Echi d’Armenia Serata dedicata alla Musica e alla Poesia (OgggiRoma 02.12.25)

Un appuntamento ormai consolidato che anticipa le festività e ne inaugura lo spirito con una serata dedicata alla Musica e alla Poesia.

Domenica 7 dicembre alle ore 17:30, presso l’Auditorium della Basilica di Santa Croce al Flaminio (Via Guido Reni 2D), il pubblico sarà accompagnato in un viaggio emozionante attraverso alcuni dei brani più preziosi della tradizione musicale armena: dal raffinato canzoniere settecentesco di Sayat-Nova alle composizioni intrise di folclore e profondità spirituale di Komitas, fino alle pagine vibranti e moderne dei compositori Aram Khachaturian, Arno Babadjanian e Artemi Ayvazyan. Non mancheranno inoltre brani di compositori europei: Schumann, Tchaikovsky, Rachmaninov e Prokofiev .  A interpretare le opere sarà Natalia Pogosyan, pianista di comprovata esperienza e sensibilità interpretativa.

In dialogo armonioso con le melodie, prenderanno voce – in lingua italiana – i versi di poeti armeni appartenenti a epoche diverse, uniti dal tema universale dell’amore nelle sue molteplici declinazioni.Le parole e le note si intrecceranno per svelare l’anima armena, custode di una storia e di una cultura ricchissime.

L’ingresso è libero fino a esaurimento posti.

E’ consigliabile prenotarsi scrivendo a assoarmeni@gmail.com o chiamando il numero 338 856 0762.

Dove e quando

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Amb. Ferranti a convegno di farmacologi italiani e armeni (Ansa 01.10.25)

(ANSA) – ROMA, 01 DIC – L’Ambasciatore d’Italia a Jerevan, Alessandro Ferranti, ha rivolto un saluto ai partecipanti al secondo Convegno congiunto tra farmacologi italiani e armeni, svoltosi all’Università Statale di Medicina della capitale armena. L’iniziativa è frutto di alcuni anni di dialogo e proficua collaborazione intrapresi con i colleghi dell’Università di Camerino, e si pone in una prospettiva di crescente cooperazione fra le due Università nel campo della farmacologia e delle terapie associate ai trattamenti medico-sanitari e nel quadro degli scambi accademici e scientifici.

Armenia e Azerbaijian, dialogo o performance? (Osservatorio Balcani e Caucaso 01.12.25)

In ottobre, si sono incontrati a Yerevan rappresentanti della società civile armena e azera, o presunti tali, in quello che è stato descritto come uno sforzo per far progredire l’agenda di pace tra i due paesi. Tutti gli occhi sono ora puntati su Baku, che prevede di ospitare il prossimo incontro entro la fine dell’anno.

Se questo incontro si fosse svolto al di fuori della propaganda decennale che denigrava le iniziative transfrontaliere e ne etichettava i partecipanti come traditori o agenti armeni, sarebbe stato naturale accoglierlo come un progresso. Eppure, non è così.

Per molti versi, l’incontro di Yerevan è apparso come un’estensione della coreografia politica di Washington: un processo attentamente gestito, progettato per proiettare progressi evitando questioni scomode. I partecipanti hanno dichiarato ai media che le discussioni sono state “costruttive” e un “passo nella giusta direzione” verso la ricostruzione dei legami e la preparazione delle due popolazioni alla pace. Tuttavia, non hanno fornito dettagli su cosa abbia reso i colloqui costruttivi: nessun ordine del giorno, tempistica o piani concreti, al di là di una visita della delegazione armena a Baku.

I recenti movimenti fra Yerevan e Baku

Dall’incontro di agosto a Washington, è aumentato il ritmo degli scambi ufficiali e semi-ufficiali. A settembre, una delegazione guidata da Andranik Simonyan, capo del Servizio di sicurezza nazionale armeno, ha partecipato ad un forum sulla sicurezza a Baku. A seguire, Murad Muradov, vicedirettore del think tank Centro Topchubashov, ha visitato Yerevan per il vertice NATO. A novembre, un’altra delegazione azera ha partecipato al Forum di Orbeli a Yerevan.

Ciò che colpisce di più di questi incontri è l’apertura, e persino gli elogi, che hanno ricevuto in Azerbaijian. I post pubblici dei partecipanti sui social media sono in netto contrasto con gli anni precedenti, quando tali interazioni venivano spesso tenute segrete per evitare reazioni negative da parte dell’opinione pubblica. I media statali e filogovernativi hanno salutato questi incontri come un progresso senza precedenti.

Ad esempio, Kamala Mammadova, giornalista e direttrice del sito online 1news.az, ha scritto sui social media dopo l’incontro di ottobre a cui ha preso parte: “Molti si chiedono: incontri simili si sono già svolti in passato, ma non hanno prodotto risultati tangibili. La differenza nel formato attuale è che l’incontro si è svolto per la prima volta in un formato completamente bilaterale, senza intermediari o influenze esterne. E si è percepito. C’era un sentimento di genuino interesse da entrambe le parti per il dialogo, una volontà di ascoltare ed essere ascoltati”.

Tuttavia, Mammadova ha omesso che il fallimento degli incontri precedenti è derivato, tra gli altri ostacoli, dal rifiuto delle autorità di sostenere autentiche iniziative di pace. Tra questi, l’emarginazione dei promotori di pace, il predominio di narrazioni etno-nazionaliste, l’uso della propaganda, la mancanza di riforme nei sistemi educativi e la mancanza di informazione attenta al conflitto da parte dei media statali e non statali, solo per citarne alcuni.

Di conseguenza, “le conversazioni tenute da coloro che sostenevano la pace in queste circostanze sono rimaste all’interno di una cerchia ristretta, incapaci di rivolgersi al grande pubblico e gradualmente emarginate dalla retorica nazionalista”, hanno scritto gli studiosi Nazrin Gadimova e Anush Petrosyan.

Gli autori hanno anche sostenuto che negli anni ’90, i primi anni dell’indipendenza, ci fu una breve apertura: scambi intellettuali, diplomazia di base e incontri transfrontalieri tra personalità culturali offrirono sprazzi di dialogo. Tuttavia, nel tempo, le restrizioni autoritarie in Azerbaijian e il lento sviluppo della società civile in Armenia hanno soffocato queste iniziative, relegando ai margini gli sforzi di costruzione della pace.

Contrariamente alle osservazioni di Mammadova, un genuino interesse è sempre stato presente, ma non è riuscito a farsi strada nelle politiche statali al di là delle sale riunioni e degli impegni al dialogo. Di conseguenza, il discorso sulla pace è rimasto distante dai cittadini comuni, confinato ad una ristretta cerchia di operatori e attivisti di ONG, anziché promuovere un più ampio dibattito sociale sulla riconciliazione.

L’agenda mancante

Dopo la seconda guerra del Karabakh, i discorsi sulla ricostruzione dei legami continuavano a suonare vuoti. Innanzitutto, c’è poco da ricostruire. L’inimicizia tra armeni e azeri rimane radicata e la generazione che ricorda di aver vissuto fianco a fianco sta invecchiando ed è in gran parte assente dai processi decisionali e dai negoziati.

Nella sua analisi del 2019, l’esperto e analista azero Zaur Shiriyev ha scritto: “Preparare l’opinione pubblica alla pace implica la preparazione a lunghi negoziati e la possibilità di un compromesso. Ciò include sia il dibattito pubblico che una maggiore trasparenza su ciò che accade al tavolo dei negoziati. Un maggiore coinvolgimento dei gruppi della società civile azera e armena, insieme ai negoziati ufficiali, potrebbe essere prezioso per sottolineare la semplice affermazione che la pace è possibile con l’altra parte”.

Intervenendo al Forum di Orbeli a novembre, Shiriyev ha ribadito la necessità di “un cambiamento di ‘mentalità’, esortando entrambe le parti ad abbandonare le “posizioni massimaliste”.

Nonostante la retorica, tuttavia, non c’è ancora un dibattito pubblico, nessuna trasparenza e poche tracce di una società civile indipendente in grado di plasmare o persino monitorare il processo di pace. Come osservano gli esperti di risoluzione dei conflitti Philip Gamaghelyan e Sevin Huseynova, nel contesto della prima guerra del Karabakh e del dialogo postbellico, “con il tempo, le voci realiste e altre che chiedevano pragmatismo e compromesso sono state messe da parte a favore di sentimenti revanscisti radicati nel discorso etnonazionalista”. Quel discorso lasciava poco spazio alla pace e, per quanto riguarda il dialogo attuale, rimane una spina nel fianco.

Il caso di Bahruz Samadov

Un caso emblematico è Bahruz Samadov, un giovane politologo e ricercatore che sta conseguendo un dottorato di ricerca presso l’Università Carlo di Praga. Samadov era contrario alla seconda guerra del Karabakh e all’intervento militare del Paese nel 2023. Aveva scritto sulla riconciliazione con l’Armenia ed era noto per la sua posizione critica nei confronti del governo. È stato arrestato nell’estate del 2024 con l’accusa di tradimento mentre era in visita dalla nonna in Azerbaijan.

Le autorità hanno accusato Samadov di “comunicare con gli armeni” e di “condividere segreti di Stato”, sebbene l’accusa non abbia fornito prove al di là della sua corrispondenza con accademici armeni. A giugno 2025, è stato condannato a 15 anni di carcere.

Samadov non è il primo azero ad affrontare accuse di tradimento negli ultimi 30 anni. I giornalisti Rauf Mirkadirov, Leyla e Arif Yunus hanno dovuto affrontare accuse simili di spionaggio o tradimento. Nel corso degli anni, i rappresentanti della società civile impegnati in iniziative transfrontaliere sono stati oggetto di altre forme di persecuzione sponsorizzate dal governo.

L’arresto e la condanna di Bahruz hanno dato il colpo di grazia a qualsiasi impegno non sponsorizzato dal governo con l’Armenia. Ciò solleva la domanda: se il governo continua a incarcerare i sostenitori della pace, chi rappresenta la società civile in questi nuovi dialoghi e chi garantisce la responsabilità nel cosiddetto processo di pace post-Washington?

Cosa deve accadere

Il contesto politico autoritario dell’Azerbaijian ostacola da tempo le autentiche iniziative della società civile, in particolare quelle legate alla riconciliazione. Cinque anni dopo la Seconda guerra del Karabakh, il blocco di Lachin, l’esodo degli armeni etnici che vivevano in Karabakh e la guerra di 24 ore del 2023, concedere all’Azerbaijan il controllo completo sui territori precedentemente controllati dall’Armenia avrebbe potuto creare un’apertura per una costruzione della pace inclusiva. Tuttavia, ciò richiederebbe la partecipazione di voci indipendenti, non solo di figure allineate al governo.

Il giornalista veterano Rauf Mirkadirov, che ha trascorso del tempo in carcere con accuse di tradimento e poi ha lasciato il Paese, sostiene che, sebbene gli incontri sponsorizzati dal governo possano avere valore, è necessario che si svolgano anche discussioni indipendenti parallele. Come emerge questo tipo di dialogo parallelo in un contesto in cui i gruppi indipendenti sono banditi, in esilio o dietro le sbarre? Persino la diaspora azera rimane frammentata, divisa lungo linee politiche e ideologiche, con alcuni emigrati politici che tornano in Azerbaijan dopo anni di esilio e pochi disposti a investire tempo nel lavoro di riconciliazione.

Dopo l’incontro di ottobre, Farhad Mammadov, membro della delegazione azera, ha scritto un editoriale per l’agenzia di stampa statale APA, sottolineando la “grande responsabilità nel costruire la fiducia tra le parti”. Pur riconoscendo il trauma generazionale del conflitto e descrivendo la costruzione della pace come “un processo lungo e difficile”, ha omesso qualsiasi riferimento a precedenti iniziative di base che avevano cercato di fare proprio questo, prima di essere represse dalle autorità.

Dialogo simbolico o cambiamento reale?

Può un gruppo selezionato di partecipanti allineati al governo, la maggior parte dei quali senza esperienza nella risoluzione dei conflitti, essere realmente coinvolto in un dialogo con la società civile? E quanto possono incontri così rigidamente gestiti modificare la percezione in un paese in cui le voci indipendenti rimangono criminalizzate?

In definitiva, finché lo stesso governo che chiede il dialogo decide anche chi può parlare, i gesti di apertura dovrebbero essere visti con cauto scetticismo.

La fede ponte sopra le ferite (Osservatore Romano 01.12.25)

«Con i nostri fratelli e sorelle che condividono con noi la sete di pace e di giustizia, vogliamo testimoniare che la coesistenza è possibile, e che l’amore è più forte di qualsiasi divisione»: nel dare il benvenuto a Leone XIV nel santuario di Nostra Signora del Libano ad Harissa, il patriarca di Cilicia degli Armeni cattolici Raphaël Bedros XXI Minassian ha messo in risalto una delle preziose qualità di «questa terra benedetta, culla dell’Oriente cristiano», dove «la fede possiede radici antiche e profonde. Qui, dove risuonano le lingue e le liturgie delle Chiese d’Oriente e d’Occidente, la pluralità delle tradizioni si trasforma in ricchezza, segno della grazia multiforme di Dio». E ai piedi di Nostra Signora del Libano, «siamo riuniti sotto lo sguardo materno di Colei che abbraccia tutti i suoi figli». Un santuario «dove i popoli e le religioni si incontrano e si riconciliano. Nostra Signora di Harissa è il sostegno spirituale del Libano. A Lei affidiamo la nostra nazione, la Chiesa e il mondo intero».

Il patriarca Minassian ha definito la visita del Papa «una fiamma viva di preghiera e di speranza che illumina ogni angolo del nostro Paese», ricordando che «ogni giorno, ovunque siamo, nelle chiese, nelle cappelle o nelle case, le nostre voci si levano in un unico canto, come un profumo di incenso che sale verso il cielo. Preghiamo con Lei, Santo Padre, per la pace, per la giustizia e per la rinascita del nostro amato Libano». Una nazione il cui popolo nel corso degli ultimi anni «ha affrontato prove che hanno profondamente scosso il suo corpo e la sua anima». Eppure, ha sottolineato il Catholicos, «siamo ancora qui. Nonostante il dolore e la fatica, continuiamo ad andare avanti come custodi della speranza e testimoni di pace. È allora che la preghiera si trasforma in azione viva: tendiamo la mano ai poveri, accompagniamo i giovani disorientati, asciughiamo le lacrime di quanti hanno perso tutto».

La memoria dei martiri, custodita, è stata trasformata «in un Vangelo vissuto, incarnato nella vita quotidiana». È da questa fede ardente che «scaturisce la forza dell’Oriente cristiano» in un Paese che «ospita diciotto confessioni religiose, simbolo concreto di come la fede possa divenire un ponte al di sopra delle ferite del mondo». E «la Sua presenza — ha concluso Minassian rivolgendosi al Pontefice — ci ricorda che Dio è con noi. La Chiesa è con noi. Non siamo mai soli».

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Minassian: speranza, unità, pace e giustizia. Questa l’eredità del viaggio del Papa

Papa Leone XIV ad Harissa: “La Chiesa in Libano è responsabile della speranza”

La domenica del Papa – Avvento, tempo di attesa

Il secondo giorno di Leone in Libano

Il Papa prega al porto di Beirut e condanna “una società che corre ignorando fragilità e povertà”

Leone XIV, il Libano e il giro delle “sette chiese”

Il dialogo della carità per ripristinare l’unità

«Segno potente» di coesione

 

 

Papa Leone XIV visita la cattedrale armena di Istanbul, evoca le “tragiche circostanze” del passato (Varie 30.11.25)

In mattinata il Papa ha assistito poi alla divina liturgia presso la sede del patriarcato ecumenico di Costantinopoli. Bartolomeo: “Non possiamo essere complici dello spargimento di sangue in Ucraina”. Questo pomeriggio Prevost lascia la Turchia e arriva in Libano

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Il Papa è in Libano. A Istanbul incontra armeni e ortodossi, ‘chiamati a costruire la pace’ (Ansa)

Leone XIV con l’airbus aggiustato va in Libano, a Beirut lo attende un appello di Hezbollah (e in nunziatura anche un incontro) (Il Messaggero)

Istanbul, Papa Leone visita la cattedrale armena: “L’unione dei battezzati è priorità della Chiesa”

Il Papa: il dialogo di carità ripristini l’unità nella Chiesa, senza assorbire né dominare (Vatican News)

Il Papa celebra la messa nella chiesa armena in Turchia. La diretta (Corriere Tv)

Leone XIV: ‘Cattolici e ortodossi chiamati a essere costruttori di pace’ (Asianews)

Istanbul. Leone XIV: «Grato a Dio per il coraggio e la fede del popolo armeno» (SilereNonPossum)

Papa in Turchia: Sahak II Maschalian, “pace duratura tra popoli logorati dalla guerra” (SIR)

Il Papa: due Stati per la Terra Santa. E cessate-il-fuoco in Ucraina (LaStampa)

Papa Leone XIV: “La piena comunione non implica dominio ma scambio dei doni” (AciStampa)

Papa Leone e la preghiera con il Patriarca nella Cattedrale Armena di Istanbul (RaiNews)

Dalla Turchia al Libano, l’impegno di Leone tra ecumenismo e pace (Lanuovabq)

Papa in Turchia: alla cattedrale armena, “recuperare l’unità che esisteva nei primi secoli” (Sir)

Visita di Preghiera alla Cattedrale Armena Apostolica, 30.11.2025 (Bollettino Sala Stampa)

Un ricordo di Araksi Lilosian, custode della memoria armena in Puglia (Bariseranews 29.11.25)

La recente scomparsa di Araksi Lilosian ha lasciato un vuoto profondo nella comunità armena della Puglia. Nata a Bari 93 anni fa, nel villaggio storico di “Nor Arax”, Araksi era considerata la memoria vivente di questa comunità. Figlia di Takvor Lilosian e Siranush Timurian, entrambi provenienti dall’Impero Ottomano, ha rappresentato un legame diretto con le radici culturali e la storia del suo popolo.

Araksi non era solo la persona più anziana della comunità ma un simbolo di resilienza e integrazione. Rimasta vedova, ha vissuto con i figli Siranush e Tito Quaranta, entrambi molto attivi nella vita comunitaria armena locale. La sua vita è stata intrecciata con un capitolo importante della storia dell’artigianato armeno in Italia: negli anni Cinquanta lavorò come tessitrice di tappeti a Nor Arax e successivamente come insegnante presso la scuola di San Giovanni in Fiore in Calabria. Quest’ultima, diretta da suo zio Sargis Mushegian, fungé da crocevia per il trasferimento dell’antica arte della tessitura armena in Italia, offrendo opportunità economiche e culturali alle popolazioni locali.

La longevità di Araksi rappresentava un ponte diretto con il passato doloroso del genocidio armeno e una testimonianza tangibile dell’eredità lasciata dai profughi accolti in Italia dopo il 1922. Anche la sua presenza in produzioni audiovisive degli anni Cinquanta contribuì a mantenere viva questa eredità culturale.

La comunità armena, e non solo, ricorda Araksi Lilosian come un esempio di forza e dedizione, un faro di speranza per le generazioni future che continueranno a trarre ispirazione dalla sua dedizione e dal suo impegno verso la cultura e la storia armena

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Cristianesimo sotto assedio in Armenia (Riforma 28.11.25)

La Chiesa Apostolica Armena affronta una nuova stagione di persecuzioni, questa volta da parte del governo che dovrebbe garantirne la libertà

Quando l’Armenia adottò il Cristianesimo come religione di Stato nel 301 d.C., Roma perseguitava ancora i cristiani e gli Anglosassoni non erano ancora arrivati in Britannia. La Santa Chiesa Apostolica Armena (AAHC) ha resistito ed è sopravvissuta agli attacchi di persiani, ottomani e sovietici. Eppure, nel 2025, si trova ad affrontare nuovamente la persecuzione, questa volta da parte del suo stesso governo eletto.

Sebbene la Costituzione armena conferisca all’AAHC una “missione esclusiva” nella vita spirituale della nazione, riconoscendone il ruolo unico nella preservazione dell’identità armena, un nuovo rapporto dello studio legale internazionale Amsterdam & Partners mette a nudo il pesante attacco alla Chiesa da parte del Primo Ministro Nikol Pashinyan. Il suo governo ha incarcerato vescovi e sacerdoti e ha diffamato il patriarca supremo Karekin II, Catholicos di tutti gli Armeni. Ha anche incarcerato l’imprenditore Samvel Karapetyan, un importante filantropo che ha finanziato scuole, ospedali e il restauro di antiche chiese, per aver pubblicamente difeso la Chiesa. 

La situazione ha attirato critiche internazionali. Il vicepresidente del Gruppo parlamentare interpartitico del Regno Unito sulla libertà religiosa, Lord Jackson di Peterborough, ha dichiarato: «L’idea che cristiani devoti, nel Paese cristiano più antico del mondo e nella civile e moderna Europa, vengano gettati in prigione per aver difeso la loro fede è spaventosa. (…)

Le denominazioni cristiane in Armenia dovrebbero poter mantenere il diritto di riunirsi e pregare in pace, senza la minaccia di intimidazioni violente, incarcerazione o peggio».

Ha aggiunto: «Il mondo sta osservando gli abusi dei diritti umani commessi contro queste comunità cristiane sotto assedio».

Le origini della repressione risalgono alla sconfitta militare del 2023, quando l’assalto dell’Azerbaigian all’enclave armena del Nagorno-Karabakh costrinse alla fuga oltre 100.000 cristiani armeni. La Chiesa, fedele alla sua vocazione, difese i loro diritti, appellandosi alla comunità internazionale affinché salvaguardasse il patrimonio culturale e religioso armeno e fornisse aiuti umanitari agli sfollati.

Il Consiglio Ecumenico delle Chiese ha espresso preoccupazione, ma le chiese nazionali e il Vaticano non hanno ancora preso una posizione pubblica nei confronti di Yerevan. Si teme che il governo che oggi imprigiona sacerdoti e filantropi, domani metterà a tacere giornalisti e giudici. 

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A Koreja “L’imputato non è colpevole” della compagnia Giardino Chiuso — Genocidio armeno: nuove luci sul caso Tehlirian (LeccePrima 28.11.25)

Nota – Questo comunicato è stato pubblicato integralmente come contributo esterno. Questo contenuto non è pertanto un articolo prodotto dalla redazione di LeccePrima

Il 15 marzo 1921 un turco corpulento cammina per le strade di Berlino. Uno studente armeno, Soghomon Tehlirian, lo raggiunge e lo colpisce mortalmente con una pallottola. La vittima è Talaat Pascià, già Ministro degli Interni e uomo forte del governo dei “Giovani Turchi”, rifugiatosi in Germania dopo la sconfitta dell’impero ottomano nel primo conflitto mondiale e ritenuto il principale responsabile del genocidio armeno.

Qualche mese dopo, il 2 e 3 giugno 1921, dinanzi alla Corte d’Assise del Tribunale di Berlino, viene celebrato il processo a carico di Tehlirian: dopo un intenso e drammatico dibattimento lo studente armeno viene assolto. È da questa vicenda che domenica 30 novembre alle ore 18.30 prende spunto L’IMPUTATO NON È COLPEVOLE il nuovissimo lavoro della compagnia Giardino Chiuso, con la messa in scena di Tuccio Guicciardini e Patrizia de Bari: uno spettacolo che dà voce alla storia e alla natura, molte volte inconcepibile, dell’uomo. In scena Michele Andrei e Matteo Nigi.

Il massacro della popolazione armena del 1915 rimane oggi una questione profondamente politica, perché riguarda non solo la memoria storica, ma anche il modo in cui gli Stati definiscono la propria identità e le proprie responsabilità. Il riconoscimento internazionale del genocidio armeno è diventato un banco di prova per la credibilità delle democrazie e per la loro coerenza nel difendere i diritti umani. Allo stesso tempo, la persistente resistenza di alcuni governi nel riconoscerlo, mostra come la storia possa essere ancora usata come strumento geopolitico.

Insistere sulla verità storica significa rafforzare il principio che nessuno Stato può costruire il proprio presente sull’occultamento delle violenze del passato. Per questo il caso armeno resta centrale: perché ricorda che la pace, la sicurezza e la giustizia internazionale dipendono anche dal coraggio politico di chiamare le persecuzioni con il loro nome e di affrontarne le conseguenze. Ripercorrere oggi gli atti di quel clamoroso processo – cercando di capire perché un omicida venne assolto e la sua vittima moralmente condannata – consente di cogliere, accanto alle motivazioni politiche da cui scaturì quella sentenza, una serie di inconfutabili dati storici che rendono tuttora attuale e non archiviabile la questione armena.

Nella riduzione degli atti processuali, la compagnia mette a fuoco l’intenso interrogatorio di Tehlirian, dove emergono gli orrendi racconti dei massacri perpetuati dai turchi verso la popolazione armena e la continua e inesauribile sofferenza del giovane studente, che lo porterà ad una soluzione drammatica ma “necessaria”.

L’ambientazione scenica è scarna, essenziale. I due protagonisti, l’imputato e il Presidente, sono volutamente astratti, fuori da ogni contesto temporale, per sottolineare l’universalità e la ripetitività delle storture e delle aberrazioni umane. Le parole prendono corpo e si concretizzano, nude, come testimonianza scolpita nella pietra. La linea drammaturgica porta ad un quesito fondamentale per le nostre coscienze: quale giustizia è giusta? Quella dei codici, delle norme e delle leggi scritte o quella di un’umanità “universale”, una giustizia intima, che nasce dall’anima. La ricerca di ristabilire quanto meno un’idea plausibile di giustizia, affinché la storia non diventi una farsa totale.


Genocidio armeno: nuove luci sul caso Tehlirian
https://www.lecceprima.it/eventi/teatro/genocidio-armeno-caso-tehlirian.html
© LeccePrima


Teatro Koreja: la morte di Talaat Pascià e il processo Tehlirian riportano al centro il tema della responsabilità per il genocidio armeno (Corriere Salentino)

 

Le comunità cristiane in Turchia tra storia e attualità (SIR 27.11.25)

La Turchia ospita comunità cristiane piccole ma radicate, dall’ortodossia del Fanar alla tradizione siriaca del Tur Abdin, fino alla Chiesa cattolica latina. Tra migrazioni, restauri, tensioni politiche e testimonianze di fede, queste realtà mantengono viva una presenza antica in un Paese a maggioranza musulmana.

Foto Calvarese/SIR

La Turchia è un Paese a maggioranza musulmana con circa 90 milioni di abitanti. Nel Novecento ha sviluppato uno Stato nazionale e laico sotto la guida di Atatürk; nel XXI secolo. Con Erdoğan, al potere da circa 20 anni, l’Islam ha assunto un ruolo centrale nella società. Tuttavia, essa è anche una regione con una lunga storia cristiana, che risale ai primi secoli e include figure bibliche, Padri della Chiesa, ma anche tradizioni monastiche e una presenza cristiana continuata anche durante l’epoca dell’impero ottomano. La presenza cristiana, oggi, è numericamente ridotta, ma conserva un enorme valore storico e religioso significativo. Il patriarcato ecumenico di Costantinopoli, situato nel quartiere del Fanar a Istanbul, resta un punto di riferimento. Malgrado il numero di fedeli ortodossi sia esiguo, esso continua a mantenere un ruolo importante. E questo grazie soprattutto alla continua presenza dei suoi patriarchi, tra cui Atenagora fino all’attuale Bartolomeo. Dal Concilio vaticano II tutti i papi hanno visitato questa terra. A Istanbul è presente anche la Chiesa armena, la più numerosa comunità cristiana della Turchia, segnata dalle vicende della Prima guerra mondiale. Ai confini con la Siria continua a vivere la tradizione siriaca, concentrata nell’area del Tur Abdin.
La Chiesa siriaca, un tempo più diffusa, oggi opera in un contesto islamico complesso e influenzato dal conflitto tra lo Stato turco e la popolazione curda. A causa dell’emigrazione si è molto ridotta, ma rimane attiva. A Mardin, un parroco siriaco guida una comunità di poco più di cento fedeli, sia ortodossi sia cattolici, celebrando nelle diverse chiese per mantenerle attive. Ad Adiyaman, nel 2011, è stata riaperta l’unica chiesa siriaca con autorizzazione governativa, facendo riemergere la presenza cristiana. Nel Tur Abdin diverse chiese sono state restaurate e aperte ai visitatori, e nei due monasteri rimangono alcuni monaci. Uno di essi, padre Gabriel, racconta di essere rimasto nel monastero mentre la sua famiglia emigrava, spiegando che la scelta è tra la vita religiosa e il benessere materiale.
La Chiesa cattolica in Turchia fa parte della Chiesa cattolica universale ed è in comunione con il papa. I cattolici presenti nel Paese sono circa 60.000, equivalenti allo 0,07% della popolazione, composta prevalentemente da musulmani. La Chiesa cattolica di rito latino è articolata nell’arcidiocesi di Smirne e nei vicariati apostolici dell’Anatolia e di Istanbul. Vi è inoltre collaborazione con le Chiese cattoliche armene, caldee, greche e sire, che seguono riti propri. Accanto a esse sono presenti altre comunità cristiane, tra cui gli ortodossi legati al patriarcato di Costantinopoli, di rilevante importanza storica. La Chiesa cattolica latina mantiene un rapporto particolare sia con i cittadini turchi sia con gli immigrati. Dalle parrocchie di Istanbul fino alle comunità più piccole dell’Anatolia, i missionari continuano a sostenere gruppi ridotti ma considerati significativi. Mantenere aperte le chiese è un gesto di attenzione verso chi vive sul posto e un segno di speranza per il futuro. In questo contesto è ricordata la figura del sacerdote romano Andrea Santoro, ucciso mentre pregava nella sua chiesa di Trebisonda, così come quella del vescovo Padovese, anch’egli ucciso. Santoro vedeva la sua presenza come un modo per ridurre la distanza tra mondi diversi.
Le piccole comunità cristiane in Turchia richiamano l’attenzione sulla fragilità della presenza cristiana nel mondo, anche in Occidente. Tanto in Oriente quanto in Occidente, in Italia come in Turchia, la responsabilità del cammino della Chiesa rimane nelle mani di chi la vive.

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Per gli ostaggi armeni dell’Artsakh neanche un po’ della giustizia di Sharm /Tempi 27.12.25)

A Sharm el-Sheik, in Egitto, davanti a un mare favoloso, i leader massimi di 22 Stati hanno firmato, o meglio controfirmato, l’accordo di pace per Gaza tra Israele e Hamas di fatto imposto da Donald Trump alle parti atrocemente confliggenti dal 7 ottobre 2023. Intanto, quel lunedì 13 ottobre 2025 (data completa come si conviene quando si avverte lo scalpiccio di cavalli della storia che passa) si è realizzata una “tregua”. Fine bombardamenti, ostaggi liberati, inizio della restituzione dei corpi morti alle famiglie.
Che c’entra il Molokano, che se ne sta con i suoi guai e le sue ferite che non cicatrizzano, sul lago di Sevan? L’Armenia mi ha insegnato che esiste la comunione dei morti, le schiere delle vittime, le lacrime passate e presenti dei miti, mescolate ai denti degli assassini, giacciono nel lago della nostra umanità intera. Una “scintilla di speranza” in Terra Santa (definizione di Leone XIV) buca il buio del mondo intero, mobilita ogni popolo a ricordare cos’è la luce, per ce…