L’Europarlamento tra ipocrisia e giri di valzer (il Roma.net 26.11.24)

Con notevole ritardo rispetto agli eventi che hanno da sempre caratterizzato la politica aggressiva dell’Azerbaijan nei confronti dei suoi vicini Armeni e della enclave armena del Nagorno – Karabakh, il Parlamento Europeo ha lanciato nelle scorse settimane e per la prima volta una denuncia nei confronti del regime azero.

Il governo di Baku è stato finalmente accusato di non rispettare i diritti umani e la risoluzione adottata a maggioranza dagli europarlamentari sollecita l’Unione Europea a riesaminare le caratteristiche della sua significativa dipendenza energetica da quello Stato.

Si tratta di una presa di posizione confusa e tardiva, oltre che contraddittoria e ridicola, assunta senza valutare e soppesare alcunché, in linea perfetta, quindi, con tantissime altre risoluzioni dell’Europarlamento.

Che la Repubblica dell’Azerbaijan sia un regime sostanzialmente e strutturalmente dittatoriale è un dato di fatto che non può essere cancellato dal ricorso ad alcuni aspetti formali di carattere parlamentare – vero e proprio specchietto per le allodole – e che sia da sempre un regime repressivo, sin dalla sua nascita con l’implosione della vecchia Unione Sovietica, è sotto gli occhi di tutti.

Ciò che fa riflettere è questa improvvisa presa di coscienza dell’Europarlamento. Ricordiamo, infatti, che la dipendenza energetica dell’Europa dall’Azerbaijan è stata notevolmente incrementata nel tempo proprio grazie ai fondi dell’Unione Europea e alla costruzione del gasdotto Tap/Tanap e con l’inizio della crisi russo-ucraina del febbraio del 2022 ha assunto caratteristiche e dimensioni rilevantissime, con l’obiettivo di ridurre la dipendenza europea dal gas russo.

L’Azerbaijan ha insomma lucrato e sta lucrando tantissimo da questo rinnovato e potenziato rapporto commerciale con l’Europa e su questo ha, a sua volta, investito moltissimo al fine di consolidare sempre più la sua condizione di partner privilegiato dell’UE. Lo ha fatto tramite una politica di “lobbying” molto forte negli ambienti politici, economici e finanziari di Bruxelles e attraverso un’intensa e continua attività di “soft power” e di potere persuasivo nei confronti delle istituzioni europee, di molte personalità politiche dell’Unione e di tantissimi eurodeputati.

E proprio in quest’ambito non sono mancati anche alcuni casi di corruzione, miranti ad ammorbidire e facilitare il sistema relazionale con il regime azero che è sempre stato fortemente deficitario nel campo del rispetto dei diritti umani e della libertà di espressione.

Ma ora, con l’ultima recentissima guerra contro l’Armenia, la conquista definitiva dell’“enclave” armena del Nagorno-Karabakh da parte dell’esercito azero e il conseguente drammatico esodo forzato di tutta la popolazione armena di quel territorio conteso, l’Azerbaijan ha potuto chiudere vittoriosamente il suo straziante e triste capitolo di guerre e di soprusi nei confronti della minoranza armena, complice il silenzio ipocrita e interessato dell’Europa.

Ed ecco che lo scenario cambia improvvisamente. Un Azerbaijan sempre più vittorioso sul campo e politicamente tracotante, forte del suo tener in pugno l’Europache continua ad avere bisogno del gas azero, essendosi volutamente preclusa quello russo, ha raggiunto oramai tutti i suoi obiettivi politici per quanto concerne i rapporti con Bruxelles e non ha più bisogno di persuadere, di blandire di compiacere e di mostrarsi prodigo per farsi accettare e per far dimenticare il suo deficit in materia di diritti umani.

E proprio ora, guarda un po’, gli eurodeputati si ricordano finalmente che in quel paese la libertà e la democrazia non sono cose scontate e che c’è qualcosa che non va e chiedono di fare marcia indietro. Ma finora dov’erano? Su Marte? L’ipocrisia e il lento suicidio dell’Unione Europea continuano. Non si tratta di dissonanza cognitiva, ma di mala fede mista a stupidaggine.

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Enoturismo in Armenia tra vitigni antichi e paesaggi suggestivi (Italiatavola 26.11.24)

Con una storia millenaria e un legame profondo con la viticoltura, l’Armenia sta vivendo una vera e propria rinascita nel settore vinicolo e del turismo del vino. Un tempo produttore di brandy per diktat sovietico, oggi il Paese guarda al futuro con un ambizioso programma di sviluppo, che punta sulla valorizzazione dei vitigni autoctoni, sull’enoturismo e su nuove infrastrutture per i visitatori.

Enoturismo in Armenia tra vitigni antichi e paesaggi suggestivi

In Armenia i vigneti con sullo sfondo l’Ararat

 

Le radici antiche del vino armeno

Il legame dell’Armenia con il vino risale a oltre 6mila anni fa. Nella grotta Areni 1sito archeologico scoperto nel 2007 ai piedi della gola di Noravank, provincia di Vayots Dzor, gli studiosi hanno portato alla luce una cantina antichissima, risalente a 6.100 anni fa, con strutture per la fermentazione e la conservazione del vino. In questo territorio, dove il racconto biblico narra che Noè uscito dall’Arca dopo il Diluvio universale piantò la prima vite, la viticoltura ha una valenza storica e culturale straordinaria.

Enoturismo in Armenia tra vitigni antichi e paesaggi suggestivi

Nella grotta Areni 1, sito archeologico scoperto nel 2007 ai piedi della gola di Noravank, provincia di Vayots Dzor, gli studiosi hanno portato alla luce una cantina antichissima

 

Nell’antichità il vino era la bevanda più usata dalla popolazione armena e sui bassorilievi degli antichi monasteri non mancano mai tralci di vite, uva e calici, mentre nel complesso di Persepolis in Iran si conserva un bassorilievo di armeni che portano il loro famoso vino a re Dario. Visitare il Wine Historical Museum, ospitato nella cantina Armenia Wine, offre un percorso che racconta la storia di questa bevanda attraverso secoli di cultura e tradizione.

Enoturismo in Armenia tra vitigni antichi e paesaggi suggestivi

Coppa Rituale 2300 aC Museo di Storia di Yerevan Armenia

 

Il boom della viticoltura moderna e il ritorno dei vitigni autoctoni

A partire dal 1991, con il crollo dell’Unione Sovietica, l’Armenia ha iniziato a ricostruire la propria identità vinicola. Durante la dominazione sovietica, il Paese era stato, infatti, destinato alla produzione di brandy, con le sue varietà più nobili estirpate per fare spazio al Kangoun, il vitigno destinato a questo distillato. Al vino doveva provvedere la Georgia.

 

Ma con il ripristino dell’autonomia, gli armeni hanno cominciato a reintrodurre antichi vitigni come il Voskehat, a bacca bianca, e l’Areni, simbolo dei rossi armeni, oggi apprezzati non solo a livello locale ma anche internazionale. In Armenia si contano oltre 300 vitigni autoctoni. Attualmente ne sono coltivati principalmente 35, di cui 20 per produrre vino e il resto come uva da tavola, di cui la qualità più diffusa è la kishmisch.

Enoturismo in Armenia tra vitigni antichi e paesaggi suggestivi

L‘Armenia punta a un programma di sviluppo per la valorizzazione dei vitigni autoctoni

 

Un’enorme crescita del settore vitivinicolo

Dalle 25 cantine che si contavano appena sei anni fa, oggi se ne contano ben 150, e se nel 2008 vi erano soltanto 4 etichette oggi i vini armeni sono 430, segnando un’espansione rapidissima, con rossi corposi con 13,5 di gradazione minima e 12% per i bianchi. In un paese che conta 300 giorni di sole l’anno la produzione vinicola in meno di un decennio è passata da 7 a oltre 13 milioni di litri, e i dati non mostrano segni di rallentamento.

Questo sviluppo è stato accompagnato da un aumento dei turisti, con presenze che sono raddoppiate nello stesso periodo, passando da 1,2 milioni di arrivi nel 2014 a 2,3 milioni nel 2023. Quest’anno si prevede di chiudere il 2024 con oltre 3 milioni di arrivi. Un numero importante e un contributo significativo al PIL nazionale.

 

 

L’enoturismo: una nuova frontiera per l’Armenia

L’Armenia sta investendo fortemente nell’enoturismo, una forma di turismo tematico quasi inesistente fino a pochi anni fa. Iniziative governative, come sgravi fiscali e incentivi per le imprese del settore, hanno favorito la nascita di strutture per l’accoglienza dei turisti, la riconversione delle antiche cantine in sale per degustazioni e ristoro. Alcuni piccoli produttori sono impegnati nell’allestimento di aree di accoglienza per camper tra i vigneti, per un’esperienza immersiva e accessibile a tutti.

Enoturismo in Armenia tra vitigni antichi e paesaggi suggestivi

I vigneti a Vayots Dzor

 

La Conferenza internazionale del turismo del vino, tenutasi a Yerevan a settembre 2024 con il supporto dell’Unwto (Organizzazione mondiale del turismo) e la partecipazione di 25 paesi, ha puntato i riflettori su questo settore in forte crescita, attirando investitori e stimolando progetti di marketing territoriale.

La resilienza dell’Armenia tra sfide geopolitiche e cultura del vino

L’Armenia, nonostante le sfide geopolitiche, continua a puntare sull’enoturismo e sulla propria antica tradizione vinicola. Le recenti tensioni con l’Azerbaijan hanno influito sulla vita di molti cittadini, compresi i produttori vinicoli costretti ad abbandonare le loro terre nel Nagorno Karabakh. Tuttavia, al netto delle difficoltà, la produzione vinicola e l’enoturismo sono in continua espansione, e si stima che nei prossimi anni il settore potrà addirittura quintuplicare.

L’attrattiva dei piccoli produttori e l’influenza della diaspora

La produzione vinicola armena è caratterizzata da numerosi piccoli produttori che lavorano con metodi artigianali per creare vini di nicchia e di qualità, richiamando turisti interessati a degustazioni personalizzate e a scoprire vitigni autoctoni.

 

 

Gli investimenti degli armeni della diaspora hanno portato una ventata di innovazione e capitali al settore contribuendo a finanziare l’impianto dei vitigni e la nascita di molte delle nuove aziende vitivinicole, come la cantina Karas, fondata da Edoardo Ernekyan, un armeno già produttore di vino in Argentina, e l’Armenia Wine Company, di proprietà di due imprenditori armeni, che ha iniziato la produzione nel 2009 e nel 2017 l’ha estesa ai vini organici su 82 ettari. La produzione attuale è di 10 milioni di bottiglie l’anno di cui il 60% parte per l’estero, in particolare Russia, Polonia e resto dell’Europa e poi Usa, Cina e Sudamerica. La cantina produce anche 3,5 milioni di bottiglie di brandy. La previsione futura dell’Armenia Wine Company è di estendere la produzione con il vino da messa da distribuire a tutte le chiede dell’Armenia.

  • Karas Wines | Arevadasht Community, Armavir, Armenia Tel +374 10 493000
  • Armenia Wine Company | 3 Bild., 1Dead-end, 30 Street, Sasunik 0223, Armenia | Tel +374 44 802222

Il futuro del vino armeno: tra tradizione e modernità

L’Armenia guarda al futuro con nuove prospettive, sfruttando le sue antiche tradizioni e il recente boom turistico per diventare una meta enoturistica di spicco. Dai vigneti nella valle dell’Ararat ai vini della regione di Vayots Dzor, dove le uve vengono coltivate a 1800 metri di altezza, fino alle cantine moderne e ospitali, i visitatori possono ora vivere un viaggio che affonda le sue radici nella storia di un Paese che, oltre alle sue bellezze naturali, si impegna a riscoprire e a valorizzare il “nettare degli dei” che tanto ha segnato il suo passato.

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L’amore per Matera del regista armeno Atom Egoyan «Grazie a Pasolini ho scoperto questo luogo di magia» (Corriere della Sera 26.11.24)

«La musica è stata una delle mie ossessioni, in un certo senso lo è ancora. È come un calmante, quando suono amo la fisicità del gesto e il fatto di avere il controllo totale di quello che faccio. L’esito è immediato, quando il mio dito colpisce la corda, il suono è puro e diretto e per ottenerlo non devo spiegare niente a nessuno». Racconta una grande passione e allo stesso tempo, in una frase, Atom Egoyan riassume l’estrema fatica del dirigere, mentre mi mostra polpastrelli che ricordano anche la sua formazione di chitarrista classico. Le sue parole descrivono quello sforzo addizionale che occorre per far capire agli attori cos’ha nella mente e per cercare di vederlo concretizzarsi. 64 anni, il regista armeno naturalizzato canadese è stato da poco presidente di giuria della quinta edizione del Matera film Festival, dove ha ricordato Alberto Moravia e il debito che sente di avere con lui. «Quando avevo solo 28 anni e avevo girato il mio secondo film, Black ComedyMoravia mi ha menzionato in un articolo aprendo la strada alla regia dei miei successivi quattro film nel vostro Paese». L’autore di Il dolce domani (candidato all’Oscar per miglior regia e sceneggiatura), Exotica, Ararat e The captive-Scomparsa, si è affermato agli inizi degli anni Novanta ed è diventato un riferimento in tutto il mondo per cinema, teatro e opera lirica. A Matera ha presentato in anteprima nazionale Seven Veils, che racchiude tutti i suoi mondi. La protagonista Amanda Seyfried è una regista teatrale alle prese con l’allestimento di Salomé, dall’opera originale di Richard Strauss basata sul testo di Oscar Wilde. Rimontando l’opera per espresso desiderio del suo regista in un testamento, la donna si trova a rivivere un trauma familiare che credeva di aver sepolto nel passato. Durante una passeggiata esclusiva con 7 fra i Sassi di Matera, in una mattina fresca e soleggiata Egoyan si lascia andare a riflessioni su fede, sguardo maschile, padri e madri e sulla necessità di osservare le cose in un modo nuovo.

Cosa suscita in lei questo luogo?
«Tutto è iniziato con Pasolini e con La passione secondo Matteo. A impressionarmi fu questa ambientazione che sembrava autentica e biblica, sembrava di essere immersi in quel periodo storico. Quindi sono sempre stato curioso di sapere dove fossero state realizzate queste riprese. Non era in una terra biblica, era Matera, da lì il nome di questa città per me è sempre stato associato a un luogo molto mistico in cui il tempo era sospeso».

All’epoca di Pasolini la città non era ancora stata ristrutturata…
«Allora si aveva davvero la sensazione delle persone che vivevano ancora nei sassi, in montagna, e quindi era perfettamente adatto allo spirito del film in cui tutto era così insolito, dall’uso della musica blues alla scelta di Gesù alle bellissime riprese tra la folla. Piuttosto che essere su Gesù, la telecamera si muove come se fosse qualcuno che cerca di vedere, e in ogni momento c’è Matera sullo sfondo».
Mi mostra le foto di Pasolini sul set del film, scattate in questi giorni con il suo smartphone.
«Vede quanto era elegante, Pasolini? Le racconto una storia. Ho visto Time to Die e ho visto naturalmente anche The passion, di Mel Gibson, che ha prodotto uno dei miei film, Felicia’s Journey. È venuto anche a Cannes ed è stato tutto un po’ folle, ma l’ultima cosa di cui abbiamo parlato è stata Matera. Da bambino amavo Jesus Christ Superstar e la storia di Gesù, ma Pasolini in qualche modo ha colto con maggiore radicalità lo spirito della storia».

L'amore per Matera del regista armeno Atom Egoyan «Grazie a Pasolini ho scoperto questo luogo di magia»

Atom Egoyan mentre esamina alcune pitture rupestri sui Sassi di Matera
(Foto Gor Monton)

Cosa rende questo luogo così straordinario, secondo lei?
«Hanno lasciato le montagne circostanti completamente spoglie, in qualsiasi altro posto nel mondo avrebbero costruito edifici ovunque… Invece qui il luogo è spazialmente autentico».

Lei è un uomo di fede?
«Credo fermamente nella vita di Gesù, sento i suoi insegnamenti molto vicini. Ma non ho bisogno di credere a tutti i dettagli dei miracoli, non ho bisogno di prove. Piuttosto credo che veri miracoli siano nati dalla fede».

Cosa intende dire?
«Quando ascolto la musica di Bach, vedo un film come i Il Vangelo secondo Matteo o quando mi trovo in una chiesa o davanti a un’opera architettonica incredibile, faccio esperienza di Dio».

Quindi Dio è una specie di sensazione?
«Una sensazione che i grandi artisti possano trasmettere, rendere disponibile. E penso che il vero miracolo sia avere la visione e il talento per creare queste opere, questo è il miracolo da cui traggo ispirazione».

Con Seven Veils torna su Salomè che aveva già affrontato a teatro con molto successo in tutto il mondo.
«Stiamo parlando ancora della Bibbia, e questa è una delle prime storie di violenza sessuale in cui vediamo questa donna compiere un’azione straordinaria. È chiaro che sua madre Erodiade, moglie di Erode, le dice di chiedere la testa di Giovanni Battista perché lui l’ha insultata. Ma ciò che è affascinante è che nell’opera di Oscar Wilde è chiaro che non è a causa della madre che Salomè sta prendendo la sua decisione, una metafora molto interessante per il nostro periodo storico. Era il 1996 quando ho curato la prima produzione dell’opera, tra i miei film Exotica e Il dolce domani, ed è stata rimessa in scena diverse volte in tutto il mondo. Quando la Canadian Opera Company mi ha detto che l’avrebbero riproposta, ho pensato a come attualizzarla e a rendere l’idea di emancipazione».

Così ha scelto di mettere al centro una regista donna, interpretata da Amanda Seyfried.
«Ci ho pensato per 15 anni, da quando abbiamo lavorato insieme a ChloeFra seduzione e inganno. Ha a che fare con tanti uomini nella sua vita, che siano il fantasma del padre, quello dell’ex amante che ha diretto la produzione originale, l’attuale marito, l’amante che trova, Giovanni Battista, ma anche gli spiriti di Strauss e Oscar Wilde… Quindi naviga in un mare di influenze maschili, ma sta cercando di affermarsi».

La cosa che trovo speciale è il suo personale modo di navigare nello shock e nel trauma, nei suoi film lo fa sempre in modo deciso ma discreto.
«Quello è un fatto di carattere, io sono così. E quando sai di avere forse l’immagine più scioccante di tutte le opere, una donna che bacia e labbra di una testa grondante di sangue, puoi fare un passo indietro, prendere una certa distanza».

Il suo cinema indaga da sempre l’identità e i traumi familiari, da dove viene questo interesse?
«Da adolescente la prima ragazza di cui mi sono innamorato follemente veniva abusata dal padre. Sul momento non avevo capivo cosa stava succedendo, ma sentivo che il padre si sentiva minacciato da me, che ero un tipo piuttosto innocente. Era un pittore molto famoso in città, e la cosa sconvolgente è che l’ha ritratta in dipinti erotici, l’intera città l’ha vista ma nessuno ha detto niente a riguardo».

Egoyan

Egoyan mentre posa davanti a un emporio con prodotti tipici materani
​(Foto Gor Monton)

Dove è successo?
«A Vittoria, una piccola città molto conservatrice sulla costa occidentale del Canada. Io sono armeno ma nato in Egitto, quindi quando siamo arrivati lì eravamo una famiglia insolita. Anche i miei genitori sono pittori, quindi facevano parte di quella cerchia perché avevano uno studio in città. Insomma, sono cresciuto con questa idea di un ambiente artistico in cui ci sono anche abusi. E ricordo quando ho letto Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, anche quella è una storia di incesto e in realtà è tratta dalla vita di Pirandello stesso perché sua moglie pensava che lui avesse una relazione sessuale con la figlia. La questione è al centro della commedia che ha avuto anche una grande influenza su di me».

Che tipo di persone erano i suoi genitori?
«Erano in bilico fra due mondi, provenivano da una cultura patriarcale mediterranea ma il fatto stesso che quando sono arrivati in Canada non abbiano scelto di vivere a Montreal o a Toronto, dove c’era tutta la comunità armena, significa che volevano prendere le distanza. Mio padre ha fatto del suo meglio, ha provato davvero a essere diverso nei confronti di mia sorella, ma io sono sempre stato consapevole di essere il figlio maschio».

Sua sorella è una pianista.
«È una delle migliori pianiste moderne in Canada. È molto forte ma ha avuto una relazione complicata con mio padre, era un fatto culturalmente molto radicato».

Suo padre era famoso?
«Era un prodigio, fu il primo pittore egiziano a ottenere una borsa di studio completa presso il Chicago Art Institute. È andato in America con molte ambizioni ma non è riuscito ad affermarsi, in casa eravamo sempre consapevoli delle sue frustrazioni, in un certo senso il padre che ho mostrato in Seven Veiles è un mix delle frustrazione del mio e di quello della ragazza di cui mi sono innamorato da giovane».

Ha detto che il cinema ci fa riappropriare dei sentimenti, in che modo?
«Vediamo altri esseri umani sullo schermo, specialmente in primo piano, e crediamo che siano reali. Creare una sorta di distanza da quell’identificazione immediata scatena un’alchimia che è molto complessa e ricca perché ci rende introspettivi: osserviamo altri esseri umani essendo consapevoli di osservarli. Quando guardo Pasolini e la scena di cui parlavo prima, quando vediamo Gesù che fa il discorso sulla montagna, abbiamo la macchina da presa dietro la folla, che da la sensazione di cercarlo e anche se sappiamo che non sei lì, crea l’eccitazione trovarti davvero in quel luogo».

Se le chiedo cosa significa per lei la parola “guarigione”? « Per me è la cosa più vicina che sento spiritualmente quando ascolto un bel brano di musica o quando guardo un bel film o un dipinto… Forse la musica è la cosa più vicina, perché la musica in realtà mi dà più spazio. Quando suono non devo spiegare, convincere, trasferire niente a nessuno… In quella veste non devo combattere tutto il tempo per convincere gli altri, non lotto contro il tempo e con i problemi di produzione. Sono solo con il mio strumento, per me è una liberazione».

L'amore per Matera del regista armeno Atom Egoyan «Grazie a Pasolini ho scoperto questo luogo di magia»

Un momento della passeggiata di Egoyan a Matera

«Anche Gibson ha portato Gesù qui
Ma il Vangelo di Pier Paolo era più radicale»

Perché ha chiamato la sua compagnia Ego Arts?
«Era il nome della galleria di mio padre in Egitto, che firmava così i dipinti. Quando siamo arrivati in Canada abbiamo cambiato il nostro nome, Y-E-G-H-O-Y-A-N, che è impronunciabile, in Ego».

Con “ego” si indica qualcosa che si forma intorno a un centro, qualcosa di cristallizzato…
«Sono le cose che facciamo per civilizzare noi stessi. Non tagliamo teste e non baciamo le labbra perché siamo civilizzati, il padre Erode fa uccidere la figliastra, Salomè, perché è la prima a rompere tutti i codici morali. Fa cose estreme ma allo stesso tempo lei è frutto di un’interpretazione maschile, non sappiamo chi sia davvero. È tutto filtrato da occhi maschili, quelli di Strauss, di Oscar Wilde, di Flaubert o Gustave Moreau… Mi ci voleva un’attrice forte come la Seyfried per proporre qualcosa di diverso».

L'amore per Matera del regista armeno Atom Egoyan «Grazie a Pasolini ho scoperto questo luogo di magia»

II regista armeno naturalizzato canadese davanti a una casa materana

«Il nome Atom? Per i miei c’entra con l’arrivo dell’energia nucleare in Egitto, dove sono nato»

Da dove arriva il suo nome, Atom?
«È una bella domanda, tecnicamente i miei genitori dicono che è legato all’arrivo dell’energia nucleare in Egitto e che questa era il futuro, quindi hanno scelto quel nome. Ma allo stesso tempo un classico nome in antico armeno è “Adom”, dove la “d” nel dialetto orientale si pronuncia “ t”».

C’è qualcosa di biblico, nel suo nome?
«L’Armenia è stato il primo Paese ad aver scelto il Cristianesimo come religione, è quindi molto radicato nella nostra cultura. Però mentre Adam è una parola biblica armena, Adom non lo è».

I suoi progetti futuri?
«Sto lavorando a un’opera teatrale che andrà in scena in Germania nel 2025, e anche a una nuova opera che metterò in scena a Montreal, Jenufa di Leos Janecek. È un’opera molto bella e sono molto emozionato perché è una storia molto interessante, è una delle poche opere classiche scritte da una donna. È basata su un’opera di Gabriella Preissova, una drammaturga. È anche una storia incredibilmente folle, riguarda l’uccisione di un bambino, del resto le grandi opere sono scritte da compositori che amano il dramma, amano il teatro, come Verdi amava Shakespeare. Devono essere storie forti e avvincenti che vengono poi messe in musica, e questo è un ottimo esempio».

Azerbaijan – USA, Aliyev chiama Trump (Osservatorio Balcani e Caucaso 26.11.24)

Il presidente azero Ilham Aliyev non ha mai nascosto le sue preferenze per una vittoria di Trump alle presidenziali USA, dopo non poche divergenze con il presidente uscente Biden. Ora Baku punta a stabilire relazioni fruttuose con la nuova amministrazione

26/11/2024 –  Marilisa Lorusso

Il 20 luglio 2024 il presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev ha partecipato al secondo Shusha Global Media Forum, evento dedicato all’informazione. In questa occasione, ha risposto a diverse domande  di giornalisti ed esperti di media, anche sulle relazioni tra Stati Uniti e Azerbaijan e sulle elezioni americane.

Il Presidente Aliyev ha ricordato che nel 1992 gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni all’Azerbaijan, nonostante il paese si trovasse ad affrontare crisi umanitarie e devastazioni. Inizialmente in difficoltà nel comunicare la propria situazione a livello internazionale – e sentendosi messo all’angolo dalla narrazione dell’attiva diaspora armena – ora Baku invita personaggi globali a testimoniare in prima persona i suoi progressi e le sue aspirazioni, con l’obiettivo di rimodellare le prospettive internazionali.

COP29 è stata pensata come la sua grande vetrina. Aliyev ha lamentato, a Shusha come in altre occasioni, un forte pregiudizio verso il paese, secondo lui fomentato dalla lobby armena e da quelli che addita come i protettori dell’Armenia, in primis la Francia.

Agganciandosi al tema della “disinformazione globale”, ha espresso il suo supporto per Donald Trump, per alcuni elementi di forza del candidato repubblicano uscito poi vincente dalle presidenziali. Secondo Aliyev, Trump, proprio come come l’Azerbaijan, è vittima della disinformazione: “Anche il presidente eletto americano si trova ad affrontare ciò che noi affrontiamo da tanti anni. Trump è stato colui che ha definito ‘false notizie’ il Washington Post e il New York Times. Sono completamente d’accordo con lui. Non solo in questa ma in molte altre affermazioni.”

Direttamente interrogato su come auspicasse l’esito del voto, Aliyev non ha nascosto le sue preferenze e ha ripetuto i punti salienti della campagna del candidato Trump, come la non volontà di andare in guerra (nonostante proprio durante la presidenza Trump Baku stessa fosse coinvolta nel conflitto per il Nagorno Karabakh).

E ha aggiunto “non voglio entrare troppo nei dettagli dell’argomento, come si suol dire – ma un secondo aspetto, che è anch’esso importante […] è una posizione chiara sulla questione dei valori tradizionali. Penso che la maggioranza assoluta del popolo azero non solo condivida questa posizione, ma la promuova attivamente e la metta in pratica.”

Aliyev non ha nascosto la netta preferenza non solo per Trump e per i punti forti della sua campagna, dall’approccio all’informazione “mainstream” alla questione dei valori, ma in generale al partito repubblicano, elogiando il primo mandato del poi (ri)eletto presidente.

“Naturalmente, se si guarda allo sviluppo delle nostre relazioni, con l’amministrazione repubblicana le nostre relazioni sono sempre state molto più produttive, fruttuose e orientate ai risultati. Basta guardare le mie comunicazioni con i leader e i presidenti americani e tutto sarà chiaro. Durante la presidenza Trump, abbiamo goduto di una cooperazione molto fruttuosa basata sul rispetto reciproco e sull’apprezzamento del sostegno reciproco su diversi fronti.”

Le spigolosità

Ci sono questioni che Baku non ha digerito con l’amministrazione uscente. Le sanzioni di cui parlava Aliyev è la Sezione 907 del Freedom Support Act  che ha messo al bando gli aiuti economici diretti all’Azerbaijan da parte del governo americano.

La misura è appunto stata adottata nel pieno della prima guerra del Karabakh, e poi interrotta nel 2001: il Senato ha allora votato a favore della scelta discrezionale del presidente di disapplicare la Sezione 907. Questa contromisura è invece frutto del supporto logistico azero alle operazioni in Afghanistan.

I vari presidenti che si sono succeduti hanno sempre esercitato questa discrezionalità fino al 15 novembre 2023, quando il Senato ha adottato un disegno di legge per sospendere tutti gli aiuti militari all’Azerbaijan, abrogando l’autorità di rinuncia della Sezione 907 per gli anni fiscali 2024 o 2025. Con la seconda guerra del Karabakh quindi l’Azerbaijan si è trovato punto e a capo su questa questione.

Ma non è questa l’unica spigolosità. L’amministrazione Biden si è fatta sentire sulla questione dei diritti umani.

In seguito al Rapporto annuale 2023  della Commissione degli Stati Uniti sulla libertà religiosa internazionale che raccomandava al Dipartimento di stato di includere Baku nella sua Lista di controllo speciale per aver commesso o tollerato gravi violazioni della libertà religiosa, il segretario Antony Blinken ha proceduto ad includervi l’Azerbaijan  .

Il Dipartimento di stato si è poi espresso più volte contro gli arresti di oppositori o critici del governo Aliyev: a giugno per Farid Mehralizade, economista e giornalista finito dietro le sbarre; a luglio il vice portavoce del Dipartimento di Stato, Vedant Patel, ha risposto a una domanda sulle preoccupazioni relative ai diritti umani, compreso il caso del leader della società civile Gubad Ibadoghlu e l’arresto di altri attivisti. Patel ha affermato che gli Stati Uniti avrebbero continuato a mantenere acceso il canale diplomatico su queste questioni.

Ogni volta Baku segnala un forte dissenso verso le critiche, liquidando le varie dichiarazioni contro il proprio operato come frutto di lobby armene, di islamofobia, di azerofobia.

Per questi motivi in una lettera al ministero degli Esteri azero un gruppo di parlamentati azeri ha proposto di recedere da tutta una serie di accordi  con gli Stati Uniti.

Trump 2

Il 6 novembre il Presidente Aliyev ha inviato una missiva di congratulazioni al neo-eletto presidente  che chiarisce su cosa punta Baku in questo ritorno di Trump alla presidenza: “Durante la sua prima presidenza lei è stato molto attento al consolidamento delle relazioni amichevoli e di cooperazione tra l’Azerbaijan e gli Stati Uniti […] la nostra interazione in diversi settori importanti, e in particolare la lotta alle sfide globali e al terrorismo, la promozione della pace e della sicurezza internazionali e la garanzia della sicurezza energetica dell’Europa, è caratterizzato da un dinamico e costante sviluppo crescente. Vorrei sottolineare in particolare il vostro costante e risoluto sostegno alla strategia energetica dell’Azerbaijan. [..] siamo determinati a espandere e approfondire ulteriormente la nostra partnership bilaterale in tutti i settori, compresi quelli politico, economico-commerciale, di sicurezza, di energia, di transizione verde e digitale e altri.”

Aliyev, formato come uomo d’affari, trova sponda in un altro uomo di affari, e spera certo di mettere a tacere le “spigolosità” sollevatesi con l’amministrazione precedente.

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Erodoto si sbagliava, gli armeni non provengono dai Balcani (AGI 26.11.24)

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Appello Parlamentare Bipartisan per il Rilascio dei Prigionieri Armeni dell’Artasakh- Nagorno Karabagh. (Stilum Curiae 26.11.24)

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, offriamo alla vostra attenzione questo messaggio che abbiamo ricevuto dalla Comunità Armena. Buona lettura e diffusione.

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COP29 – APPELLO PARLAMENTARE BIPARTISAN PER IL RILASCIO DEI PRIGIONIERI ARMENI

Appello Parlamentare

Premesso che dall’11 al 22 novembre 2024 l’Azerbaigian ospiterà COP29, conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico;

Considerato che l’Italia ha ottimi rapporti commerciali e politici con Baku e intrattiene una proficua collaborazione anche nel campo energetico, il che ci posiziona fra i primissimi partner europei dell’Azerbaigian;

Valutato che è interesse dell’Italia che l’area sud caucasica sia pacificamente stabilizzata e pertanto vengano incoraggiate tutte le azioni che promuovano un aumento di fiducia tra Armenia e Azerbaigian e la firma di un definitivo accordo di pace;

Preso atto che, dopo i recenti conflitti, risultano ancora trattenuti, con differenti motivazioni, a Baku, 23 prigionieri di guerra armeni e altri detenuti le cui famiglie attendono da tempo il ritorno a casa;

Considerato che il loro rilascio rappresenterebbe un segnale positivo nelle relazioni fra i due Paesi e avrebbe ulteriori positive ricadute su tutta l’area regionale e sulla stessa COP29;

i sottoscritti, deputati e senatori della repubblica italiana chiedono al Governo

• di sensibilizzare il partner azero affinché in concomitanza con l’evento COP29 proceda, quale gesto di buona volontà e in segno di amicizia con l’Italia, alla liberazione di tutti i prigionieri e detenuti armeni;

• di curare, qualora necessario anche con mezzi propri, il ritorno a casa degli stessi;

di comunicare ad Armenia e Azerbaigian l’impegno dell’Italia finalizzato al raggiungimento di un accordo definitivo di pace nella regione.

On. Alessandro Battilocchio -FI
On. Brando Benifei- PD Eurodeputato
On. Deborah Bergamini- FI
On. Simone Billi- Lega
Sen. Stefano Borghesi-Lega
Sen. Susanna Camusso-PD
On. Andrea Casu- PD
On. Giulio Centemero- Lega
Sen. Gian Marco Centinaio – Lega
On. Alessandro Colucci- Noi moderati
Sen. Andrea De Priamo- FdI
On. Gianmauro Dell’Olio- 5 Stelle
On. Benedetto Della Vedova – + Europa
Sen. Graziano Delrio – PD
Sen. Gabriella di Girolamo – 5 Stelle
On. Piero Fassino- PD
Sen. Aurora Floridia- Alleanza Verdi e Sinistra
On. Paolo Formentini- Lega
Sen. Mariastella Gelmini- Gruppo Civici d’Italia – UDC- Noi moderati
On. Giorgio Lovecchio- FI
On. Lorenzo Malagola- FdI
On. Stefano Maullu- FdI
Sen. Roberto Menia- FdI
Sen. Elena Murelli- Lega
Sen. Luigi Nave- 5 Stelle
On. Federica Onori- Azione
On. Andrea Orsini- FI
On. Andrea Pellicini- FdI
On. Catia Polidori- FI
On. Emanuele Pozzoli- FdI
On. Erik Pretto – Lega
Sen.    Tatjana Rojc – PD
On. Massimiliano Salini- FI Eurodeputato
Sen. Ivan Scalfarotto – Italia Viva
Sen. Filippo Sensi – PD
Sen. Luigi Spagnolli- Gruppo Per le Autonomie
Sen. Francesco Verducci- PD
Sen. Sandra Zampa – PD
On. Gianpiero Zinzi – Lega

“The Baku Connection”: il complesso asse di interessi tra Francia, Azerbaigian e Armenia (IARI 25.11.24)

C’è un clima di diffidenza tra Parigi e Baku: il sostegno francese alla vicina Armenia ha deteriorato il clima diplomatico tra Francia e Azerbaigian. Negli ultimi anni, il governo azerbaigiano di Ilham Aliyev sta forgiando la sua particolare rivincita sostenendo movimenti separatisti nei territori francesi d’oltremare, mentre allo stesso tempo gioca la sua carta di “amico fedele” dell’Unione Europea, per la quale il suo petrolio e gas sono diventati imprescindibili. Quando è iniziata la guerra sottile dell’Azerbaigian contro Parigi? Cosa possiamo aspettarci in futuro?

Francis Bacon diceva: La diffidenza è la compagna più sicura della saggezza. Un proverbio che viene applicato dallo storico numero 37 di Quai d’Orsay, la maestosa sede del Ministero degli Affari Esteri e dell’Unione Europea francese. Particolarmente in tutto ciò che riguarda l’Azerbaigian, repubblica turcica bagnata dal Mar Caspio, con la quale la Francia mantiene un rapporto deteriorato negli ultimi anni a causa del sostegno francese all’Armeniatradizionale alleata francese nel Caucaso, con la quale i legami diplomatici, culturali (Armenia e membro dell’Organizzazione internazionale della Francofonia dal 2012, e c’è un’importante comunità della diaspora armenia in Francia) e storici risalgono al Medioevo[1].

Dopo la guerra lampo lanciata dall’Azerbaigian contro l’Armenia nel 2022 e 2023, che si è conclusa con l’incorporazione dell’intera regione del Nagorno Karabakh e la dissoluzione del territorio pro-armeno della Repubblica di Artsakh, la Francia ha approfondito il suo rapporto strategico nella difesa e nella cooperazione con Erevan. Questo approccio ha avuto come conseguenza diretta un aumento delle tensioni diplomatiche tra Parigi e Baku.

Il presidente azerbaigiano ha tenuto un discorso incendiario contro la Francia nel corso della 53ª riunione del Consiglio dei Capi delle Agenzie di Sicurezza e dei Servizi Speciali della CSI in Ottobre 2023, in cui ha criticato il ruolo della leadership francese dal 2020 ad oggi, accusandola di minacce infondate e ricatti contro l’Azerbaigian. Ha affermato che la Francia aveva violato il diritto internazionale per 30 anni attraverso il suo alleato, l’Armenia, e ha menzionato i crimini coloniali francesi in Algeria e in Africa. Inoltre, ha criticato la Francia per mantenere ancora oggi delle colonie e per il suo comportamento diplomatico provocatorio e insultante. Questo è stato il primo battibecco tra l’Azerbaigian e la Francia, che ha motivato l’assenza di osservatori francesi nelle elezioni avvenute nel paese caucasico a febbraio 2024, la critica alla qualità della democrazia azerbaigiana da parte del senatore francese Claude Kern, l’espulsione di due diplomatici francesi da Baku sotto accuse non chiarite così come la detenzione di altri cittadini francesi accusati di spionaggio, la chiusura dell’Istituto Francese di Baku e lo smantellamento del gruppo di lavoro per le relazioni interparlamentari tra l’Azerbaigian e la Francia[2]. Questo non ha fermato la determinazione francese di privilegiare l’Armenia come partner strategico nel Caucaso, e la reazione dell’Azerbaigian non si è fatta aspettare, alzando il livello della pressione contro Parigi, questa volta sventolando la bandiera dell’anticolonialismo.

Dividi et Impera

Ricordiamo che la Repubblica Francese non si limita al territorio della Francia metropolitana, l’Esagono: la nazione gallica possiede territori d’oltremare presenti nei quattro emisferi mondiali.

Mappa dei “territori francesi ancora soggetti a decolonizzazione” presentata al congresso delle colonie francesi organizzato dal Gruppo d’Iniziativa di Baku. Fonti. – https://blogs.mediapart.fr/edition/memoires-du-colonialisme/article/110723/le-groupe-dinitiative-de-bakou-contre-le-colonialisme-francais-est-ne-gib / https://azertag.az/fr/xeber/bakou_abrite_le_congres_des_colonies_franchaises_mis_a_jour_video-3100238https://afriquexxi.info/L-Azerbaidjan-un-ami-qui-vous-veut-du-bien#&gid=1&pid=2

Dalla Corsica alla Guadalupa e alla Guyana, dall’Isola di Mayotte alla Nuova Caledonia, la Francia è la nazione con la seconda più grande zona economica marittima al mondo, che le permette di accedere a importanti risorse naturali, zone di pesca e persino a un vettore d’accesso allo spazio, rappresentato dalla base spaziale di Kourou, nella Guyana francese.

Ma, anche se ufficialmente tutti questi territori d’oltremare hanno lo stesso livello di diritti, la situazione di difficoltà economica e la mancanza di opportunità facilitano lo sviluppo di movimenti autonomisti e di proteste contro il percepito governo parigino, lontanissimo e ultracentralista. Dal storico movimento di indipendenza corso agli anni di piombo del terrorismo dell’ETA, il gruppo indipendentista basco, fino ai molto più recenti disordini nella Nuova Caledonia contro le modifiche della legge elettorale. (E nel quale il Governo francese sospetta dell’inferenza di Baku, siccome manifestanti portavano bandiere)

È in questo contesto che è stato creato, sotto l’auspicio delle autorità azere e del Centro di Analisi delle Relazioni Internazionali della Repubblica di Azerbaigian, il Gruppo di Iniziativa di Baku[3] (GIB) contro il colonialismo francese, il 6 luglio 2023. Alla riunione sono stati invitati i principali leader politici e culturali dei movimenti indipendentisti e anticoloniali di Tahiti, Martinica, Guyana e Polinesia Francese. Una reazione avvenuta parallelamente all’incontro tra i ministri della difesa francese e armeno per rinforzare la cooperazione militare e di difesa e alla firma dell’accordo di cooperazione intergovernativa in ambito culturale, scientifico e tecnico tra Parigi ed Erevan.

Il sostegno dell’Azerbaijan ai movimenti secessionisti francesi non è dovuto a una particolare e genuina simpatia per la liberazione democratica di questi popoli, ma rappresenta un’arma utile nella più ampia strategia di indebolimento, guerra ibrida e boicottaggio contro la Francia, alleato chiave del grande rivale geopolitico di Baku, l’Armenia. Anche se il primo passo delle ambizioni azere è stato compiuto in gran parte con la resa del Nagorno Karabakh, il presidente Ilham Aliyev continua a esigere dall’Armenia la cessione di una grande striscia di territorio per creare un collegamento fisico tra la Turchia e l’Azerbaigian attraverso la regione armena di Syunik, richiesta categoricamente respinta dal governo armeno, poiché significherebbe l’erosione di un territorio legittimamente armeno. Abbandonata dal suo tradizionale alleato russo, Erevan trova nell’alleato francese un prezioso aiuto per rafforzare le sue capacità di difesa contro un Azerbaigian che si percepisce militarmente superiore.

Il governo francese ha sospettato di un coinvolgimento azero in Nuova Caledonia, a causa della presenza di magliette con il logo del GIB e di bandiere dell’Azerbaijan nelle proteste antifrancesi, nonché di campagne di disinformazione e screditamento contro l’organizzazione dei Giochi Olimpici del 2024.

Un complesso ménage à quatre geopolitico

Il clima di ostilità tra Azerbaijan e l’Eliseo è il risultato diretto del posizionamento francese a favore dell’Armenia. Proprio per questo motivo, l’aggravamento delle tensioni e le azioni azere contro gli interessi francesi sono intrinsecamente legati all’evoluzione futura del conflitto irrisolto tra Azerbaijan e Armenia e all’esito (o meno) del processo di pace dopo la sanguinosa ripresa della guerra nel territorio di confine del Nagorno Karabakh. Allo stesso tempo, bisogna considerare le azioni dell’UE, che si trova nella scomodissima posizione di sostenere l’Armenia, vista come una nazione affine per standard democratici e prezioso alleato contro la Russia, ma senza poter stringere la vite a Baku, il cui petrolio e gas sono diventati assolutamente vitali per alimentare l’industria in assenza delle risorse energetiche russe.

Nel breve periodo non è prevedibile un alleggerimento delle tensioni franco-azere, come dimostra lo scontro diplomatico più recente tra l’Azerbaijan e la Francia, avvenuto nel contesto della convenzione per il clima tenuta nella capitale azera. In questa occasione, ci fu un durissimo scambio di parole tra il presidente Aliyev, che accusò Parigi di “crimini coloniali” e di “violazioni dei diritti nei cosiddetti territori d’oltremare”, e la ministra dell’ecologia francese, Agnès Pannier-Runacher, che non esitò a considerare tali accuse “inaccettabili e indegne di una presidenza della COP, oltre che una flagrante violazione del codice di condotta delle Nazioni Unite”.

La reazione di Parigi fu immediata, con il ritiro della sua delegazione dalla convenzione.L’unico scenario in cui si potrebbe prevedere un allentamento delle tensioni (almeno da parte azera) sarebbe un allineamento di Parigi verso interessi più favorevoli a Baku. Tuttavia, tale azione comporterebbe inequivocabilmente un tradimento francese nei confronti dell’Armenia. La Francia, dopo aver perso una grande parte della sua influenza in Africa a causa del disastro dell’Operazione Barkhane e dei diversi colpi di stato militari nel Sahel, ha bisogno di rafforzare le sue partnership ad alto valore strategico regionale, come quella con la Grecia nel Mediterraneo orientale e con l’Armenia nel Caucaso. È pertanto prevedibile il mantenimento del grado di tensione e della guerra ibrida tra le due nazioni, tenendo conto che il fattore esogeno che avrà ripercussioni su questa ostilità sarà l’evoluzione, nel medio e lungo termine, del conflitto di frontiera nel Caucaso e delle aspirazioni irredentiste dell’Azerbaigian sul corridoio di Zangezur.

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Uno dei problemi della COP29 in Azerbaijan è stato l’Azerbaijan (Il Post 24.11.24)

Il presidente autoritario del paese ha definito il gas naturale un «dono di Dio» e non è sempre sembrato concentrato sulle priorità della crisi climatica

Ilham Aliyev durante un discorso alla COP29
Ilham Aliyev durante un discorso alla COP29 (Sean Gallup/Getty Images)
Uno degli aspetti più controversi della COP29 che si è appena conclusa è stato il ruolo dell’Azerbaijan, il paese ospite di quella che è la più importante conferenza annuale delle Nazioni Unite per il contrasto al cambiamento climatico.

L’Azerbaijan è un paese produttore di petrolio e gas naturale, oltre che un paese repressivo e autoritario il cui leader, il presidente Ilham Aliyev, è stato accusato di aver usato la conferenza dell’ONU per perseguire obiettivi politici personali, piuttosto che per cercare di trovare un accordo – che alla fine è stato trovato, ma è ritenuto deludente.

Non è la prima volta che un paese autoritario e produttore di idrocarburi ospita la COP: era successo anche l’anno scorso, per esempio. Ma l’interventismo smaccato di Aliyev è risultato particolarmente notevole, al punto che negli scorsi giorni un gruppo di importanti esperti di questioni climatiche – tra cui l’ex segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon e l’ex presidente dell’Irlanda Mary Robinson – ha reso pubblico un appello per chiedere che le prossime COP siano tenute in paesi che sostengono davvero la necessità della transizione ambientale.

Nel discorso d’apertura dell’evento, Aliyev ha detto per esempio che le ampie riserve di petrolio e gas naturale dell’Azerbaijan sono un «dono di Dio». Più del 90 per cento delle esportazioni dell’Azerbaijan e circa il 50 per cento del budget dello stato dipendono dagli idrocarburi. Ma al contrario di altri petrostati come i paesi del Golfo, la maggior parte della popolazione azera non gode della ricchezza generata da gas e petrolio e un quarto della popolazione è in stato di povertà, secondo dati della Banca Mondiale.

Nel corso della Conferenza, inoltre, Aliyev ha spesso adottato posizioni estremamente aggressive nei confronti dei paesi che percepisce come avversari, anche usando pretesti che hanno poco a che vedere con le politiche climatiche: ha accusato la Francia e i Paesi Bassi di colonialismo, con toni molto duri per il leader del paese che ospita la COP. Tradizionalmente il ruolo dei paesi ospitanti è quello di cercare di appianare le differenze e cercare accordi e compromessi, anche perché le decisioni alla COP si prendono di fatto all’unanimità.

Aliyev, tra le altre cose, ha una lunga storia di attacchi politici soprattutto nei confronti della Francia, che considera troppo vicina a un paese rivale, l’Armenia.

Nel 2020 l’Azerbaijan cominciò e vinse una breve guerra contro l’Armenia per il controllo del Nagorno Karabakh, una regione formalmente azera ma abitata da una popolazione per la maggioranza armena: dopo la guerra, negli anni successivi l’Azerbaijan ha rafforzato il proprio controllo sul Karabakh e cacciato quasi tutti gli abitanti armeni, al punto che varie associazioni indipendenti hanno accusato il regime di pulizia etnica.

La COP29 ha anche contribuito a mettere in luce le gravi violazioni dei diritti umani compiute dal regime di Aliyev, che arresta, perseguita e tortura oppositori e attivisti.

I prigionieri politici, secondo ong locali, sono più di 300, e il regime negli scorsi mesi ha fatto arrestare anche numerosi attivisti e ricercatori per l’ambiente. Uno dei casi più noti è stato quello di Gubad Ibadoghlu, un professore azero della London School of Economics autore di ricerche piuttosto critiche sulle politiche ambientali ed economiche del governo. Ibadoghlu è stato arrestato nell’estate del 2023 durante una visita in Azerbaijan con accuse di truffa ritenute pretestuose, ed è tuttora agli arresti domiciliari.

L’Azerbaijan ha però rapporti economici strettissimi soprattutto con l’Europa, che si sono intensificati dopo che i paesi europei sono stati costretti a eliminare le importazioni di gas naturale russo dopo l’invasione dell’Ucraina. Per l’Italia, per esempio, l’Azerbaijan è uno dei primi fornitori di petrolio (15 per cento del totale importato) e il secondo fornitore di gas naturale (16 per cento delle importazioni), secondo le stime del think tank italiano Ecco.

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Escluse le voci del dissenso dalla Cop29, la storia dell’attivista armeno Arshak Makichyan (Economia Circolare 23.11.24)

Ad Arshak Makichyan, attivista per il clima armeno, è stato vietato l’ingresso in Azerbaijan nonostante avesse l’accredito per la Cop29. A EconomiaCircolare.com racconta il suo impegno per denunciare la pulizia etnica degli armeni e la sua vita da apolide a Berlino

Alessandro Coltré

Alessandro Coltré

Giornalista pubblicista, si occupa principalmente di questioni ambientali in Italia, negli ultimi anni ha approfondito le emergenze del Lazio, come la situazione romana della gestione rifiuti e la bonifica della Valle del Sacco. Dal 2019 coordina lo Scaffale ambientalista, una biblioteca e centro di documentazione con base a Colleferro, in provincia di Roma. Nell’area metropolitana della Capitale, Alessandro ha lavorato a diversi progetti culturali che hanno avuto al centro la rivalutazione e la riconsiderazione dei piccoli Comuni e dei territori considerati di solito ai margini delle grandi città.

Per entrare alla Cop29 di Baku – ancora in corso dopo che è stata aggiunta una giornata supplementare, quella del 23 novembre, per cercare di raggiungere l’intesa – non è basta avere un accredito: lo sa bene Arshak Makichyan, l’attivista ecologista armeno a cui è stato vietato l’ingresso in Azerbaijan durante i giorni del summit. In questa decisione Arshak ci vede solo coerenza: rendere inutilizzabile il suo badge è stata un’azione necessaria per mostrare al mondo un Paese pacificato e capace di guidare i negoziati sul clima.

Uno spazio bonificato da qualsiasi voce critica, questo voleva il presidente Ilham Aliyev. Arshak sarebbe stato un intralcio perché da mesi, sui social e nei meeting internazionali, denuncia l’operazione di greenwashing statale messa in piedi dell’autorità azere.  A farlo non è un attivista occidentale o un membro di un’organizzazione non governativa, ma un ragazzo russo-armeno, da due anni privato della cittadinanza russa e costretto a vivere in esilio a Berlino dopo aver protestato contro la guerra in Ucraina.

La Cop è solo greenwashing?

Nella blue zone della Cop29 avrebbe spezzato il silenzio così: “Ogni anno si parla della necessità di costruire negoziati più efficaci nella lotta al cambiamento climatico, e invece siamo finiti al tavolo del regime azero, che sta usando la conferenza sul clima per coprire di verde il genocidio contro gli armeni indigeni dell’Artsakh. Le voci armene devono essere ascoltate alle Cop29, altrimenti questa conferenza non ha alcuna legittimità, è solo greenwashing. Non potrà esserci nessun accordo vantaggioso, nessun documento che farà la storia. Di concreto ci sono le case distrutte e la pulizia etnica delle popolazioni indigene”.

Troncata dalle fondamenta la scenografia del summit, tutti sarebbero rimasti a fare i conti con le ipocrisie della comunità internazionale, complice di aver dimenticato in fretta l’operazione militare del governo azero in Nagorno Karabakh, regione a maggioranza armena, ora definitivamente sotto il controllo di Baku dopo i continui attacchi ai civili e dopo aver generato un esodo di 120mila persone.

“Nel 2022 l’Unione Europea ha firmato nuovi accordi per ricevere forniture di gas azero. In pratica, mentre io protestavo per chiedere l’embargo del gas russo, l’Europa faceva affari con un regime che impediva agli armeni di ricevere medicine e cibo. A volte mi pare tutto surreale, mi sembra di vivere un film brutto con una trama orribile. Invece oggi sono tutti lì, convinti di poter firmare un accordo per salvare il pianeta dalla crisi climatica in uno stato che l’anno scorso ha eseguito una pulizia etnica”.

Arshak non riesce a lanciare l’allarme per il mondo in fiamme senza alzare la voce contro il genocidio del suo popolo. Per questo fa riferimento al blocco del corridoio di Lachin – la via di fuga che collega il Nagorno Karabakh con l’Armenia – avvenuto a partire dal dicembre del 2022 con manifestazioni di attivisti azeri vicini al governo. Quell’anno segna un prima e un dopo nella vita di Arshak.

Leggi anche: Il protagonismo di Italgas alla Cop29 e la scarsa performance dell’Italia

Dalle proteste per l’ambiente in Russia all’esilio in Germania

Da ottobre del 2022 Arshak Makichyan è apolide. Le autorità del Cremlino gli hanno ritirato la cittadinanza russa. La motivazione? Nel 2004 Makichyan dichiarò informazioni false durante la richiesta di cittadinanza. Nel 2004, quando Arshak aveva dieci anni, e la sua unica nazionalità era quella russa. Un processo farsa che serve da esempio per chi non vuole chiamare “operazione speciale” l’aggressione russa all’Ucraina. Su di lui è precipitata una sentenza che colpisce la Russia multietnica, quella che intreccia origini diverse, centinaia di lingue e culture che popolano un Paese oggi in guerra anche contro se stesso. Niente più spazio per quelli come Arshak, russo e armeno, ecologista e convinto pacifista.

“La Russia è passata da un regime autoritario a una dittatura nel giro di due anni. Continuare a protestare pacificamente in Russia ora è quasi impossibile, sicuro non è efficace. Vivo in Germania, e da qui cerco di continuare a fare attivismo contro la guerra. Collaboro alla costruzione di azioni di pressione per denunciare il genocidio degli armeni e i crimini coloniali di un regime che sta distruggendo l’identità armena in ogni sua forma”.

I suoi nonni sono fuggiti dal Nagorno Karabakh, la sua famiglia ha conosciuto la ferocia della pulizia etnica, e oggi da Berlino Mackichan cerca di tenere alta l’attenzione su tutte le pratiche coloniali che soffocano il pianeta e le persone.

Lo fa con manifestazioni, conferenze e picchetti, collaborando con chi si oppone alle dittature fossili. Fa impressione accostare la biografia di un trentenne apolide in lotta per la giustizia climatica e per i diritti del suo popolo agli accordi siglati tra Unione Europea e Azerbaijan per aumentare le importazioni di gas azero. Eppure in pochi mesi del 2022 è accaduto proprio questo: un ragazzo ha perso i suoi documenti, colpevole di aver sfidato i venti di guerra, mentre un gasdotto sporco di sangue è libero di espandersi e di ottenere ogni tipo di cittadinanza.

Ma forse è un esercizio utile: permette di stracciare quella patina che avvolge le ultime ore del negoziato; allontana tutte le possibili costruzioni di un finale edificante. La storia di Arshak ci ricorda che non abbiamo bisogno di alcuna positività tossica. “Cosa dovrei aspettarmi da questo negoziato?” Si chiede ironicamente l’attivista. “La comunità internazionale ha accettato di iniziare la Cop29 lasciando in galera gli oppositori politici, tanti giornalisti e membri di ong”. Durante questi giorni di conferenza sul clima, Berlino è stata attraversata da cortei e da iniziative per diffondere le voci delle vittime del regime azero. “Non è facile ricominciare tutto da zero in un altro Paese, qui a Berlino organizziamo proteste anche per continuare a essere una comunità, è l’unico modo per continuare a fare attivismo contro la guerra”.

attivista armeno Cop29 proteste Berlino
Proteste a Berlino | Foto di Lukas Statmann

Leggi anche: Perché l’industria fossile non deve avere voce nei negoziati per il clima

Una guerra contro la natura

Protestare da solo ha senso soltanto se è un innesco, se genera qualcosa, proprio com’è accaduto nel 2019  a Mosca. Ogni venerdì Arshak ha sfidato da solo il potere putiniano restando per ore sotto la statua di Pushkin – padre della letteratura russa – tenendo un cartello con scritto Climate Strike. Lo sciopero in solitaria è stato ripreso in tante altre città raggiungendo anche le regioni più remote del Paese. Così sono nati i Fridays for future Russia, da un ragazzo russo-armeno che non ha potuto neanche raccontare la sua storia alla Cop29.

“I movimenti ecologisti in Russia sono stati distrutti. La maggior parte delle organizzazioni sono state dichiarate indesiderate o agenti stranieri. Penso che il problema sia anche dovuto alla poca attenzione internazionale su ciò che sta accadendo all’ambiente in Russia. Non sappiamo molto di quello che accade in Asia Centrale, lì ci sono problemi di inquinamento completamente ignorati. Anche nel Caucaso e in altri luoghi si soffre di crisi climatica. Spesso cerco di diffondere i rischi di contaminazione del Lago Bajkal, dove si conserva il 20 per cento dell’acqua dolce superficiale presente sulla Terra. Il suo ecosistema è in pericolo. La Russia sta continuando la sua terribile guerra anche contro la natura“.

attivista armeno Cop29 proteste Russia
Protesta in Russia 2020 | Foto: Fridays For Future Russia

Il badge inutilizzato di Arshak è da “osservatore”, la stessa dicitura che hanno gli uomini della delegazione del governo dei talebani, che liberi di girare per i padiglioni del summit come dei veri diplomatici. Baku ha preferito altri sguardi, non avrebbe tollerato quello di Arshak.

“Invece di perdere tempo a casa di un regime dovremmo iniziare a pensare a cosa possiamo fare per resistere al numero crescente di crisi, tutte interconnesse alla crisi climatica, alle guerre, alla terribile ipocrisia dei Paesi occidentali. Parlare chiaro ci aiuterà a salvarci dal collasso”.

Tra poche ore il mondo volerà via da Baku, congedandosi da una conferenza segnata da grandi assenze, da corpi reclusi e da un popolo costretto all’esodo. Il gas azero continuerà a circolare in Europa e forse la diplomazia climatica dovrà iniziare a parlare di umiliazione. Intanto il badge di Arshak resta lì, senza aver mai conosciuto la fila per l’accredito. Il suo posto è stato preso da  1773 lobbisti del fossile, tutti entrati dalla porta principale.

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Atom Egoyan: non dimenticate il genocidio armeno (La Stampa 23.11.24)

Il cinema serve a risvegliare le coscienze, lo dico anche a nome del popolo armeno, vittima di un genocidio razziale trascurato dai media troppo occupati a coprire altri conflitti e dimenticato dal mondo. Ma il nostro trauma permane, dobbiamo ancora riprenderci». Il pluripremiato regista armeno naturalizzato canadese Atom Egoyan, ospite d’onore del Matera Film Festival insieme a sua moglie Arsinée Khanjian, ha presentato in anteprima nazionale il suo nuovo film “Seven Veils”. Trasposizione cinematografica dell’opera di Richard Strauss Salomè basata sul testo di Oscar Wilde che Egoyan aveva già portato in scena più volte, vede come protagonista assoluta l’attrice Amanda Seyfried, già diretta nel precedente Chloe.

Il trauma delle immagini

«Ho sentito l’esigenza di riattualizzare la storia, perché attuali sono i rapporti e le disfunzioni familiari che racconta. Attuale è anche la figura di donna al centro della storia, una regista alle prese con i suoi demoni e con la direzione dell’opera di quella Salomè che, secondo la versione di Wilde, sceglie da sola di compiere l’azione più brutale, decapitare la testa di Giovanni Battista e baciarla. Un gesto violento che crea uno shock al pubblico imponendo di guardare le cose con gli occhi della protagonista, vittima a sua volta di un desiderio non risolto». Riflette sul trauma delle immagini: «Da quando ho iniziato a fare film, una quarantina di anni fa, mi sono sempre occupato della memoria. Ma se nella metà degli anni Ottanta la tecnologia iniziava a entrare nelle nostre esistenze giusto per registrare i momenti clou della nostra vita, oggi possiamo riprendere qualsiasi cosa in ogni momento e la tecnologia finisce per filtrare tutte le nostre esperienze, che non viviamo più se non attraverso le immagini».

La tecnologia

Un pericolo serio per le nuove generazioni: «Non voglio fare il moralista, né demonizzare la tecnologia – anzi sono curioso di vedere su quali territori sconosciuti ci porterà l’intelligenza artificiale – ma credo sia urgente risensibilizzare e ricentrare i sentimenti. Siamo tutti costantemente traumatizzati da foto e video estremi, i nostri ragazzi a differenza nostra ci sono cresciuti in questo bombardamento continuo di immagini di violenza, ferocia e ipersessualizzazione, dobbiamo fare qualcosa soprattutto per loro». Conclude ricordando come i maestri del cinema italiano lo abbiano da sempre ispirato: «Da Pasolini a Fellini, da Antonioni a Visconti, passando per Bellocchio, che mi sembra prosegua la vostra grande tradizione cinematografica».

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