Il risveglio del vino armeno: una rivoluzione tra storia e geopolitica (Gamberorosso.it 19.11.24)

Sarà che gli armeni sono un popolo che ha vissuto il peggio – il genocidio del 1915, la dittatura sovietica, la perdita del Nagorno Karabakh; una ferita recente – ma l’energia che emana dal mondo del vino cresce, sale, monta e non si arrende neanche davanti ai cortocircuiti della storia. In cinque anni il settore è letteralmente esploso: piantare una vigna, aprire una cantina, produrre vino, farlo degustare e accogliere i turisti è diventato un investimento remunerativo; oltre che figo, moderno, occidentale e di tendenza. Lo sanno bene nella capitale Yerevan dove spopolano i winebar come InVino, 600 etichette armene; il Decant WineShop&Bar, un localino più intimo su Moskovyan street, cuore della movida; e il Mov, ristorante di design con bella carta di etichette autoctone. 

Un patrimonio millenario tra rischi geopolitici

La matematica, si sa, non è un’opinione: in Armenia il numero di cantine è sestuplicato, erano 25 nel 2019 e già 150 a settembre 2024; sempre che nel frattempo non siano spuntati altri “funghetti”. Perché in larga parte sono piccoli produttori, a volte piccolissimi; vigneron da poche migliaia di bottiglie, a volte centinaia.
Ottimo! Se ci non fossero l’incertezza e l’incognita degli sviluppi geopolitici; nel caso dell’Armenia gli scomodi vicini e i conflitti internazionali. La piccola Repubblica – 2,7 milioni di persone, il primo Paese cristiano al mondo (301 d.C.) – è situata nel Caucaso meridionale.
A est c’è l’Azerbaijan, che nel 2023 ha conquistato l’ultimo lembo di Nagorno Karabakh, dopo due guerre seguite al crollo dell’URSS; di cui entrambe i Paesi facevano parte.
A ovest c’è la Turchia, relazioni gelide e confini chiusi dai tempi del genocidio “negato” di 1,5 milioni di armeni, sotto l’Impero Ottomano. A nord per fortuna c’è la Georgia, in sana competizione soltanto sul vino. A sud, però, c’è l’Iran, buoni rapporti commerciali e diplomatici, ma non certo il posto sicuro del momento. Da Teheran, tra l’altro, arriva gran parte del flusso turistico internazionale; tanti iraniani che qui possono bere “in libertà”. Aggiungi l’influenza e le interferenze della vicina Russia – primo importatore, l’80% dell’export di vino armeno – e capisci che essere artefici del proprio destino è una frase molto bella. 

“La guerra è una preoccupazione costante anche per la viticoltura, perché molti vigneti si trovano vicino ai confini e quindi è molto pericoloso anche soltanto prendersene cura, oltre all’incognita di non sapere con certezza se potremo mantenerli in futuro. Però siamo forti, manteniamo lo spirito giusto e continuiamo a fare il meglio. Siamo certi che i nostri progetti avranno successo”. 

A parlare è Zaruhi Muradyan, direttrice di Vine and Wine Foundation of Armenia (VWFA), a margine dell’ottava Conferenza Internazionale sul Turismo del Vino, organizzata dalle Nazioni Unite (UN Tourism), proprio in Armenia, lo scorso settembre, nel Paese dove l’enoturismo è il fenomeno emergente del post Covid. “Prima non esisteva”, sottolinea la Muradyan, che è anche produttrice con la piccola Zara Wines e figura di punta di un embrione di “donne del vino” armene. La VWFA è invece l’agenzia governativa nata nel 2016 per promuovere la rinascita enologica, innescata a inizio 2000 dagli investimenti dei ricchi armeni “figli” della diaspora (altri 8 milioni nel mondo). Su tutti l’imprenditore “argentino” Eduardo Eurnekian, proprietario di Karas (“anfora”), 400 ettari nella regione vinicola dell’Armavir, vista sul monte Ararat – la “montagna sacra”, da un secolo in territorio turco – e consulenza enologica di Michel Rolland.

Vini naturali e turismo: l’Armenia guarda al futuro

Degustazione Monte Dimats

Il settore vinicolo, con i suoi 16mila ettari e 14 milioni di litri (il doppio del 2014), è oggi controllato da una manciata di grandi cantine. Tra queste l’Armenia Wine Companyfondata nel 2006: con 12 milioni di bottiglie tra vino, cognac e brandy, la più grande e l’unica con un wine museum. Un’altra è Armas, della famiglia Aslanyan, 100 ettari di vigne tra 700 e 1.800 metri d’altezza, e consulenza dell’enologo italiano Emilio Del Medico. E ancora: Noa, dello svizzero Jakob Schuler, già azionista di maggioranza al Castello di Meleto, a Gaiole in Chianti, folgorato dai vini di uve areni sulle vie del Vayots Dzor, l’area più pregiata e soleggiata, un terroir ricco di argilla e pre-fillosserico, con altitudini tra i 1.200 e 1.800 slm. In questa regione nel 2007 fu scoperta tra l’altro dagli archeologi la cantina più antica del mondo: la grotta di Areni, con anfore e reperti del 4.100 a.C. 

Grotta Areni

Troviamo poi tante piccole e giovani aziende, mosse dalla voglia di fare e da un senso di riscatto e recupero di una tradizione millenaria, interrotta soltanto sotto il dominio sovietico (1921-1991), quando Stalin puntò sulla Georgia per il vino e sull’Armenia per il cognac e i distillati. Fu espiantato allora un ricco patrimonio di autoctoni per far posto alle uve bianche kangoun. Tra le varietà sopravvissute, in maggioranza uve da tavola, 31 oggi sono quelle vinificate: a parte la rossa areni e la bianca voskehat, tanti vitigni dai nomi difficili, haghtanakkhndoghnikhatoun kharji e altre fertili materie prime per cantine come Trinity, ex boutique winery nata nel 2016. Produce 100mila bottiglie – la metà per vigneron privi di macchinari – e qualche migliaio di ancestrali in anfora, senza lieviti aggiunti. L’enologo Artem Parseghyan “si diverte” a far ascoltare ai vini musica classica e spirituale in fase d’affinamento, rock e Pink Floyd in fermentazione.

Hrachya, Samvel e Aram Machanyan

Il filone degli autoctoni e dei naturali è cavalcato anche da Alluria Wines, dei fratelli Hrachya, Samvel e Aram Machanyan, tempo fa andati in Turchia orientale a cercare il vigneto del nonno, nella terra perduta con la pulizia etnica del 1915-16, e riportare a casa qualche barbatella. I tre facevano un altro mestiere e giocavano con il vino, poi nel 2017 la “svolta imprenditoriale” e la consulenza di enologi georgiani. Oggi fanno enoturismo e 42mila bottiglie, tra cui un rosso da uve del Nagorno Karabakh: il khndoghni (“che ci sia la gioia”), un paradosso etimologico a vedere come è andata con l’Azerbaijan. Partita chiusa: 120mila profughi a settembre 2023 scappati dall’ultimo lembo di terra contesa.
C’erano pure le vigne di Grigori Avetissyan, vignaiolo-combattente in prima linea, “ritiratosi” in Armenia con Kataro Wine. Gli islamici azeri gli hanno postato i video di sfregi e sversamenti di vasche e botti. Il vino è proprio una bevanda da cristiani. 

Vai al sito

ARMENIA: Trump e le relazioni con gli Stati Uniti (Eastjounal 19.11.24)

Di Denise Gislimberti

La recente elezione di Donald Trump negli Stati Uniti ha suscitato un’ampia attenzione a livello globale, soprattutto nello spazio post-sovietico, dove molti paesi seguono con interesse i possibili cambiamenti nella politica estera americana.

America e Armenia

In Armenia, l’opinione pubblica appare divisa, soprattutto a causa della presenza importante di propaganda russa nel paese. Da un lato, una parte ha visto in Kamala Harris un positivo continuum rispetto all’amministrazione Biden. D’altra parte, chi è più orientato verso la Russia vede una presidenza democratica come un pericoloso incentivo al distacco da Mosca e all’avvicinamento all’Occidente. Questa fetta preferisce quindi una presidenza repubblicana, ritenendo che Trump, con il suo pragmatismo, potrebbe allinearsi meglio agli interessi di Putin.

La domanda resta: in che modo i risultati delle elezioni americane influenzeranno l’ambiente geopolitico dell’Armenia, le sue relazioni con i principali alleati e le sue ambizioni nel Caucaso meridionale?

Le promesse elettorali di Trump

Durante la campagna elettorale, Donald Trump ha menzionato esplicitamente la questione armena e lodato la comunità armena americana, per accattivarsene il sostegno. Le sue promesse includevano l’impegno a “proteggere i cristiani perseguitati, fermare la violenza e la pulizia etnica e stabilire la pace tra Armenia e Azerbaigian”. Inoltre, il neoeletto Presidente ha cercato di manifestare il proprio sostegno anche in occasione di una telefonata con Sua Santità Aram I, il Catholicos della Grande Casa di Cilicia. Durante la conversazione, Trump ha ribadito il suo sostegno agli armeni di Artsakh (Nagorno-Karabakh), impegnandosi per la pace regionale. Aram I ha espresso gratitudine per il sostegno e ha sottolineato l’importanza vitale della leadership globale degli Stati Uniti in questo momento critico. Ha condiviso le sue aspettative per una maggiore attenzione alla questione dell’Artsakh sotto una nuova amministrazione, per quanto riguarda le garanzie internazionali per la sicurezza e lo status del Nagorno Karabakh, nonché la responsabilità azera per la ‘pulizia etnica’ avvenuta nell’ottobre 2023.

Tuttavia, in Armenia, queste dichiarazioni sono state accolte con cautela, specialmente alla luce dell’approccio passato dell’ex presidente alle questioni estere. Molti ricordano infatti il mancato supporto dell’amministrazione Trump ad un dialogo per la risoluzione pacifica a seguito della guerra del 2020 tra Armenia e Azerbaigian, conflitto che si concluse con una devastante sconfitta per i primi. Una buona fetta dell’opinione pubblica, dunque, dubita che la rielezione porterà un supporto concreto, ma che piuttosto rappresenti un rischio, poiché si teme ciò possa favorire la già solida posizione azera.

Il partenariato strategico tra Armenia e USA

Nel corso degli anni, gli Stati Uniti hanno supportato lo sviluppo democratico dell’Armenia, contribuito alla sua economia e affrontato questioni storiche delicate. Una delle mosse più significative è stata il riconoscimento ufficiale del genocidio armeno da parte dell’amministrazione Biden nel 2021, decisione che ha avuto una profonda risonanza in Armenia.

I due paesi hanno firmato vari accordi, che riflettono l’interesse dell’Armenia nel diversificare le sue partnership internazionali. Questa cooperazione ha portato a notevoli investimenti americani, rafforzando le potenzialità per futuri legami economici e diplomatici, anche grazie alla forte influenza della diaspora armena presente negli Stati Uniti. Negli ultimi anni, il governo armeno, guidato da Nikol Pashinyan e dal partito Contratto Civile, ha inoltre adottato una linea di politica estera volta ad ottenere una maggiore autonomia da Mosca. Tuttavia, dato l’atteggiamento complesso di Trump, l’Armenia potrebbe assistere ad un raffreddamento in specifiche aree di collaborazione. L’eventualità di un riavvicinamento tra Stati Uniti e Russia è un altro fattore che può complicare ulteriormente la politica estera armena. Scenario che, infatti, potrebbe rallentare o persino ostacolare il processo di integrazione occidentale del paese, costringendo l’Armenia a rivedere il suo percorso di allontanamento dall’influenza russa. Se gli Stati Uniti consentissero a Mosca di rafforzare la sua posizione nello spazio post-sovietico, l’Armenia potrebbe trovarsi in una situazione precaria. Una Russia priva di contrappesi occidentali potrebbe rafforzare la sua influenza su quest’ultima, limitando la capacità del paese di perseguire politiche estere indipendenti.

Cosa ci riserva il futuro?

Mentre l’Armenia guarda al futuro, l’incertezza persiste. L’attuale contesto geopolitico suggerisce diversi scenari possibili, ma non è chiaro quale strada prevarrà. Per l’Armenia, questo è un momento di opportunità ma anche di rischio. Rafforzare le partnership sia con gli Stati Uniti sia con la Russia potrebbe offrire all’Armenia una maggiore leva, ma l’equilibrio delicato che deve mantenere potrebbe rapidamente inclinarsi di fronte a pressioni esterne. In mezzo a queste dinamiche globali e regionali, le priorità interne dell’Armenia restano chiare. In cima all’agenda vi è il desiderio di garantire una pace duratura con l’Azerbaigian e di formalizzare le relazioni diplomatiche con la Turchia. Questi obiettivi si allineano con la strategia più ampia dell’Armenia per stabilizzare la regione e migliorare la crescita economica. Il ministro dell’economia armeno ha sottolineato l’importanza di mantenere relazioni calorose con gli Stati Uniti. Ha rassicurato il pubblico che, indipendentemente dai cambiamenti nel panorama politico statunitense, le relazioni sono radicate in valori condivisi e interessi comuni, e che il partenariato strategico del paese con Washington è destinato a durare. Tuttavia, l’esito di questi sforzi dipenderà non solo dalle sue decisioni, ma anche dall’evoluzione delle politiche dei poteri globali come Stati Uniti e Russia.

Vai al sito

Anush Babajanyan Acque maltrattate vincitore del Premio Romano Cagnoni (photoluxfestival 18.11.24)

Luogo: Palazzo Guinigi, Via Guinigi, 29

Giorni e orari di apertura:
Lunedì – Giovedì dalle 15:00 alle 19:00
Venerdì – Domenica dalle 10:00 alle 19:00

La scarsità d’acqua in Asia Centrale è il punto di partenza del viaggio di Anush Babajanyan lungo le rive dei fiumi Syr-Darya e Amu-Darya, dalle loro foci nel Mar d’Aral alle loro sorgenti nel cuore delle montagne, attraversando i quattro Paesi dell’area indagata: Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan. Una situazione sconosciuta, che questo lavoro ha portato al centro dell’attenzione internazionale, con una lunga ricerca incentrata sulle conseguenze che la carenza di risorse idriche e l’assenza di politiche di gestione anti-spreco hanno sull’ambiente e sulla popolazione, cui si aggiunge l’impatto della crisi causata dai cambiamenti climatici. Nel corso degli anni, Anush è entrato in contatto diretto con le persone, testimoniandone i diversi aspetti della vita quotidiana e dell’aggregazione, con una rara capacità di ascolto, le preoccupazioni e le speranze per un futuro molto incerto e il dramma di possibili conflitti tra popoli che da sempre vivono in armonia. E con le persone, l’autore si sofferma a lungo, facendo emergere la loro capacità di adattamento e la loro volontà di trovare soluzioni per il cambiamento, per salvaguardare l’ecosistema e garantirne le prospettive future.
Battered Waters è stato riconosciuto dalla Giuria, presieduta da Patricia Franceschetti
Cagnoni, come: «Il progetto a lungo termine che ha interpretato con originalità e sensibilità il tema di questa edizione. Una serie fotografica che documenta la grave crisi idrica che colpisce quattro Paesi dell’Asia centrale, senza sbocchi sul mare e che soffrono di scarsità d’acqua, concentrandosi sulla questione ambientale – come questione cruciale del nostro tempo ed elemento essenziale per gli esseri viventi – e facendo emergere allo stesso tempo l’umanità e la resilienza delle persone che lottano per sopravvivere.
La dedizione e la perseveranza dell’autore trasmettono messaggi profondi attraverso le fotografie, capaci di renderci consapevoli».

BIOGRAFIA
La fotografa armena Anush Babajanyan è membro della VII Photo Agency e National Geographic Explorer. Anush concentra il suo lavoro su narrazioni sociali e storie personali. Oltre a lavorare ampiamente nel Caucaso meridionale, continua a fotografare in Asia centrale e in tutto il mondo. Anush Babajanyan ha recentemente pubblicato il suo libro sul Nagorno-Karabakh, intitolato A Troubled Home.
Anush è la vincitrice del Canon Female Photojournalist Grant 2019 e una vincitrice del Prix Photo Terre Solidaire. Ha vinto nella categoria Long Term Projects del World Press Photo 2023 Contest. Le sue fotografie sono state pubblicate su The New York Times, Washington Post, National Geographic, Foreign Policy Magazine e altre pubblicazioni internazionali.

Pasinyan e la nuova Armenia dal ‘volto pulito’ (Asianews 18.11.24)

Per la prima volta dalla “rivoluzione di velluto” del 2018 il premier armeno si è mostrato con il volto rasato dalla barba. Un gesto per ammiccare alla necessità di “riportare a zero” il Paese, un’espressione da lui usata sempre più spesso per invitare a “guardare all’Armenia reale e non al Paese dei sogni”.

Erevan (AsiaNews) – Il premier armeno Nikol Pašinyan ha compiuto il gesto simbolico di radersi la barba, per la prima volta dalla “rivoluzione di velluto” del 2018, diffondendo anche un video molto ad effetto in stile TikTok, con il trucco dell’asciugamano che si scopre sulla barba e quindi sul viso ripulito, per indicare la “necessità di ripartire da zero nella costruzione della statualità dell’Armenia”. Tutti sono rimasti piuttosto spiazzati, essendo l’immagine del “barbuto Pašinyan” molto legata al percorso che aveva compiuto per tutto il Paese, radunando i suoi sostenitori per riuscire infine a raggiungere il potere con il suo movimento dell’Accordo Civile, confermandolo poi nelle competizioni elettorali successive.

Qualcuno pensa che Pašinyan abbia anche voluto marcare la differenza con il volto attuale dell’opposizione nei suoi confronti, il vescovo Bagrat Galstanyan dalla caratteristica barba monastica, che dalla sua diocesi periferica di Tavowš, ai confini con l’ostile Azerbaigian, ha compiuto a sua volta un pellegrinaggio popolare fino a Erevan, per radunare i “patrioti” che chiedono le dimissioni del primo ministro. Come hanno commentato alcuni osservatori, il taglio della barba (con l’occhiolino finale) nelle consuetudini dei maschi armeni si fa dopo una forte perdita alle carte, oppure per essere stato superato in qualche altro tipo di competizione.

Non avendo aggiunto parole di spiegazione al video, Pašinyan ha inteso ammiccare alla necessità di “riportare a zero” l’Armenia, un’espressione da lui usata sempre più spesso per intendere che “bisogna guardare all’Armenia reale, non al Paese dei sogni che fuoriesce dai propri territori”. Il dibattito riguarda direttamente le relazioni con l’Azerbaigian e l’occupazione del Nagorno Karabakh, l’ultimo trauma vissuto in conseguenza di un conflitto trentennale, ma la visione di Pašinyan si rivolge all’intera coscienza storica armena, sempre troppo legata all’antico passato di un popolo che riempiva i territori dell’Asia romana, prima dell’arrivo dei turchi ottomani.

La mattina prima di radersi il viso, il premier aveva definito “una grande tragedia” la dichiarazione di indipendenza del 1990, in cui si elencano i territori che costituiscono l’integrità territoriale dell’Armenia ex-sovietica, comprendendo le parti contese con l’Azerbaigian, ciò che oggi costituisce il principale ostacolo alla conclusione delle trattative di pace con Baku. Ai tempi sovietici la repubblica dell’Armenia era separata dal “Distretto autonomo del Nagorno Karabakh”, ripreso con la forza nel 1992.

Per spiegare la sua posizione, Pašinyan aveva aggiunto nel discorso al parlamento di Erevan che “la nostra mentalità sociale collettiva, la nostra psicologia sociale, oggi è di fatto contraria a un’autentica concezione della statualità, inconsciamente ognuno di noi si pone contro lo Stato”. Il problema è che negli ultimi 600 anni, l’Armenia ha goduto dell’indipendenza soltanto negli ultimi 35, e la “mentalità antistatale” si è formata quando non c’era lo Stato ed “eravamo soltanto una colonia”, mentre oggi il 49enne leader del governo propone di “ripulirsi” non solo il volto, ma la coscienza stessa.

All’Armenia a suo parere serve una nuova Costituzione, non soltanto per togliere le espressioni sgradite agli azeri, ma rendere il Paese “realmente in grado di proporsi e di concorrere nelle nuove condizioni geopolitiche”. Oltre alla conclusione definitiva delle trattative con l’Azerbaigian, il governo armeno sta cercando infatti di stringere rapporti con tanti Paesi dell’Asia (a cominciare dall’India) e dell’Europa, con un rapporto privilegiato con la Francia, e soprattutto con la Turchia, superando le antiche ostilità e mettendo in secondo piano anche la storica diatriba sul genocidio degli armeni di oltre un secolo fa.

Vai al sito

Il Papa riceve il primo ministro dell’Armenia (Vaticanews 118.11.24)

Nikol Pashinyan oggi in udienza nel Palazzo Apostolico vaticano. Al Pontefice ha donato “Il libro delle Lamentazioni” di San Gregorio di Narek, Francesco ha ricambiato con una scultura dal titolo “Tenerezza e Amore” che ritrae San Francesco d’Assisi, simbolo di pace e rispetto per l’umanità e la natura, accanto ad un’immagine del mondo minacciato dall’inquinamento

Vatican News

Papa Francesco ha ricevuto questa mattina, 18 novembre, in udienza nel Palazzo Apostolico vaticano il primo ministro di Armenia, Nikol Pashinyan, accompagnato dal seguito. Il colloquio riservato, nella Sala della Biblioteca, è durato mezz’ora, dalle 8.55 alle 9.25.

Al termine della conversazione è seguito il tradizionale scambio di doni. Pashinyan ha consegnato al Papa “Il libro delle Lamentazioni” di San Gregorio di Narek, monaco cristiano, teologo e mistico venerato come santo dalla Chiesa apostolica armena e dalla Chiesa cattolica. Il volume ha una copertina lavorata a mano in oro, opera di artigiani orafi armeni.

Il Papa e il premier armeno Pashinyan durante lo scambio dei doni
Il Papa e il premier armeno Pashinyan durante lo scambio dei doni

Francesco ha ricambiato con i volumi dei documenti papali e il Messaggio per la Pace del 2024, insieme ad un’opera in terracotta dal titolo “Tenerezza e amore”. Si tratta di una scultura che ritrae da una parte la figura di San Francesco d’Assisi, simbolo di pace e rispetto per l’umanità e la natura, e dall’altra accanto l’immagine di un mondo minacciato dall’inquinamento. È realizzata con la tecnica di ingobbio che dona alla terracotta una finitura liscia e levigata, simile al cuoio, esaltata da una patina a cera. L’opera d’arte esprime il messaggio di amore e custodia del creato, ispirato alle parole proprio del Papa nella sua omelia del 19 marzo 2013 per la Messa di inizio pontificato: “Custodire il creato, ogni uomo ed ogni donna, con uno sguardo di tenerezza e amore, è aprire l’orizzonte della speranza, è aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nubi, è portare il calore della speranza!”.

Vai al sito

Gaza, l’arcivescovo armeno Barsamian sulle parole di Papa Francesco: «Ha ragione a parlare di genocidio» (Ilmessaggero 18.11.24)

«Ritengo che il Papa abbia fatto bene a sollevare il dubbio e a parlare di genocidio. Del resto ogni giorno leggiamo sui giornali di migliaia e migliaia di persone innocenti, donne e bambini, che muoiono a Gaza a causa dei bombardamenti a tappeto». A parlare è l’arcivescovo armeno Khajag Barsamian, rappresentante della Chiesa apostolica armena presso la Santa Sede all’inaugurazione di un importante convegno internazionale alla pontificia università Angelicum dedicato alla preservazione dei siti cristiani in Artsakh. Le parole del prelato arrivano il giorno dopo la riflessione di Papa Francesco sulla necessità, da parte della comunità internazionale, di fare luce e valutare se quello che sta accadendo nella Striscia possa effettivamente rientrare nella fattispecie genocidiaria. Una posizione che, proprio ieri, ha sollevato l’immediata reazione di protesta da parte della diplomazia di Israele («Il 7 ottobre 2023 c’è stato un massacro genocida di cittadini israeliani e da allora Israele ha esercitato il proprio diritto di autodifesa contro i tentativi provenienti da sette diversi fronti di uccidere i suoi cittadini. Qualsiasi tentativo di chiamare questa autodifesa con qualsiasi altro nome significa isolare lo Stato ebraico»).

Quindi anche per lei è in corso un genocidio…

«Anche se è una guerra contro il terrorismo i civili dovrebbero essere protetti.

Ed è proprio questo aspetto che ci porta a dire, visti i numeri ormai insopportabili, che potrebbe effettivamente esserci una sorta di genocidio in atto».

 

Lei intravede similitudini tra il genocidio del popolo armeno, accaduto oltre cento anni fa e costato la vita a quasi due milioni di persone, con quello che avviene oggi in Medio Oriente?

«E’ differente tuttavia c’è sempre gente innocente che muore. Allora fu la leadership ottomana a pianificare la distruzione della minoranza armena mentre oggi, da quello che si vede, Israele pur cercando di proteggere i suoi cittadini attacca civili, per esempio colpendo anche ospedali o altri luoghi dove ci sono dei bambini. Questo solleva ragionevoli dubbi».

Esce in Italia una raccolta di 101 poesie di poeti armeni riscoperti dopo il crollo dell’Urss

In questo convegno internazionale dedicato alla preservazione dei siti cristiani in Artsakh lei ha parlato di genocidio culturale. Perchè?

«A dire il vero ne ha parlato anche l’Onu con una Risoluzione. La distruzione dei simboli, in questo caso dei simboli cristiani, è qualcosa che non dovrebbe mai accadere. E’ terribile oggettivamente. Si tratta di chiese, monasteri e altri luoghi sacri. A questo si aggiunge il fatto che circa 120 mila persone sono dovute fuggire a causa della guerra e ora speriamo che possano davvero fare ritorno sulle terre dei loro antenati. La diplomazia sta lavorando in questo senso. Speriamo davvero, me lo auguro».

Quanto è importante la memoria per un popolo?

«La memoria è parte integrante di ognuno di noi. Ci determina. La memoria di un popolo, a maggior ragione, non può essere messa da parte o dimenticata. Il genocidio degli armeni, per esempio, è qualcosa che certamente ha radici lontane nel tempo, si parla di fatti accaduti più di cento anni fa, eppure resta qualcosa di strettamente legato ad ogni armeno nel mondo persino oggi, e le nuove generazioni hanno le memorie familiari di nonni o bisnonni sopravvissuti. Quindi si capisce che c’è sempre un legame, un filo che connette eventi apparentemente distanti, eppure integrati ancora nella vita di noi armeni con quello che è successo. Ricordare poi è un processo che unisce sia il popolo armeno, sia quello turco. Le nuove generazioni turche ovviamente non sono responsabili di quello che accadde nel 1915 ma si dovrebbe avere coraggio per riconoscere la storia. E ricordare rende sempre più forti e non più deboli. Realisticamente bisogna pure dire che tanti turchi non conoscono bene gli eventi passati perchè non vengono insegnati nelle scuole. Tuttavia il loro riconoscimento aiuterebbe certamente nelle relazioni tra i popoli. La repubblica di Armenia specialmente ultimamente sta cercando di creare relazioni con lo stato turco, ed è un processo in divenire, e speriamo che vada avanti. Si tratta di mettere sul tavolo tutte le questioni e affrontarle per risolverle. Ogni cosa è possibile e speriamo che un giorno accada».

Vai al sito

Le realtà contrastanti della Cop29 e i confini delle rivalità globali (Notiziegeopolitiche 18.11.24)

I passi falsi dell’occidente.
In un’era in cui le alleanze e le rivalità globali si spostano a velocità senza precedenti, l’occidente sembra aver perso di vista le vere minacce all’ordine internazionale, sempre che tale ordine sia veramente desiderabile o realizzabile. Invece di identificare e affrontare le crescenti coalizioni tra stati autoritari e antidemocratici, le potenze occidentali hanno spesso descritto erroneamente alcuni attori come partner o minimizzato i rischi che essi rappresentano. Tuttavia, mentre i regimi autocratici si uniscono, un preoccupante asse di influenza minaccia di rimodellare il tessuto politico entro e oltre l’Eurasia.
In prima linea in questo allineamento emergente ci sono nazioni come Russia e Bielorussia, i cui legami politici e militari con Turchia e Azerbaigian costituiscono una solida base per l’autoritarismo. Insieme questi stati si oppongono agli ideali democratici dell’Europa e per estensione ai valori democratici a livello mondiale. Senza controllo, mettono da parte i principi liberali a favore di un potere e di un’influenza consolidati. Anche lo stato di Israele ha dato il suo sostegno, criticato per azioni percepite come alimentanti politiche aggressive che indeboliscono le popolazioni autoctone nel perseguimento dei suoi obiettivi strategici.
Da nessuna parte questa dinamica è più evidente che nella relazione tra Israele e Azerbaigian. Gli stretti legami di Israele con Baku offrono al regime azerbaigiano supporto militare e conoscenza tattica, abilità che, secondo gli analisti, hanno incoraggiato Baku nella sua posizione contro l’Armenia, facendo eco alle tattiche viste nel conflitto israelo-palestinese. Con la Turchia che funge da sostenitore storico e ideologico dell’oppressione delle popolazioni autoctone locali, un’alleanza inequivocabile sembra favorire l’instabilità e erodere ogni speranza per un pacifico equilibrio regionale.

Un contrappunto complesso.
L’Iran nel frattempo costituisce un contrappunto notevole nella sua complessità a queste potenze emergenti. Nonostante la repressione interna e le continue sfide ai diritti umani all’interno dei suoi confini, l’Iran è emerso come un attore relativamente stabile per i suoi cittadini, se non necessariamente un alleato del liberalismo. Il suo isolamento politico e il conservatorismo religioso ne limitano l’attrattiva, ma man mano che le forze autocratiche guadagnano forza a nord e a ovest, il ruolo dell’Iran nell’equilibrio regionale merita un’attenta rivalutazione.
In questo intricato panorama geopolitico, è imperativo che l’occidente riesamini le sue alleanze e riconosca le minacce più gravi all’ordine democratico. Con una più profonda consapevolezza di queste dinamiche mutevoli, la comunità internazionale può fare passi avanti verso un quadro globale più equilibrato e giusto.

L’allarmante alleanza: sostegno ai dittatori nella campagna contro gli armeni.
In una svolta preoccupante l’Italia ha scelto di allinearsi con i regimi autoritari in una massiccia campagna contro gli armeni, in seguito alla devastante pulizia etnica di 120mila armeni dell’Artsakh, il Nagorno-Karabakh, nel settembre 2023. In un momento in cui la vera democrazia si riflette nella protesta globale delle iniziative civiche e nel sostegno ecumenico delle chiese cristiane agli armeni, ancora una volta privati di una parte della loro patria storica, questa posizione è non solo scoraggiante, ma pericolosa e grave.
L’Azerbaigian rappresenta uno dei “punti più bui” del mondo per i diritti umani, un “buco nero” in cui il vero attivismo civico è praticamente inesistente. Per crudele ironia, le uniche manifestazioni pubbliche sono state orchestrate dai servizi speciali di Baku, in particolare il blocco totale nel dicembre 2022 del Corridoio di Lachin, che collegava direttamente la popolazione dell’exclave dell’Artsakh al territorio della Repubblica d’Armenia. Questa messinscena è stata progettata per isolare e terrorizzare la popolazione armena dell’Artsakh nel periodo precedente all’assalto finale dell’Azerbaigian, culminato nell’esodo forzato degli armeni dalla loro terra ancestrale.

Eventi contrastanti in simultaneità.
Come anticipato, l’Azerbaigian ha sfruttato ancora una volta la COP29 come piattaforma per la propaganda anti-armena, portando avanti programmi di estrazione di combustibili fossili che sono in diretta opposizione a ogni principio ambientale. La dittatura si è assicurata il diritto di ospitare l’evento internazionale, in parte grazie alla decisione dell’Armenia di rinunciare alla propria candidatura di ospitarlo. Eppure, invece di esprimere gratitudine, il leader del regime autocratico si è vantato della pulizia etnica dell’Artsakh, per poi rivolgere una serie di accuse infondate contro l’Armenia.
Il rappresentante del ministro degli Esteri dell’Azerbaijan Hajizada, capo del dipartimento del servizio stampa, è arrivato addirittura ad accusare l’Armenia di inquinare il Mar Caspio attraverso piccoli corsi d’acqua che sfociano nel fiume Arax, nonostante questi corsi d’acqua provengano da centinaia di chilometri di distanza. Neppure una volta però ha menzionato i decenni di inquinamento sistematico provocato dall’industria estrattiva del petrolio in Azerbaigian, che continua a devastare il bacino del Caspio.
Chiaramente, la COP29 è diventata una presa in giro dell’ambientalismo, poiché la nazione ospitante ha uno dei peggiori record al mondo in materia di diritti umani.
In netto contrasto, voci di spicco e veri attivisti ambientali come Greta Thunberg in questi giorni sono in visita in Armenia. Durante una conferenza internazionale tenutasi all’Università Americana dell’Armenia, Thunberg ha denunciato la COP29 attualmente in corso a Baku, come nient’altro che “greenwashing”, evidenziando l’assurdità di ospitare una conferenza ambientale in uno Stato autoritario che non solo è complice della distruzione del pianeta, ma anche responsabile della pulizia etnica contro gli armeni.
Gli ambientalisti hanno manifestato davanti alla rappresentanza dell’Onu a Yerevan e si sono recati anche nella città in prima linea di Jermuk, gran parte della quale è sotto l’occupazione illegale delle forze turche-azere.
Ricordiamoci che quattro anni dopo la seconda guerra del Karabakh, dozzine di prigionieri di guerra armeni rimangono illegalmente detenuti in Azerbaigian. Queste detenzioni sfidano ogni principio del diritto internazionale e ignorano palesemente l’accordo trilaterale del 9 novembre, che ha “provvisoriamente” posto fine al conflitto armato.
Dunque, la COP29 di quest’anno è maggiormente uno spettacolo di “greenwashing”, che funge da ulteriore strumento di branding e propaganda esercitato da una dittatura ereditaria. È una realtà inquietante che le piattaforme climatiche globali, apparentemente destinate ad affrontare le crisi ambientali, stiano invece sostenendo i combustibili fossili e altre “soluzioni” ecologicamente dannose. Inoltre, scegliendo la capitale di questa dittatura neo-ottomana come ospite, la piattaforma rischia di diventare complice della propaganda razzista, mettendo a tacere i diritti umani e dando un nuovo marchio ad un regime dittatoriale che, solo un anno fa, ha espulso la popolazione autoctona armena dell’Artsakh dalla propria patria impiegando strategie palesemente genocide e usando armi vietate come bombe a grappolo e fosforo bianco forniti anche dall’Ucraina.

Vai al sito

Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, si guarda già al 2026 (AciStampa 18.11.24)

Verranno dall’Armenia i testi per i sussidi della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani del 2026. Il comitato internazionale per i testi si è riunito dal 13 al 17 ottobre scorsi, per finalizzare testi e le preghiere del sussidio che sarà utilizzato nel 2026. I sussidi della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani 2025 sono invece stati affidati alla Comunità di Bose.

Nel 2026, dunque, la Settimana di Preghiera dell’Unità dei Cristiani punterà i riflettori sull’Armenia, Paese dove si sente a rischio l’eredità culturale cristiana specialmente nel Nagorno Karabakh, Artsakh nell’antico nome armeno, tornato ormai completamente sotto il controllo dell’Azerbaijan. Il lavoro ecumenico, dunque, si unisce ad un lavoro storico e culturale in quella che è la prima nazione cristiana, casa della Chiesa Apostolica Armena, una Chesa ortodossa orientale cosiddetta pre-calcedonica, che però è rimasta fuori dalla comunione con Roma più per delle incomprensioni che per delle vere differenze teologiche.

Il comitato internazionale per il sussidio si è riunito a Etchmiadzin, Santa Sede madre della Chiesa Apostolica Armena, dal 13 al 17 ottobre.

Il comitato è sponsorizzato congiuntamente dal Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e il Consiglio Ecumenico delle Chiese. I membri del comitato sono stati ospiti del Dipartimento per le relazioni interecclesiali della Chiesa Apostolica Armena, che ha redatto i materiali in collaborazione con le comunità cattoliche ed evangeliche locali.

La Cattedrale Madre di Etchmiadzin è stata riaperta il 28 e 29 settembre 2024, dopo anni di restauri, e alla riconsacrazione ha partecipato una delegazione vaticana guidata dal Cardinale Kurt Koch, che ha portato un messaggio di Papa Francesco. L’incontro del gruppo di redazione è arrivato proprio dopo la benedizione del Muron (olio santo) e questo – si legge in un comunicato del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani – ha “offerto al gruppo di redazione un’opportunità unica di riflettere e celebrare la comune fede cristiana, che continua a vivere e dare frutti nella chiese in Armenia oggi”.

Advertisement

Il sussidio di preghiera sta venendo composto attingendo a risorse delle tradizioni storiche di preghiera e suppliche utilizzate dal popolo armeno – che, si dice, misura la storia in millenni – alcuni dei quali risalgono al IV secolo.

Oltre alla preghiera nella cattedrale madre recentemente riaperta, i membri del Comitato Internazionale hanno potuto pregare in diverse altre chiese armene. Lunedì 14 ottobre, hanno visitato e ascoltato le testimonianze di rifugiati sfollati a causa della recente aggressione contro i cittadini armeni in Artsakh (Nagorno-Karabakh). Giovedì 17 ottobre, il comitato è stato ricevuto in udienza da Sua Santità Karekin II, Patriarca Supremo e Catholicos di tutti gli Armeni, e in seguito hanno visitato il Memoriale del genocidio armeno di Tsitsernakaberd.

L’incontro è stato presieduto congiuntamente dal responsabile del programma del Consiglio Ecumenico delle Chiese per la Vita Spirituale e Fede e Costituzione, il Rev.do Dr. Mikie Roberts, e da P. Martin Browne OSB, Officiale della Sezione Occidentale del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.

Il sussidio in preparazione riguarda la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani 2026, mentre sono già pronti i sussidi per la settimana di preghiera 2025, che sono stati affidati alla comunità di Bose e avranno come tema “Credi tu questo?”.

Tradizionalmente, la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani si tiene tra il 18 e il 25 gennaio, secondo una proposta che fu avanzata nel 1908 da padre Paul Watson, perché le due date comprendono simbolicamente la Festa della Cattedra di San Pietro e quella dalla Conversione di San Paolo. Ci sono stati vari precedenti illustri, ma fu solo a partire dal 1968, con Paolo VI e con gli sviluppi ecumenici dettati anche dal Concilio Vaticano II, la Settimana comincia a strutturarsi con un tema e con varie attività, tra cui la presenza del Papa per i Vespri nella Basilica di San Paolo Fuori Le Mura, tradizionalmente dedicata al dialogo ecumenico.

Nel 2020 fu la Comunità di Grandchamp a redigere il sussidio di preghiera, mentre nel 2019 spettò ad un ,gruppo ecumenico di Malta nel 2018 furono incaricati i cristiani dell’Indonesia e nel 2016 lo curarono i cristiani di Lettonia . Nel 2022, invece, è stato il turno del Consiglio delle Chiese del Medio Oriente, e nel 2023  si è guardato al Minnesota.

More in Storie

Per il 2024, i sussidi sono stai preparati da un team ecumenico del Burkina Faso, composto da membri dell’arcidiocesi cattolica di Ouagadougou, Chiese Protestanti e la Comunità Chemin Neuf del Burkina Faso – comunità particolarmente attiva nella causa dell’unità dei cristiani. Nel 2025, come detto, le preghiere e riflessioni della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani sono stati preparati da fratelli e sorelle della comunità monastica di Bose, nel Nord Italia.

Vai al sito

 

L’Azerbaigian è un paese multietnico, ma le opportunità per le minoranze nazionali di godere dei propri diritti devono essere migliorate, affermano gli esperti del Consiglio d’Europa (Coe 18.11.24)

In quanto paese multietnico, l’Azerbaigian si sforza di promuovere la tolleranza e il rispetto etnici, culturali, linguistici e religiosi. La maggior parte delle culture nazionali minoritarie sono celebrate e la tolleranza religiosa e il dialogo interreligioso sono tra le priorità del governo. I diritti delle persone appartenenti alle minoranze nazionali sono tutelati dalla Costituzione e da una politica di multiculturalismo. Tuttavia, ciò non è sufficiente a garantire la piena ed effettiva uguaglianza dei diritti.

Inoltre, le restrizioni alle libertà di espressione, di riunione e di associazione limitano le opportunità delle persone appartenenti a minoranze nazionali di godere effettivamente dei propri diritti. È necessario prendere provvedimenti immediati per porre rimedio alla situazione che si è venuta a creare in seguito al conflitto del Karabakh. Queste sono alcune delle principali conclusioni del nuovo parere del Comitato consultivo della Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali del Consiglio d’Europa (consultare la sintesi del rapporto in azerbaigiano).

In questo parere, per la prima volta il Comitato consultivo analizza la situazione nella regione del Karabakh. Durante questo ciclo di monitoraggio, l’Azerbaigian ha ripreso il controllo effettivo del Karabakh e di sette distretti limitrofi. Al contempo, più di 100.000 armeni hanno lasciato la regione in seguito all’improvvisa riapertura del corridoio di Lachin, dopo un blocco durato quasi dieci mesi e l’operazione militare delle autorità azere nel settembre 2023.

Come raccomandazione per un’azione immediata, il Comitato consultivo esorta le autorità a creare le condizioni politiche, giuridiche e pratiche per un ritorno sicuro, senza ostacoli e sostenibile degli armeni sfollati dal Karabakh e a mettere in atto un meccanismo specifico per affrontare le questioni relative alla proprietà. Le autorità sono inoltre invitate a inventariare, proteggere e conservare tutti i siti e i manufatti religiosi e culturali armeni e a indagare su qualsiasi sospetto di vandalismo, distruzione e degrado dei monumenti storici e culturali e dei cimiteri utilizzati dai membri della comunità armena nella regione.

Infine, citando la feroce retorica contro la Repubblica d’Armenia nel contesto del conflitto del Karabakh e i suoi effetti diretti sugli atteggiamenti verso le persone di etnia armena, il Comitato consultivo esorta le autorità a evitare e condannare fermamente qualsiasi manifestazione di intolleranza e tutto ciò che potrebbe diffondere l’odio etnico verso le persone appartenenti alla comunità armena, al fine di facilitare il processo di riconciliazione.

Il parere è stato pubblicato con i commenti delle autorità.

Vai al sito

COP29 e l’Armenia: pecunia non olet? (Nicolaporro 17.11.24)

Quest’anno, la periodica conferenza mondiale organizzata dalle Nazioni Unite, dedicata ai temi del clima, della pace e dell’alimentazione, si tiene a Baku, capitale dell’Azerbaigian, dall’11 al 22 novembre. La scelta della sede, operata dall’ONU, ha avuto il sostegno dell’Unione Europea. Come noto, il paese ospitante è uno dei maggiori esportatori di combustibili fossili e non nasconde il progetto di raddoppiare, entro il 2027, le forniture all’Europa.

Lo scorso anno l’Azerbaigian ha compiuto una pulizia etnica radicale nel Nagorno Karabakh (Artsakh in armeno), regione transcaucasica dove gli armeni vivevano da oltre 3000 anni. Diversamente da quanto avvenuto in occasione di altri conflitti etnico-politici, come quelli di un recente passato nei Balcani e quello in corso nel Vicino Oriente mediterraneo, le reazioni delle istituzioni internazionali (politiche e giudiziarie) sono rimaste circoscritte a dichiarazioni di principio, non seguite da interventi concreti. L’Unione Europea ha pronunciato ampollose prediche, totalmente inascoltate dal governo azero, il quale non ha comunque subito la benché minima ripercussione negativa. Storicamente, durante il periodo sovietico, la regione dell’Artsakh era stata inclusa nei confini della repubblica dell’Azerbaigian in conformità con un criterio di delineazione dei confini interni dell’URSS mirante a ridurre l’omogeneità etnica delle repubbliche e, conseguentemente, la loro capacità di intraprendere iniziative indipendentiste.

Le operazioni belliche dell’esercito azero sono state accompagnate dal blocco del transito di derrate alimentari per la popolazione e da trasparenti intenti di genocidio (quanto meno) culturale. Agli armeni dell’Artsakh non è rimasta altra alternativa di sopravvivenza che quella dell’abbandono del proprio paese. Occorre amaramente rilevare che anche la postura assunta dal nostro governo appare improntata a una forma di realpolitik, espressa verbalmente in un’intervista del viceministro degli esteri con delega al Caucaso, il quale ha sostanzialmente imputato agli armeni la colpa del conflitto e della pulizia etnica subita, accusandoli di aggressione, nazionalismo, revanscismo, e sottolineando che la loro sconfitta è anche una sconfitta della Russia. In pratica, durante e dopo il conflitto, l’Italia ha mantenuto invariati i suoi rapporti economici con l’Azerbaigian, attraverso l’acquisto di idrocarburi e la vendita di armamenti. Se è pur vero che “la coerenza è la virtù degli imbecilli” (Prezzolini), non possiamo non chiederci quale coerenza vi sia tra questa postura internazionale e i principi a cui si ispira il nostro governo, fra i quali, al primo posto si colloca la difesa della civiltà occidentale: tra tutti i tasselli che la compongono, non è forse l’Armenia (il primo paese cristiano del mondo) quello più a rischio di soppressione? Altrettanto incoerente è la postura assunta da Israele a favore dell’Azerbaigian in ragione dell’ostilità tra quest’ultimo e l’Iran: una scelta che sembra obliterare la Storia del secolo scorso, che accomuna la vicenda ebraica a quella armena.

In ambito bellico, decisiva è stata la passività della Russia (storico difensore degli armeni) e il sostegno della Turchia al paese fratello. Unici paesi che hanno prestato sostegno materiale e ideale agli armeni sono stati Francia e India. Oggi i governanti azeri non nascondono il progetto di completamento del genocidio culturale e della pulizia etnica mediante la conquista di quello che chiamano “Azerbaigian occidentale”, cioè la Repubblica di Armenia. Ciononostante, le immagini che provengono in queste ore da Baku mostrano i rappresentanti delle istituzioni internazionali e i governanti dei paesi democratici (eroici difensori dei diritti umani in ogni angolo del globo) mentre stringono sorridenti la mano al presidente azero Aliyev, in un contesto congressuale istituito – ripetiamo – per affrontare i problemi climatici legati all’utilizzo degli idrocarburi e quelli della pace e del rispetto dei diritti umani.

All’inizio di novembre, alcune associazioni europee e americane di armeni che vivono all’estero hanno inviato un appello alla Presidente della Commissione Europea von der Leyen perché intraprenda iniziative concrete di contrasto alla politica estera aggressiva e a quella interna repressiva, portate avanti dal governo azero. Nell’appello si evidenziano i crimini in atto e la spettacolare recita del governo azero impegnato a indossare, durante la COP29, la maschera del benefattore. Ma finora pare che da Bruxelles non sia giunta alcuna risposta, né positiva, né negativa: pecunia non olet?

Vai al sito