La musica armena e il misticismo Sufi al Rifugio Roda di Vael (LAvisioblog 18.09.24)

Meteo permettendo i Suoni delle Dolomiti proseguono nelle valli dell’Avisio giovedì 19 settembre alle ore 14 al Rifugio Roda de Vael a quota 2300 metri con Gurdjieff Ensemble.

Musica e spiritualità: dall’Armenia arriva direttamente nel cuore delle Dolomiti fassane nella zona meridionale del Gruppo del Catinaccio Rosengarten, il gruppo strumentale che dal 2008, grazie anche ad alcuni album per l’importante etichetta tedesca ECM, sta portando nel mondo i suoni di una terra ricca di cultura ma anche segnata dalla sofferenza. Il Gurdjieff Ensemble, diretto da Levon Eskenian, si rifà esplicitamente agli insegnamenti del filosofo, scrittore, mistico, compositore, musicista e maestro di danze Georges Ivanovič Gurdjieff, una sorta di Socrate moderno vissuto tra il 1872 e il 1949 il cui lascito ha fatto numerosissimi proseliti in tutto il mondo.  Con l’ausilio di strumenti tradizionali a fiato, a corde e a percussione, quali Il duduk, il kanon, l’oud il santur e il tmbuk, il Gurdjieff Ensemble porta l’ascoltatore a immergersi in un’atmosfera sospesa nel tempo e nello spazio, profondamente intrisa di quella sacralità che contraddistingue il misticismo sufi.

Come arrivare
da Vigo di Fassa con la funivia Catinaccio e poi a piedi lungo il sentiero Vial da Le Feide
1.30 ore di cammino, dislivello circa 300 metri, difficoltà E

oppure

dal Passo Carezza con la seggiovia Paolina, sentiero 539 fino al monumento Christomannos e poi 549
50 minuti di cammino, dislivello circa 130 metri, difficoltà E

Il concerto si svolge a circa 20 minuti di cammino dal Rifugio, verso il passo delle Cigolade.

Concerto in caso di maltempo
ore 17:30 Oratorio Parrocchiale di Pozza
I biglietti per l’accesso gratuito in sala sono in distribuzione fino ad esaurimento posti dalle ore 15.30 presso la cassa del teatro.

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San Taddeo, pellegrini accorrono per rituale Badarak (Ilfarosulmondo 18.09.24)

La chiesa di San Taddeo, nota anche come Qareh Klise (“la Chiesa Nera”), un sito patrimonio dell’umanità dell’Unesco situato a Chaldora, nel nord-ovest dell’Iran, ospiterà il 70° rituale annuale di Badarak dal 13 al 15 ottobre.

La chiesa, ritenuta una delle più antiche del mondo cristiano, riveste un significato speciale per la comunità armena in quanto luogo di sepoltura di San Taddeo, uno degli apostoli. Si prevede che la sacra cerimonia, patrimonio immateriale registrato dall’Unesco e condiviso da Iran e Armenia, attirerà più di tremila pellegrini dall’Iran e da tutto il mondo.

Tradizionalmente, i cristiani provenienti da Iran, Armenia, Siria, Libano, Paesi Bassi, Francia, Austria, Germania e Canada, tra gli altri Paesi, si riuniscono in chiesa per celebrare il rito. I pellegrini iraniano-armeni provengono principalmente da Tabriz, Urmia, Teheran, Isfahan e Qazvin, accompagnati dalle loro famiglie, montano tende attorno alla chiesa e partecipano alle preghiere, all’accensione delle candele e al sacrificio rituale delle pecore per i voti.

Tutto pronto per San Taddeo

Il governatore di Chaldoran, Mohammadreza Abdollahnejad, ha annunciato che la contea è pienamente pronta a ospitare l’evento. “In stretta collaborazione con la diocesi cristiana locale, abbiamo allestito una clinica mobile, schierato squadre di emergenza stradale, squadre antincendio e di sicurezza stradale e organizzato bancarelle di cibo per garantire la sicurezza e il comfort dei pellegrini”, ha affermato Abdollahnejad.

Si dice che questo rituale di tre giorni, che è uno dei sacramenti del cristianesimo, commemori l’Ultima Cena di Gesù Cristo con i suoi discepoli.

Il battesimo dei bambini insieme alle esibizioni di canti e danze tradizionali sono tra i momenti salienti del pellegrinaggio. Inoltre, i partecipanti commemorano il martirio di San Taddeo, uno dei dodici discepoli, ucciso mentre predicava il Vangelo. La leggenda narra che una chiesa a lui dedicata fu costruita lì per la prima volta nel 68 d.C, dove si trova Qareh Klise. Taddeo era un apostolo di Cristo e la cerimonia affonda le sue radici nell’ultima cena con Gesù Cristo, la notte del suo arresto e della sua esecuzione da parte dei soldati romani.

Iran e libertà religiosa

Il raduno di migliaia di pellegrini in questa antica chiesa non è solo una testimonianza del duraturo significato religioso del sito, ma anche un potente promemoria del ruolo storico dell’Iran come crocevia di fede e cultura. “L’evento di quest’anno dimostrerà ancora una volta l’impegno del Paese per la libertà religiosa e la diversità culturale, poiché continua a fornire un ambiente sicuro e aperto per le osservanze religiose”.

San Taddeo, insieme al monastero di San Stefano e alla cappella di Dzordzor, sono stati inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco nel 2008 con il nome di “Complessi monastici armeni dell’Iran”. Tutti e tre i siti si trovano nella provincia dell’Azerbaigian occidentale e sono di grande importanza dal punto di vista storico e culturale.

Come affermato dall’Unesco, queste chiese sono esempi dello straordinario valore universale delle tradizioni architettoniche e decorative armene in Iran.

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Andersen Global sposta uno studio membro in Armenia (Ansa 17.09.24)

Andersen Global amplia le sue capacità in Armenia con l’adozione del marchio da parte di TK & Partners, uno studio legale a servizio completo con cui collabora dal 2020. l’ultimo studio membro ad entrare a far parte dell’organizzazione globale.

L’ufficio Andersen in Armenia offre servizi legali completi, specializzati in patti parasociali, fusioni e acquisizioni, registrazione e contenzioso in materia di proprietà intellettuale, finanziamenti di debito e di capitale, due diligence, insolvenza aziendale, consulenza fiscale e immobiliare. Fondato nel 2012, il Managing Partner dell’ufficio, Varoujan Avedikian, è a capo di un team di professionisti esperti che mantengono solide relazioni con i clienti e le imprese.

“Diventare un’azienda membro di Andersen Global segna una pietra miliare significativa nel nostro impegno verso l’eccellenza e l’approccio incentrato sul cliente”, ha dichiarato Varoujan. “L’adozione del marchio Andersen ci consente di combinare la nostra profonda conoscenza locale con l’esperienza globale, migliorando la nostra capacità di lavorare a stretto contatto con i clienti e di fornire soluzioni multidisciplinari che guidano il loro successo in un panorama aziendale sempre più integrato.”

“Andersen in Armenia ha dimostrato una crescita notevole e un impegno incrollabile nel fornire i servizi migliori della categoria durante il periodo di collaborazione”, ha dichiarato il Presidente di Andersen Global e CEO di Andersen Mark L. Vorsatz. “Il loro passaggio a studio associato rafforza la nostra presenza nella regione e amplifica la nostra capacità di offrire soluzioni integrate e transfrontaliere ai clienti”.

Andersen Global è un’associazione internazionale di studi associati indipendenti e giuridicamente separati, composti da professionisti del settore fiscale, legale e valutativo di tutto il mondo. Fondata nel 2013 dalla società statunitense Andersen Tax LLC, Andersen Global conta oggi più di 17.000 professionisti in tutto il mondo ed è presente in oltre 475 località con i suoi studi associati e le società con cui collabora.

Il testo originale del presente annuncio, redatto nella lingua di partenza, è la versione ufficiale che fa fede. Le traduzioni sono offerte unicamente per comodità del lettore e devono rinviare al testo in lingua originale, che è l’unico giuridicamente valido.

Megan Tsuei
Andersen Global
415-764-2700

NAGORNO-KARABAKH, LA GUERRA DIMENTICATA (Glistatigenerali 16.09.24)

Lo chiamavano un “conflitto congelato” e come il gelo si è dissolto, un’onda di piena della Storia che ha cancellato decenni di calma inquieta, piccole incursioni, minacce, patti fragili. È avvenuto il 19 settembre 2023. La dissoluzione della repubblica de facto del Nagorno-Karabakh è stata rapida, anche a scomparire dalle pagine dei giornali. Ma un anno dopo, che ne è stato dei profughi armeni di Artsakh?

Tragici disgeli

Le radici di questa catastrofe affondano nella storia dell’Unione Sovietica, o meglio nella fine della stessa Unione. Nel 1991, mentre il gigante dell’Est si sgretola, un fazzoletto di terra di appena 4.400 chilometri quadrati si dichiara indipendente da uno di questi ex Stati satellite del Cremlino, l’Azerbaijan. Il nome di questa piccola regione secessionista è Nagorno Karabakh, un’area a maggioranza armena. Scoppiò quindi la prima guerra tra Nagorno Karabakh e la giovane repubblica azera che portò all’indipendenza della Repubblica dell’Artsakh, altro nome del Nagorno Karabakh. Nel conflitto morirono 30mila persone, senza contare le vittime, sia azere che armene, dei pogrom che si verificarono da una parte e dall’altra nei mesi precedenti e successivi alla guerra.

Per i due decenni successivi, fino al 2020, il Nagorno Karabakh è uno Stato irreale che infatti gran parte della comunità internazionale non riconosce. L’Armenia lo finanzia da vicino, così come da lontano la diaspora armena nel mondo e i suoi mecenati mandano aiuti e sovvenzioni. Tra questi il milionario russo-armeno Levon Hajrapetjan, morto nel 2017 in una prigione per detenuti politici in Mordovia, Russia. Nelle città principali come la capitale Stepanakert (oggi ribattezzata dagli azeri Khankendi) si respira benessere. Basta però spostarsi al di fuori della capitale, verso i territori annessi ancora sotto il tiro dell’esercito azero, per capire che la situazione è tutt’altro che pacifica. Gli abitanti dell’Artsakh se ne accorgono nel 2020, quando l’enclave viene nuovamente attaccata. In 44 giorni si consuma una guerra lampo, un avvertimento da parte dell’Azerbaijan: nessuno, in Artsakh, è davvero al sicuro. Alcuni cominciano già da allora a emigrare verso l’Armenia o la Russia, altri restano. Quello che segue, dopo il cessate il fuoco promosso dalla Russia e firmato il 9 novembre 2020, è un triennio di schermaglie e incidenti di frontiera. Secondo l’organizzazione internazionale International Crisis Group dal cessate il fuoco al 16 settembre 2023 ci sono 395 morti tra i soldati armeni, mentre i feriti ammontano a 669. Sono invece 53 i civili uccisi.

Poi, è il 19 settembre 2023. L’aggressione dell’Azerbaijan cancella l’Artsakh dalle mappe geografiche. Non è un modo di dire: immagini satellitari e studi, come quello del Centro Europeo di Diritto e Giustizia, testimoniano la distruzione sistematica messa in atto dall’Azerbaijan. Che siano tombe o monumenti, i bulldozer di Baku cancellano l’ultima cosa rimasta del Nagorno-Karabakh: la memoria.

Il risveglio trent’anni dopo

Quando con l’offensiva azera il sogno del Nagorno Karabakh si conclude, per 120 mila persone inizia un incubo. Sia gli armeni di Yerevan che i nuovi profughi di Stepanarekh sono scioccati, ma in modo diverso. Tra loro serpeggia un sentimento ambivalente, una sensazione che oggi rende ancora più difficile l’integrazione. «I profughi lamentano di essere stati abbandonati, gli armeni della repubblica si chiedono “abbiamo davvero sostenuto queste persone per 33 anni, con tanti sacrifici, per nulla?”» spiega Arsen Igityan, responsabile delle comunicazioni del sindacato dei dipendenti pubblici armeni USLGPSEA, parlando dei sentimenti che dividono gli armeni dai loro “fratelli” profughi della guerra.

Quella che all’inizio sembrava loro una guerra come tante, come già c’erano state nel 1991, nel 2016 e nel 2020, si è trasformata in un incubo per migliaia di sfollati che hanno perso tutto e si trovano ora senza prospettive in uno stato, l’Armenia, già di per sé fragile. Certo, è comunque uno dei Paesi più prosperi dell’area. Con una popolazione di 2,9 milioni di persone e un prodotto interno lordo di 19,5 miliardi di dollari nel 2023, lo stato dell’economia armena è migliorato anche dopo l’invasione russa dell’Ucraina, con un balzo in avanti dell’11% del PIL. Un esito non scontato considerando che la Russia è non solo storico protettore, ma anche alleato commerciale chiave dell’Armenia. Eppure in questo Stato del Caucaso meridionale la disoccupazione si è sostanzialmente stabilizzata all’8.6% e il lavoro nero dilaga. Problemi non troppo diversi da quelli italiani: «I settori più vulnerabili sono l’agricoltura e i servizi, ad esempio la ristorazione e il delivery. Qui la maggior parte dei posti di lavoro sono informali, e gli abusi sono difficili da censire e neutralizzare. Uno dei problemi più gravi – continua – è la mancanza di ispezioni. Non abbiamo un vero e proprio istituto per le ispezioni, e la legislazione attuale lega le mani agli uffici competenti che spesso si trovano a non poter far nulla nemmeno volendo, a causa di norme ingarbugliate e ostiche». In molti casi, nemmeno con la presenza di una segnalazione diretta a uno degli uffici preposti si riesce ad ottenere qualcosa. «Per legge – spiega – le associazioni si trovano costrette nella posizione di agire solo in presenza di denuncia scritta di una violazione»

Convivenza difficile

L’Armenia non è solo il rifugio degli abitanti del Nagorno Karabakh, infatti come spiega Igityan «Negli ultimi anni c’è stato anche l’esodo dei profughi della guerra in Siria, e dei russi che scappano per timore di essere coscritti nella guerra in Ucraina. I Siriani tutto sommato non hanno trovato un ambiente ostile anzi, sono accolti abbastanza bene e sono ben integrati». Nel 2022 i rifugiati siriani erano 4.855, mentre nel 2023 c’è stato un exploit di richiedenti asilo da Iraq, Iran e Ucraina. Anche i russi in fuga dalla coscrizione riparano a Yerevan: secondo le autorità armene già all’inizio della guerra, a febbraio 2022, erano almeno 40mila, più 12 mila bielorussi. Entrare in Armenia, d’altra parte, ha reso alcuni ingressi più semplici anche se non sempre legali. «Negli ultimi due anni – spiega Arsen Igityan – la liberalizzazione dei visti decisa dal governo ha portato altre nazionalità, che prima non costituivano fenomeni migratori rilevanti, a tentare di stabilirsi in Armenia in cerca di migliori opportunità. Principalmente da Stati dell’Asia, come India e Bangladesh. Vengono raggirati da passeurs che li fanno entrare con visti turistici e li lasciano nella rete dell’occupazione informale, con tutte le situazioni di abbandono e degrado sociale che ne conseguono».

E gli armeni del Nagorno Karabakh? Come sono stati accolti? «Dall’inizio della crisi a settembre ne sono arrivati almeno 120mila, ma solo 9.500 sono regolarmente assunti e lavorano: 7mila nel settore privato e 2.500 circa in quello pubblico». Questo nonostante il governo abbia immediatamente stanziato misure e sussidi “patriottici”: da sostegni mensili a “corsie preferenziali” per l’inserimento nel lavoro presso le strutture pubbliche. Il sospetto è che una percentuale maggiore sia impiegata nei settori dove il lavoro nero è più diffuso, ad esempio nei trasporti (come taxisti) o nel delivery. «Non hanno problemi di visto come altri, ma la situazione è comunque tesa. Qui trovano salari più bassi di quelli che si aspettavano, credono che il governo non abbia fatto e non faccia abbastanza per loro e si sentono poco accolti. Si sentono abbandonati anche dalla comunità internazionale, si chiedono “Perché per la Palestina c’è tanto rumore, e noi siamo stati dimenticati?”». Un’altra ragione per numeri così bassi di impiego tra i rifugiati del Nagorno Karabakh potrebbe anche essere quella più semplice: molti se ne sono già andati. «Circa 36 mila persone potrebbero già essere emigrate, so che alcuni di loro sono andati in Russia, anche se potrebbe esserci il pericolo di essere arruolati per la guerra in Ucraina. Ho chiesto a chi è tornato se non è rischioso, ma hanno risposto che lì ci sono migliori opportunità» racconta Igityan.

Alleanze e repressione

La Russia, un tempo, era considerata la grande amica degli armeni, non solo per motivi economici ma anche culturali. Dopo la disfatta dell’Artsakh, però, qualcosa sta cambiando. L’indolenza di Mosca ha fatto sentire traditi gli armeni, che vedono il quadro delle alleanze storiche cambiare. Per alcuni, è uno shock che affonda le radici nella Storia delle persecuzioni contro gli armeni. «Molti Paesi europei non hanno protestato eccessivamente per l’aggressione azera perché hanno interesse a non creare tensioni. Ad esempio perché beneficiano del gas naturale azero, soprattutto dall’inizio della guerra in Ucraina» spiega Igityan. Tra questi l’Italia e la Grecia, Stati di approdo del grande condotto TAP che porta il gnl da Baku all’Europa. «Quando spiego ad alcuni armeni che la Grecia compra il gas dall’Azerbaijan, sono scioccati. Non possono credere che i greci li “tradiscano” così».

Dall’altra parte del confine, intanto, chi protesta contro la guerra viene arrestato e torturato. Secondo diverse fonti sono almeno 20 gli attivisti brutalmente arrestati in Azerbaijan per aver criticato la guerra, con l’accusa di “attività terroristiche e sediziose”. Molti di loro hanno subito minacce e torture mentre erano in stato di fermo. Stranamente, ma non troppo, alcuni di loro sono anche figure rilevanti dei gruppi sindacali azeri, come Afiaddin Mammadov, leader del Tavolo dei Lavoratori del Congresso dei Sindacati e già in rapporti tesi con le autorità per questioni legate alla sua attività sindacale. Anche attivisti per l’ambiente, i diritti delle donne e i diritti civili sono nel mirino della repressione del presidente Ilham Aliyev, che di fatto ha instaurato un’autocrazia ereditaria (era figlio del precedente presidente Heydar). Se il sogno indipendentista dell’Artsakh è finito, l’incubo dei dissidenti azeri sembra non avere fine.

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Vino, Muradyan (VWFA): in Armenia in ultimi 5 anni da 25 a 150 Cantine (Askanews 16.09.24)

erevan (Armenia), 16 set. (askanews) – “Questa è la prima importante conferenza sul vino e sull’enoturismo che si tiene in Armenia, e siamo davvero contenti perché per noi è una grande opportunità per mostrare oltre all’enologia armena, anche che cos’è questo Paese e far conoscere il nostro ricco patrimonio e la nostra storia. L’Armenia ha un enorme potenziale perché abbiamo tanti territori vocati alla viticoltura. Nel 2018 c’erano solo 25 aziende, ora ne abbiamo più di 150, con una crescita incredibile negli ultimi cinque anni”. Lo ha detto ad askanews Zaruhi Muradyan, direttrice esecutiva della “Vine and Wine Foundation of Armenia” (VWFA), a margine dell’ottava Conferenza globale sul turismo del vino promossa a Yerevan dall’organizzazione del turismo delle Nazioni Unite (UN Tourism).

Fondata nel 2016, la “Vine and Wine Foundation of Armenia” è un’organismo statale che oggi associa 55 Cantine e si dedica principalmente alla promozione del comparto. “Il nostro lavoro è quello di sviluppare il settore vitivinicolo, capendo esattamente il potenziale dei nostri vitigni autoctoni per la vinificazione” racconta Muradyan, spiegando che “inoltre, stiamo cercando di aiutare i produttori a definire uno standard per determinare cosa significa ‘vino armeno’. Il settore sta crescendo davvero velocemente, anche grazie a molti consulenti internazionali (enologi, agronomi ed enotecnici italiani, argentini e francesi, tra cui il celebre Michel Rolland, ndr) che ci hanno supportato nell’implementazione delle nuove tecnologie nelle Cantine – prosegue – e allo stesso tempo, anche il turismo sta crescendo, e quindi questa conferenza è davvero una bella opportunità per fare rete, incontrare le persone e condividere esperienze”.

In Armenia oggi vivono circa 2,7 milioni di persone, contro gli otto milioni che vivono all’estero a causa della diaspora a seguito del genocidio perpetrato tra il 1890 e il 1916 dall’Impero ottomano, che causò complessivamente circa 1,5 milioni di morti. Da sempre, gli armeni all’estero aiutano con le rimesse i propri parenti in Patria e molti di quelli che hanno avuto successo sostengono il Paese e investono in Armenia. “Negli ultimi anni molti stanno investendo soprattutto nel settore del vino – evidenzia Muradyan – ed è grazie a loro se oggi abbiamo Cantine moderne e un settore professionale che punta sulla qualità”. Tra gli investitori, non può non essere citato anche il produttore svizzero Jakob Shuler che ad Areni ha messo in piedi la Noa Wines.

La vigna armena si aggira complessivamente su circa 16mila ettari, divisi in cinque zone principali: Armavir (900-1100 metri slm), Ararat (800-1000 mt.), Aragatsotn (900-1400 mt), Tavush (400-1000 mt.) e la più rinomata Vayots Dzor (1.000-1.800 mt.). Sono 31 le varietà autoctone coltivate e vinificate oggi, le più note delle quali sono Sev Areni, Voskehat, Kangoun, Haghtanak, Milagh, Lalvari, Khatoun Kharji e Khndoghni.

Nonostante nel villaggio di Areni, nella provincia di Vayots Dzor, sia stata scoperta “la più antica cantina vinicola al mondo2, risalente indicativamente al 4000 a.C., una vera “industria” del vino in Armenia c’è da appena una decina di anni e oggi la produzione si attesta su circa 13 milioni di bottiglie, con l’export che tocca una quarantina di Paesi ma che si concentra per circa l’80% in Russia. Delle 111 Cantine registrate nel 2021, 46 producevano meno di cinquemila bottiglie, 29 tra cinquemila e cinquantamila, e solo cinque oltre il milione. Nonostante tutto questo, diversi produttori e produttrici sono sulla strada giusta e alcuni vini interessanti sono già presenti sul mercato e hanno ottenuto riconoscimenti internazionali. Malgrado il Paese sia storicamente legato alla produzione del suo celebre Brandy-Cognac e al consumo della più economica vodka, il consumo pro capite di vino è passato dai due litri del 2016 ai 4,2 del 2022, anche grazie alla spinta dei giovani della capitale dove adesso sorgono enoteche-wine bar molto di moda. “Per coinvolgere maggiormente le giovani generazioni – continua Muradyan parlando con askanews – molte delle nostre aziende partecipano ad iniziative dedicate, come ad esempio manifestazioni tipo ‘Vino e jazz’ o ‘Vino e scacchi’ (il gioco più diffuso e amato in Armenia, ndr).

In questo contesto, parlare di enoturismo è dunque più da intendersi ancora come ulteriore occasione per la scoperta del territorio più che del vino, che in generale sembra ancora alla ricerca di un’identità precisa, ma che potenzialmente può riservare ben più di piacevoli sorprese, grazie al suo ricco patrimonio di vitigni autoctoni (quasi tutti a piede franco e con piante che hanno anche di 200 anni) e ad un territorio in cui la vitis vinifera si coltiva in suoli molto diversi (seppur quello vulcanico appaia il più determinante) fino a quasi 2000 metri, possibile soluzione al cambiamento climatico. “In questi ultimi anni le aziende hanno iniziato a credere di più nell’enoturismo – prosegue Muradyan – e spero che i produttori capiscano che è un modo molto interessante di presentare i propri vini e raccontare le tradizioni e la storia dei loro territori, oltre che di fornire ai visitatori un’offerta al passo con i tempi”.

Alla domanda su quale sia l’ostacolo più rilevante per lo sviluppo del vino in Armenia, la risposta della direttrice del VWFA fa gelare il sangue e dà da pensare: “La guerra”. Già perché qui l’ultimo conflitto risale appena ad un anno fa, nel 2023, quando l’esercito azero riconquistò il Nagorno Karabakh costringendo, dopo un lungo assedio, circa 120mila persone della comunità armena locale a fuggire. “La guerra è una preoccupazione costante anche per la viticoltura, perché molti vigneti si trovano vicino ai confini e quindi è molto pericoloso anche solo prendersene cura, oltre all’incognita di non sapere con certezza se potremo mantenerli in futuro” dice, rimarcando che “però siamo forti, manteniamo lo spirito giusto e continuiamo a fare del nostro meglio, e siamo certi che i nostri progetti avranno successo”.

“Sono pochi i prodotti che possono contribuire all’immagine di un Paese e a farlo conoscere: abbiamo dimostrato di saper produrre un ottimo brandy che è diventato leggendario, perché non possiamo farlo con il vino, se abbiamo questa tradizione millenaria alle spalle?” chiosa Muradyan ad askanews, sottolineando con grande orgoglio che “questa è oggi una priorità per il nostro governo, che sostiene economicamente e politicamente la Fondazione. E insieme con il governo, c’è anche il settore privato: lavoriamo tutti insieme ad un’unica missione, quella di far conoscere il vino armeno nel mondo”.

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Carvao (UNWTO): enoturismo opportunità per sviluppare zone rurali

Tigran Hamasyan The Bird Of A Thousand Voices (Ondarock 15.09.24)

Un doppio album, che accompagna: una produzione teatrale, un’installazione di arte cinetica, un videogioco browser-based, svariati filmati. La fonte d’ispirazione di questo progetto transmediale che vede protagonista la musica di Tigran Hamasyan è un’antica fiaba armena, “Hazaran Blbul” (“L’usignolo di Hazaran”), che il pianista e compositore descrive come “una storia potente, di proporzioni epiche”. Realizzata in combutta con l’artista visivo olandese Ruben Van Leer, “A Bird Of A Thousand Voices” è un’opera che non sarà, forse, catalogabile come progressive rock punto-e-basta (sempre che “punto-e-basta” sia un’espressione che possa davvero abbinarsi all’indole del genere), ma certamente condivide con il filone una significativa dose di ambiziosità.

Rinviando gli interessati all’esperienza interattiva del piccolo platform game (pochi minuti di durata), i più fortunati alla partecipazione alle performance teatrali (finora si ha notizia soltanto di una première ad Amsterdam lo scorso 8 giugno), e tutti gli altri all’esplorazione del ricco sito web dedicato al progetto, conviene qui dedicarsi alla sola componente musicale – il che, comunque, non è poco, visto che il minutaggio complessivo dell’album supera l’ora e mezza.
Chi già conosce l’estro camaleontico del tastierista non si stupirà della varietà stilistica e dinamica del disco. Chi invece affrontasse questo tour de force come prima esperienza con la sua musica sia avvertito: data la mole, non è detto si tratti di una buona idea – ma certamente, anche ma non solo grazie alla mole, l’album è il migliore compendio sulla piazza della poliedrica visione musicale di Tigran Hamasyan.

Brano dopo brano, si incontrano dunque tutti i molteplici mondi musicali evocati dal trentasettenne lungo la sua articolata carriera. Ecco dunque, fin dall’iniziale “The Kingdom”, i torrenziali tempi dispari e i poliritmi portati in dote dal batterista dei Kneebody e storico collaboratore Nate Wood, ed ecco anche gli elementi folklorici e corali legati alla tradizione armena, in bella vista grazie ai contributi vocali dell’armeno-statunitense Areni Agbabian.
In pezzi come “The Quest Begins” o “The Demon Of Akn Atak”, fan di Area e Meshuggah potranno come sempre andare in visibilio grazie alle gragnuole di scale mediorientali e metri aksak, contrappuntate da bordate djent dove i tuoni sulle ottave basse del piano prendono il posto consuetamente affibbiato agli shred di chitarroni a sette/otto corde. E negli episodi più riflessivi (“The Path Of No Return”, “Flaming Horse And The Thunderbolt Sword”, “Sing Me A Song When You Will Be At The Place Where All Is Bliss”), l’indole più ambientale di Hamasyan emerge con i suoi arpeggi piovigginosi, i fischiettii dimessi, il mood umbratile già apprezzato in dischi “liturgici” come “Luys i Luso” o affini al gusto Ecm come “Atmosphères”.

Soprattutto, però, “A Bird Of A Thousand Voices” svetta per la sua capacità di fondere in modo organico tutti gli elementi dello spettro del tastierista, e di arricchirne il linguaggio con sfumature nuove. Fra queste, la più sorprendente – ma, a ben vedere, assai pertinente – è data dagli svolazzi sintetici di orientamento videogame music: già comparsa, e con un discreto risalto, anche in alcuni degli album precedenti, la componente elettronica è qui portata in primissimo piano, con suoni prevalentemente monofonici che rimandano tanto ai cari, vecchi assolazzi analogici anni Settanta quanto alle gioiose finezze melodiche della chiptune, capaci di arricchire l’arazzo senza mai sovrastarlo.
Nella maggior parte dei casi, questo nuovo elemento appare perfettamente integrato nella tavolozza già acquisita: un colore in più, che aggiunge una dimensione alla dinamica vertiginosa di “The Quest Begins” e all’ottovolante di “Red, White And Black Words”, forse l’episodio più funambolico del disco.
Altrove, le possibilità enigmatiche delle texture elettroniche si combinano al tocco più jazzistico consentito dal pianismo di Hamasyan, definendo di volta in volta incanti ibridi che durano il tempo di un brano: si vedano “The Curse (Blood Of An Innocent Is Spilled)”, con violino e basso bitcrushed, o la quasi conclusiva “The Eternal Birds Sings And The Garden Blooms Again”, in cui il canto di Agbabian incontra quello del pianista, sbalestranti invenzioni ritmiche e vocalizzi elettronici dal corpo diafano e ingannevole.

Nell’attesa, non troppo fiduciosa, che la rappresentazione dal vivo del progetto possa trovare qualche venue che la ospiti nei paraggi, non c’è insomma di che disperarsi: non saranno forse mille, ma le innumerevoli voci dell’avis rara Tigran Hamasyan sono già tutte contenute nella versione su disco.

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Una quercia nel giardino della Pertusati (Il Giorno 15.09.24)

Una quercia armena sostituisce un cedro malato nel giardino della rsa Pertusati, simbolo di resistenza e memoria delle vittime cristiane. La cerimonia omaggia monsignor Pertusati e San Gerolamo Emiliani.

Una quercia armenia da ieri si trova nel giardino della rsa Pertusati. È stata messa a dimora al termine della ricorrenza della Santa Croce in sostituzione di un cedro del Libano ammalorato. “Abbiamo scelto un’essenza simbolo della resistenza, della forza e di tutti coloro che non rinunciano ai loro valori – ha spiegato il direttore generale di Asp Maurizio Niutta –. La pianta, donata da un cittadino, ricorda il giardino dei giusti inaugurato a Gyuri nella parte nord-occidentale dell’Armenia, in memoria delle tante vittime cristiane. Da un’essenza proveniente da un Paese che cerca la pace, a un’altra simbolo della nostra forza”. La cerimonia si è inserita in una giornata della Asp dedicata a monsignor Francesco Pertusati, che ha lasciato le sue sostanze per gli anziani della città, mentre il centro polivalente è dedicato a San Gerolamo Emiliani, che portò a Pavia il primo orfanotrofio e l’istituto Santa Croce sorge dove si trovava la chiesa.

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GEOPOLITICAL’Armenia offre un accordo di pace all’Azerbaigian (Renovatio21 14.09.24)

Il governo armeno si è offerto di firmare un accordo di pace di 16 articoli con l’Azerbaigian, ha annunciato mercoledì il primo ministro Nikol Pashinyan durante una sessione parlamentare.

Secondo il leader armeno, Yerevan e Baku non possono attualmente firmare un trattato che risolverebbe tutti i problemi tra i due paesi. Invece, ha proposto di firmare un accordo che coprirebbe aree su cui le due parti hanno già concordato.

L’offerta di Pashinyan arriva dopo mesi di colloqui tra Armenia e Azerbaigian in seguito all’escalation del conflitto nella regione del Nagorno-Karabakh e al ritiro armeno da essa l’anno scorso. Le due parti sono state in disaccordo per decenni sul controllo del territorio conteso e sono state coinvolte in una serie di sanguinosi conflitti per il suo controllo.

Prevalentemente popolata da armeni etnici, la regione era in precedenza sotto il controllo de facto di Yerevan. Tuttavia, nel 2023, Baku lanciò un’offensiva su larga scala e prese il controllo del territorio, sciogliendo in seguito l’autoproclamata Repubblica del Nagorno Karabakh. La maggior parte degli armeni che vivevano nella regione fuggì in seguito.

Da allora, Yerevan e Baku hanno tentato di raggiungere un accordo di pace conclusivo.

Durante una visita a Baku il mese scorso, il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che Mosca è pronta a svolgere un ruolo nel contribuire a risolvere l’annosa faida tra i due Paesi.

«Se potessimo fare qualcosa per facilitare la firma di un accordo di pace tra Azerbaigian e Armenia, per avvicinare la questione alla delimitazione e alla demarcazione del confine, per sbloccare… la logistica e l’economia, saremmo molto felici di farlo», ha detto il leader russo ai giornalisti.

Come riportato da Renovatio 21, in questi mesi tra i due Paesi sono continuate le tensioni.

Come riportato da Renovatio 21, l’esodo degli armeni dell’Artsakh (così chiamano l’area del Nagorno-Karabakh) a seguito dell’invasione nell’énclave delle forze azere arriverebbe a contare 100 mila persone, in una zona dove la popolazione armena ha un numero di poco superiore. Le immagini del corridoio di Lachin intasato da vetture di famiglie che fuggono sono a dir poco impressionanti.

Il primo ministro Pashinyan, cedendo alle lusinghe dell’Ovest, ha irritato giocoforza la Russia, che è l’unico Paese che si era impegnato davvero per la pace nell’area. Mosca non può aver preso bene né le esercitazioni congiunte con i militari americani (specie considerando che Yerevan aderisce al CSTO, il «Patto di Varsavia» dei Paesi ex sovietici) né l’adesione dell’Armenia alla Corte Penale Internazionale, che vuole processare Putin.

Bisogna aggiungere anche i rapporti dell’Occidente con Baku, considerato un fornitore energetico affidabile e ora piuttosto necessario all’Europa privata del gas russo. L’Azerbaigian è una delle ex repubbliche sovietiche ritenute più strategicamente vicine all’Occidente: si consideri inoltre le frizioni con l’Iran e quindi il ruolo nel contenimento degli Ayatollah.

Il presidente iraniano Ebrahim Raisi è morto in un incidente di elicottero a seguito di un incontro al confine con il presidente azero Aliyev.

Dietro all’Azerbaigian vi è l’appoggio sfacciato della Turchia e, si dice, quello militare-tecnologico di Israele. È stato detto che la Turchia avrebbe impiegato nell’area migliaia di mercenari siriani ISIS per combattere contro i cristiani armeni.

Come riportato da Renovatio 21, il clan Erdogan farebbe affari milionari in Nagorno-Karabakh e la Turchia, come noto, è già stata accusata di genocidio per il massacro degli armeni ad inizio Novecento.

Baku invece accusa la Francia di essere responsabile dei nuovi conflitti con l’Armenia. Il dissidio tra i due Paesi è arrivato al punto che il ministro degli interni di Parigi ha accusato l’Azerbaigian di aver avuto un ruolo nelle recenti rivolte in Nuova Caledonia.

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One Caucasus, il Festival che promuove l’unità regionale aree Georgia (Osservatorio Balcani e Caucaso 13.09.24)

Dal 22 al 25 agosto 2024, il One Caucasus Festival  si è tenuto nuovamente nella regione di Kvemo Kartli in Georgia, e più precisamente nel comune di Marneuli. La regione è conosciuta per la popolazione in maggioranza di etnia azera e per piccole sacche di armeni e georgiani, alcuni dei quali coabitano negli stessi villaggi e città. Anche le strade principali dall’Armenia e dall’Azerbaijan verso la capitale georgiana attraversano questa regione.

Situato vicino al confine con l’Armenia e l’Azerbaijan, One Caucasus promuove la collaborazione fra tutti e tre i gruppi etnici nell’intera regione e con i loro coetanei stranieri. Sebbene vi siano anche attività educative e artistiche nei villaggi circostanti, nonché un budget partecipativo  implementato congiuntamente con il comune, il festival è meglio conosciuto per le sue giornate di musica che coinvolgono artisti provenienti da Armenia, Azerbaijan, Georgia e oltre.

Quest’anno segna anche il decimo anniversario dell’evento nonostante gli evidenti ostacoli emersi da quando i tre paesi hanno dichiarato l’indipendenza nel 1991. In particolare, nonostante il conflitto tra Armenia e Azerbaijan, il festival ha dimostrato di essere uno dei pochi progetti che riunisce i cittadini. Sebbene gli armeni, gli azeri e i residenti georgiani di Kvemo Kartli siano abituati all’interazione quotidiana, lo stesso non si può dire delle loro controparti in Armenia e Azerbaijan. A One Caucasus, tuttavia, ci sono spesso anche collaborazioni musicali tra artisti di Yerevan e Baku.

Quest’anno due armeni del Karabakh, uno reduce dall’esodo di oltre 100.000 persone lo scorso settembre, erano fra i sette volontari provenienti dall’Armenia.

Sfortunatamente, a parte alcuni rari esempi, gli attuali progetti di costruzione della pace coinvolgono spesso attivisti o accademici e ricercatori politicamente partigiani dei due paesi in conflitto in capitali straniere, a volte in segreto, limitando così la loro portata e rilevanza per le società stesse. Ciò è stato particolarmente vero dopo la fine dell’iniziativa transfrontaliera realizzata a Tekali da parte del defunto pacificatore armeno Georgi Vanyan.

Finora, One Caucasus si è fermato solo durante la pandemia di COVID-19. Imperterrito, un piccolo gruppo di volontari e musicisti ha invece accompagnato in ambulanza i residenti a vaccinarsi. Sebbene rimanga un piccolo evento, la sua inclusività lo rende comunque unico nella regione.

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Usa-Armenia, Blinken sente Pashinyan: focus su una “pace duratura e dignitosa” con l’Azerbaigian (AgenziaNova 14.09.24)

Il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, ha parlato ieri con il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, e ha ribadito l’importanza di una pace duratura e dignitosa tra Armenia e Azerbaigian, accogliendo con favore i recenti progressi tra le parti, tra cui un accordo su una regolamentazione della delimitazione dei confini.

Lo riferisce una nota del portavoce del dipartimento di Stato, Matthew Miller. Blinken e Pashinyan hanno discusso anche dell’espansione delle relazioni bilaterali, in particolare della cooperazione in materia di energia, commercio e investimenti e istruzione. Blinken ha ribadito l’impegno degli Stati Uniti na sostenere un’Armenia prospera, democratica e indipendente a beneficio del popolo armeno e della più ampia regione del Caucaso.