«Monsieur Aznavour», il cantautore della vita (Il Manifesto 14.12.24)

Diretto da Mehdi Idir e Grand Corps Malade, Monsieur Aznavour ripercorre la costruzione di un monumento: la storia di un uomo dalla volontà di ferro, nato Aznavourian cento anni fa. Dal ragazzino figlio di profughi armeni agli esordi nella canzone in coppia con Pierre Roche, poi l’incontro con Edith Piaf fino ai primi successi e al decollo di un’incredibile carriera musicale che lo vedrà metter in fila più di 1.300 canzoni, molte delle quali destinate alla gloria. Ne esce fuori un sorprendente omaggio a una figura unica, il cui percorso artistico ed esistenziale merita ammirazione e rispetto perché disseminato di mille difficoltà, che non gli impediscono tuttavia di realizzare i suoi sogni più folli, nonostante l’accanimento feroce dei suoi detrattori, che fin dall’inizio della sua carriera non hanno mai smesso di mettere in croce «le petit Charles», questo figlio di profughi basso e brutto, senza grazia, con la voce nasale, velata e come arrugginita.

Lui però ha capito che solo il lavoro poteva essere la chiave per arrivare laddove sognava di arrivare. Per cui non ha mai smesso di faticare: «17 ore al giorno» fino alla fine. La sua giovinezza se ne va via così in un soffio. Colui che diventerà il più internazionale dei «cantautori» francesi non ha avuto il tempo di frequentare nessuna scuola, se non quella della strada, e qualche veloce corso di teatro.

Ogni capitolo prende il nome da una canzone: quasi a dimostrare quanto la vita dell’artista (le sue lotte, i suoi amori, i suoi incontri) abbia nutrito il suo lavoro: da Les deux guitares, scritta per ricordare la sua infanzia, a La Bohème, un brano degli anni ’60 che parla invece della sua giovinezza, e così via. Ma il successo straordinario del film è dovuto soprattutto all’imponente lavoro di identificazione fisica dell’attore franco-algerino Tahar Rahim con il suo modello canoro. Una scelta apparentemente inopportuna, visto che l’interprete del Profeta di Audiard somiglia poco e niente ad Aznavour. Invece guardando il film il risultato man mano viene fuori ed è impressionante. Rahim rende la messa in scena del suo personaggio non solo credibile, ma sempre più realistica attraverso i suoi gesti, gli sguardi, le intonazioni, fino a essere perfettamente Aznavour anche quando canta. È lui infatti a interpretare tutte le canzoni del film, tranne alcuni passaggi su note talmente acute da rendere il suo timbro troppo diverso da quello del cantante armeno. Come è noto, il «botto» nella carriera del nostro chansonnier avviene quando, per uscire dal tunnel dell’anonimato decide di «ridimensionare» il suo imponente naso.

ALLO STESSO modo Tahar Rahim, aiutato da alcuni accenni di protesi, riesce a fondersi con il personaggio e a trasmettere i suoi gesti e la sua energia in particolare nelle interpretazioni di brani come Je m’voyais déjà o Comme ils disent sulla vita notturna di un travestito. Degli altri attori, da ricordare Bastien Bouillon nella parte di Roche, il pianista compositore in coppia con Charles nel periodo a cavallo tra gli anni ’40 e ’50; e soprattutto Marie-Julie Baup nel ruolo di una sontuosa Édith Piaf.
Un biopic un po’ saggio e a volte accademico nella sua struttura narrativa, ma gli va riconosciuto che si tratta di un grande film di attori. Una messa in scena che si muove tra il classico e la nouvelle vague, anche se a volte rischia movimenti di macchina ambiziosi di grande effetto. Quello che gli manca è forse un po’ di profondità, di cattiveria critica, come per esempio la tragedia e la morbosità che Olivier Dahan vedeva in La Môme, il film su Piaf. Così nonostante le canzoni e le emozioni, Monsieur Aznavour non riesce a farci arrivare il lirismo, a volte doloroso, di quel modo di fare musica tipico di Monsieur Aznavour.

L’ambasciatore De Riso lascia l’Armenia (Aise 13.12.24)

JEREVAN\ aise\ – Nelle scorse due settimane, l’ambasciatore d’Italia a Jerevan Alfonso Di Riso ha effettuato le rituali visite di commiato, in occasione della conclusione della propria missione in Armenia.
Di Riso ha avuto il piacere di incontrare: il presidente della Repubblica Vahagn Khachaturyan; il primo ministro Nikol Pashinyan; il presidente dell’Assemblea Nazionale Alen Simonyan; il vice primo ministro Mher Grigoryan; il ministro per l’Educazione, la Scienza, la Cultura e lo Sport Zhanna Andreasyan; e il vice ministro degli Affari Esteri Paruyr Hovhannisyan.
Durante i colloqui si è discusso della situazione geopolitica regionale e dello stato delle relazioni bilaterali, con particolare attenzione ai diversi settori di mutua e proficua collaborazione.
L’ambasciatore è stato inoltre ricevuto da Karekin II, catholicos di tutti gli armeni.
Le varie personalità hanno espresso il profondo riconoscimento per l’attività dell’Ambasciata d’Italia e dell’ambasciatore Di Riso, manifestando gratitudine per il personale impegno profuso nella promozione e nel rafforzamento dei rapporti tra i due Paesi, come anche dimostrato dalle reciproche visite di alto livello che hanno avuto luogo negli ultimi anni e dai numerosi progetti comuni avviati.
L’ambasciatore Di Riso, dal suo canto, ha espresso un sentito ringraziamento per la proficua collaborazione e per il clima di mutua fiducia e stima in cui ha potuto svolgere il proprio mandato. Dando voce a un pensiero condiviso anche dalle alte cariche politiche armene, l’ambasciatore Di Riso ha evidenziato che Roma e Jerevan hanno un ulteriore notevole potenziale di cooperazione e che è interesse comune metterlo il più possibile a frutto. (aise)

Dal vino al turismo gastronomico: il riscatto dell’Armenia (Repubblica 13.12.24)

I voli diretti tra Milano e Yerevan partono e tornano sempre pieni: ci sono i russi che passano dalla capitale armena per entrare in Europa ma soprattutto ci sono i turisti, attratti dalle tante sfaccettature di questo piccolo paese del Caucaso. Piccolo solo geograficamente, perché l’Armenia ha segnato la storia mondiale fin dall’antichità: prima nazione ad adottare il cristianesimo come religione di stato (nel 301 d.C.), qui si trova la cantina vinicola più antica del mondo (6mila anni) e la scarpa di pelle più antica, una destra numero 37 creata circa 5.500 anni fa. E se i suoi monasteri, molti dei quali patrimonio Unesco, rappresentano da sempre un richiamo per i viaggiatori, oggi si sceglie l’Armenia anche per i suoi paesaggi naturali, per i suoi ottimi vini e per la ricca cucina.

Turismo in crescita

Non è un caso che Lonely Planet l’abbia inserita nel Best in Travel 2025, la raccolta di previsioni degli esperti su dove viaggiare il prossimo anno. Merito dei paesaggi, della vibrante cultura e della possibilità di fare esperienze destinate a rimanere nella memoria. E, ovviamente, anche della facilità di accesso: dall’Italia la separano quattro ore di volo e i collegamenti aerei sono aumentati rispetto all’anno scorso. La prima è stata Wizz Air, che nel 2023 ha aperto la tratta Venezia Yerevan, seguita quest’anno da voli diretti anche da Milano Malpensa e da Roma Fiumicino. A questi si è aggiunto anche il collegamento diretto di FlyOne da Malpensa alla capitale armena.

 

Di pari passo, aumenta il numero di visitatori: nei primi otto mesi dell’anno, dall’Italia sono arrivati 12.350 turisti (il 2023 si è chiuso con oltre 14.200). Si registra una crescita costante dal 2019, eccettuati ovviamente i due anni di lockdown, un trend che mette la Penisola tra i mercati target dal punto di vista turistico.

Oltre le rotte di massa

“Essere riconosciuti da Lonely Planet come una delle mete imperdibili per il 2025 – sottolinea Susanna Hakobyan, direttore ad interim del Tourism Committee dell’Armenia – mette in luce il fascino unico, la storia e l’ospitalità che rendono l’Armenia speciale”. L’obiettivo, ora, è far scoprire tutte le sfaccettature del paese, che oltre agli antichi monasteri includono molto altro. Non a caso, lo slogan scelto dall’ente del turismo è The Hidden Track: “Non vediamo l’ora di accogliere visitatori da tutto il mondo per esplorare percorsi meno noti”.

 

Terra ricca di storia, antica e recente, l’Armenia è una destinazione culturale da scoprire tutto l’anno e dove l’ospitalità è un valore ancora molto sentito. Si parte dalla capitale Yerevan, che nei piani di Aleksandr Tamanian, l’architetto che nel 1924 fece il primo piano regolatore della capitale, doveva essere una città giardino. Oggi qui risiedono un milione di armeni (sono 2,7 milioni in totale) e il centro storico garantisce ristoranti, locali, il monumentale Cascade, l’iconico complesso di scale e fontane simbolo della città con le tre statue di Botero e le altre opere d’arte regalate alla città dal collezionista Gerard Cafesjian, naturalizzato americano ma di origine armena. E poi l’imperdibile Museo di storia dell’Armenia in piazza della Repubblica, fondato nel 1919 per custodire reperti preziosi per l’umanità: dalla scarpa più antica del mondo alla scrittura cuneiforme, fino alla rappresentazione del sistema solare creata oltre mille anni prima della nascita di Cristo. A 20 km da Yerevan si trova la cattedrale Etchmiadzin, patrimonio Unesco: costruita nel 301 d.C., è la sede della Chiesa apostolica armena ed è stata riaperta al pubblico lo scorso settembre dopo anni di lavori di ristrutturazione.

L’identità armena

Fa parte dell’offerta della capitale anche la fabbrica di brandy Ararat, fondata nel 1887 e il cui simbolo richiama quella che a tutti gli effetti è considerata la montagna sacra degli armeni. L’Ararat, dove secondo il racconto biblico si fermò l’arca di Noè, oggi è in territorio turco ma domina l’Armenia e fa parte della sua identità storica e culturale: un’immagine potente che unisce anche gli armeni della diaspora, sette milioni di persone (tra cui i genitori di Charles Aznavour, molto legato alla madre patria tanto da finanziare gli aiuti dopo il terremoto che colpì l’Armenia nel 1988) scappate dopo il genocidio perpetrato tra il 1915 e il 1916, che causò la morte di un milione e mezzo di armeni. La storia, le immagini e i numeri sono visibili nel museo costruito accanto al memoriale del genocidio armeno, a Yerevan.

 

 

Ararat e vigneti
Ararat e vigneti 

 

 

La cima innevata dell’Ararat domina il monastero Khor Virap, dove si può visitare la grotta nella quale san Gregorio l’illuminatore fu tenuto prigioniero per 13 anni da re Tiridate III, che poi si convertì adottando, nel 301, il cristianesimo come religione di stato. È un luogo di grande impatto scenografico, con la montagna sacra da un lato e i vigneti dall’altro.

L’antica tradizione del vino

La tradizione vinicola in Armenia è molto antica: del resto, lo racconta anche la Bibbia che fu Noè a piantare la vite da cui ricavare il vino. E infatti nella grotta Areni-1, nella regione di Vayots Dzor, è stata ritrovata una cantina di oltre 6mila anni fa, a testimonianza di quanto il vino rappresenti una parte fondamentale della cultura armena. E piace sempre di più: dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, che aveva privilegiato la produzione di brandy a discapito di quella del vino, l’Armenia ha investito per ripristinare la viticoltura e i vitigni autoctoni, tra cui l’Areni a bacca rossa e il Voskahat, a bacca bianca. Oggi si contano 150 cantine (erano 25 nel 2019) tra piccoli imprenditori e grandi realtà, impegnate a sviluppare l’enoturismo con musei, degustazioni ed esperienze tra i vigneti. Un esempio è la cantina Momik Wines ad Areni, a conduzione familiare: produce 4mila bottiglie all’anno e si trova sulla wine route Vayots Dzor Areni. “Arrivano molti turisti, soprattutto dall’Italia – racconta Nver Ghazaryan, proprietario insieme alla moglie Narine – oltre a pranzare con vista sul vigneto, possono fare una degustazione dei nostri vini durante la quale spieghiamo il terreno, la qualità delle uve. L’anno prossimo apriremo tre cottage con le camere per ospitare i turisti”.

 

Diversi sono i numeri di Armenia Wines, cantina che ogni anno produce 40 milioni di bottiglie vino, il 60% delle quali è destinato all’export in Russia, Cina, Stati Uniti e Polonia. L’azienda, che ha anche una produzione annua di 35 milioni di bottiglie di brandy, offre ai turisti visite guidate nello stabilimento, un ristorante aperto a pranzo e cena con specialità tipiche locali e un museo dedicato alla storia del vino armeno, visitato da 12mila persone all’anno.

 

 

Monastero di Noravank
Monastero di Noravank 

 

Viaggio enogastronomico

Non solo buon vino: si viene in Armenia anche per fare turismo enogastronomico perché la cucina tipica è di qualità e usa ingredienti e preparazioni che si ritrovano anche in quella greca, turca e iraniana. Dal pane lavash, patrimonio immateriale Unesco che viene cotto nel tradizionale forno interrato, alle pregiate trote del lago Sevan, luogo di villeggiatura estivo con i suoi monasteri di epoca medievale. Proprio sulle sponde del Sevan c’è un ristorante particolare, considerato uno degli esempi più belli di architettura sovietica: di proprietà statale, è accanto a quella che un tempo era la Casa degli scrittori, voluta dal regime sovietico per ospitare gli artisti.

 

Un pasto armeno si apre sempre con un varietà di insalate e verdure: pomodori, cetrioli, melanzane, il matsum, ovvero lo yogurt, formaggi. E poi piatti a base di riso come il gaphama, una zucca intera cotta al forno e ripiena di riso, uvetta, frutta secca e cannella, carne alla griglia o in umido, e i dolci, tra cui il gata, la torta tipica.

Sedersi a una tavola armena, magari dopo una giornata passata a esplorare il tempio di Garni, unico esempio di architettura greco-romana in Armenia affacciato sulla gola del fiume Garni, il monastero di Geghard, patrimonio Unesco, o quello di Noravank, in mezzo alle pareti di roccia rossa che lo circondano, è la degna conclusione di un viaggio destinato a rimanere a lungo nella memoria.

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Lutto nel mondo della filosofia, scompare Siobhan Nash-Marshall, ha esplorato le origini dei genocidi (Il Messaggero 13.12.24)

E’ scomparsa nella sua casa di New York Siobhan Nash-Marshall, intellettuale, docente di filosofia teoretica al Manhattanville College di New York, autrice di importanti lavori sul genocidio armeno al punto da essere definita la nuova Hanna Harendt per le ricerche filosofiche sulle radici genocidarie. Era malata da tempo e la sua morte ha avuto una grande eco in tutto il mondo, soprattutto all’interno delle comunità armene sparse nel mondo. Poliglotta, parlava diverse lingue, tra cui l’italiano imparato all’Università di Padova e alla Cattolica di Milano,  recentemente aveva partecipato ad una cerimonia alla Camera dei Deputati per il conferimento di un premio alla scrittrice Antonia Arslan, autrice della Masseria delle Allodole, il fortunato romanzo che racconta le origini della sua famiglia scampata ai massacri sotto l’allora impero ottomano e pubblicato vent’anni fa. Il lavoro più importante firmato dalla professoressa Nash Marshall è un un volume intitolato “The Sins of the Fathers. Turkish Denialism and the Armenian Genocide” il primo di una trilogia dedicata al cosiddetto “Tradimento della Filosofia” che poi ha portato agli orrori di tutto il Novecento, compresa la Shoah.

E lo spiegava così: «L’Illuminismo cartesiano significa dividere il mondo della ragione da quello materiale, il mondo dell’esperienza da quello del pensiero. Penso dunque sono. L’approccio di Cartesio però è devastante, congiunto successivamente all’Illuminismo e alla Rivoluzione francese. In pratica quando la filosofia cessa di essere amore della sapienza ma progetto demiurgico per cambiare il mondo. Fichte, Herder, Bentham, Hegel, Marx: il pensiero dell’Ottocento – ad eccezione di Antonio Rosmini – ha come scopo precipuo quello di rendere perfetto il mondo. Il genocidio, allora, è giustificato, terribilmente, da una specifica visione del mondo». Tra tutti i genocidi, soprattutto tra quello armeno e quello ebraico, esiste un legame filosofico. E lo stesso Hitler, secondo Nash Marshall, prese a modello l’efficienza turca nel gestire il genocidio armeno, replicando il ‘metodo’ con gli ebrei. In una recente intervista questo intreccio veniva spiegato così: «La politica antiarmena, in Germania, cominciò nel tardo Ottocento, quando una massiccia pubblicistica mostrava l’armeno come ‘l’ebreo d’Oriente’, come ‘il virus’. La Germania aveva mire espansionistiche verso l’Impero Ottomano e interesse nel dileggiare gli armeni. Quanto a Hitler, certo, vide nel genocidio armeno una possibilità realizzata. Se i Turchi ce l’avevano fatta, anche Hitler, allora, avrebbe potuto compiere gli stessi orrori senza particolari pericoli. Le analogie sono agghiaccianti: anche nel nazismo, ad esempio, ha un peso il ‘motivo biologico’ già cavalcato dai Giovani Turchi, in era di darwinismo rampante. I turchi, bravi figliocci del materialismo tedesco e francese, misuravano i crani per dimostrare che erano loro i veri autoctoni di Turchia». Per uscire da questa spirale che Nash Marshall chiamava “il tradimento della filosofia”, occorrerebbe «recuperare la concretezza filosofica, altrimenti – come è già drammaticamente accaduto – ci troveremo a decidere che cosa è umano e cosa non lo è, indipendentemente dalla realtà dei fatti».

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La nostra amica Siobhan ha attraversato l’ultimo confine (Tempi 13.12.24)

Siria, Marco Travaglio. Una Storia assai Probabile di Padelle e Braci. A Vantaggio di Chi? (Stilum Curiae

Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae offriamo alla vostra attenzione questo commento sulle vicende siriane di Marco Travaglio, pubblicato da Infosannio, che ringraziamo per la cortesia. In Siria intanto si  scatenano le vendette – senza processo – contro gli alawiti, la setta islamica a cui appartengono gi Assad, ed è stata bruciata la tomba dell’ex presidente Hafez El Assad. Un panorama rassicurante…buona lettura e diffusione.

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La padella e la brace
(di Marco Travaglio
“L’idea di avere in Siria un nuovo Califfato jihadista al posto della tirannide degli Assad riempie di entusiasmo gli scemi di guerra atlantoidi. Rimbambiden, Macron, Ursula, Metsola, Kallas e Zelensky esultano per la fine della dittatura senz’accorgersi che ne è già iniziata un’altra, che ci odia più della precedente. Repubblica e Stampa squadernano l’album fotografico del capo dei cosiddetti “ribelli” al Jolani, segnalandone la poetica somiglianza con Fidel Castro. Ma sul web c’è chi giura che il simpatico seguace di al Zarqawi e al Baghdadi, grande fan dei massacri delle Torri Gemelle e del 7 Ottobre, ricercato dagli Usa con taglia di 10 milioni come uno dei terroristi più pericolosi del mondo, ricordi anche Borat (al netto del costumino con sospensorio e bretelle), Che Guevara, Gesù e forse – parlando con pardòn – Draghi. Il Foglio tripudia per le “due vittorie dell’Occidente dietro la caduta di Assad” (non una: due).
Sambuca Molinari gongola per “il successo della Turchia di Erdogan”, l’autocrate e macellaio di curdi che, essendo iscritto al club Nato, sfugge alla spiacevole distinzione “aggressore/aggredito”. Infatti anche la pulizia etnica di 120 mila armeni in Nagorno Karabakh a opera dei suoi complici azeri è stata, per Sambuca, un “successo”.
Pensare che, siccome Assad era (anche) amico di Putin e dell’Iran, la sua caduta sia una benedizione, è roba da menti malate che scambiano la geopolitica per un derby di calcio. I mujaheddin erano belli e buoni quando combattevano (con le nostre armi) gli invasori russi, poi divennero “talebani” brutti e cattivi quando (sempre con le nostre armi) combattevano gli invasori Nato.
Saddam era un caro amico quando combatteva (con le nostre armi, anche chimiche) gli ayatollah, poi divenne un puzzone quando, finite le nostre armi chimiche, inventammo che le avesse ancora per poterlo invadere ed esportare la democrazia in Iraq mettendo gli sciiti al posto dei sunniti.
Solo che questi crearono il Califfato dell’Isis e ci toccò combatterli con l’aiuto di russi, iraniani e siriani, un po’ meno cattivi di prima, e col sacrificio dei curdi, poi mollati nelle grinfie di Erdogan.
Intanto Obama e altri geni spasimavano per le Primavere Arabe, che però vinsero le elezioni in Egitto: allora le schiacciammo con il golpe di Al Sisi. Per non parlare della Libia dopo Gheddafi. Ora che si insediano a Damasco i reduci Isis&al Qaeda, con una decina di bande di tagliagole pronte a scannarsi per il potere, i soliti gonzi parlano di “Siria liberata”, “primavera siriana”, “jihadisti moderati” e “pragmatici”.
Si illudono che, se uno è cattivo, il suo nemico sia buono. E che, se uno perde, l’altro vinca.
Prima o poi capiranno che, nel nuovo caos mondiale, sono tutti cattivi e perdiamo tutti.
Marco Travaglio

Scoperta in Armenia una delle più antiche chiese cristiane al mondo (Scienzenotizie 12.12.24)

Un edificio dalla forma ottagonale che riscrive la storia dell’Armenia. Si tratta di una chiesa cristiana, la cui scoperta è stata di recente annunciata, e che si ritiene essere una delle più antiche del Paese. Del resto il Paese sarebbe stato il primo stato cristiano al mondo dopo la conversione al cristianesimo del re Tiridate III. Nella zona non era comune avere edifici con questa forma ma lo era nelle chiese di tutto il mondo, poiché il numero 8 aveva un significato simbolico nel contesto biblico.

La struttura è stata individuata nell’antica città di Artaxata e risalirebbe alla metà del IV secolo d.C. Pertanto si tratta della chiesa più antica del Paese documentata archeologicamente e fornisce ulteriori prove del cristianesimo primitivo in Armenia, come dichiarato da Achim Lichtenberger, professore presso l’Università di Münster, in una nota.

“Finora le chiese ottagonali erano sconosciute qui”, ha dichiarato Mkrtich Zardaryan dell’Accademia nazionale delle scienze in Armenia in una dichiarazione, “ma le conosciamo molto bene dalla regione del Mediterraneo orientale, dove sono apparse per la prima volta nel IV secolo d.C.” Le prime chiese cristiane, ricordano gli esperti, avevano spesso la forma di un ottagono, che era un simbolo della resurrezione di Gesù e, più in generale, della rinascita della vita.

Il ritrovamento, datato al radiocarbonio alla metà del IV secolo d.C., presenta una struttura ottagonale di circa 100 piedi di diametro con un semplice pavimento in malta e piastrelle in terracotta. I ricercatori hanno notato che le estensioni a forma di croce mostravano resti di piattaforme di legno. Gli archeologi hanno anche trovato resti di marmo che suggeriscono che la chiesa fosse riccamente decorata con materiali importati dal Mediterraneo.

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Al via in Armenia Forum Globale contro il crimine di genocidio (Ansa 12.12.24)

YEREVAN – “Il rischio di genocidi al mondo è sempre più presente, ed è urgente trovare modi più rapidi di intervenire per prevenirli, e l’unica vera garanzia in questo riguardo è il rispetto del diritto internazionale.

Ma è altresì chiaro che per rendere questa garanzia effettiva serve cooperazione internazionale sul piano politico”.

Lo ha detto il ministro degli esteri armeno, Ararat Mirzoyan, durante il suo discorso introduttivo al quinto Forum Globale contro il crimine di genocidio, in corso a Yerevan, in Armenia. L’Armenia è promotore del Forum Globale contro il crimine di genocidio dal 2015 e ha organizzato in passato 4 edizioni nel 2015, 2016, 2018 e 2022. Presenti a Yerevan diverse personalità di spicco tra cui l’ex presidente lettone Egils Levits, l’inviata speciale Onu Francesca Albanese, il presidente della repubblica d’Armenia Vahagn Khachaturyan, il direttore del Istituto Wiesenthal di Vienna per gli studi sull’Olocausto Jochen Böhler, ed il primo procuratore capo della Corte penale internazionale Luis Moreno Ocampo. “La corte penale internazionale e i tribunali speciali hanno un ruolo chiave nella prevenzione e nella persecuzione dei genocidi”, ha spiegato Levits. “L’invasione russa in Ucraina, ad esempio, porta segni di volontà di genocidio, come le uccisioni, i trasferimenti forzati di bambini, e la volontà di cancellare fisicamente un identità. Ci sono tutte le indicazioni della necessità di un tribunale speciale a riguardo. Preoccupazioni simili desta il comportamento delle truppe israeliane a Gaza”, ha aggiunto l’ex presidente lettone. “L’importanza di riconoscere un genocidio è legata alla possibilità di poter curare le ferite lasciate, un genocidio non riconosciuto è un ferita aperta che viene passata alle future generazioni”, ha concluso Levits nel suo discorso di apertura.

“Il diritto umanitario internazionale è stato massacrato e distrutto a Gaza ed è una delle prime vittime di questo massacro. Israele ha trasformato Gaza in uno spazio senza civili in cui tutti si ha licenza di uccidere chiunque, e ora vediamo questo sistema riprodursi anche in altre parti della regione. Questo oltre ad essere un crisi umanitaria è una crisi del diritto internazionale”. Lo ha affermato Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu sui diritti umani nei territori palestinesi occupati, parlando al Forum Globale contro il crimine di genocidio in corso a Yerevan, in Armenia. “Gaza oggi con oltre 40.000 persone uccise e 17.000 mila bambini uccisi è distrutta ed eliminata dalla storia, Gaza non esiste più come la conoscevamo”, ha concluso Albanese.

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Baku, ‘missione Ue in Armenia allarmante, termini al più presto’ (Ansa 12.12.24)

“Lo spiegamento di forze di qualsiasi paese terzo, inclusa la missione dell’Ue sul territorio dell’Armenia, è un fattore preoccupante che dovrebbe terminare al più presto”.

Lo ha detto parlando alla stampa nazionale Hikmat Hajiyev, consigliere del presidente dell’Azerbaijan e capo del dipartimento degli Affari Esteri.

Lo riporta l’agenzia di stampa azera Apa.
“Baku non vede alcuna necessità per la partecipazione di una terza parte al processo di delimitazione che viene svolto in condizioni pacifiche e reciprocamente concordate e quindi non vediamo la necessità dello spiegamento di alcuna missione dell’Unione Europea al confine tra Armenia e Azerbaigian”. “Tale missione – ha concluso Hajiyev – avrebbe dovuto essere a breve termine ma come abbiamo visto sta diventando una missione permanente e la sua composizione e l’area del mandato geografico si stanno espandendo: non consideriamo la missione dell’Ue un fattore che contribuisce al consolidamento della pace nella regione, anzi è per noi un fattore preoccupante”.

Caucaso del Sud, un anno difficile (Osservatorio Balcani e Caucaso 12.12.24)

L’anno che sta per finire ha visto il Caucaso meridionale affrontare numerose crisi e sfide elettorali e politiche: una situazione turbolenta in cui si intrecciano le azioni di poteri ufficiali e non riconosciuti. Una rassegna

12/12/2024 –  Marilisa Lorusso

Nulla di nuovo in Azerbaijan, con un sistema politico che non conosce l’alternanza. Le elezioni del 2024 hanno lasciato il quadro com’era. Molto più travagliatala situazione della Georgia.

A Tbilisi c’è un governo uscito dalle controverse elezioni di fine ottobre, mentre la presidenza della Repubblica è in scadenza e le nuove, sperimentali, elezioni prendono forma nel peggior quadro politico possibile. Per la prima volta infatti il capo dello stato non sarà più eletto direttamente dal popolo ma mediante un collegio di 300 membri.

Nei territori georgiani controllati dalla Russia, è in pieno tumulto l’Abkhazia in cui una rivolta di piazza ha costretto le dimissioni il presidente de facto Aslan Bzhania. La presidenza è stata assunta ad interim, fino alle elezioni di febbraio, da Badra Gunba.

Le guerre secessioniste e gli sfollamenti che le hanno accompagnate hanno infatti generato un proliferare di amministrazioni de facto e de jure. Oltre ai governi secessionisti, il governo di Tbilisi mantiene vive le sue amministrazioni de jure dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud.

A settembre il Presidente del governo della Regione Autonoma dell’Abkhazia, Ruslan Abashidze, in carica dal 2019, ha rassegnato le dimissioni.

Il suo messaggio  di dimissioni riassume il senso del suo ruolo e mandato: “Vorrei esprimere un ringraziamento speciale alla società abkhaza. È stato un grande onore e, allo stesso tempo, una grande responsabilità per me servire loro e lavorare insieme per avvicinarci ancora di più all’obiettivo di unire le società divise e ripristinare l’integrità territoriale del Paese.”

Il nuovo Presidente del governo abkhazo è Levan Mgaloblishvili, originario di Sukhumi, e insieme a Tamaz Bestaev, Capo dell’unità amministrativo-territoriale provvisoria dell’ex distretto autonomo dell’Ossezia meridionale (unità amministrativa abolita da Tbilisi nei primi tumultuosi anni di indipendenza), oltre a coordinare le suddette attività per la popolazione sfollata, partecipa alle Discussioni internazionali di Ginevra, ovviamente come membro della delegazione georgiana.

Il fu Nagorno Karabakh

Il territorio della fu repubblica de facto del Nagorno Karabakh continua il suo percorso, sotto la sovranità azera, mentre la popolazione che vi risiedeva è per lo più fuggita in Armenia. Come entità politica amministrativa la Regione Autonoma del Nagorno Karabakh, così denominata in periodo sovietico, e poi diventata la Repubblica dell’Artsakh durante il periodo secessionista, non esiste più.

Dal luglio 2021 è una delle 14 regioni economiche in cui è suddiviso l’Azerbaijan. Il Presidente azero Ilham Aliyev ha istituito la carica di Rappresentante speciale presidenziale per questa regione economica e incaricato nel 2021 Emir Huseynov.

Nel frattempo continuano i rientri, e il dicembre del 2024 ha portato la popolazione degli ex sfollati di guerra azeri trasferiti in Karabakh nella ex cintura di sicurezza a circa 30mila persone. Insieme ai rientri continuano anche i massicci interventi urbanistici e infrastrutturali, che sono monitorati a distanza dagli ex residenti armeni e dalle loro istituzioni.

Sì, perché il Karabakh armeno nella sua realtà istituzionale esiste ancora. Gli organi di governo, che avrebbero dovuto sciogliersi non si sono infatti sciolti.

Questa nuova popolazione di sfollati del Karabakh e i loro rappresentanti osservano da lontano l’evolversi del territorio dove sono rimasti i loro beni immobili e il patrimonio culturale materiale.

A ottobre l’ex ministro della Cultura, della Gioventù e del Turismo del Nagorno Karabakh (2017-2018), Capo del Consiglio pubblico dell’Artsakh per la protezione del patrimonio culturale (dal 2021) Sergey Shahverdyan ha pubblicato un post su Facebook  con una foto che mostra la demolizione da parte dell’amministrazione azera di edifici residenziali di Stepanakert / Khankendi aggiungendo che nei giorni precedenti i quartieri storici della capitale lungo Tumanyan Street sono stati rasi al suolo, violando così i diritti di proprietà di migliaia di proprietari di edifici privati ​​del XIX e dell’inizio del XX secolo.

Il mese seguente il difensore civico de facto Gegham Stepanyan ha pubblicato un post  denunciando che il piccolo centro di Stepanakert, noto come ‘Koltsevaya’, è stato distrutto. Stepanyanha rilevato anche che decine di edifici pubblici e privati ​​sono stati rasi al suolo.

Continua la propria attività il Comitato per la difesa dei diritti fondamentali del popolo dell’Artsakh. Secondo un comunicato stampa  di ottobre, i suoi membri hanno avuto incontri con il Presidente della Repubblica dell’Artsakh Samvel Shahramanyan, i membri dell’ex parlamento, l’Assemblea nazionale, il capo della diocesi e Sua Santità Karekin II, Catholicos di tutti gli Armeni, durante il quale sono stati condivisi aggiornamenti.

Il Comitato si ripropone fra le attività svolte di compiere sforzi verso la definizione di un formato negoziale internazionale per affrontare il diritto al ritorno, la tutela del patrimonio culturale dell’Artsakh, della proprietà pubblica e privata, il ritorno dei prigionieri di guerra armeni e degli ostaggi trattenuti a Baku e altre questioni critiche legate alla difesa dei diritti del popolo dell’Artsakh.

Né il Comitato, né gli organi governativi e istituzionali de facto hanno più alcun contatto con Baku, e sono ridotti al minimo o meno del minimo quelli con Yerevan, dove pure i vari esponenti in esilio risiedono.

Cercano invece contatti all’estero, e questo mese l’Assemblea nazionale ha chiesto che le Nazioni Unite riconoscano l’Artsakh, anche ora che la sua popolazione è in esilio, ricordando che nel luglio del 2023 la stessa si era rivolta all’ONU per il riconoscimento, rammaricandosi che i rischi che erano stati segnalati fossero stati ignorati.

Il settembre seguente il conflitto di un giorno ha decretato lo sfollamento completo dei secessionisti armeni. Secondo i rappresentati de facto  ora “Il riconoscimento dell’indipendenza della Repubblica dell’Artsakh da parte degli Stati membri dell’ONU è l’unico modo per ripristinare la giustizia storica, diventerà una garanzia affidabile della protezione del nostro popolo, contribuirà al ritorno dignitoso e sicuro di 150mila armeni alla propria patria storica, entro i confini internazionali già riconosciuti, alla propria dimora storica.”

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Azerbaijan, non sorprende il silenzio su Gaza (Osservatorio Balcani e Caucaso 12.11.24)

l presidente azero Ilham Aliyev ha chiesto pubblicamente la fine della “tragedia di Gaza”. Nonostante le proteste che arrivano da più parti, però, l’Azerbaijan resta il principale fornitore di petrolio ad Israele, che a sua volta ha fornito un aiuto chiave a Baku per modernizzare l’esercito

12/12/2024 –  Arzu Geybullayeva

Lo scorso giugno, dopo un incontro con l’omologo egiziano Abdel al-Sisi, il presidente azero Ilham Aliyev ha chiesto  di porre fine alla “tragedia di Gaza”. Eppure, l’Azerbaijan è tra i paesi che forniscono petrolio a Israele, alimentando così la guerra.

L’Azerbaijan fornisce a Israele circa il 40% del suo fabbisogno di petrolio. Lo scorso novembre, durante la conferenza internazionale sul clima a Baku, i gruppi di pressione hanno colto l’occasione per chiedere al governo dell’Azerbaijan di interrompere la fornitura.

Contemporaneamente, si sono svolte proteste fuori dalle ambasciate azere in varie capitali. L’attivista per il clima Greta Thunberg, che si trovava in Georgia e non è riuscita a raggiungere Baku a causa della chiusura ai passeggeri di tutti i confini di terra dall’inizio della pandemia, ha definito  l’Azerbaijan complice della guerra contro Gaza a causa del costante flusso di combustibili fossili verso Israele.

A ottobre Progressive International  , una piattaforma che riunisce oltre cento organizzazioni con la missione di “unire, organizzare e mobilitare”, ha pubblicato un appello  “ad agire e fare pressione sugli attori complici nell’alimentare il genocidio israeliano tramite l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan”.

L’oleodotto in questione (BTC) trasporta il petrolio azero attraverso la Georgia fino ai porti del Mediterraneo in Turchia, da dove viene spedito in tutto il mondo, compreso Israele. L’appello chiede “un embargo energetico su Israele con un focus sull’oleodotto BTC e sui suoi due principali attori aziendali: British Petroleum (BP) e Azerbaijan State Oil Company (SOCAR)”.

Questi appelli non sono nuovi. Durante l’estate, un gruppo pro-Palestina denominato “The Thousand Youths for Palestine” ha organizzato proteste fuori dagli uffici SOCAR a Istanbul. La Turchia ha proseguito con il commercio e le spedizioni a Israele fino a maggio 2024, quando ha annunciato restrizioni su tutti gli scambi commerciali fino alla fine della guerra a Gaza.

Tuttavia, non tutti credono che sia così. Il giornalista Metin Cihan, ora in esilio, è stato tra i primi a sottolineare come il paese continuasse a commerciare con Israele nonostante la decisione di bloccare tutte le relazioni commerciali. Il 29 novembre, mentre il presidente Recep Tayyip Erdoğan si rivolgeva al TRT World Forum, gli attivisti che chiedevano perché il petrolio azero venisse ancora spedito in Israele sono stati rapidamente allontanati dalla sala.

Queste domande, tuttavia, erano corrette, poiché un recente report  di Progressive International e della campagna Stop Fuelling Genocide ha rivelato che una petroliera partita dal terminal Heydar Aliyev a Ceyhan il 30 ottobre ha attraccato in Israele il 5 novembre, per poi partire per la Sicilia.

La petroliera avrebbe spento il segnale di tracciamento dopo aver raggiunto il Mar Mediterraneo orientale e lo avrebbe riacceso dopo aver raggiunto la Sicilia, pertanto la sua tappa in Israele è stata rilevata solo grazie alle immagini satellitari.

Durante le proteste di fronte all’ufficio SOCAR di Istanbul durante l’estate, la società ha negato la vendita diretta di petrolio a Israele, affermando che la vendita avviene tramite società commerciali. La società ha quindi insistito sul fatto che queste società commerciali non sono monitorate o controllate da società fornitrici come SOCAR.

I funzionari in Turchia concordano. Rivolgendosi  al parlamento il 12 novembre, il vicepresidente del gruppo AKP Özlem Zengin ha affermato: “Attualmente 700.000 barili di petrolio scorrono quotidianamente dall’oleodotto Baku-Ceyhan. Questo petrolio appartiene a diverse società. La Turchia non gestisce il petrolio trasportato, ma solo l’oleodotto”.

Zenging ha anche aggiunto che il ministro del Commercio turco Ömer Bolat ha incontrato tutte le aziende che utilizzano l’oleodotto, le quali hanno tutte confermato che non è stato spedito petrolio direttamente in Israele attraverso questo canale.

Dal punto di vista tecnico, la Turchia non può fermare le spedizioni e bloccare il flusso. L’accordo firmato tra la compagnia petrolifera statale turca TPAO e BP, il più grande partner dell’oleodotto BTC, proibisce di ritardare o ostacolare il transito del petrolio. In caso contrario, la Turchia potrebbe finire in una corte internazionale di arbitrato.

Legami tra Israele e Azerbaijan

I legami dell’Azerbaijan con Israele si basano da tempo sul commercio di equipaggiamento militare e di sorveglianza, sulla fornitura di petrolio e, più di recente, sulla tecnologia aerospaziale. Israele ha istituito la sua ambasciata nella capitale Baku nel 1993. L’Azerbaijan ha iniziato a fornire petrolio a Israele nel 1999. La svolta nelle relazioni, tuttavia, è avvenuta nel 2010.

L’analista azero Zaur Shiriyev ha dichiarato  a Global Voices che la necessità di Baku di modernizzare il proprio esercito e la ricerca di nuovi partner da parte di Israele, in un contesto di deterioramento dei legami con la Turchia, hanno avvicinato i due paesi.

Nel 2011 l’Azerbaijan era diventato il principale partner commerciale di Israele ed esportava circa 2,5 milioni di tonnellate di petrolio all’anno, secondo i dati disponibili in quel periodo. La sussidiaria della SOCAR, la Caspian Drilling Company, ha firmato un accordo con il giacimento petrolifero israeliano Med Ashdod, ottenendo una quota del 5% e i diritti per le trivellazioni offshore nella zona.

Con il prosperare delle relazioni, l’Azerbaijan ha aumentato la spesa sull’equipaggiamento militare israeliano. Nel 2015-2019, secondo i dati dello Stockholm International Peace Research Institute, Israele ha fornito il 60% delle importazioni di armi all’Azerbaijan. Questa attrezzatura, così come l’acquisto di droni israeliani, ha aiutato l’Azerbaijan a vincere la guerra di 44 giorni con l’Armenia nel 2020.

L’Azerbaijan ha continuato a mantenere un delicato equilibrio sulla scia dell’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre e della successiva guerra a Gaza. Ufficialmente, il paese non ha condannato Israele, limitandosi a votare “a favore della risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni unite che chiedeva una tregua umanitaria immediata che portasse alla cessazione delle ostilità tra Israele e Hamas”. Questo, scriveva l’esperto di politica estera Eldar Mamedov nel suo articolo  per Eurasianet nel novembre 2023, “è più o meno il massimo che [l’Azerbaijan] è disposto a fare”.

Nell’ottobre 2023, SOCAR è stata tra le sei aziende a cui è stata assegnata una licenza per esplorare e sviluppare nuove riserve di gas naturale nel Mediterraneo orientale. “Le aziende vincitrici si sono impegnate con investimenti senza precedenti nell’esplorazione del gas naturale nei prossimi tre anni, il che si spera porti alla scoperta di nuovi giacimenti di gas naturale”, avrebbe affermato  all’epoca il ministro dell’Energia Katz. Lo stesso anno, l’Azerbaijan ha aperto la sua ambasciata a Tel Aviv.

Nel febbraio 2024, il presidente Aliyev ha incontrato il suo omologo israeliano Isaac Herzog a margine della Conferenza sulla sicurezza di Monaco. Nell’aprile 2024, i ministri dell’Energia di entrambi i paesi hanno discusso di ulteriori legami energetici durante un incontro a Dubai.

Se i due governi intrattengono legami strategici, anche l’opinione pubblica è rimasta in silenzio. Non ci sono state proteste o richieste, tranne una manciata di attivisti civici e politici espressione dell’opinione pubblica azera, composta in maggioranza da musulmani sciiti, che hanno chiesto al governo di assumere una posizione più dura contro Israele.

Nell’ottobre 2023, poco dopo l’inizio della guerra a Gaza, diverse piattaforme di notizie online hanno condotto sondaggi tra i loro lettori, in base ai quali due terzi degli intervistati hanno espresso sostegno a Israele. Le immagini  condivise dall’ambasciatore israeliano in Azerbaijan, che mostrano fiori deposti fuori dall’ambasciata, illustrano la solidarietà del popolo azero nei confronti di Israele.

Scarsa è anche la copertura della guerra a Gaza in gran parte dei media statali o filo-governativi. Pertanto, l’inerzia dell’Azerbaijan nei confronti di Gaza non sorprende.

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