premuroso, ha iniziato a bere.

“Mio figlio è un uomo molto buono, non ho mai avuto problemi, ma il bere lo sta distruggendo. A volte diventa incontrollabile”, racconta. Suo figlio la picchia ormai da sei mesi, la costringe a dargli i suoi risparmi per comprare alcolici.

“I vicini pensano che io sia una donna felice a cui il figlio porta cibo fresco. In realtà, nelle borse della spesa c’è soprattutto vodka comprata con i miei risparmi. Avevo messo da parte un po’ di soldi per non essere di peso a nessuno nella mia vecchiaia, e ora lui prende i miei soldi e mi picchia. Mi ha colpito così forte che sono caduta. In realtà non è che non voglia dargli soldi, ma non voglio che beva così tanto”, dice la donna, aggiungendo che non ha nessuno con cui parlare.

“Non so, forse dovrei rivolgermi alla polizia, altrimenti un giorno mi ucciderà per un bicchiere di vodka”, dice.

Statistiche

Solo un caso su 24 di violenza contro gli anziani è registrato ufficialmente. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la violenza contro gli anziani è un problema di salute pubblica importante, ma poco studiato. I dati più recenti si basano sui risultati di 52 studi condotti in 28 paesi nel 2017.

Secondo l’OMS, il 15,7% della popolazione mondiale di età superiore ai 60 anni è sottoposta a qualche tipo di violenza. Tassi estremamente elevati si registrano nei contesti chiusi. Il 64,2% dei dipendenti di ospedali, case di cura e altre strutture di assistenza a lungo termine ha ammesso di aver assistito a violenze contro una persona anziana e il 50% ha ammesso di aver usato violenza in passato. La forma più comune di violenza contro gli anziani è quella psicologica (11,6%), seguita da quella finanziaria (6,8%), abbandono (4,2%), violenza fisica (2,6%) e sessuale (0,9%).

La violenza contro gli anziani è aumentata in modo significativo a causa dell’impatto della pandemia di Covid-19, e si prevede che aumenterà nei prossimi decenni, poiché la popolazione anziana mondiale supererà i 2 miliardi entro il 2050  . Secondo gli esperti, nella maggior parte dei casi la persona anziana subisce abusi dal coniuge o dai figli, ma si vergogna di parlarne, soprattutto nei Paesi caucasici dove l’opinione degli altri resta una preoccupazione. Gli anziani sono anche facili bersagli per personalità instabili e complessate.

“I giovani e i bambini sono più protetti dalla violenza perché conducono una vita più attiva, escono di casa, visitano luoghi diversi e possono parlare dei loro problemi. Gli anziani, invece, non escono di casa per giorni e restano in silenzio”, osserva l’attivista per i diritti umani Zaruhi Hovhannisyan, che conferma l’aumento dei casi dopo la pandemia.

“Negli ultimi anni anche le donne anziane hanno iniziato a rivolgersi ai centri di accoglienza e sono sicura che anche il numero di uomini anziani vittime di abusi è aumentato. Tuttavia non ci sono statistiche, perché la gente non ne parla”, dice.

Estreme conseguenze

Il 20 aprile a Yerevan è avvenuto un brutale e terrificante omicidio-suicidio. La polizia ha trovato il corpo di una casalinga di 63 anni con il collo tagliato. È stata uccisa dal figlio di 34 anni, che si è suicidato subito dopo.

“In media, ogni anno vengono registrati dieci omicidi di questo tipo. Se la vittima della violenza avesse parlato in tempo del problema, la tragedia avrebbe potuto essere evitata”, sostiene Zaruhi Hovhannisyan.

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Non ci sono solo gli affari. Il Molokano: «Sono scemo a confidare che sia l’Europa a salvare l’Armenia dai piani turco-azeri?» (Korazym 08.06.24)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 08.06.2024 – Renato Farina] – Mi appare improvvisamente, datato 20 maggio, questo messaggio su X, che gli esperti mi dicono essere il nome attuale di Twitter: «I am very proud to serve our Country as the Ambassador of Italy in Baku. Together Embassy and the Italian Trade Agency, we will work co further strengthen relations between Italy and Azerbaijan in all areas of common interest, in order to build solid and lasting bridges between the two Countries».

È firmato dall’appena insediato nella sua sede caucasica Luca Di Gianfrancesco, e non vi offenderete se mi permetto di fornire la traduzione dettata da Google alla mia ignoranza molokana: «Sono molto orgoglioso di servire il nostro Paese come Ambasciatore d’Italia a Baku. Ambasciata e ICE (Istituto Commercio Estero) lavoreranno insieme per rafforzare ulteriormente le relazioni tra Italia e Azerbajgian in tutti i settori di interesse comune per costruire ponti solidi e duraturi tra i due Paesi».

Per prima cosa gli affari? Non sono tanto ingenuo da non sapere come funzionano le cose del mondo. Le cose del mondo sono i «ponti» costruiti sul traffico delle merci, gas e tecnologie, e va bene, molto bene. Ma le cose mondo sono soprattutto le persone, la loro libertà, il diritto di vivere nella loro terra senza esserne strappati via come animali infetti. Per lasciare spazio a forniture che aumenteranno forse il Pil ma se comportano l’assenso al male e la cecità di fronte alle ingiustizie, defraudano l’anima di chi accumula nel proprio granaio riserve mortifere.

Vorrei chiedere all’Ambasciatore di evitare per pudore un giro coi notabili di regime nel Nagorno-Karabakh (l’Artsakh in lingua materna) da cui sono stati cacciati via gli Armeni Cristiani, abbandonate le loro vigne, rubati i pendii profumati di timo e preghiere, resi deserti i 400 monasteri. Non ci vada, resista per un po’, almeno per qualche mese, non sospenderanno le forniture di metano, devono pur usare i gasdotti che arrivano da voi in Italia.

Le cose del mondo sono anche i rumori della guerra lenta, paziente, da roditori furbi e ostinati, che nell’indifferenza dell’Europa e ahimè temo con compiacimento del vostro governo di Roma, stanno spostando ogni giorno le linee di confine conquistando centimetro su centimetro di territorio della Repubblica di Armenia. Accade vicino al mio villaggio, piccolo residuo di fede antica davanti alle ganasce turco-azere.

Il miracolo di Maria

Teresa Mkhitaryan raccoglie le testimonianze di miei fratelli estromessi dalle loro case e ancora inseguiti. Mi colpisce come non ci sia alcun odio ma dolore e speranza insieme. Ha scritto [QUI]: «Lo dico sempre che la speranza di noi cristiani non dipende dalle circostanze della vita, ma è nel Signore, che è al di sopra di tutte le circostanze. E poi è successo il miracolo con la nostra Maria. Una bravissima ragazza che andava in Artsakh alla scuola domenicale (l’oratorio, si direbbe da voi) e adesso è scappata in Armenia e vive a un chilometri dalla frontiera con l’Azerbajgian, nel villaggio di Movses. Ora lei va alla scuola domenicale di questo villaggio. In aprile gli Azeri hanno cominciato a bombardare il villaggio a mezzanotte e hanno continuato fino alle 4 del mattino. Miravano alla chiesa del villaggio. La nuova casa di Maria e della sua famiglia sta vicino alla chiesa. E hanno colpito la casa di Maria e la stanza proprio dove dormiva Maria. Le finestre, la parete sono state danneggiate. Ma la cosa bella è che a Maria, che era nel suo letto, non è successo niente, ha continuato a dormire, non si è accorta. Solo al mattino ha visto che le finestre della stanza non c’erano più». È stata una grazia più forte della dis-grazia.

Intanto in Erevan, la capitale, c’è tensione, si scontrano visioni diverse sulla strada da intraprendere per il bene del nostro popolo le cui sacche di memoria traboccano di lacrime e sangue. La posizione del Primo Ministro Nikol Pashinyan obbedisce ad essere un realismo amaro. Trattare con il più forte, cedendo anche qui e là villaggi all’Azerbajgian, pur di arrivare a definire confini definiti e sicuri.

Il passo da affrettare

Guidato da un Arcivescovo metropolita della Chiesa Apostolica Armena, Bagrat Srpazan, è sorto nella provincia nord-orientale di Tavush, a pochi chilometri da dove vi scrivo, un movimento «per la salvezza della Patria», che si oppone alle «concessioni fondiarie», in realtà formule che maschererebbero cedimenti alle minacce di Baku. «Non è sbagliato, è illegale. Secondo la costituzione queste modifiche territoriali vanno sottoposte a referendum», dicono gli oppositori. Sostengono che se ti fai agnello il lupo turco ti mangia. Li comanda un vescovo ma non accettano la definizione di movimento religioso, rifiutano la violenza, e negano di essere appoggiati dalla Russia come sospettano i sostenitori di Pashinyan, che li accusano di favorire una destabilizzazione, che aprirebbe le porte a un intervento di Mosca.

Pashinyan sta sul filo tra le montagne. Di chi può fidarsi? Chi tutelerà l’Armenia da una soluzione finale progettata per essa dall’ imperialismo turco appoggiato purtroppo da Viktor Orbán che ha cantato davanti a Erdoğan l’origine comune da Attila (sul serio!)?

Egli cede un pochino per volta alle richieste azere per non innervosire troppo il dittatore Ilham Aliyev (foto di copertina). Compra tempo, coltivando il disegno di entrare nella Unione Europea. Il Direttore di Politico gli ha chiesto quando spera si realizzi questo sogno. Ha risposto con una battuta: «Quest’anno». Un modo per non farsi prendere troppo sul serio, e non provocare un’aggressione russa. Spera in un segnale forte da Brussel: e che Erevan riceva il sostegno del Fondo per la Pace dell’Unione Europea, lo ha detto a maggio al «Vertice sulla democrazia di Copenhagen». L’Ungheria ha posto il veto chiedendo per toglierlo, che si dia denaro anche all’Azerbajgian. Pashinyan ha allora allargato lo sguardo: «Ora collaboriamo con l’India, la Francia e altri Paesi nel campo della sicurezza. E ora abbiamo un “partenariato” simile con l’Unione Europea».

Aspetta e spera. Sono scemo a confidare in una amicizia forte dell’Italia che affretti il passo europeo verso l’Armenia? Tutto dice il contrario. Mi viene da dire forza Giorgia, ma sono un illuso?

Il Molokano

Questo articolo è la versione integrale di quanto è stato pubblicato sul numero di giugno 2024 di Tempi in formato cartaceo e sulla edizione online Tempi.it [QUI].

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Galstanyan, il vescovo armeno che aspira al governo (Asianews 07.06.24)

L’arcivesoco di Tavowš, la zona più toccata dalle ultime dispute con gli azeri, è oggi il leader delle forze che si oppongono ai negoziati con Baku. Sostenuto dallo stesso katholikos Karekin II, ha chiesto di essere sospeso dalle sue funzioni pastorali ma scende comunque in piazza con i paramenti episcopali non sottraendosi agli spintoni delle forze di polizia. E non fa mistero dell’ambizione a guidare il Paese dopo aver rovesciato il “traditore” Pašinyan.

Erevan (AsiaNews) – Una nuova figura si sta imponendo sulla scena politica dell’Armenia, dilaniata dal contrasto tra le forze di maggioranza, favorevoli alle trattative di pace con l’Azerbaigian, e quelle di opposizione che rivendicano la difesa dei territori di confine. Queste ultime dal 9 maggio scorso hanno trovato la loro guida in un religioso, l’arcivescovo Bagrat Galstanyan della diocesi di Tavowš, la zona più interessata alle ultime dispute tra armeni e azeri.

Dopo una “marcia su Erevan” per tutta l’Armenia dalla periferia verso il centro, a imitazione di quella che condusse al potere l’attuale premier Nikol Pašinyan, il vescovo sta ora incitando a continue proteste di piazza. L’ultimo corteo è partito dalla chiesa di Sant’Anna della capitale senza dire dove era diretto, “verso un posto importante” ha assicurato Bagrat, e raggiungendo infine l’ufficio del Garante per i diritti dell’uomo, “per ottenere risposte alle nostre domande, e sapere se esistono ancora dei diritti nel nostro Paese”.

L’arcivescovo Galstanyan agisce con la benedizione del patriarca della Chiesa Apostolica Armena, il katholikos Karekin II, rendendo evidente la contrarietà della Chiesa alle politiche dell’attuale governo, e il ruolo di intervento diretto nelle questioni sociali da parte di un’istituzione religiosa che vuole rappresentare l’identità dell’intera popolazione. Il vescovo è stato sospeso dalle sue funzioni pastorali su sua stessa richiesta, il che non gli impedisce di scendere in piazza con i paramenti e le suppellettili della sua dignità ecclesiastica per guidare il movimento “Tavowš in nome della Patria”, che coagula attorno a sè gruppi e partiti di ogni genere di opposizione, anche molto lontani ideologicamente dalla Chiesa e dalla religione, ma tutti piuttosto favorevoli ai rapporti con la Russia.

Bagrat è un monaco come tutti i vescovi delle tradizioni orientali, non ha quindi altra famiglia che la Chiesa e il popolo, e non fa mistero delle sue ambizioni a rivestire il ruolo di primo ministro dopo aver rovesciato l’attuale “traditore” Pašinyan. Il 53enne arcivescovo ha colpito per la sua energia e il suo carisma, non sottraendosi agli spintoni con le forze di polizia e agli infuocati comizi di piazza, per poi abbandonarsi agli abbracci delle migliaia di sostenitori. Le sue qualità di politico sono evidenti nella capacità di intavolare trattative continue con i rappresentanti delle altre forze politiche, degli imprenditori e uomini d’affari, fino ai gruppi della diaspora armena in tutto il mondo.

Chiedendo la sospensione dall’ufficio ecclesiastico, Bagrat si è mostrato sicuro del suo destino: “non posso mantenere il mio ufficio insieme al premierato, sono pronto a deporre questo sacrificio sull’altare sacro della Patria”. Le opposizioni peraltro non dispongono di voti sufficienti in parlamento per sottoporre Pašinyan alla procedura di impeachment, e già una volta sono state sconfitte alle elezioni anticipate, considerando che l’attuale premier aveva a sua volta conquistato il potere dopo una “rivoluzione gentile”, sollevando il popolo contro la corruzione della casta dominante post-sovietica e filo-russa dei suoi predecessori.

Un altro problema deriva dalla cittadinanza canadese di Galstanyan, che l’aveva ricevuta 20 anni fa da giovane vescovo dell’eparchia nord-americana. La procedura per tornare solamente armeno è piuttosto lunga, e le leggi vietano le cariche istituzionali a chi è in possesso di doppia cittadinanza, per quanto egli assicuri che “per il servizio alla patria” getterà via il secondo passaporto. La questione più clamorosa, comunque, rimane la posizione assai poco “pacifista” del vescovo che incita al confronto con i nemici azeri, quando il laico primo ministro predica il dialogo e la composizione dei conflitti, una posizione che Galstanyan condanna come “degna di uno schiavo”, sfidando il presidente dell’Azerbaigian con le parole “te lo dico in faccia: il tuo amichetto in Armenia non ha più alcun potere ormai”.

L’arcivescovo-candidato premier iniziò il suo percorso ecclesiastico nel 1988, entrando in seminario ancora in epoca sovietica e rivestendo diversi ruoli nella curia della Santa Ečmjadzin, la sede del Katholikos-Patriarca Apostolico, per poi finire gli studi in Inghilterra e tornare come responsabile dell’informazione patriarcale, prima di essere inviato in Canada. Dal 2015 era vescovo di confine e nessuno lo conosceva, e la sua parabola dell’ultimo mese appare a tanti armeni come una vera e propria rivelazione della volontà divina per la rinascita dell’Armenia cristiana.

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