Un olandese di 79 anni, da 25 giorni è in sciopero della fame per Mikael, il bambino armeno che rischia l’espulsione (31mag.nl 06.08.24)

duard, un uomo di 79 anni di Maastricht, è in sciopero della fame da 25 giorni davanti all’IND (Ufficio Immigrazione e Naturalizzazione) a L’Aia. La sua protesta è rivolta contro l’espulsione di bambini come Mikael, un bambino di 11 anni nato ad Amsterdam, che la settimana scorsa ha ricevuto l’ordine di essere deportato in Armenia, dice AT5.

Eduard, ex direttore di un rifugio per senzatetto, passa le sue giornate dalle 9:00 alle 17:00 davanti all’IND. La notte trova ospitalità presso alcuni cittadini di L’Aia che sostengono la sua causa. Un medico lo visita quotidianamente per monitorare la sua salute e l’uomo Eduard dichiara: “Sono qui e resterò qui fino a quando non verrà fatto giustizia per i bambini. Non si può fare una cosa del genere a un bambino. I bambini non devono mai diventare vittime delle azioni degli adulti.”

 

Mikael, nato e cresciuto ad Amsterdam, ha ringraziato Eduard per il suo sostegno: la sua famiglia ha visto respinte diverse richieste di permesso di soggiorno e la scorsa settimana il Consiglio di Stato ha stabilito che lui e sua madre devono lasciare i Paesi Bassi. La sindaca di Amsterdam, Femke Halsema, ha chiesto alla ministra Marjolein Faber di intervenire, ma lei ha risposto di non poter fare nulla per aiutare Mikael.

Un amico di famiglia, Guy Loyson, ritiene che il ministro potrebbe comunque intervenire, ordinando all’IND di riesaminare il caso.

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Armenia, un Paese da scoprire in bicicletta. Fino a ottobre (Montagna.tv 05.08.24)

L’Armenia e le montagne del Caucaso sono delle destinazioni ideali per un cicloviaggio estivo o di inizio autunno alla scoperta di questo paese ancora ai margini dei grandi flussi turistici. Monasteri cristiani, alte montagne, laghi d’alta quota ed una cordiale ospitalità sono i punti fermi di questo Paese. Internet è disponibile quasi ovunque; esiste booking e una struttura ricettiva di buona qualità dai costi contenuti.

La lingua è l’armeno, mentre l’inglese lo parlano in pochi più che altro ragazzi/bambini e persone che lavorano nel turismo. L’ospitalità è sorprendente specialmente nelle zone rurali. Accadrà di frequenteche qualcuno distenderà la tovaglia per invitarvi a mangiare e bere qualcosa insieme.

Scegliere l’itinerario

Con due settimane di tempo è possibile percorrere tutta la nazione da nord a sud visitando i posti più caratteristici del paese in primis il Lago Sevan. In alternativa è possibile raggiungere l’Iran (Tabriz) o la Georgia (Tblisi). Il traffico è scarso, tranne che nei dintorni di Yerevan dove comunque sono presenti molte strade secondarie poco trafficate.Il sito www.cyclingarmenia.com suggerisce le strade più caratteristiche e adatte ai ciclisti. Nel vostro tour cercate di includere anche la bellissima salita sulla strada vecchia verso Jermuk. Questo esattamente è Il percorso compiuto da chi scrive e che arriva in Iran/Tabriz. Per poi ritornare a Yerevan in bus.

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Altro itinerario da cui prendere spunto è presente su www.ascendarmenia.com. E’ un giro ad anello che ripercorre una gara di ultracycling che si disputa in Armenia. Anche questo alterna tratti sterrati e strade secondarie.

Attualmente, vista la situazione di instabilità con l’Azerbaigian, si sconsigliano viaggi nei pressi dell’exclave azera di Nakhchivan e – in generale – lungo le frontiere con l’Azerbaigian. In particolare, sarebbero da evitare le regioni di Syunik e Vayots Dzor e le aree sud ed est della regione di Gegharkunik.

Nel Paese ci sono molti cani pastori non legati e/o non chiusi in ambienti recintati. Anche noi ne abbiamo incontrati specialmente sulle montagne tra il Monastero di Geghar ed il lago Sevan. Prestare attenzione, scendete dalla bici e allontanatevi da loro facendovi scudo con la bici stessa.

Vitto e alloggio

L’offerta di alloggio è scarsa quando si esce da Yeravan, l’unica vera grande città del Paese. Nella capitale si trovano molti hotel e Bed&Breakfast. Al di fuori di Yeravan comunque è sempre possibile riuscire a trovare qualche struttura sia su booking che su google maps qualora si intende dormire presso le piccole città. Sono presenti alcuni campeggi, che sono frequentati perlopiù da turisti stranieri.

Una piccola tenda può essere utile anche in situazioni d’ emergenza specialmente se avete l’intenzione di attraversare le montagne sopra il Lago Sevan. Il fornelletto non serve.

La cucina armena è molto semplice e si basa su pane non lievitato chiamato Lavash. Lo usano per accompagnare carne e verdure come pomodori, patate e peperoni piccanti. In estate troverete molte albicocche e pesche da raccogliere.

Menzione speciale per il Caffe armeno, che si trova, anche freddo, presso qualunque spaccio alimentare. Il Brandy è il liquore nazionale ma vi inviteranno sicuramente a bere una loro vodka. L’acqua si trova lungo il percorso. Paesi, villaggi e shop sono comunque frequenti. I costi per il vitto e l’alloggio, così come per i trasporti, sono molto inferiori rispetto all’Italia.

Come raggiungere l’Armenia, trasporti locali e formalità

Si arriva a Yerevan con un volo diretto di 4 orecirca da Roma, Milano o Venezia. La compagnia è WizzAir che offre tariffe basse e la possibilità di prenotare on-line il trasporto della bici. Per entrare in Armenia è necessario il passaporto ma non serve il visto per chi viene da paesi UE.

Il servizio taxi è efficiente e permettono pure di caricare i cartoni delle bici. Tra le città vi è un servizio di minivan ma non sempre accettano le biciclette, bisogna avere pazienza e contrattare.

A Yerevan molte agenzie turistiche effettuano gite in giornata o di più giorni presso le principali attrazioni del paese.

Un servizio bus raggiunge anche l’Iran (Tabriz) e Tblisi (Georgia) per chiunque abbia intenzione di allungare il viaggio.

Bancomat, e cambia valuta sono presenti a Yerevan ed in poche altre città.Le carte di credito sono accettate quasi ovunque, ma non fateci troppo affidamento.

Meteo

Durante il periodo estivo fa molto caldo specialmente a basse quote ovvero sotto i 1000 metri. Durante la notte le temperature si abbassano ma non di molto. Il periodo migliore per andare è tra maggio e ottobre. Buono anche aprile se non si ha intenzione di andare troppo in alta quota.

Attrazioni

La capitaleYerevan dove scoprire la storia del paese attraverso i suoi molti musei e monumenti. Vivace anche la vita notturna.

Garni con il suo antico tempio e la stupenda formazione rocciosa della “Sinfonia di Pietra”.

La città termale di Jermuk, raggiungibile con la bellissima vecchia strada attraverso le gole.

monasteri. I più famosi quelli di Geghard, Noravank, TatevKhor Virap.

Il Lago Sevan e le montagne circostanti da esplorare in bici approfittando dell’ospitalità dei pastori armeni.
Dilijan è piccola comunità che sorge all’interno dell’omonimo Parco Nazionale di Dilijan. È denominata la piccola Svizzera.

La vetta dell’Aragats (4095 m) la montagna più alta della nazione dopo che l’Ararat è stato incorporato alla Turchia.

 

 

 

 

Presentato il terzo volume su Yeghische Charents durante il premio Xenia Book Fair (Il Reggino 03.08.24)

Il Salotto Letterario, che ha preceduto la premiazione, è stato incentrato sulla presentazione del terzo e ultimo volume facente parte di una trilogia dedicata al grande poeta armeno

Presentato il terzo volume su Yeghische Charents durante il premio Xenia Book Fair

La seconda ed ultima serata dell’ arricchente Rassegna Letteraria Internazionale “Xenia Book Fair”  (giunta alla sua nona edizione e ormai in via di storicizzazione), presentata in maniera impeccabile da Maria Teresa Notarnicola, ha avuto nuovamente luogo presso il Circolo del Tennis “Rocco Polimeni”. Il Salotto Letterario, che ha preceduto la premiazione, è stato incentrato sulla presentazione del terzo e ultimo volume facente parte di una trilogia dedicata al grande poeta armeno Yeghische Charents, a cura della Leonida Edizioni di Domenico Polito .

Filippo Quartuccio, Delegato alla Cultura della Città Metropolitana di Reggio Calabria, ha espresso entusiasmo per la manifestazione, affermando di essersi confrontato positivamente con il Sindaco Giuseppe Falcomatà rispetto allo Xenia Book Fair. – Il respiro internazionale-ha dichiarato Quartuccio- serve ad individuare le culture diverse, ad interpretare la loro anima, per capire se si può migliorare e prenderne esempio, per far crescere il nostro territorio. Ben vengano queste relazioni. Fondamentale alla causa il ruolo delle associazioni-.

Il presidente dell’Anassilaos Stefano Iorfida ha messo alla luce l’importanza di trattare ai nostri tempi un poeta come Charents, rispetto a dieci anni fa, poiché la guerra è attualmente alle porte dell’Occidente, e la sensibilità  è nettamente cambiata rispetto ai valori di tolleranza, democrazia e libertà. -Polito – ha asserito Stefano Iorfida-ha avuto il merito di pubblicare una trilogia lontana dagli standard editoriali comuni.

Opera difficile, ma fondamentale, perché la storia aiuta a capire il presente-. Andrea Calabrese, presidente dell’Associazione Musicale “La nuova verdi, ha ribadito il rapporto d’interconnessione sussistente tra arte e musica, riportando il parallelismo tra il compositore Dmitrij Dmitrievič Šostakovič e Charenst e, per rimanere in ambito letterario, con Corrado Alvaro in riferimento alla tematica della patria, con il concetto di “natura matrigna” di Giacomo Leopardi e con Fernando Pessoa, per assonanze stilistiche. -Charents- ha infine riferito Calabrese- dovrebbe esser studiato profusamente nelle scuole-. Cenni tecnici sono stati avanzati dalla D. ssa Valentina Savasta, riguardo il suo lavoro di redattrice e le similitudini con quello dei traduttori.

Dopo il Reading poetico da parte di Andrea Calabrese, il pubblico ha potuto ascoltare il videomessaggio di S. E. Tsovinar Hambardzumyan, Ambasciatrice plenipotenziaria della Repubblica d’Armenia presso la Repubblica Italiana, che ha ringraziato la Leonida Edizioni di Domenico Polito per l’ambizioso progetto sulla trilogia del poeta armeno  Yeghische Charents ( che richiama i colori della bandiera dell’Armenia), approdata non solo allo Xenia Book Fair, ma anche all’Università della Sapienza di Roma con, tra le altre figure presenti, anche l’attore e regista Carlo Verdone.

Anche per l’ambasciata armena, come per la delegazione georgiana, il presidente dell’Ai. Par. c Salvatore Timpano ha deciso di donare il gagliardetto dell’associazione e l’essenza di bergamotto.

La seconda parte della serata è stata dedicata alla Premiazione della terza edizione del Premio Letterario internazionale Xenia Book Fair 2024, che si articola in due sezioni: silloge e narrativa. Per la prima sezione il primo posto è stato occupato dalla silloge “Il silenzio delle Cetre” di Giuliana Donzello. Emozionante la motivazione e le parole dell’autrice, incentrate sulla sofferenza della guerra, il richiamo all’Ucraina e al silenzio che deve essere pronunciato attraverso la parola.

Al secondo posto troviamo la silloge Per parole che sanno immutarsi di Eleonora Vinaccia, una poetessa, secondo la motivazione data dalla giuria del premio, osservatrice, sensibile e di poche parole. Il terzo posto è per la silloge Confidenze sull’uso di sé di Riccardo Carli Ballola la cui poesia ha, secondo la motivazione al premio, punti di contatto con lo stile narrativo. Per la sezione Narrativa il primo posto del podio è stato riservato a Salvatore Giorgio Salvatori con l’opera Il racconto del vento – C’era un Paese chiamato la Terra , scritta, sulla base della motivazione della giuria, con rimandi al fantastico e alla tematica attuale dell’ambiente. Secondo posto per Andrea Grecanti con Il prescelto – ossia l’occasione fa il salvatore, per le sue molteplici linee narrative e le profonde riflessioni sul destino dell’uomo , come da motivazione. Franco Busato con il romanzo Terra mare conquista il terzo posto e, secondo la motivazione al premio, lo ottiene per la capacità espressiva, l’intensità e i temi trattati. Lo spettacolo è stato intervallato dall’esilarante duo comico composto da Benvenuto Marra e Pasquale Caprì, che ha allietato un pubblico caloroso, proveniente da diversi luoghi d’Italia.

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Premio Xenia Book Fair, presentato il terzo volume sul poeta armeno Yeghische Charents (Cn24tv)

C’era una volta il Nagorno Karabakh: il fotoreportage di un Paese cancellato dalla faccia della Terra (Fotocult 03.08.24)

La fotografa Emanuela Colombo racconta una storia che ha dell’incredibile: un Paese di centoventimila abitanti trasformato in campo di concentramento per poi essere completamente distrutto.

Gurgen Hovsepyan, 36 anni, è fuggito con tutta la famiglia da Beraber in Nagorno Karabakh il 25 settembre 2023 sotto i bombardamenti azeri. © Emanuela Colombo, “C’era una volta il Nagorno Karabakh”.

Sulle odierne carte geografiche il  Nagorno Karabakh – territorio armeno all’interno dei confini dell’Azerbaigian – non esiste più, non ce n’è più traccia. La sua popolazione è stata resa profuga, le case bombardate, i monumenti religiosi rasi al suolo, la sua storia apparentemente azzerata. Per evitare che anche la memoria del luogo e le storie legate ad essa vengano disperse come sabbia al vento Emanuela Colombo ha dato vita a un progetto, C’era una volta il Nagorno Karabakh, che evoca quel territorio fantasma e che dà voce ai superstiti di quella tragedia.

C’era una volta il Nagorno Karabakh è dedicato alle tracce di un Paese che nelle cartine geografiche non esiste più. Ce ne racconti la storia?

Fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica il Nagorno Karabakh, ‘Artsakh’ in armeno, è stato per volere di Stalin un oblast (regione) autonomo armeno, con capitale Stepanakert, facente però parte dell’Azerbaigian. Azeri e armeni vi convivevano in pace. La complicata mappa delle enclavi autonome nel Caucaso è un’eredità del sistema sovietico di cui Mosca si è servita per decenni per dividere e governare meglio il suo impero.

La madre di Sevak Harityunyan, trentunenne che ha affittato una casa a Dilijan e ha aperto una piccola panetteria dove vende il zhingyalov, un pane non lievitato farcito con erbe che prepara lui stesso. © Emanuela Colombo, "C’era una volta il Nagorno Karabakh"
La madre di Sevak Harityunyan, trentunenne che ha affittato una casa a Dilijan e ha aperto una piccola panetteria dove vende il zhingyalov, un pane non lievitato farcito con erbe che prepara lui stesso.

Gli armeni del Karabakh, dunque, avevano raggiunto una loro autonomia già dal 1921, ma Stalin non volle concedere loro l’indipendenza. Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, però, una buona parte delle repubbliche socialiste che la componevano si dichiararono indipendenti e così avvenne anche per la Repubblica dell’Artsakh, cioè il Nagorno Karabakh. Da quel momento scoppiarono molte guerre per la disputa sui confini e per la sicurezza e i diritti della minoranza armena.

Venendo ai giorni nostri, la Russia, fino a poco tempo fa stretta alleata dell’Armenia, si trova sempre più impantanata nella guerra di invasione in Ucraina e non intende lasciarsi coinvolgere in una guerra al suo fianco. L’Azerbaigian, dunque, ha visto aperta per sé una grande opportunità per chiudere una volta per tutte la “questione Karabakh” e riannettersi definitivamente i territori interni ai suoi confini.  Non dimentichiamo, tra l’altro, che gli armeni sono tradizionalmente cristiano ortodossi e gli azeri musulmani.

Ijevan, Armenia. © Emanuela Colombo, "C’era una volta il Nagorno Karabakh"
Ijevan, Armenia. © Emanuela Colombo, “C’era una volta il Nagorno Karabakh”

A inizio 2023 l’offensiva dell’Azerbaigian ha creato una crisi umanitaria spaventosa sottoponendo la popolazione del Karabakh a nove mesi di isolamento con il blocco del corridoio di Lachin, unica via di approvvigionamento per gli armeni della regione. In questo modo, Aliyev, presidente azero, ha trasformato il Nagorno Karabakh in un vasto campo di concentramento per 120.000 armeni rimasti di fatto imprigionati, senza forniture energetiche, cibo, medicine e carburante. Inoltre, sono stati distrutti monumenti cristiani e sono stati calpestati i diritti fondamentali di autonomia culturale e politica. Nel settembre 2023 i villaggi sono stati bombardati, da Nord a Sud, costringendo una popolazione già allo stremo ad abbandonare case, terre, fattorie e villaggi per salvarsi la vita. E così il Nagorno Karabakh ha smesso di esistere.

Come la storia del Nagorno Karabakh si è intersecata con la tua?

Personalmente ho sentito parlare per la prima volta del Nagorno Karabakh cinque anni fa mentre ero in Armenia con una collega per un assegnato. La nostra fixerAnna, giornalista e traduttrice armena, frequentava molto quel territorio, che, ai tempi, era molto attivo a livello culturale, organizzando festival d’arte e di musica. Lei ce ne parlava come di un posto meraviglioso dove vivere ed essere felici

A inizio 2023 le prime notizie dell’isolamento forzato dell’enclave sono arrivate in Italia e subito ho contatto Anna per sapere come stava e com’era la situazione. Quasi un anno dopo, a dramma avvenuto, ho deciso di andare a vedere coi miei occhi cosa era successo veramente e di provare a raccontarlo con le mie immagini, forte anche del fatto che nessun media europeo o internazionale aveva mai parlato della scomparsa di questo Stato e della diaspora forzata dei suoi abitanti.

Come ti sei mossa per strutturare il tuo progetto e in quanto tempo lo hai realizzato?

La figura di Anna per me è stata importantissima. È stata con me durante tutto il periodo di permanenza sul posto e, tramite le sue conoscenze, sono stata in grado di entrare in contatto con moltissimi profughi dal Karabakh, avvicinandomi tanto da farmi aprire le porte delle loro case e dei loro ‘rifugi’ e ottenere il permesso di ritrarli lì. Quello che volevo fare, infatti, era raccontare le loro condizioni e la loro ‘nuova’ vita, ma per arrivare a questo tipo di narrazione dovevo fare in modo che si fidassero di me, intessendo dei rapporti umanamente diretti e profondi. Con Anna, per dieci giorni, abbiamo girato in macchina lungo tutta l’Armenia, incontrando le persone e facendoci raccontare le loro storie.

Mileta Haynepetyan ha 56 anni e 6 figli e attualmente vive con la famiglia a Hrazdan dove erano già stati sfollati durante la guerra dei 44 giorni nel 2020. © Emanuela Colombo," C’era una volta il Nagorno Karabakh".
Mileta Haynepetyan ha 56 anni e 6 figli e attualmente vive con la famiglia a Hrazdan dove erano già stati sfollati durante la guerra dei 44 giorni nel 2020. © Emanuela Colombo,” C’era una volta il Nagorno Karabakh”.

Qual è il sentimento prevalente che hai avvertito incontrando le persone che sono scappate dal Nagorno Karabakh?

Io sono arrivata in Armenia nell’aprile del 2024, quando gli abitanti armeni del Karabakh erano già stati costretti a fuggire sotto le bombe azere, dopo mesi di isolamento forzato, lasciando le loro case e portando con sé i soli vestiti che avevano addosso. Le persone che ho incontrato sono state accolte in Armenia come profughi e profughi si sentono. Le famiglie sono state divise, i vicini di casa si sono persi di vista, i bambini non riescono ad inserirsi nelle nuove realtà scolastiche.

Nessuno di loro, inoltre, abita in una casa degna di questo nome. La maggior parte di queste persone desidera tornare nel proprio Paese, in quel posto meraviglioso che era il Karabakh, dove la religione e la cultura armena sono nate. C’è anche chi, invece, è così stanco di battaglie, scontri e incertezze che non vede l’ora di poter lasciare addirittura l’Armenia stessa e ricominciare una nuova vita lontano da uno scenario opprimente e sfiancante.

Che tipo di difficoltà hai incontrato nella realizzazione di C’era una volta il Nagorno Karabakh, dal punto di vista pratico ma anche umano?

Dal punto di vista pratico non ho incontrato grosse difficoltà nella realizzazione di questo lavoro. L’Armenia è un Paese pacifico, le persone sono accoglienti e le infrastrutture per gli spostamenti sono buone. Avendo con me Anna, che è una donna molto attiva ed empatica, non ho travato grosse difficoltà ad entrare in contatto con le persone che ho fotografato, anche se la maggior parte di loro era molto stanca, depressa e delusa. Per questo motivo trovare il modo di indurre le persone ad aprirsi con noi tanto da lasciarsi fotografare non è stato affatto facile.

La signora Janna Shirnyan, per esempio, ha inveito per dieci minuti buoni contro tutti i media che le promettevano aiuto per farla tornare nella sua casa in Karabakh in cambio di interviste e racconti da pubblicare, senza però, poi, fare nulla. C’è voluto tatto e pazienza per farle capire che noi non promettevamo niente ma che la sua storia era importante e che il nostro desiderio era quello di farla conoscere a più persone possibile di modo che un’ingiustizia come quella subita da lei e dai suoi concittadini non venisse ignorata.

Il padre di Elina Hayrapetyanha, fuggita da Kart in Nagorno Karabakh con tutta la sua famiglia. © Emanuela Colombo, "C’era una volta il Nagorno Karabakh".
Il padre di Elina Hayrapetyanha, fuggita da Kart in Nagorno Karabakh con tutta la sua famiglia. © Emanuela Colombo, “C’era una volta il Nagorno Karabakh”.

Molti sono i fotografi che hanno adottato un approccio immersivo nel loro lavoro, con le persone e le storie che volevano raccontare. Quali sono i tuoi modelli, fotograficamente parlando?

Io amo la fotografia in tutte le sue forme ed appena posso ne studio la storia. Passo molto del mio tempo a guardare i lavori dei grandi fotografi del passato e del presente e posso dire che tutta la fotografia che è passata attraverso i miei occhi ha influenzato il mio lavoro. Mi vengono in mente Dorothea LangeStephen ShoreAlec SothDarcy PadillaNan Goldin. I grandi maestri della fotografia di racconto, insomma.

In C’era una volta il Nagorno Karabakh si avverte la tua intenzione di far dialogare differenti dimensioni temporali, tra il passato e il presente. In tal senso come hai realizzato la narrazione del tuo progetto?

Visto che l’evento che desideravo raccontare era già passato nel momento in cui io ho scattato le immagini del mio lavoro, ho provato a raccontare gli avvenimenti e i sentimenti provati dalle persone che fotografavo chiedendo loro di mostrarmi oggetti che riportassero alla luce ricordi della loro vita passata o fotografie che descrivessero la loro vita prima del tragico momento in cui si sono trasformati in profughi. Ho alternato dunque i ritratti dei protagonisti della mia storia, le immagini del presente e dei luoghi dove sono stati costretti a trasferirsi con le immagini degli oggetti e delle fotografie provenienti dal loro passato.

Flora Avamenesyan, 67 anni, è scappata dal Karabakh con i figli sotto i bombardamenti del 25 settembre 2023 per rifugiarsi in un bunker. Una foto di sé stessa da giovane è tutto ciò che le resta del suo passato. © Emanuela Colombo, "C’era una volta il Nagorno Karabakh".
Flora Avamenesyan, 67 anni, è scappata dal Karabakh con i figli sotto i bombardamenti del 25 settembre 2023 per rifugiarsi in un bunker. Una foto di sé stessa da giovane è tutto ciò che le resta del suo passato. © Emanuela Colombo, “C’era una volta il Nagorno Karabakh”.

Prediligi la luce ambientale per il tuo lavoro. È sempre stato così?

Amo da sempre fotografare in luce ambiente. La mia Nikon D850 si comporta molto bene in condizioni di luce ‘estreme’: all’interno delle case e quando l’unica luce nell’ambiente proviene dalle finestre. Trovo inoltre che l’utilizzo dei flash e delle luci artificiali metta sempre un po’ in soggezione i soggetti fotografati, che nei miei racconti sono spesso già provati dalle situazioni estreme in cui si vengono a trovare.

C’è una regia, da parte tua, nelle tue immagini?

La composizione delle mie immagini, solitamente, la penso in relazione alla luce. Non modifico mai gli ambienti in cui mi trovo e chiedo ai miei soggetti di posizionarsi per il ritratto in modo che la luce arrivi sui loro volti nel modo migliore possibile. Sono io a dirigere la scena, anche se il mio lavoro si compone di una parte importante dedicata all’ascolto dell’altro, delle sue storie e dei suoi racconti.

I coniugi Mayilyan hanno abitato per tutta la vita a Khapat in Karabakh. Si occupano da sempre della nipote autistica e orfana di madre dall’età di 10 anni e di padre dal 2020. © Emanuela Colombo, "C’era una volta il Nagorno Karabakh"
I coniugi Mayilyan hanno abitato per tutta la vita a Khapat in Karabakh. Si occupano da sempre della nipote autistica e orfana di madre dall’età di 10 anni e di padre dal 2020. © Emanuela Colombo, “C’era una volta il Nagorno Karabakh”

Hai una storia da raccontarci che ti ha particolarmente colpito, stando lì?

Una storia che mi ha particolarmente colpito è quella dei coniugi Mayilyan. Entrambi hanno settantuno anni e hanno abitato per tutta la loro vita a Khapat, in Karabakh. Si sono occupati da sempre della loro nipote autistica e orfana dei genitori dall’età di dieci anni. Il loro figlio, e padre della ragazza, era malato e a causa della guerra non è stato possibile portarlo in ospedale in tempo. Così, con la nipote, sono arrivati a Barekamavan, in Armenia, dopo una drammatica fuga da casa loro in Karabakh, distrutta dalle bombe nel settembre del 2023.

Il villaggio di Barekamavan, nella regione armena del Tavush, è circondato su tre lati dal confine con l’Azerbaigian, e per questo motivo è stato gradualmente abbandonato. Per evitare la sua totale rovina, le case lasciate vuote sono state date come abitazione ai profughi del Karabakh gratuitamente per tre anni. Purtroppo le abitazioni risultano abbandonate da molto tempo e spesso versano in condizioni pessime. Nel villaggio non ci sono né acqua corrente né gas, l’unica occupazione possibile è l’agricoltura. Nel villaggio abitano ora venti famiglie sfollate dal Karabakh.

Estate in Armenia, nuova meta del turismo lento e sicuro tra festival del vino, sinfonie di pietre e voli in mongolfiera (Haffington post 02.08.24)

Viaggio in Armenia, tra cultura, natura, musica, enogastronomia in uno dei paesi meno conosciuti – al momento – dagli italiani e più sicuri al mondo, all’insaputa di molti: nel più recente rapporto della piattaforma di analisi Numbeo, infatti, l’Armenia è stata classificata settimo paese più sicuro al mondo secondo il rapporto sul Tasso di criminalità e l’Indice di sicurezza per paese che ha valutato 146 nazioni. Incastonato nella regione del Caucaso meridionale, o Transcaucasia, tra Asia ed Europa, è una terra di paesaggi affascinanti, ricca di storia, vini eccellenti e calda ospitalità, a circa 4 ore di volo dall’Italia (ci sono collegamenti diretti ogni giorno da Roma e Milano).

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Non solo. È anche un paese che ci sta molto più vicino – culturalmente – di ciò che si possa immaginare grazie una lunga tradizione di scambi con il nostro Paese, fin dall’epoca romana e medievale. Non a caso sono numerose le comunità armene e l’eredità culturale e architettonica armena in Italia, soprattutto a Venezia, Milano, Roma e Bari. Superati i difficili anni Novanta, il paese si è pian piano aperto al turismo nei primi anni Duemila offrendo un numero crescente di ottimi servizi e strutture ricettive con standard internazionali. Confina a ovest con la Turchia, a nord con la Georgia, a est con l’Azerbaigian, a sud con l’Iran, per un territorio caratterizzato quasi totalmente da altipiani, come quello dove si trova la capitale Yerevan che sorge a 900 metri e da montagne con diverse vette che superano i 3000 metri tra cui il monte più alto che è l’Aragats (4095 metri). Scenari naturali colorati da montagne innevate,  vallate verdissime, il lago Sevan, uno dei bacini d’alta quota (1900 metri) più grandi del mondo, cascate, torrenti, canyon e la famosa Sinfonia delle pietre, impressionante formazione basaltica a canne d’organo alta più di 50 metri. Luoghi incantevoli dove vivere la natura attraverso trekking, arrampicata, canyoning, rafting, sup, erscursioni in 4×4, uscite a cavallo, voli in mongolfiera. 

 

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Palcoscenici geografici e culturali che negli ultimi anni hanno reso l’Armenia come “nuova” destinazione di viaggio che sa offrire anche tante attività outdoor grazie all’ambiente naturale di forte impatto (ampie vallate che si susseguono tra montagne, torrenti e canyon). In questo scenario si apre un calendario di eventi estivi tutti da godere. A cominciare da domani, 3 agosto e domenica 4, con il Wine fest a Dilijan che chiama più di 40 cantine e ristoranti provenienti da diverse regioni che si ritrovano nel vasto parco della villa di Aghasi Khanjyan costruita nel 1936 come residenza estiva del primo segretario del Partito comunista d’Armenia. Nell’ultimo decennio, infatti, il paese si è imposto anche come meta del turismo del vino internazionale grazie a numerose cantine cresciute molto in qualità enologica che offrono degustazioni, visite guidate, cene in vigna e pernottamento in splendide location. Del resto, siamo nella patria del vino, nella grotta Areni 1, nella regione di Vaoyots Dzor, è stato ritrovato il più antico sistema di produzione del vino risalente a oltre 6100 anni fa. Dilijan è una storica località di villeggiatura  all’interno dell’omonimo parco nazionale, tra montagne attraversate da sentieri escursionistici che si snodano tra boschi, laghetti e monasteri medievali, come Goshavank e Haghartsin. 

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E ancora, masterclass, pittura con il vino e un programma di intrattenimento musicale con concerti e balli tradizionali armeni. Il 10-11 agosto nella capitale Yerevan va in scena  la sesta edizione del TARAZfest, un evento che promuove la cultura armena e i costumi tradizionali. “Taraz” indica l’abbigliamento tradizionale armeno, nel quale ogni capo di vestiario, accessorio e ornamento, dalle ricche cinture metalliche agli originali gioielli, indicavano con precisione lo status sociale della persona. Non solo la classe sociale e la posizione ricoperta, ma anche l’esatta provenienza regionale e lo stato civile di donne e uomini, erano espressi attraverso elaboratissimi outfit, con pezzi che sono dei veri capolavori di artigianato. Infine, il 17 agosto spicca il volo l’Air Fest a Stepanavan, nella verdeggiante e montuosa provincia di Lori. A partire dalle 12 si potrà assistere a una straordinaria esibizione di macchine volanti, tra cui aeroplani, mongolfiere, elicotteri e parapendii. Ma anche dimostrazioni di aeromodellismo, spettacolari di droni, esperienze immersive e altro ancora. 

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Vacanze attive e appaganti anche dal punto di vista gastronomico grazie a una cucina frutto di influenze mediterranee, mediorientali e caucasiche, che offre un caleidoscopio di sapori e ingredienti genuini che piace molto agli italiani. Fra gliappuntamenti che si tengono in altre regioni, come Tavush e Vayots Dzor, patria appunto del vino e del buon cibo,  da segnare in agenda, dall’11 al 13 settembre, l’ottava Conferenza internazionale sul Turismo del Vino di UN Tourism, un appuntamento imperdibile per operatori ed esperti del settore. 

Gran parte dell’Armenia è dominata dal monte Ararat (5165 metri), simbolo atavico di appartenenza per gli armeni che si considerano “il popolo dell’Ararat”, citato nell’Antico Testamento, luogo di appodo dell’Arca di Noé, che tuttavia si trova oggi in territorio turco, appena oltre il confine. Patrimonio culturale, ricco di siti archeologici che spaziano dalla preistoria con le caratteristiche stele di roccia chiamate “vishap” cioè “drago”, risalenti a 4000 anni fa, alte fino a 5 metri, che poi lasciarono il posto ai “khachkar”, stele di roccia incise con la croce e altri simboli cristiani, che sono disseminate in tutta l’Armenia e sono un simbolo identificativo (ce ne sono anche una in Vaticano e sull’Isola di San Lazzaro degli Armeni a Venezia ecc.); l’osservatorio astronomico Karahunge, la “Stonehenge armena” che risale a oltre 7000 anni fa e molto altro – ai primi secoli del Cristianesimo (primo paese al mondo ad adottare il Cristianesimo come religione di stato nel 301, dodici anni prima dell’Editto di Costantino, con l’opera di conversione di San Gregorio l’Illuminatore, che noi chiamiamo San Gregorio Armeno), con chiese e monasteri fondati nel IV secolo e fioriti durante il Medioevo, tuttora in funzione. Da non perdere il monastero di Khor Virap ai piedi del biblico Ararat: qui si può ancora visitare il luogo di prigionia di San Gregorio, patrono dell’Armenia, che convertì il re e la sua corte al Cristianesimo nel 301.

 

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Ultima nota utile per il viaggiatore in partenza: l’Armenia è una repubblica parlamentare tornata indipendente nel 1991, dopo aver fatto parte per 70 anni dell’Unione Sovietica. L’attuale governo del primo ministro Pashinyan sta attuando una politica di avvicinamento all’Unione europea, mentre aumentano le distanze dalla Russia, storico alleato che controlla importanti asset del Paese (energia, trasporti, comunicazioni).

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Caucaso, le strade opposte di Armenia e Georgia: Erevan si avvicina all’Occidente, Tbilisi alla Russia (AgenziaNova 02 08 24)

La geografia del Caucaso meridionale è in piena evoluzione, anche se non in termini di contese territoriali, quanto piuttosto di sfere d’influenza. Mentre l’Armenia, storico alleato della Russia, si allontana sempre di più da Mosca e rafforza i suoi rapporti con l’Occidente, per la Georgia, in seguito all’adozione della legge “sulla trasparenza dell’influenza straniera”, si fa sempre più in salita il percorso d’integrazione euro-atlantica. Uno sviluppo, quest’ultimo, che avvicina in qualche maniera Tbilisi a Mosca, se non altro per le similitudini esistenti fra la normativa adottata nel Paese caucasico e quella “sugli agenti stranieri” in vigore da diversi anni in Russia. Il cambiamento di fronte di Armenia e Georgia nasce da un elemento comune: la delusione. Per Erevan si tratta di una delusione nei confronti del più fidato alleato nel contesto della guerra del Karabakh che, dopo il più recente conflitto durato 44 giorni del 2020, ha trovato un definitivo punto di svolta in seguito all’offensiva dell’Azerbaigian del 19 e 20 settembre del 2023: grazie a quest’operazione militare, infatti, Baku è riuscita a riconquistare i territori controllati per trent’anni dai separatisti armeni e tutto ciò senza che la missione di pace russa presente nell’area facesse nulla di concreto per impedirlo. Nel caso della Georgia, invece, si tratta di una delusione che proviene da quelli che Tbilisi considera tanti anni di promesse non mantenute dei partner occidentali – la lentezza del processo d’integrazione Ue, il voluto stallo nel processo di ingresso nella Nato – cui si è aggiunto un malcelato fastidio per la diversa reazione internazionale riscontrata al momento dell’invasione russa dell’Ucraina rispetto a quanto avvenuto durante il conflitto russo-georgiano del 2008.

L’Armenia negli ultimi mesi ha decisamente accelerato le manovre di “emancipazione” dall’influenza russa e il caso più eclatante è l’esercitazione militare Eagle Partner, svoltasi fra il 13 e il 24 luglio, organizzata con l’intento di rafforzare “l’interoperabilità tra gli Stati Uniti e l’Armenia” quando le Forze armate dei due Paesi si trovano a collaborare in “operazioni di mantenimento della pace e di stabilità”. L’esercitazione militare ha provocato una dura reazione del Cremlino, non tanto per la sua portata – vi hanno partecipato un numero relativamente esiguo di truppe statunitensi e armene – quanto piuttosto per le tempistiche e il valore simbolico di queste manovre. Parallelamente all’esercitazione, peraltro, è stato annunciato che un consigliere residente del Pentagono sarà assegnato al ministero della Difesa armeno: i doveri e le responsabilità di quest’incarico non sono stati resi pubblici ma è evidente che questa nomina indica un aumento del peso del Paese caucasico per Washington. In questo bilancino cala, invece, il peso della Russia che – dopo aver ritirato lo scorso maggio i suoi militari e le guardie di frontiera russe dal confine dell’Armenia con l’Azerbaigian – dopo 32 anni ha trasferito all’Armenia le funzioni di protezione dei confini statali al posto di blocco Zvartnots, situato nell’aeroporto di Erevan.

Gli Stati Uniti, peraltro, sono anche interessati al progetto di costruzione di una nuova centrale nucleare in Armenia. Attualmente, nel Paese caucasico è in funzione l’impianto di Metsamor: la centrale è totalmente dipendente dalla tecnologia russa ma ha un ciclo di vita di soli 12 anni. Per questo motivo Erevan vuole costruire un secondo impianto e, giusto ieri, il governo ha annunciato la costituzione di una società per azioni chiusa che si dovrà occupare di tutte le fasi di realizzazione e, successivamente, della gestione della centrale. Consapevoli della volontà armena di uscire “dall’ombrello russo”, gli Stati Uniti hanno diverse società e varie soluzioni da proporre in questo comparto, così come la Francia. Anche Parigi, peraltro, nell’ultimo anno ha rafforzato la sua storica cooperazione con l’Armenia e annunciato l’invio armamenti di vario genere a Erevan. Il 18 giugno scorso, al termine di un incontro con l’omologo Suren Papikyan a Parigi, il ministro della Difesa francese Sebastien Lecornu ha annunciato la vendita di 36 obici semoventi Caesar all’Armenia. L’annuncio una ha fatto storcere il naso non solo in Azerbaigian ma anche in Russia: la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha affermato che “Parigi sta provocando un altro ciclo di scontri armati nel Caucaso meridionale”.

La Russia ha ancora evidenti leve di influenza in Armenia: Mosca mantiene una base militare a Gyumri che ospita una brigata russa e non si può scordare che il Paese caucasico dipende economicamente dall’interscambio commerciale con la Russia e dalle forniture di gas naturale. E proprio il fattore economico è il modo con cui la Russia tiene legata a sé anche la Georgia: se è vero che i rapporti fra Mosca e Tbilisi sono complicati, non si può scordare che la maggior parte delle importazioni petrolifere del Paese caucasico giungono proprio dal vicino russo. La Georgia, inoltre, pur impegnandosi a evitare che vengano aggirate attraverso il suo territorio le sanzioni internazionali imposte alla Russia in seguito all’invasione dell’Ucraina, non ha mai adottato tali provvedimenti per evitare un disastro economico nazionale. Insomma, la Russia ha una leva “commerciale” che può utilizzare nei confronti della Georgia, così come può sfruttare la vulnerabilità derivante dall’aver de facto occupato il 20 per cento del Paese dal conflitto del 2008. Non si può negare che siano del tutto circostanziali le prove di un diretto coinvolgimento della Russia nell’adozione della “legge sulla trasparenza dell’influenza straniera”, ma è ma del tutto ragionevole supporre un’influenza russa nella velleità del governo georgiano di introdurre una normativa evidentemente invisa ai partner occidentali di Tbilisi.

La legge, rinominata spesso in patria “legge sugli agenti stranieri” o “legge russa”, limita notevolmente le attività dei media e delle organizzazioni non governative possedute da entità straniere o che ricevono finanziamenti dall’estero. Sebbene vi sia stato un cambiamento cosmetico – la decisione di modificarne il nome da “legge sugli agenti stranieri” a “Sulla trasparenza dell’influenza straniera” per evitare un diretto richiamo all’analoga normativa in vigore in Russia – il testo della normativa è identico a quello presentato all’inizio del 2023. Si tratta, quindi, letteralmente dello stesso disegno di legge che, dopo l’approvazione in prima lettura, venne ritirato a causa delle feroci proteste di piazza avvenute in particolare a Tbilisi, la capitale del Paese. In quel caso il ritiro della normativa favorì l’ottenimento dello status di Paese candidato all’adesione Ue lo scorso dicembre, mentre in questa circostanza il governo guidato da Irakli Kobakhidze ha tirato dritto, noncurante delle critiche e delle minacce dei partner occidentali, a iniziare dagli stessi Stati Uniti, fra i più fermi sostenitori di Tbilisi dal conflitto russo-georgiano del 2008. Lo scenario nel Paese caucasico, tuttavia, fra il 2023 e il 2024 è decisamente cambiato e questo perché il 26 ottobre si terranno le elezioni parlamentari.

Nonostante le proteste di piazza abbiano mostrato un Paese apertamente schierato contro la legge, soprattutto fra le fasce più giovani della popolazione, non si può non tenere conto che i sondaggi – sebbene vadano presi con le pinze – indichino un netto sostegno a favore del Sogno georgiano, il partito di governo. E non mancano, soprattutto nelle frange di cittadini più anziani, i delusi nei confronti dell’Occidente e coloro che provano disappunto per la mancanza di progressi in relazione all’adesione all’Ue e alla Nato, elementi che – secondo questi elettori – favorirebbero anche una soluzione relativa le due regioni Abkhazia e Ossezia del Sud, occupate da autorità filorusse. Il Cremlino si è schierato a favore della legge sull’influenza straniera, pur negando ogni coinvolgimento, un fatto che ha attirato l’attenzione di molti osservatori vista la tendenza di Mosca a non esporsi così apertamente sulle vicende interne di altri Paesi. Non si può non tenere conto di una teoria che circola fra alcuni analisti esperti di Caucaso e spazio post sovietico secondo cui per salvaguardare il Sogno georgiano – la cui immagine si è decisamente screditata con la legge sull’influenza straniera – in vista delle elezioni di ottobre, e quindi preservare l’influenza della Russia nel Paese caucasico, il Cremlino offrirà presto delle concessioni sul controllo dell’Abkhazia. Secondo questo suggestivo scenario, di fatto, Mosca sacrificherebbe un asset per salvarne un altro, più prezioso, ovvero la stessa Georgia. La mossa sarebbe audace e, con ogni probabilità, potrebbe provocare nuovi disordini nel Paese caucasico, ma alla Russia, notoriamente, l’audacia non è mai mancata quando si è trattato di difendere il “cortile di casa”, un territorio di cui il Caucaso, nella logica del Cremlino, fa parte a tutti gli effetti.

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Albània Caucasica: la divulgazione non deve distorcere la storia (L’Osservatore Romano 01.08.24)

Lo scorso 24 luglio è stato pubblicato su questo giornale l’articolo «Viaggio nell’antica Albania caucasica. Alle radici del cristianesimo» a firma della studiosa Rossella Fabiani. Su questo articolo, che ha suscitato diverse contestazioni, riceviamo e volentieri pubblichiamo la riflessione dell’Arcivescovo Khajag Barsamian Rappresentante della Chiesa Armena Apostolica presso la Santa Sede.

Nell’articolo Viaggio nell’antica Albania caucasica. Alle radici del Cristianesimo, l’autrice Rossella Fabiani si propone di far conoscere ai lettori le origini cristiane del Caucaso orientale e il suo patrimonio culturale, largamente ignorato in Occidente. L’entusiasmo che traspare da quelle righe, va tuttavia, sempre coniugato con il rigore dell’informazione storica. La narrazione del passato impone anzitutto la conoscenza e il rispetto delle fonti e dei metodi che il loro uso esige, altrimenti si finisce col dare una visione distorta e fuorviante della storia, contribuendo ad accrescere le incomprensioni, soprattutto laddove non si è ancora arrivati a una ricostruzione condivisa dei fatti.

Senza addentrarmi in un’analisi storica troppo dettagliata, vorrei soffermarmi solo su alcuni passaggi dell’articolo.

Sorprende, per esempio, la definizione geografica dell’antica Albània caucasica come il territorio che «si estendeva dalle montagne, a nord, al fiume Aras a sud e dal mar Caspio, a est, ai confini della Georgia (allora Iberia) a ovest». Intanto, si ignora l’esistenza dell’Armenia, uno degli antichi regni caucasici con cui, secondo tutte le fonti classiche e armene, confinava l’Albània. Dall’altro canto, l’estensione dell’Albània fino all’Aras (l’Arasse nelle fonti classiche) contrasta con la testimonianza di quelle stesse fonti. Esse parlano, piuttosto, di un’Albània estesa a nord del fiume Kura, dove si trovavano il centro politico e religioso del Paese, la Chiesa tradizionalmente ritenuta come prima Chiesa albana e dove sono state rinvenute le uniche sette iscrizioni albane a oggi note. Solo alla fine del IV secolo furono inglobate nel territorio albano originario le terre che si stendevano a meridione, fin verso il fiume Arasse.

La penetrazione del cristianesimo nel Caucaso e la relazione tra le tre Chiese nazionali — albana, armena e georgiana — formatesi in quella regione è un argomento complesso, non del tutto chiarito. Che il cristianesimo caucasico risalga al I secolo è una tradizione legittimamente acquisita e condivisa da tutte le Chiese della regione, che vedono in essa la giustificazione della propria apostolicità. Altrettanto condiviso è il riconoscimento di una seconda fase del processo di cristianizzazione, risalente al IV secolo, quando furono convertite le élite dei regni caucasici, promuovendo il cristianesimo a religione di stato. In questo contesto risulta singolare che si parli dell’importante scoperta dei palinsesti albani del Sinai, asserendo che essi confermano l’esistenza delle prime chiese dell’Albània caucasica già nel I secolo.

Lo straordinario contributo dei palinsesti alla conoscenza della storia albana e, più in generale, del Caucaso non riguarda la datazione dell’arrivo del cristianesimo in quelle terre. Invece, essi mostrano come le fonti armene, in particolare lo storico Koryun, fossero nel giusto quando parlavano dell’esistenza nel Caucaso di tre alfabeti — armeno, albano e georgiano — usati per tradurre le scritture già agli inizi del V secolo.

La convivenza tra la Chiesa armena e quella albana non fu facile, già dai primi secoli della loro esistenza. La Chiesa albana subì una forte influenza da parte di quella armena, tanto da risultarne profondamente armenizzata sin dal Medio Evo. Anche su questo aspetto i palinsesti possono gettare nuova luce. Infatti, Jost Gippert, uno degli editori di questi manoscritti, mette in evidenza la dipendenza della versione albana del Vangelo di Giovanni trasmessa in uno dei due palinsesti da quella armena. Non si può ignorare la complessità di queste relazioni, e affermare che l’“armenizzazione” della Chiesa albana risalga agli inizi del XIX secolo, citando il trattato di Turkmenchay del 1828 e l’abolizione della Chiesa d’Albania e la sua subordinazione a quella armena nel 1836, per volontà dello zar Nicola .

Se così fosse, come si spiega che la petizione indirizzata dai fedeli di quella Chiesa allo zar Pietro I il Grande nel 1724, per invocare la protezione del sovrano di fronte ai musulmani, fu redatta in armeno, e che, sempre in armeno, l’allora catolicos della Chiesa albana, Esayi Hasan-Jalaleants (1702-1728), discendente di un nobile casato a lungo alla guida del catolicosato, scrisse la sua Breve storia della terra degli albani, all’inizio della quale elencava gli storici che lo avevano preceduto, tra cui quelli «della nostra nazione armena»?

Come mai le chiese dell’Artsakh (come chiamano quelle terre gli armeni) ricordate nell’articolo, sottoposte alla giurisdizione del catolicos albano, portano solo iscrizioni armene che datano almeno dal XI – XII secolo, mentre non c’è traccia di iscrizioni albane? Infatti, il migliaio di iscrizioni studiate dall’orientalista Iosif Orbeli e appartenenti alla Chiesa albana citate nell’articolo, sono tutte in armeno e risalgono a molti secoli prima della presunta “armenizzazione” di quella Chiesa agli inizi del 1800.

Trattare questi argomenti pone una questione etica, in particolare quando la storia irrompe nel presente, e bisogna fare attenzione a non alimentare ulteriormente tensioni che hanno già causato migliaia di morti e indotto decine di migliaia di armeni a lasciare la propria terra, abitata da tempi immemorabili.

di KHAJAG BARSAMIAN

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Sulle montagne dell’Armenia per esplorare le interazioni tra geodiversità e biodiversità (Magazine.unibo 01.08.24)

Un team dell’Alma Mater ha partecipato alla missione sul vulcano Aragats – nata nell’ambito di un progetto bilaterale Italia-Armenia coordinato, per l’Italia, dal CNR – per indagare il rapporto tra le variazioni della biodiversità e quelle dell’ambiente

Alessandro Chiarucci, Martina Neri, Samadhi Cervellin, Bianca Vandelli – Università di Bologna – e Cesare Ravazzi – CNR – durante un rilevamento delle comunità vegetali di alta quota sulle pendici del Monte Aragats, a 3200 m. di altitudine


Si è conclusa la spedizione sul vulcano Aragats, nella regione di Aragatson, in Amenia, che ha coinvolto una squadra di docenti, ricercatrici e ricercatori, studentesse e studenti dell’Università di Bologna, dell’Università di Milano Bicocca, del CNR-IGAG (Istituto di Geologia Ambientale e Geoingegneria) e della National Academy of Sciences della Repubblica Armena (NAS).

La missione fa parte del progetto “Geodiversity-Biodiversity interactions in forest to steppe habitats across an ecoclimatic gradient in Armenia. A theoretical concept applied to the effects of global warming”, nato nella cornice dell’accordo bilaterale biennale tra il CNR e il Ministero dell’educazione e della scienza della Repubblica Armena (MESRA). Il progetto punta a esplorare le relazioni tra le variazioni della biodiversità e quelle dell’ambiente, con focus sul ruolo dei fattori geologici, climatici e dell’uso del suolo.

A rappresentare l’Alma Mater, un team del Dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali composto da Alessandro Chiarucci, professore di Botanica ambientale e applicata, Bianca Vandelli, titolare di una borsa di studio, e dalle studentesse Martina Neri e Samadhi Cervellin.


Un accampamento di pastori curdi sul versante orientale del Monte Aragats, a circa 2200 m. di altitudine, utilizzato per ospitare le famiglie che trascorrono il periodo estivo in alta quota con le greggi


“La missione ci ha permesso di completare una raccolta di dati ecologici e di biodiversità lungo un esteso gradiente di quota del Monte Aragats, un vulcano alto 4090 metri che costituisce la vetta più alta del Caucaso minore. Si tratta di un’area importantissima per la biodiversità, grazie alla sua posizione geografica e alla sua complessità topografica. Il progetto porterà importanti risultati in termini di ricerca di base e applicata.”, commenta il professor Chiarucci, che conclude: ”Inoltre, è stata avviata una collaborazione con l’Accademia Nazionale delle Scienze della Repubblica d’Armenia, che ci ha permesso di discutere sia di nuovi progetti di ricerca congiunta sia di possibili scambi di ricercatrici, ricercatori, studentesse e studenti.”.

La fortezza medievale di Amberd, sulle pendici meridionali del Monte Aragat,s a un’altitudine di 2300 m.

Gli studiosi hanno realizzato rilevamenti topografici, geopedologici, botanici e zoologici in 84 siti di campionamento distribuiti lungo un gradiente altitudinale di 2700 metri (tra i 1100 e 3850 metri) sul versante meridionale del vulcano. I dati raccolti permetteranno di porre le basi per un’analisi temporale degli effetti sulla biodiversità dovuti al processo di riscaldamento globale iniziato negli anni ‘80 del secolo scorso.

Durante la missione, il professor Chiarucci ha tenuto una relazione su “Le sfide della conservazione della biodiversità nell’Antropocene” presso la sede dell’Accademia Nazionale delle Scienze, nella capitale Erevan. L’evento, introdotto dal professor Ruben Harutyunyan, Segretario del Dipartimento di Scienze Naturali dell’Accademia, ha visto la partecipazione di rappresentanti delle strutture scientifiche ed educative armene, di giovani scienziate e scienziati, studentesse e studenti.

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Armenia e Turchia si incontrano sul confine (Osservatorio Balcani e Caucaso 01.08.24)

Il 30 luglio, gli inviati speciali armeni e turchi per la normalizzazione delle relazioni tra i due paesi si sono incontrati sul confine condiviso. Tuttavia, sebbene incoraggiante, il processo sembra rimanere legato alla normalizzazione delle relazioni tra Armenia e Azerbaijan

01/08/2024 – Onnik James Krikorian
Alla fine di luglio, Ruben Rubinyan e Serdar Kilic, i diplomatici armeni e turchi nominati inviati speciali per la normalizzazione delle relazioni tra i due paesi nel 2021, si sono incontrati di nuovo. Nonostante i tentativi precedenti, in particolare nel 2009, le speranze di successo si erano rafforzate dopo la guerra di 44 giorni tra Armenia e Azerbaijan nel 2020. Il confine condiviso è stato chiuso da Ankara nel 1993: non a causa del conflitto con Yerevan, ma in solidarietà con Baku dopo che le forze armene hanno preso Kelbajar, uno dei sette distretti azeri che circondano la regione separatista del Nagorno Karabakh, abitata principalmente da armeni.

Nel 2020, tuttavia, insieme ad altre regioni prese o restituite a Baku, questo non era più un problema. Nel settembre 2023, quando oltre 100.000 armeni etnici sono fuggiti in Armenia, Baku ha ripreso anche il pieno controllo del Karabakh.

Come nel 2009, tuttavia, la Turchia ha nuovamente subordinato la normalizzazione ai progressi del fragile processo di pace tra Armenia e Azerbaijan. All’ultimo incontro tra Rubinyan e Kilic, tenutosi a Vienna nel luglio 2022, le parti hanno concordato di aprire uno dei due valichi di frontiera inutilizzati per i titolari di passaporti diplomatici e per i cittadini di paesi terzi. Nonostante un investimento di 2,6 milioni di dollari per stabilire il controllo di frontiera e doganale da parte armena in uno dei due valichi di frontiera inutilizzati, non c’è stata ancora alcun passo simile da parte turca.

L’incontro al valico di Alican-Margara, circa 40 km a ovest di Yerevan e il primo sul confine, è stato comunque incoraggiante. Rubinyan e Kilic sono stati anche i primi diplomatici ad attraversare simbolicamente insieme il ponte. Tuttavia, una dichiarazione formulata in modo identico dai ministeri degli Esteri armeno e turco non ha fatto alcun riferimento ad una futura apertura parziale del confine, limitandosi a ribadire l’intenzione di “continuare il processo di normalizzazione senza precondizioni”, pur impegnandosi a valutare la possibile riapertura della ferrovia Akyaka-Akhurik più a nord.

Molti commentatori in Armenia, Azerbaijan e Turchia hanno interpretato l’annuncio come un ulteriore segnale che anche un’apertura parziale del confine, intesa a creare fiducia, non avverrà finché non si saranno verificati sufficienti progressi tra Baku e Yerevan. Sebbene ci siano stati alcuni sviluppi positivi da dicembre dell’anno scorso, quando l’Armenia ha sostenuto la candidatura dell’Azerbaijan per ospitare la Conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici di quest’anno a Baku, e anche la restituzione di quattro villaggi azeri presi all’inizio degli anni ’90, l’Azerbaijan ha da allora subordinato un trattato di pace alla rimozione da parte dell’Armenia di un controverso preambolo dalla costituzione del paese. Inoltre, il ripristino del passaggio a livello ferroviario sarebbe “in linea con gli sviluppi regionali”.

Molti hanno interpretato questo come lo sblocco del commercio regionale e dei trasporti in generale, tra cui un controverso collegamento tra Azerbaijan e Nakhchivan che passa attraverso l’Armenia, a lungo parte integrante dei precedenti tentativi di raggiungere un accordo. Sulla scia dell’invasione russa dell’Ucraina del febbraio 2022, la situazione è stata complicata da considerazioni geopolitiche, poiché la dichiarazione di cessate il fuoco che ha posto fine alla guerra del 2020 stabilisce che tale collegamento sarà supervisionato dalla guardia di frontiera del Servizio di sicurezza federale russo. Da allora, il primo ministro Nikol Pashinyan ha chiarito di essere contrario a tale sviluppo, il suo intento è infatti di cercare di spostare l’Armenia fuori dall’orbita di Mosca.

A giugno, il vice assistente segretario di Stato statunitense per gli Affari europei ed eurasiatici James O’Brien ha visitato Yerevan e ha anche sottolineato l’importanza della rotta, ma senza il coinvolgimento di Mosca e Pechino, in sostanza, creando una nuova rotta commerciale attraverso Turchia, Armenia e Azerbaijan verso l’Asia centrale aggirando Russia e Cina. Tuttavia, Ankara e Baku, a differenza di Yerevan, difficilmente soccomberanno alle pressioni occidentali per irritare la Russia. Baku ritiene inoltre che un confine aperto tra Armenia e Turchia prima di un accordo tra Armenia e Azerbaijan possa incoraggiare Yerevan a resistere.

Tuttavia, alcuni credono che un documento provvisorio tra Baku e Yerevan su questo potrebbe essere firmato, o più probabilmente avviato, alla conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici nella capitale azera nel corso di quest’anno. Il 21 luglio, il consigliere di Aliyev Hikmet Hajiyev ha annunciato che era già stato inviato un invito al ministro degli Esteri armeno, Ararat Mirzoyan, incoraggiando le speculazioni. Sebbene non ci sia ancora stata una risposta ufficiale da Yerevan, l’ufficio di Pashinyan ha detto in risposta ad una richiesta dei media che avrebbe tenuto una conferenza stampa per affrontare queste questioni al ritorno dalle vacanze in agosto.

Che cosa potrebbe essere annunciato non è chiaro, ma probabilmente influenzerà anche il passo del processo di normalizzazione tra Armenia e Turchia. Pashinyan si era già preso una pausa dalle vacanze per visitare il valico di Alican-Margara solo quattro giorni prima dell’incontro fra Rubinyan e Kilic, evidenziando l’importanza che l’Armenia attribuisce all’apertura del confine. Come al solito, tuttavia, ciò sembra ancora legato ad un accordo tra Armenia e Azerbaijan.

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Condivisione facebookCondivisione XCondivisione linkedinCondivisione whatsappStampa L’IRAN STAREBBE ARMANDO L’ARMENIA (L’Opinione delle Libertà 01.08.24)

Venezuela sale la tensione, a causa del – si spera – ultimo trucco per mantenere il potere bolivarista, perpetrato da una tirannide che pratica il male in nome del “bene del popolo”. Il Governo di Caracas ha rotto le relazioni con il Perù, colpevole di ritenere Nicolás Maduro indegno della carica di presidente, che invece spetta al suo oppositore Edmundo González, come sostengono tutte le nazioni democratiche, ma non le dittature a cominciare dal terzetto Iran-Cina-Russia.

L’Iran è molto attivo in questo periodo, non solo per il conflitto con Israele. Il Governo di Gerusalemme ha eseguito a Teheran l’omicidio mirato del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, per mezzo di un missile teleguidato. Inoltre, a Beirut, Israele ha colpito il comandante militare di Hezbollah, Fuad Shukr. Non possiamo prevedere quali saranno gli esiti del conflitto tra sciiti e Israele, che poi è un chiavistello per mettere in difficoltà l’Arabia e gli altri Stati sunniti che con Israele hanno siglato gli Accordi di Abramo (implicitamente allargati a quasi tutti gli Stati sunniti). Si segnalano, però, in alcuni movimenti tellurici interessanti, al di fuori delle aree israelo-palestinesi.

Parliamo di una notizia rimasta sottotraccia, mentre su Rainews 24 capita di sentire glorificare il nuovo presidente iraniano Masoud Pezeshkian con la definizione profetico-visionaria di “uomo moderato”. L’Iran, infatti, avrebbe segretamente inviato 500 milioni di dollari di armamenti all’Armenia, che resta un’altra area bollente del Medio Oriente. Lo ha svelato pochi giorni fa il sito di opposizione al regime degli ayatollah, Iran International. La mossa di Teheran implica l’accensione di una miccia in una polveriera come il Caucaso, dove russi e iraniani cercano di riprendere le aree di servitù demaniale che erano parte dell’Unione Sovietica. Il principale problema dell’Armenia è con l’Azerbaigian, nazione con la quale Erevan ha combattuto due guerre dopo il 1990. Nel 2020 gli azeri hanno ripreso una buona parte del loro territorio a partire dal Nagorno-Karabakh.

Il sostegno all’Armenia implica il passaggio di questa nazione nell’area di influenza iraniana? Nel Caucaso le linee di “prestigio” restano molto fluide. Per esempio, oggi la Georgia è caduta in mani russe, per mezzo del lavoro occulto di servizi segreti e della corruzione di politici e militari. Questo è avvenuto dopo due conflitti col regime di Vladimir Putin, che riconquistò manu militari il 20 per cento delle regioni dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud. Ebbene, la Georgia non era per niente felice dell’idea putiniana della Reconquista russa delle steppe a sud della Siberia e del Caucaso.

Secondo Iran International, l’Iran avrebbe fornito all’Armenia droni kamikaze Shahed 136129 e 197 – come quelli utilizzati in Ucraina – e il drone Mohajer 10, in grado di volare a 7mila metri di altezza e con un raggio di azione di 2mila chilometri. Poi ci sarebbero i sistemi di difesa antimissile come i Khordad 15 e 3, il Majid e Arman. L’Armenia ha in un primo momento “non negato” le indiscrezioni, mentre in seguito le ha definite “false e tendenziose”.

Di sicuro, il Ministero delle Finanze dell’Armenia ha riportato che, nel 2024, il budget per la Difesa è aumentato dell’81 per cento rispetto al 2020. Un dato che da solo fa capire che la striscia di costa che va dalla Turchia occidentale fino al Sinai non è la sola dove il fuoco cova sopra la cenere. Ciò non significa arrivare all’opzione di guerre globali, bensì è il riesplodere della tattica militare-politica del fochismo, applicata dal comunismo sovietico e castrista tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso. Nuovi Michail Gorbačëv e Ronald Reagan cercansi.

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