LO SCHIACCIANOCI CON IL BALLETTO NAZIONALE ARMENO A DICEMBRE AL REGIO (Zarabaza 11.12.24)

LO SCHIACCIANOCI

CON IL BALLETTO NAZIONALE ARMENO A DICEMBRE AL REGIO

Uno dei capolavori del balletto dell’Ottocento nella versione coreografica di Georgy Kovtun, con scene e costumi di Vjačeslav Okunev che restituiscono lo splendore della sua veste tradizionale

Teatro Regio di Parma

sabato 28 dicembre 2024 ore 20.30

domenica 29 dicembre 2024 ore 15.30

Lo Schiaccianoci è lo spettacolo dall’atmosfera natalizia per eccellenza, uno dei capolavori del balletto dell’Ottocento, grande opera di Marius Petipa, adattata per i bambini e trasformata in balletto grazie alla celeberrima musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij, con suggestioni oniriche tipiche della favola. L’allestimento raffinato del Balletto Nazionale Armeno, nella versione coreografica di Georgy Kovtun, con scene e costumi di Vjačeslav Okunev incanterà grandi e piccoli al Teatro Regio di Parma sabato 28 dicembre ore 20.30 e domenica 29 dicembre 2024 ore 15.30,rimanendo fedele al balletto originale, emblema della tradizione ballettistica russa e ripercorrendo i passi di Petipa e di Ivanov con lo scopo di restituire lo splendore della sua veste tradizionale.

Protagonisti in scena: Elya Aslanyan (28) e Anahit Vasilyan (29) nel ruolo di Marie, Andrei Gukasian (28) e Militon Kirakosyan (29) in quello del Principe; Sevak Avetisyan (28) e Grigor Grigoryan (29) in Drosselmeyer; Mariam Garajyan (28) e Tatevik Bolshikyan (29) nella Fata; Garegin Babelyan (28) e Vahe Babajanyan (29)nello Schiaccianoci; Artashes Hakobyan (28) e Armen Zakaryan (29)nel Re dei topi.

BALLETTO NAZIONALE ARMENO

Il Teatro Nazionale Armeno dell’Opera e del Balletto intitolato ad Alexander Spendiaryan è stato fondato nel 1933, segnando un’importante pietra miliare nel panorama culturale armeno. La sua compagnia di balletto si è esibita per la prima volta all’inaugurazione del teatro nelle scene di ballo dell’opera “Almast” di Alexander Spendiaryan, coreografate da Vahram Aristakesyan e Vladimir Presnyakov. La prima rappresentazione del balletto, “Il lago dei cigni” di P.I. Čajkovskij fu messa in scena nel 1935 da Yuri Reineke. Un evento significativo nel 1939 fu l’esecuzione del balletto “Happiness” su musica di Aram Khachaturyan in cui Ilya Arbatov combinò per la prima volta il balletto classico con le danze popolari armene. Dal 1938 al 1957, il repertorio del teatro si arricchì con una serie di balletti nazionali come “Gayane” di Aram Khachaturyan, “Sevan” di Grigor Yeghiazaryan, “Marmar” di Edgar Hovhannisyan e “Sona” di Eduard Khaghagortyan.

Dal 1961 al 1967, Yevgeny Changa fu a capo del Balletto Nazionale Armeno e permise la creazione di balletti su larga scala come “Spartacus” di Aram Khachaturyan, “Cenerentola” di Sergey Prokofiev, “Don Chisciotte” di Ludwig Minkus e “Prometeo” di Emin Aristakesyan. Dal 1967 al 1971 la compagnia di balletto fu diretta da Maxim Martirosyan. Con un rapporto unico tra danza classica, moderna e popolare armena, le sue produzioni di balletto hanno arricchito la scena della danza nazionale con nuove espressioni artistiche. Dal 1972 al 1983 e poi dal 2014 al 2021, con alcune interruzioni, Vilen Galstyan, è stato il principale direttore del balletto del Teatro Nazionale Armeno dell’Opera e del Balletto. Sotto la sua direzione furono create le seguenti produzioni di balletto: “David of Sassoun” di Edgar Hovhannisyan, “Spartacus”, “Masquerade” e “Gayane” di Aram Khachaturyan – il pezzo più rappresentativo del Balletto Nazionale Armeno fino ad oggi. I classici del repertorio degli ultimi anni sono “Romeo e Giulietta” di Oleg Vinogradov e “Il lago dei cigni” di A. Fadeečev. Il Balletto Nazionale Armeno è stato in tournée in numerosi teatri prestigiosi: Teatro Bolshoi a Mosca, Teatro Mariinsky e Teatro Mikhailovsky a San Pietroburgo, così come teatri in Francia, Belgio e altri paesi. Oggi Ruben Muradyan, artista onorato della Repubblica d’Armenia, è il principale coreografo del Teatro Accademico Nazionale Armeno dell’opera e del balletto.

Dicembre al Regio si concluderà mercoledì 1 gennaio, ore 18.00, con il Concerto di Capodanno della Società dei Concerti di Parma.

BIGLIETTERIA

Biglietti da 15 a 70 euro. Riduzioni del 20% per Under35 e scuole di danza. I biglietti per tutti gli spettacoli sono disponibili presso la biglietteria del Teatro Regio di Parma e online su teatroregioparma.it. L’acquisto online non comporta alcuna commissione di servizio. Per informazioni Strada Giuseppe Garibaldi, 16/A – 43121 Parma Tel. +39 0521 203999 – biglietteria@teatroregioparma.it

Parma, 5 dicembre 2024

Paolo Maier

Responsabile Comunicazione istituzionale, Ufficio stampa, Archivio

Teatro Regio di Parma

strada Garibaldi 16/A, 43121 Parma – Italia

Tel. +39 0521 203969

p.maier@teatroregioparma.it

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GEORGY KOVTUN

Nato il 19 febbraio 1950 a Odessa è un ballerino, maestro di balletto e coreografo ucraino. Nel 1985 si è diplomato come coreografo-direttore al Conservatorio di Leningrado nella classe di N. N. Boyarchikov. Dal 1987 al 1994 è stato il coreografo principale del Teatro dell’Opera e del Balletto per bambini di Kiev e ha coreografato più di 30 produzioni di balletto. Dal 1994 lavora come maestro di ballo del Teatro Accademico Statale dell’Opera e del Balletto di San Pietroburgo. Nel 2000 inizia ad insegnare “L’Arte della Coreografia” al Conservatorio di San Pietroburgo. Nel corso della sua lunga carriera ha già messo in scena più di 300 spettacoli di opera e balletto, miniature coreografiche, musical, operette.

VJAČESLAV OKUNEV

È lo scenografo principale del Teatro Mikhailovsky. Le produzioni in cui ha lavorato in questo teatro includono La storia dello zar Saltan, La sposa dello zar, La traviata, Otello, Rigoletto, Tosca, Carmen, Il barbiere di Siviglia, Die Csárdásfürstin, Die Fledermaus, Faust, Don Giovanni, Iolanta, Don Chisciotte, La Bayadère, La Bella Addormentata, Il Lago dei Cigni, Lo Schiaccianoci, Raymonda, Giselle e Spartacus tra gli altri. Ha lavorato anche in produzioni del Boris Eifman Ballet Theatre, dell’Opera da Camera di San Pietroburgo, del Leonid Yakobson Ballet Theatre, del Lensoviet Theatre (San Pietroburgo) e dei teatri dell’opera e del balletto di Novosibirsk, Samara, Krasnoyarsk e Saratov. L’artista ha collaborato con il Teatro dell’Opera e del Balletto del Conservatorio di San Pietroburgo, i teatri dell’opera e del balletto di Ekaterinburg e Perm, il Teatro Musicale di Rostov, i teatri delle commedie musicali di San Pietroburgo e Ekaterinburg e il teatro Zazerkalye (San Pietroburgo). Al Teatro Bolshoi russo Vyacheslav Okunev ha disegnato le scenografie per le produzioni di La Sylphide, Russian Hamlet e Khovanshchina.

Okunev ha anche lavorato molto fuori dalla Russia, tra cui all’Opera di Stato di Vienna, alla Staatsoper Unter den Linden di Berlino, all’Opera israeliana (Tel Aviv), al Theatre Royal di Glasgow, all’Opera Nazionale Greca (Atene), al Teatr Wielki – Opera Nazionale Polacca (Varsavia), Opera di Stato Ungherese (Budapest), Teatro Nazionale della Corea (Seoul), New York City Ballet, Teatro Bolshoi della Bielorussia (Minsk) e Nuovo Teatro Nazionale, Tokyo. Le produzioni ideate da Vyacheslav Okunev sono state presentate in diverse sedi italiane, tra cui il Teatro alla Scala, l’Arena di Verona e il Teatro Lirico di Cagliari.

LA TRAMA

Atto I Gli ospiti stanno arrivando per la festa a casa dei signori Stahlbaum e dei loro bambini, Mary e Fritz. Il padrino di Mary, l’eccentrico sig. Drosselmeyer, arriva con giocattoli per tutti i bambini e qualcosa di speciale  per Mary.

Durante la festa Drosselmeyer ha un’altra meravigliosa sorpresa, bambole ad altezza d’uomo che danzano per la delizia dei bambini. Egli poi fa a Mary il suo dono speciale, uno schiaccianoci in legno con l’aspetto di un soldato, uno strano regalo per una bambina, ma Mary se ne innamora a prima vista e, orgogliosa, lo mostra a tutti. Fritz volendoglielo strappare incidentalmente rompe lo schiaccianoci. Mary ha il cuore spezzato, ma per fortuna Drossdelmeyer aggiusta il giocattolo con grande sollievo di tutti. La festa volge al termine e i bambini vengono mandati a letto. Mary è troppo eccitata per dormire e sgattaiola al piano di sotto per stare insieme al suo schiaccianoci. Incominciano a succedere delle strane cose. Enormi topi, grandi quasi quanto lei, corrono sul pavimento. La pendola batte la mezzanotte e l’intera casa incomincia a trasformarsi. L’albero di Natale incomincia a crescere diventando enorme e una grande battaglia ha inizio tra i topi guidati dal Re dei Topi e lo Schiaccianoci, ora a grandezza naturale, che è alla testa di un esercito di soldati giocattolo. Sembra che il Re dei Topi stia per avere la meglio, ma proprio all’ultimo lo Schiaccianoci è vittorioso. Lo Schiaccianoci si trasforma in un Principe e conduce Mary in un viaggio fantastico che ha inizio nel ventoso Regno della Neve dove la Regina delle Nevi le dà il benvenuto. Nell’ultima scena l’intero Regno della Neve manda Mary nel palazzo della Fata Confetto nel magico Paese della Dolcezza.

Atto II La scena incomincia nel palazzo della Fata Confetto dove tutti si riuniscono per dare il benvenuto a Mary. Mentre gli Angeli sono intorno al palazzo, la Fata Confetto e il suo Cavaliere incontrano Mary e il Principe Schiaccianoci e invitano tutti i personaggi a entrare per un saluto reale. Il Principe Schiaccianoci rievoca la battaglia per spiegare a tutti come l’intrepida Mary l’abbia aiutato a sconfiggere il Re dei Topi. La Fata Confetto organizza una grande festa. Danzatori provenienti da posti lontanissimi, Spagna, Arabia e Russia, sono arrivati per danzare per Mary. La Fata della Rugiada apre il bel valzer dei Fiori, e poi la Fata Confetto e il suo Cavaliere interpretano la più bella danza. Alla fine tutti i personaggi si riuniscono per salutare Mary che ritorna a casa.

Teatro Regio di Parma

sabato 28 dicembre 2024 ore 20.30

domenica 29 dicembre 2024 ore 15.30

Durata 2 ore compreso un intervallo

LO SCHIACCIANOCI

Balletto Nazionale Armeno

Musica Pëtr Il’ič Čajkovskij

Versione coreografica Georgy Kovtun

Scene e costumi Vjačeslav Okunev

Marie Elya Aslanyan (28) / Anahit Vasilyan (29)

Il principe Andrei Gukasian (28) / Militon Kirakosyan (29)

Drosselmeyer Sevak Avetisyan (28) / Grigor Grigoryan (29)

La fata Mariam Garajyan (28) / Tatevik Bolshikyan (29)

Lo schiaccianoci Garegin Babelyan (28) / Vahe Babajanyan (29)

Il re dei topi Artashes Hakobyan (28) / Armen Zakaryan (29)

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1489 di Shoghakat Vardanyan (Osservatorio Balcani e Caucaso 11.12.24)

Nell’ambito della rassegna “DocDay“, proiezione del film della regista armena Shoghakat Vardanyan che racconta le ricerche del fratello Soghomon che stava per completare il servizio militare obbligatorio quando è scoppiata la guerra del Nagorno-Karabakh. Conferenza pomeridiana e a seguito della proiezione serale, dibattito con l’autrice

Proiezione del film “1489” della regista armena Shoghakat Vardanyan (Armenia, 2023) nell’ambito della rassegna di film documentari „DocDay“.

La giovane pianista armena Shoghakat Vardanyan non aveva mai preso in considerazione di fare un film. Ma poi, nell’autunno del 2020, il governo azero ha lanciato una nuova grande offensiva militare sulla regione del Nagorno-Karabakh tra Armenia e Azerbaigian, contesa da decenni. Il fratello di Vardanyan, anch’egli un giovane musicista, stava svolgendo il suo servizio militare obbligatorio quando, da un giorno all’altro, è stato chiamato al fronte. Da qui la famiglia perse ogni contatto con lui. La giovane donna ha quindi iniziato a documentare la ricerca del fratello col suo smartphone. Il risultato è un film molto emotivo e intimo sulla ricerca, l’incertezza e infine un triste presentimento.

Shoghakat Vardanyan è nata nel 1993 a Yerevan, in Armenia. Musicista, nel 2014 si è laureata in pianoforte al Komitas State Conservatory di Yerevan. Dal 2017 suona improvvisazioni libere ed è entrata a far parte della Contemporary Sound Orchestra di Yerevan. Ha partecipato ai workshop EurasiaDoc Armenia e DocTrain Armenia, dove ha avuto come mentore la regista e produttrice russa Marina Razbežkina. 1489 è il suo primo film.

Ore 16.00 – Conferenza “Quando conflitto e perdita prendono forma” – Libera Università di Bolzano, Aula F.06, ore 16.00

La regista Shoghakat Vardanyan dialoga con Roberto Farneti (Facoltà di Economia e Management, Università di Bolzano), Emanuela Fronza (Dipartimento di Scienze Giuridiche,  Università di Bologna), Daniela Giannetti (Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, Università di Bologna), Emanuele Vernillo (Zelig Scuola di Documentario).

Ore 20.00 – Proiezione del film presso il Cinema Capitol

Seguirà un dibattito con l’autrice.

INFO:

FAS – Film Association South Tyrol

web: https://www.fas-film.net/it/docday/

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Dal Congo all’Armenia passando per l’Europa: mostra internazionale di presepi al Museo Pitrè (PalermoToday 11.12.24)

QuandoDal 16/12/2024 al 06/01/2025dalle ore 9 alle 18.30 | festivi e prefestivi dalle ore 9 alle ore 13
PrezzoPrezzo non disponibile
Altre informazioniSito web palermo.it Tema Natale
Presepi di tutto il mondo in mostra al Museo Pitrè. Un affascinante allestimento frutto della passione e dei viaggi intrapresi, negli ultimi 40 anni, da Marcella Croce e Giovanni Matranga in una ventina di paesi diversi tra cui Italia, Spagna, Portogallo, Francia, Armenia, Israele, Palestina, Congo, Etiopia, Brasile, Argentina, Uruguay e Messico, a cui si aggiungono i presepi appartenenti alla collezione del Museo Pitrè.

La mostra sarà visitabile dal 16 dicembre 2024 al 6 gennaio 2025 dalle ore 9 alle 18.30 gratuitamente, festivi e prefestivi dalle ore 9 alle ore 13. Lunedì 16 dicembre 2024, alle ore 17, nella suggestiva cappella del Marvuglia del Museo l’inaugurazione.

Pratica devozionale seguita per la prima volta da San Francesco a Greccio nel 1223, il presepe fu incoraggiato fra i fedeli soprattutto dai gesuiti, nel clima postridentino tipico della Controriforma: famosi soprattutto quelli napoletani tuttora lì in vendita vicino la chiesa di San Gregorio Armeno. Sappiamo che a Palermo nel 1653 ne venne allestito uno con figure a grandezza naturale nella chiesa di San Domenico. Tra le figure peculiari del presepe siciliano, accuratamente elencate da Pitrè, troviamo lo ‘spaventato’ che è sconvolto dall’evento e l’addormentato’ che si perse tutto lo spettacolo.

Marcella Croce

Marcella Croce è nata a Palermo. È giornalista, ha collaborato con il quotidiano La Repubblica per più di dieci anni e collabora attualmente con il Giornale di Sicilia con la rubrica settimanale Una gita fuori porta che da più di tre anni segnala itinerari e luoghi poco conosciuti in Sicilia. Conoscere le lingue e studiare le culture del mondo è il suo principale interesse.

Dopo una laurea in letteratura inglese (Palermo) e una borsa di studio presso il Mount Holyoke College (Massachusetts), ha conseguito nel 1988 il dottorato di ricerca in letteratura italiana presso la University of Wisconsin-Madison (USA) con una tesi sulla Tradizione cavalleresca in Sicilia. Ha insegnato lingua inglese nelle scuole secondarie a Palermo e lingua italiana presso le Università di Isfahan (Iran) e Kyoto (Giappone).

Ha pubblicato vari libri sulle tradizioni popolari siciliane e non solo: Pupi carretti contastorie (1999),  Pupari (2003), Le stagioni del sacro (2004), Eat Smart in Sicily (2008), Guida ai sapori perduti – storie e segreti del cibo siciliano (2008), L’anima nascosta del Giappone (2009). Il suo volume Oltre il chador  — Iran in bianco e nero (2006)  ha vinto il 1° Premio di scrittura femminile “Il paese delle Donne” (Roma 2007). Negli ultimi anni ha pubblicato Oriente e Occidente (2018), Sicilia da Scoprire (2022) e Una gita fuori porta (2024). Dal 2011 è responsabile del Centro Studi Avventure nel Mondo di Palermo.


Mostra internazionale di presepi al Museo Pitrè dal 16 dicembre 2024 al 6 gennaio 2025
https://www.palermotoday.it/eventi/mostra-presepi-museo-pitre-16-dicembre-6-gennaio.html
© PalermoToday


“Esposizione internazionale di presepi al Museo Etnografico G. Pitrè di Palermo

Armenia-Azerbaigian: ministro Esteri Mirzoyan, concordati 15 dei 17 articoli del Trattato di pace (AgenziaNova 09.12.24)

Erevan, 09 dic 16:34 – (Agenzia Nova) – Armenia e Azerbaigian hanno raggiunto un accordo su 15 dei 17 articoli della bozza di trattato di pace. Lo ha detto il ministro degli Esteri armeno, Ararat Mirzoyan, in un’intervista ai media finlandesi, confermando che le due nazioni stanno lavorando su un accordo che si basa sulla Dichiarazione di Almaty del 1991, che ha stabilito i confini statali tra le ex repubbliche sovietiche. Mirzoyan ha sottolineato che la demarcazione dei confini è fondamentale per garantire stabilità futura e che le commissioni dei due Paesi continueranno a lavorare per definire chiaramente le linee di confine. Inoltre, ha dichiarato che Armenia e Azerbaigian potrebbero raggiungere soluzioni reciproche accettabili in relazione all’apertura delle comunicazioni, inclusi il trasporto ferroviario e altre modalità di collegamento. Riguardo alla conclusione del trattato di pace, il ministro ha aggiunto che, sebbene non si sia riusciti a finalizzare l’accordo prima del vertice della Cop29 di Baku, le parti sono ora pronte a firmarlo a breve. Mirzoyan ha espresso ottimismo, indicando che nonostante il difficile passato delle due nazioni, ci sono segni di speranza e una reale opportunità di voltare pagina.
(Rum)

Un viaggio tra speranza e memoria: arriva in Italia Amerikatsi, il film che racconta l’Armenia oltre la tragedia (Castingnews 09.12.24)

Amerikatsi, il film diretto, scritto e interpretato da Michael A. Goorjian, sarà proiettato nei cinema italiani a partire dal 16 gennaio, distribuito da Cineclub Internazionale Distribuzione con il supporto di DNA Srl. L’opera, scelta dall’Armenia per concorrere come Miglior Film Internazionale agli Oscar® 2024, è entrata nella short list finale, attirando l’attenzione per il suo approccio innovativo e commovente.

Ambientato nel 1948, il film segue la storia di Charlie, un uomo che, dopo essere fuggito negli Stati Uniti per scampare al genocidio armeno, decide di tornare nella terra natia. Il ritorno si scontra con la dura realtà del regime sovietico, portandolo inaspettatamente in prigione. Tuttavia, ciò che potrebbe sembrare una tragedia si trasforma in una straordinaria avventura umana: dalla finestra della sua cella, Charlie osserva la vita degli abitanti dell’edificio di fronte, immergendosi in storie di amore, dramma e ironia, come in una serie televisiva vista attraverso uno schermo.

Goorjian, americano di origine armena, trasforma questa narrazione in una delicata favola sulla resilienza e la scoperta culturale, esplorando temi universali come il legame con le proprie radici e il contrasto tra sogno e realtà. “Molti film sull’Armenia si focalizzano sul genocidio, ma questa storia vuole andare oltre,” ha dichiarato il regista. “Amerikatsi celebra la musica, il cibo, la passione e l’amore per la vita che caratterizzano l’Armenia, mostrando aspetti poco conosciuti della sua cultura.”
L’opera, con una miscela unica di commedia, dramma e romanticismo, affronta con sensibilità il tema del genocidio armeno, senza ridurre la narrazione a un mero racconto di lutto. Al contrario, riesce a intrecciare momenti di umorismo e poesia in una riflessione profonda sull’identità e sulla speranza.

Sinossi:
Charlie, un uomo di origine armena che ha vissuto per anni negli Stati Uniti, decide di tornare nel suo paese natale. Finisce però in prigione sotto il regime sovietico, trovando nella finestra della sua cella una via inaspettata per scoprire la vivacità e la ricchezza della vita armena. Da spettatore silenzioso, si immerge in una serie di vicende umane che lo riconnettono alle sue radici e lo spingono a credere nel potere della speranza.

Con Amerikatsi, Michael A. Goorjian firma un’opera unica che invita il pubblico a guardare oltre la tragedia e ad abbracciare la complessità di un popolo e della sua cultura, in un viaggio che tocca il cuore.

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Un premio in Armenia all’ “orgoglioso marnatese” Ibrahim Malla, fotografo umanitario e Ambasciatore di Buona Volontà (Varesenews 09.12.24)

In occasione della Giornata Mondiale del Volontariato Ibrahim Malla, fotografo umanitario e orgoglioso marnatese, è stato invitato in Armenia dove la Croce Rossa locale gli ha conferito la Medaglia d’Oro all’Onore e lo ha nominato Ambasciatore di Buona Volontà.

Durante la cerimonia, che si è celebrata il 5 dicembre a Yerevan, sua Eccellenza Alfonso Di Riso, Ambasciatore d’Italia in Armenia, che era presente, si è personalmente congratulato con Ibrahim Malla.

Dopo 30 anni di volontariato, con missioni umanitarie e mostre fotografiche in tutto il mondo, la Medaglia d’Argento al Merito della Croce Rossa Italiana e la firma di papa Francesco su una delle sue foto, Malla è orgoglioso di questo riconoscimento, che gli è stato conferito per l’ottimo lavoro svolto con i volontari Armeni e per il sostegno che ha dato alle famiglie armene in difficoltà. «Sono felice di trasmettere il mio messaggio e la mia passione ai volontari – ha commentato Malla – sono il motore dell’Umanità».

Il fotografo Ibrahim Malla, marnatese, premiato in Armenia

Al rientro in Italia il sindaco di Marnate Marco Scazzosi e gli assessori Donata Canavesi e Alessandro Bonfanti hanno ricevuto Malla in comune per congratularsi e sottolineare l’importanza del volontariato, e della sua attività.

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Il Nagorno-Karabakh: teatro di interessi internazionali (Iari 07.12.24)

Come un conflitto latente pluridecennale nel Caucaso può attirare l’attenzione delle potenze mondiali? Interessi ed opportunità a confronto. 

Il conflitto nel Nagorno-Karabakh, regione situata nel Caucaso meridionale, è un’espressione storica delle tensioni etniche e territoriali tra Armenia e Azerbaijan. Il Nagorno-Karabakh, abitato in maggioranza da armeni ma riconosciuto internazionalmente come parte dell’Azerbaijan, è stato al centro di scontri violenti fin dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Tra il 1988 e il 1994 una guerra tra le due nazioni portò al controllo armeno della regione e di territori circostanti, fino al cessate il fuoco mediato dalla Russia. Nel settembre 2020, un nuovo conflitto su larga scala è esploso, culminato con una vittoria militare dell’Azerbaijan e la riconquista di gran parte del territorio.

Tra il 19 ed il 20 Settembre 2023 il governo dell’Azerbaijan ha ordinato un’offensiva sulla regione separatista dell’Artsakh, all’interno della regione del Nagorno-Karabakh, fermata grazie all’intervento delle forze russe che hanno svolto il ruolo di mediatore imponendo un cessate il fuoco nella regione. Tuttavia la legittimità e la legalità dell’intervento azero ha interrogato la comunità internazionale, spingendo il procuratore della Corte Penale Internazionale Luis Moreno Ocampo a richiamare l’attenzione mondiale sul Washington Post rievocando il rischio di un nuovo genocidio nella regione.

Ad Aprile 2024 ha avuto però inizio la ritirata da parte delle forze di peacekeeping russe che ha fatto registrare un nuovo leggero aumento delle tensioni, seppur limitate, specialmente nel distretto di Kelbecer, Agdam e Lachin. Il corridoio di Lachin, all’interno dell’omonimo distretto, è una strada strategica che collega il Nagorno-Karabakh all’Armenia, che è stata bloccata per mesi, causando il peggioramento delle condizioni di vita della popolazione armena. A causa della sua geolocalizzazione e il ruolo cruciale che ha per il popolo armeno, l’embargo de facto imposto dall’Azerbaijan ha portato a carenze di beni essenziali, compresi cibo e medicinali. Il corridoio è ora completamente sotto il controllo di Baku.

Identità ed economie nazionali

Fin dall’inizio del conflitto, in seguito al crollo dell’Unione Sovietica e i successivi moti di indipendenza degli ex-stati satelliti, il Caucaso è stato soggetto alle attenzioni e all’influenza straniera. Armenia ed Azerbaijan sono sempre stati due paesi profondamente divisi per motivi etnici e religiosi. L’Armenia è composta in maggior parte da una popolazione di etnia armena (98.1%) e cristiana (95.2%), mentre l’Azerbaijan è in maggior parte di etnia azera (92.5%) e musulmana (97.3%, maggioranza sciita). Questi dati, inizialmente, sono già un indizio sui principali alleati storici dei rispettivi paesi: come più volte riproposto (vedi il caso Serbia) la Russia ha sempre appoggiato un paese straniero proponendo come criterio per il proprio schieramento una comune identità religiosa e, in questo caso, l’Armenia. Analogamente, dunque, l’Azerbaijan invece ha sempre potuto contare sul supporto e la vicinanza di Ankara.

Anche da un punto di vista economico risulta evidente l’interdipendenza e l’importanza delle relazioni politico-economiche tra i paesi del Caucaso e le potenze limitrofe. L’Azerbaijan dispone di un gran quantitativo di risorse naturali che gli permette di tenere testa all’ingerenza di Mosca. I gas naturali, i metalli e soprattutto il petrolio ha portato Baku ad indirizzare l’export principalmente verso l’Italia (a cui arriva il 47% delle esportazioni azere) e verso la Turchia (a cui arriva il 9% dei prodotti azeri), seguiti poi da Israele, India e Grecia. In fase di import invece l’Azerbaijan si affida in ugual misura alle risorse di Russia e Turchia (17% del totale a ciascuno), seguiti poi da Cina, Emirati Arabi e Georgia in quantità minori, importando principalmente grano, medicine e petrolio raffinato. L’Armenia, d’altro canto, dispone di una quantità risorse naturali ben inferiori che la porta ad una dipendenza quasi totale verso la Russia. Il principale prodotto per l’export di Yerevan deriva dalle ridotte miniere presente nel territorio ed è indirizzato verso, come detto, la Russia (41% dell’export totale), ed in misura minore verso gli Emirati Arabi, Cina, Georgia e Svizzera. Così, in materia di import, l’Armenia si ritrova nuovamente dipendente dalla Russia, dagli Emirati Arabi e dalla Cina da cui acquista principalmente gas, petrolio e macchine.

Centro di interessi

Chi, negli anni, ha avuto gli occhi puntati sul Caucaso meridionale sono stati principalmente Russia, Turchia e l’Unione Europea.

La Russia è il principale alleato dell’Armenia e il garante della sua sicurezza. Mosca ha una base militare in Armenia, a Gyumri, e sono entrambi membri dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO). Nonostante questo, il ritiro delle truppe nel 2024 e la guerra in Ucraina ha distolto l’attenzione di Mosca dal Caucaso, causando diffidenza nelle capacità russe di essere ancora garante della stabilità nella regione. Al contempo, però, la Russia non ha tagliato definitivamente i rapporti economici, soprattutto in materia energetica, con Baku mantenendo alcuni dei suoi interessi in territorio azero.

L’influenza turca nel Caucaso è parte di una strategia più ampia di espansione della sua influenza nelle ex repubbliche sovietiche, in particolare nelle regioni turcofone. La Turchia ha cercato di posizionarsi come un attore regionale dominante, contrastando l’influenza russa. Il Corridoio Meridionale del Gas, che trasporta gas naturale dall’Azerbaijan verso l’Europa attraverso la Turchia, è una componente strategica della politica energetica turca e riduce la dipendenza europea dal gas russo. Inoltre, Ankara sostiene progetti infrastrutturali come la ferrovia Baku-Tbilisi-Kars, che collega l’Azerbaijan alla Turchia attraverso la Georgia, rafforzando ulteriormente i legami economici e strategici tra i due paesi.

Infine, l’Unione Europea, soprattutto in seguito alle limitazioni dell’importazione di risorse energetiche dalla Russia successive allo scoppio del conflitto in Ucraina, ha interessi fortissimi in Azerbaijan. Il Corridoio Meridionale del Gas rappresenta la possibilità di rendersi sempre più indipendente dalle forniture russe. In materia umanitaria, Bruxelles ha finanziato gli aiuti umanitari in Nagorno-Karabakh, cercando anche di posizionarsi come mediatore per stabilizzare il conflitto e proteggere le popolazioni da abusi e violenze.

Scenari futuri

I possibili risvolti del conflitto in Nagorno-Karabakh sono tre: la ripresa delle ostilità su vasta scala, l’instaurazione di una pace duratura e il protrarsi del conflitto a bassa intensità.

L’instaurazione di una pace duratura è al momento irrealistica: gli sforzi diplomatici e militari che richiede un’operazione di questo genere non sono sostenibili nel breve periodo. Il susseguirsi di tensioni a livello internazionale (principalmente in Ucraina e a Gaza) continua a ridisegnare le priorità delle relazioni estere dei vari attori. Un conflitto come quello nel Nagorno-Karabakh, che ha alla base ragioni anche di carattere etnico-religioso, è molto complicato da approcciare e soprattutto da risolvere instaurando una pace stabile e duratura, e nessuno ha al momento la disponibilità e le risorse da investire in questa regione.

La ripresa del conflitto su vasta scala non conviene a nessuno, in quanto richiederebbe un coinvolgimento attivo nella regione, che sia con azioni di peacekeeping militare o diplomatico, che sia per sostenere una delle due fazioni. La Russia sarebbe l’unico attore a poter trarre dei benefici, avendo l’occasione di reinstaurarsi come potenza mediatrice e organo di controllo nella regione (divide et impera), ma con la guerra in corso in Ucraina Mosca non avrebbe interesse ad aprire un nuovo fronte.

L’opzione più plausibile è quindi, come spesso accade, che non succeda niente e che la situazione rimanga così com’è: un conflitto latente, con dei picchi di violenza occasionali gestititi ad intermittenza da forze straniere e da interventi diplomatici. Da una prospettiva umanitaria è sicuramente l’opzione meno desiderabile perché impedisce, di fatto, una garanzia di sicurezza e protezione per la popolazione, ma geopoliticamente il meccanismo può essere ancora sostenibile.

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Nulla è impossibile a Dio. Il viaggio di pace e di perdono del corpo incorrotto di Agagianian (Korazym 07.12.24)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 07.12.2024 – Renato Farina] – Ho immaginato, preso per mano nella notte da un sogno in cui mi parlò San Giovanni Paolo II, un viaggio profetico e misericordioso, di pace e perdono, che abbia per protagonista un morto destinato a risorgere. Un’anticipazione della gloria dell’Apocalisse. Ricordate, fratelli miei? Avevo concluso l’ultima lettera dal lago di Sevan [Un messaggio di Dio agli Armeni e al mondo che li ha scaricati – 7 novembre 2024 [QUI]] raccontando la traslazione il 12 settembre da Roma a Beirut, nella cattedrale dei Santi Elia e Gregorio l’Illuminatore, del corpo incorrotto e incredibilmente tornato ragazzo del Patriarca dei Cattolici di Cilicia, Krikor Bedros XV Cardinale Agagianian.

 

Tomato ragazzo? Cos’è, magia? Allucinazione? Autoconvinzione fanciullesca da beghine e beghini? Quel corpo estratto dal sepolcro romano della chiesa di San Nicola da Tolentino giaceva (l’ho visto!) nella bara di cristallo, come dormiente, nella pienezza di energia, pace, fremito e serenità del giovane adulto, che sa chi è e che non morirà non a causa della sua forza o per merito di virtù, ma per grazia del Salvatore, Colui che regge il mondo e lo muove verso un destino buono e santo. Non mi credete? Sono un povero pirla credulone, che vuole trascinare nella sua creduloneria molokana come se tutti fossero ritardati mentali? Si confrontino le foto di Krikos Bedros, con sulle spalle quel numero XV, di gloria e di sofferenze infinite: era lui 76enne. Grinzoso, cadente, grigiastro, commovente: affaticato dopo aver condotto e vinto la buona battaglia. E ora, dopo 53 anni, è roseo, come se avesse funzionato una macchina del tempo.

Un segno dell’Incarnazione

Ma non è una macchina, con ingranaggi metallici, pulegge elettroniche, fissioni di uranio arricchito, bensì una mano divino-umana, tenera e coraggiosa che lo ha rifatto. Come le ossa aride di cui scrisse Ezechiele (capitolo 17), che rifioriscono anticipando la resurrezione. Nessuna stregoneria babilonese. Niente è impossibile a Dio. Non è una faccenda da prendere sottogamba. È un segno misterioso, enormemente piccolo rispetto all’Incarnazione, ma che da lì discende.

Sento delle voci nell’aria: della resurrezione ti ascolteremo la prossima volta, come i Greci colti a Paolo di Tarso all’Areopago (Atti 17). Va bene, accetto. È vero ciò che dico, è riscontrabile, ma accetto la vostra sentenza sbagliata. Mi soccorrono le parole del grande russo Varlam Galamov, che sapeva che le sue storie attinte dai suoi occhi e orecchi, e naso e dita dal Gulag della Kolyma sarebbero state male accolte: «E se non mi credete fate conto che sia una favola».

Agagianian fu inumato in San Nicola da Tolentino senza essere imbalsamato. Quest’uomo, nato in Georgia nel 1895, aveva avuto il suo transito dalla morte a un’altra vita (noi Armeni parliamo di dormizione) nel 1971. La sua fama di santità lo accompagnò sempre. Studiò a Roma, Pio XI lo stimò tanto e lo volle vescovo. Intelligenza straordinaria, poliglotta, genio universale, era ricercato per la sua saggezza e umiltà. Fu eletto dal Sinodo Armeno a Patriarca di Cilicia. Pio XII lo fece cardinale nel 1946. Secondo Silvio Negro, vaticanista del Corriere della Sera, era il favorito per il Conclave. Due Patriarchi, uno di Venezia, l’altro di Cilicia, primeggiarono nelle prime votazioni. Disse Giovanni XXIII visitando il Collegio Armeno di Roma: «Sapete che il vostro cardinale e io eravamo come appaiati nel Conclave dello scorso ottobre? I nostri nomi si avvicendavano or su, or giù, come i ceci nell’acqua bollente».

Le calunnie dei servizi, ieri e oggi

Si amarono molto Papa Giovanni e Patriarca Gregorio. Scrisse di lui Roncalli nel suo diario alla data 27 dicembre 1962: «Agagianian viene da me informato circa gli atteggiamenti di Krushev e del movimento generale a proposito di contatti col mondo russo. […] Con Agagianian che è Armeno autentico del Caucaso, multa exploranda sunt, et meditanda [molte cose vanno esplorate, e meditate] negli interessi dell’apostolato presso i Russi» (Cfr. Avvenire, 28 ottobre 2022). Finché il suo nome fu sporcato dalla calunnia: la sorella, secondo un gossip ben orchestrato dai servizi segreti italiani (Sifar) in vista del Conclave del 1963, era legata al KGB. Dunque Agagianian è un referente dei Sovietici. Storia che si ripete. Identiche cialtronaggini vengono diffuse ad arte dagli ambienti che si chiamavano un tempo Sifar e oggi Aise. Anche oggi infatti si fa passare la tensione al dialogo e la simpatia degli Armeni e specialmente di noi molokani per il popolo russo (cui apparteniamo etnicamente) come tradimento contro l’Occidente. Verrebbe da dire: Occidente come osi, dopo averci abbandonato per un bidone di gas?

E il viaggio? In sogno, anche se non sono San Giuseppe, e neppure il Viceré d’Egitto figlio di Giacobbe con quel nome, mi è apparso San Giovanni Paolo II mentre entrava in incognito a Loreto, vestito da prete. Lo riconobbi, mi prostrai, mentre il suo Segretario (ci sono anche nei sogni) cercava di proteggerlo dalle mie labbra che cercavano le sue dita calde e diafane. A me che nominai l’Armenia, dal pellegrinaggio nella quale ero tornato proprio quella notte, disse: «Renato ricorda: i suoi santi e martiri salveranno la Chiesa e il mondo per grazia di Cristo. Seguiteli». Ed ecco nella veglia sopita e gioiosa dell’alba vidi chiaro il viaggio che conduce i resti poco mortali di Krikor Bedros Agagianian dalla cattedrale dei Santi Elia e Gregorio l’Illuminatore a Beirut attraverso la Siria (Damasco e Aleppo) e la Turchia (Cilicia e Anatolia).

Non ci sono più nemici

Si, come sul carriaggio della regina di Saba l’eunuco felice nel deserto dopo il battesimo correva in patria, baldanzoso e allegro, così nella teca di cristallo il Patriarca della Cilicia riconosciuto beato e santo attraversa i luoghi spaventosi del genocidio del 1915, illuminandoli di perdono. Furono un milione e mezzo di uomini e donne, neonati e infanti, vecchi e adolescenti: gonfi per la fame e ischeletriti dal digiuno, condotti verso il niente nel deserto, colpevoli di essere Cristiani Armeni, ma anche Assiri e Caldei. La carrozza poco funebre procede con il suo corteo fluorescente fino alle pendici dell’Ararat. Non ci sono più nemici. Gli amici Turchi in ginocchio a chiedere perdono per i loro padri e a riceverlo da quel vecchio cardinale, che la morte ha ringiovanito, incoronato dal canto di bambini finalmente senza strazio.

Si attraversano i confini, il filo spinato sostiene felice dei mazzi di rose e viole, ecco la Repubblica di Armenia, la carovana lucente è accolta nelle piazze e nelle cattedrali dagli Armeni Apostolici e da quelli Cattolici Latini e Mechitaristi, dal Supremo Patriarca e Catholicos di tutti gli Armeni Karekin II con al fianco Papa Francesco insieme a tutti i Patriarchi d’Oriente e d’Occidente. Lì proclamarlo insieme santo, e condurre questo corpo che presto (ossi, molto presto) risorgerà alla fine del mondo, lassù, tra i ruscelli scroscianti e i cieli profondi e trasparenti dell’Artsakh. Non lo credete? La ritenete una follia bislacca? Fate conto che sia una favola.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero cartaceo di Tempi di dicembre 2024.

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Come salvare il patrimonio cristiano in Nagorno Karabakh? (AciStampa 06.12.24)

Lo conoscono tutti come Nagorno Karabakh, ma il suo antico nome è Artsakh, a testimonianza della presenza armena in quel territorio sin dall’antichità. E gli armeni, membri della prima nazione cristiana, hanno forgiato quel territorio, lo hanno riempito di kachkar e chiese, vi hanno venerato reliquie come quelle di San Dadi, il discepolo di San Giuda Taddeo che fu l’iniziatore di quella che oggi è la Chiesa Apostolica Armena. Oggi, quel territorio è sotto gli occhi della comunità internazionale per il rischio che si perda quel patrimonio cristiano nella regione.

Non è un timore nuovo, per gli armeni, che a più riprese hanno parlato di “genocidio culturale”. Da quando, perlomeno, la regione fu messa da Stalin sotto il controllo dell’Azerbaijan, e si è registrata la scomparsa progressiva di varie vestigia cristiane nella regione.

Nel 1994, alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, la regione proclamò l’indipendenza, e si costituì in uno Stato con capitale Stepanakert. Da allora, i conflitti, caldi e freddi, si sono succeduti nella zona, fino all’ultimo del 2020, durato 40 giorni, che si è risolto in un accordo “doloroso” per l’Armenia, costretta a cedere territori e ad arrendersi di fronte al ben equipaggiato esercito azero, supportato dalla Turchia e, è stato denunciato, anche rimpolpato da mercenari Daesh.

E poi, ci sono stati i blocchi al corridoio di Lachin, denunciati anche da Papa Francesco. Gli azerbaijani lamentano che, in fondo, anche gli armeni, una volta preso il controllo del territorio, hanno distrutto le moschee. Hanno sottolineato che c’era una comunità cristiana di una presunta Chiesa albaniana nel territorio, precedente all’eredità armena, rivendicando la presenza di un cristianesimo autoctono nella regione. Hanno ribadito di applicare la tolleranza religiosa, e lo dimostra il fatto – sostengono – che le chiese distrutte dalla guerra sono state ricostruite, come la cattedrale di Shushi, che era stata colpita da razzi. Da parte armena, però, si avverte il senso di una pressione indebita e forte, e di un rischio ben presente e tutto da decifrare, tanto che anche la Santa Sede di Etchmiadzin (il “Vaticano” armeno) ha stabilito un dipartimento che si occupa solo del patrimonio cristiano in Artsakh.

Sono tutte premesse doverose per introdurre il tema della Conferenza internazionale che si è tenuta alla Pontificia Università Angelicum lo scorso 18 e 19 novembre, sul tema: “Terreni Sacri, visione condivisa: preservare i Luoghi Santi per un Ministero Cristiano Congiunto nei Siti Religiosi e Culturali dell’Artsakh”.

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La conferenza è stata organizzata dalla Rappresentanza della Chiesa Apostolica Armena presso la Santa Sede, in collaborazione con l’Istituto di Studi Ecumenici dell’Angelicum e sotto gli auspici del Catholicos della Chiesa Apostolica Armena Karekin II e dei dicasteri per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e per la Cultura e l’Educazione.

Padre Hyacinthe Destivelle, officiale del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e Direttore dell’Istituto di Studi Ecumenici all’Angelicum, ha rimarcato l’importanza degli sforzi collaborativi nel proteggere l’eredità religiosa e culturale, mentre l’arcivescovo Khajag Barsamian, rappresentante della Chiesa Apostolica Armena presso la Santa Sede, ha sottolineato il significato dell’incontro, che ha avuto messaggi di supporto dal Catholicos Karekin II, dai Cardinali Kurt Koch, Claudio Gugerotti, e Josè Tolentino de Mendonça.

Nella prima sezione della conferenza, si è parlato di come la preservazione dell’eredità culturale e dei siti religiosi è strettamente connessa con i diritti umani. Mark Vlasic, dall’Università Georgetown, lo ha messo in luce parlando del suo percorso da procuratore che portava alla giustizia criminali di guerra al lavoro di protezione dell’eredità culturale, e ha sottolineato che la conservazione culturale è intrinsecamente collegata alla dignità umana e ha sottolineato che c’è bisogno di salvaguardare questa eredità nelle zone di guerra.

Pierre D’Argent, dell’Università di Lovanio, ha invece descritto il ruolo della Corte Internazionale di Giustizia nell’affrontare casi riguardanti l’eredità culturale. L’attuale conflitto tra Armenia e Azerbaijan, ha notato, va incluso in una cornice legale più ampia.

Armine Aleksanyan, membro del Consiglio Diocesano dell’Artsakh, ha parlato invece dell’esperienza del popolo dell’Artsakh, di come si sente di fronte a quello che viene considerata una “pulizia etnica”, del significato dell’eredità religiosa della regione, e ha proposto strategie per prevenire ulteriori perdite e salvaguardare l’eredità culturale dell’Artaskh.

Si è poi affrontato il tema della relazione tra conflitto, eredità culturale e rappresentazione dei media. Come i media hanno risposto alla distruzione dell’eredità culturale e religiosa nel mondo? Il professor Vasco La Salvia, dell’Università di Chieti, ne ha parlato, mettendo in luce come i media sia stati sia testimoni che catalizzatori nella narrativa di preservazione culturale.

Arsen Saparov, dall’Accademia Randal, ha mostrato come alcuni che si auto-identificano come esperti creano spesso una illusione di neutralità nei loro racconti, nei quali si nascondono dei pregiudizi che possono cambiare la prospettiva del pubblico.

Si è parlato poi di come preservare i siti religiosi e culturali nelle zone del conflitto. Ne ha parlato l’arcivescovo Mikaheel Moussa Najeeb, domenicano, arcivescovo caldeo di Mosul, che fu colui che, quando l’ISIS arrivò alle porte di Mosul, caricò la sua auto di antichi manoscritti per salvarli dalla furia islamista. Ha parlato proprio di questo, sottolineando come il salvataggio di quei manoscritti anche anche il salvataggio di “una parte vitale dell’eredità culturale irachena”, e che ora servono come un testamento per la responsabilità ecumenica di tutti gli individui.

Peter Petkoff, dell’Università di Oxford, ha invece guardato alla militarizzazione dell’eredità culturale, e ha sottolineato l’insufficienza di alcune cornici legali per proteggere l’eredità culturale nel mezzo dei conflitti.

Tasoula Hadjitofi , attivista culturale e imprenditrice, ha mostrato una strategia che gli è derivata dalle lezioni apprese in cinquanta anni di lavoro a Cipro.

C’è poi stata una sessione dedicata tutta ai monumenti armeni danneggiati, con particolare focus sull’Artsakh. Ne ha parlato il professor Hegnar Watenpaugh dall’Università della California, guardando alla distruzione dei monumenti armeni in Nakhichevan, mentre Jasmin Dum-Tragut, dall’Università di Salisburgo, ha guardato alla complessità delle eredità culturali che si trovano in zone di confine, in particolare nella regione di Tavush.

Alain Navvarra de Borgia ha, da parte sua, ha sottolineato che l’idea di “protezione” è soprattutto occidentale, eppure è diventata sempre più rilevante in contesti post-guerra, e in particolare nelle narrative azerbaijane.

Marco Bais, del Pontificio Istituto Orientale, ha invece guardato a come la propaganda utilizza i testi storici per eliminare (o diluire) l’eredità armena nella zona dell’Artsakh, mentre Jost Gippert è entrato più nel concreto, esaminando le iscrizioni albaniane trovate in Artsakh che l’Azerbaijan utilizza per affermare la presenza di una civiltà non armena. Si tratta – ha detto – di “due pagine a palinsesto e alcune concise istruzioni”, ma questo non giustifica il tentativo azerbaijan di classificare le chiese nella regione come albaniane.

Annegret Plontke-Lüning, dell’università di Jena, ha ripercorso le tracce dell’eredità culturale architettonica dell’Artsakh tra le epoche, e Hamlet Petrosyan, della Yerevan State University, ha portato attenzione sul significato archeologico dell’Artsakh alla luce delle attuali tensioni geopolitiche.

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COP29: gas e petrolio sul red carpet (Imperialecowatch 06.12.24)

Cop29: un vertice “dirottato”, come ha dichiarato l’associazione Christian Aid, “dai paesi ricchi che non sono riusciti a negoziare in buona fede.” Il capo delegazione di Greenpeace ha chiamato “mercanti di morte” i grandi esportatori di gas e petrolio che quest’anno hanno fatto scorta di cartellini d’accesso alla 29esima Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima.

Cop29 | Cerimonia di apertura del Summit dei leader mondiali | Foto di UN Climate Change – Kiara Worth | Flickr

Dopo l’esperienza di due edizioni consecutive in Egitto ed Emirati Arabi Uniti, nel 2024 la Presidenza è stata nuovamente assegnata ad un regno del gas e del petrolio, l’Azerbaijan, assolutamente privo delle credenziali per ospitare un tavolo di negoziato sulla crisi climatica nel pieno rispetto di tutte le parti. E vengono sempre più trascurati i Paesi che meriterebbero di presiedere l’evento, quelli più colpiti dalla crisi climatica, che ai tavoli dei negoziati hanno avuto un ruolo marginale, ed hanno ricevuto un risarcimento vago e irrisorio.

Perché Baku

Doveva essere un Paese dell’Unione Europea ad ospitare il summit: nel 2023 accanto a quella di Armenia ed Azerbaijan si era profilata la candidatura della Bulgaria per la Cop29, una sede più consona, sia per gli interventi attuati finora dall’UE in materia di transazione energetica, sia per il principio di rotazione che assegna ogni volta la Presidenza ad uno stato di una macro-regione differente del pianeta. Il veto per l’organizzazione della Cop29 in Europa Orientale è arrivato dalla Russia, come risposta alle sanzioni economiche imposte dall’UE dopo l’aggressione all’Ucraina. Sono così rimasti in gioco Armenia e Azerbajgian, storici avversari militari che si sono opposti alle rispettive assegnazioni. Le truppe azere nel 2023 hanno invaso la regione separatista del Nagorno-Karabakh, causando l’esodo di migliaia di armeni e macchiandosi di atrocità su militari e civili, una vera e propria pulizia etnica. Il Lemkin Insitute for Genocide Prevention aveva invitato pertanto le Nazioni Unite a chiudere le porte della Cop29 all’Azerbajgian. Ma è stata l’Armenia stessa a cedere il passo, ritirando il suo veto in cambio del ritorno in patria di 32 fra i tanti prigionieri armeni detenuti tuttora a Baku insieme a molti giornalisti e attivisti dei diritti umani.

Cop29 | Foto di UN Climate Change – Habib Samadov | Flickr

E Paesi come Romania, Ungheria, Bulgaria e Slovacchia non hanno posto ostacoli alla nomina dell’Azerbajgian: d’altra parte hanno tutti stretto nuovi accordi per l’importazione di gas azero e sostengono la creazione di un titanico gasdotto che dal Caucaso arriverà in Europa. Inoltre, per organizzare un evento mondiale come la COP occorrono denaro, spazi adatti e attitudine alle pubbliche relazioni: e Baku è stata così promossa.

E non è tutto…

Prima della Conferenza è stato filmato un incontro a porte chiuse fra l’amministratore delegato della Cop29 Elnur Soltanov, già Vice-Ministro dell’Energia, ed un’attivista dell’organizzazione per i diritti umani Global Witness, che ha finto di essere il referente di una società di investimenti di Hong Kong interessata a sponsorizzare il summit. Sembra che durante il colloquio Soltanov, dopo aver dimostrato con grande diplomazia la sua apertura alla politica di phase out dai fossili, abbia invitato il potenziale sponsor a stringere un accordo finanziario con SOCAR, la società statale di gas e petrolio di cui fa parte, che sta progettando di sviluppare nuovi giacimenti ed è interessata a nuovi, corposi investimenti. Tutto questo proprio a ridosso della Cop29, violando così il codice di condotta stabilito dalle Nazioni Unite per i funzionari del summit sul clima, che” devono agire senza pregiudizi, faziosità, favoritismi o interessi personali…”.

Nel corso della Conferenza un’altra grave violazione, questa volta commessa dall’Arabia Saudita con il beneplacito della Presidenza azera: è stato diffuso un testo sui negoziati per la transizione energetica, di regola non modificabile da nessuno dei Paesi coinvolti, con aggiornamenti apportati dal delegato del Ministero dell’Energia saudita Basel Alsubaity. Dal documento è stata cancellata la sezione in cui si incoraggiano le Parti a promuovere piani di adattamento nazionali e strategie di sviluppo con basse emissioni a lungo termine. Un atto di favoritismo inaccettabile che l’Azerbaigian avrebbe concesso ad un Paese come l’Arabia Saudita, palesando la sua solidarietà con chi intende frenare il programma di decarbonizzazione mondiale.

Riassumendo: l’Azerbaijan è un Paese dove il 92%delle esportazioni attiene a gas e petrolio, e che progetta di aumentare la produzione di gas di un terzo entro dieci anni; da anni compie atti di genocidio nei confronti del popolo armeno; le sue carceri traboccano di prigionieri politici; ha violato il codice della COP stessa, con azioni di corruzione e clientelismo.

Nonostante questo biglietto da visita tutt’altro che green, ha ottenuto la presidenza di una Conferenza nata per favorire la transizione all’energia pulita e risarcire economicamente i popoli danneggiati dal riscaldamento globale provocato dai Paesi sviluppati.

Climate Action Network, il gruppo di circa 2000 organizzazioni ambientaliste, ha chiesto a gran voce di modificare la procedura di nomina della sede ospitante del summit, affinché a fare da padrone di casa sia un Paese che abbia già intrapreso azioni serie per decarbonizzare il pianeta.

Finanza climatica: mancano ancora molte pagine

Nel frattempo gli stati più colpiti dal disastro ambientale stanno perdendo terreno alla COP, che quest’anno si è chiusa con un accordo sulla finanza climatica che ha deluso le attese: erano stati chiesti 1300 miliardi all’anno, ne sono stati concessi 300, che i Paesi con i conti in attivo come Stati Uniti, Giappone, Regno Unito, Unione Europea, dovranno inviare entro il 2035 ai Paesi più fragili come quelli di Africa, Sudamerica e piccole isole. “Troppo pochi e troppo tardi”, hanno commentato i destinatari del finanziamento, per sanare i danni del riscaldamento globale che ha mietuto vittime, ha distrutto abitazioni e raccolti, ha accelerato la desertificazione e rischia di far scomparire intere isole come Tuvalu, provocando l’aumento dei migranti climatici. Inoltre, più della metà di questi soldi sarà erogata sotto forma di prestito, a Paesi già appesantiti da forti debiti. E alcuni destinatari come l’Alleanza dei Piccoli Stati Insulari, che realmente rischiano di finire sommersi con l’innalzamento del livello del mare, avrebbero voluto un finanziamento privilegiato specificatamente riservato a loro.

Cop29 | Foto di UN Climate Change – Habib Samadov | Flickr

Nel documento conclusivo della COP29 si esortano i Governi delle Parti a raccogliere altri fondi per raggiungere la cifra di 1300 miliardi richiesta in origine, attraverso sia attori privati (che finora hanno elargito cifre non adeguate) che le banche multilaterali di sviluppo, istituti a servizio dei paesi più poveri, che forniscono prestiti a tasso agevolato. Inoltre, è stato richiesto un contributo volontario anche a Cina, Singapore e Paesi del Golfo, che ancora rientrano nella categoria “in via di sviluppo” ma che di fatto sono in grado di elargire un finanziamento ai veri poveri.

La domanda ora è: chi dovrà erogare questi 300 miliardi annui, e come? Il documento finale di questa COP azera non risponde in modo puntuale, ma rimanda ad un altro file, “Baku to Belém Roadmap to 1.3T”, che dovrebbe essere pronto prima della COP30 brasiliana

Troppi falsi verdi in Sala Blu

Cosa aspettarsi da Belem nel 2025? Sarà anche questa una Conferenza inquinata dalla presenza di aziende che partecipano per lanciare falsi programmi a favore dell’ambiente e riciclare la propria reputazione?

Sono stati 1770 i lobbisti dei combustibili fossili presenti alla Cop29. Li ha conteggiati l’Organizzazione Kick the big polluters out, che sostiene che almeno 480 di loro utilizza ormai abitualmente la Cop per promuovere la tecnologia di cattura e stoccaggio del carbonio (CUS), una soluzione giudicata inefficace dalla controparte ambientalista, perché non abbatterebbe in modo significativo le emissioni ma le ricicla, o semplicemente le nasconde nel sottosuolo e nel fondale marino. Dall’analisi di Kick the big polluters out sembra che il numero dei badge dei lobbisti di gas e petrolio superasse quello di tutti i delegati dei dieci paesi più colpiti dalla crisi climatica (come Somalia, Ciad, Eritrea, Sudan, Tonga, Micronesia, Isole Salomone), diminuendo così la possibilità di questi ultimi di ricevere attenzione e ascolto in un evento in cui si decide del futuro del pianeta.

Il marchio dei giganti di gas e petrolio ha tappezzato lo Stadio Olimpico, sede della Cop29, e i delegati di queste aziende sono stati ammessi come osservatori nella Zona Blu dei negoziati, riservata di regola a funzionari governativi, giornalisti ed organizzazioni. L’escamotage: molti dei lobbisti appartenevano ad associazioni di categoria ammantate di verde, come International Emissions Trading Association (che ha i suoi quartier generali in Svizzera, Stati Uniti, Belgio, Canada e Singapore), il cui motto è “raggiungere gli obiettivi climatici con il minor danno economico”. Dal Giappone il colosso del carbone Sumitomo, e poi 39 lobbisti di Chevron, ExxonMobil, BP, Shell ed Eni. Dall’Italia ambasciatori di Enel ed Eni. Persone che fino a due anni fa potevano accedere alla Cop senza doversi identificare. Le Nazioni Unite hanno infatti deliberato che dalla Cop28 in avanti chiunque desideri registrarsi al summit è tenuto a dichiarare la propria affiliazione. Sapere con esattezza chi sta partecipando e da che parte sta dovrebbe consentire almeno un’interpretazione più obiettiva di quello che viene dichiarato ai microfoni della Cop.

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