Israele Ha Tradito gli Armeni del Nagorno Karabagh. Non Ripeta l’Errore con i Curdi. Michael Rubin, 1945. (Stilum Curiae 24.12.24)

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, una amico e collega, Vasilios Meichanetsidis, ci segnala questo interessante articolo di Michael Rubin, a cui va il nostro grazie. Buona lettura e condivisione.

Di immediato interesse per il resto di noi in Grecia e nella terraferma di Cipro.

 

 

Il noto analista americano di origine ebraica Michael Rubin avverte Israele di non ripetere con i curdi l’errore/tradimento commesso con gli armeni dell’Artsakh/Nagorno Karabakh e di mantenere le alleanze…

Il 27 settembre 2020 è iniziato come una tranquilla domenica mattina nel Nagorno-Karabakh , una regione montuosa popolata da armeni che, a prima vista, sembra la Svizzera : campi verdi, fattorie ondulate e montagne innevate con chiese e monasteri che punteggiano i pendii. Erano passati solo pochi giorni dal 100° anniversario dell’invasione ottomana dell’Armenia indipendente alla fine del genocidio armeno, ma quell’anniversario era trascorso con il minimo clamore da parte dei turchi e degli azeri.

Poi è iniziata l’esplosione, mi hanno descritto gli armeni del Nagorno-Karabakh quando sono andato a trovarli settimane dopo. Utilizzando droni e munizioni israeliani, l’Azerbaijan ha lanciato un attacco a sorpresa all’enclave armena autonoma, il primo di molti attacchi nei tre anni successivi in cui l’Azerbaijan ha violato i cessate il fuoco fino a completare la pulizia etnica del Nagorno-Kabarakh.

La rabbia verso Israele resta profonda tra i rifugiati del Nagorno-Karabakh, l’Armenia vera e propria e la comunità armena in generale.

Francamente, hanno ragione. Israele è uno dei pochi paesi occidentali che non riconoscono il genocidio armeno. Questa rabbia è persistita mentre l’Azerbaijan ha iniziato sistematicamente a smantellare le chiese armene e a sabbiare le iscrizioni sui monasteri, alcuni vecchi di oltre un millennio. È stata una strategia a breve termine e controproducente da parte di Israele, poiché il sostegno di Israele alla pulizia etnica degli armeni del Nagorno-Karabakh e alla distruzione del patrimonio culturale da parte dell’Azerbaijan ha creato un precedente che potrebbe essere usato contro gli ebrei che vivono in Cisgiordania, specialmente tra i palestinesi che negano qualsiasi legame ebraico con la terra.

Gli israeliani, come il commentatore Mordechai Kedar, ad esempio , potrebbero sostenere che l’Azerbaijan è un paradiso per gli ebrei, ma questo è sempre più falso. Le argomentazioni di Kedar si basano su numeri obsoleti e ripetono le stesse tattiche usate dai partigiani iraniani per sostenere che la Repubblica islamica era semplicemente anti-Israele, non antisemita. La realtà è che l’Azerbaijan ha perso i suoi ebrei per un motivo. Quando le statistiche sulla popolazione rimangono invariate per decenni, è un segno che quelle statistiche sono obsolete se non false.

Né reggono gli argomenti realisti di Israele per giustificare le armi israeliane per l’Azerbaijan. L’Azerbaijan potrebbe essere stato un tempo una fonte di energia cruciale per Israele, ma gli Accordi di Abramo hanno aperto nuovi canali in assenza del bagaglio morale insito nell’aiutare un dittatore razzista a eliminare una comunità minoritaria. In privato, tutti tranne coloro che vogliono qualcosa Il presidente azero Ilham Aliyev riconosce quanto Aliyev sia diventato repressivo e squilibrato; Aliyev stesso non cerca di nascondere il suo programma . Né Israele si mostra consapevole del vero ruolo dell’Azerbaijan quando il presidente turco Recep Tayyip Erdogan pianifica apertamente la violenza contro Israele e rafforza l’industria militare interna della Turchia ma usa l’Azerbaijan per continuare a commerciare con lo stato ebraico. Israele deve rimuovere i suoi paraocchi strategici: ogni consegna israeliana a Baku fornisce tecnologia che Ankara può usare contro Gerusalemme.

La complicità di Israele nella pulizia etnica del Nagorno-Karabakh rappresenta una macchia difficile da rimuovere, ma può anche fornire una lezione da non ripetere: gli accordi a breve termine con gli avversari ideologici di Israele non portano la pace; al contrario, incoraggiano i nemici. La Turchia può presentare un volto ai turisti a Istanbul, Bodrum o Antalya, ma ideologicamente, lavora per sradicare le minoranze mediorientali, siano esse cristiani armeni o caldei, curdi siriani, yazidi, alawiti o ebrei.

I curdi siriani ora affrontano un pericolo esistenziale mentre l’esercito turco si fa duro. L’accusa della Turchia che i curdi rappresentino una minaccia terroristica è una sciocchezza; piuttosto, la Turchia si oppone al liberalismo dei curdi, al loro autogoverno e al loro rifiuto dell’Islam ispirato dalla Fratellanza Musulmana di Erdogan, un’interpretazione dell’Islam storicamente estranea alla regione.

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I Parlamentari Europei di Fratelli d’Italia votano contro il rispetto dei diritti umani!!! (Politicamentecorretto 23.12.24)

Lo scorso 19 dicembre il parlamento europeo ha votato una risoluzione che ancora una volta condanna l’Azerbaigian per la terribile situazione dei diritti umani in quel Paese. Non solo per gli oppositori politici ma anche per i prigionieri di guerra armeni illegalmente detenuti dal regime di Aliyev.

La risoluzione è passata a larghissima maggioranza: 434 voti a favore, 89 astenuti e solo 30 contrari.

I voti contrari provengano purtroppo per buona parte dall’Italia (19) e specificatamente dal gruppo di Fratelli d’Italia.

E’ incredibile come una risoluzione di tal importanza morale, che si esprimeva a difesa dei diritti umani, abbia potuto avere il voto contrario di rappresentanti del popolo italiano.

Il gruppo che ha votato contro è capitanato dal ministro della Difesa, Crosetto, insieme ai parlamentari del suo partito, a differenza di quasi tutto il resto del parlamento europeo, ha ritenuto assolutamente necessaria l’opposizione a una mozione sui diritti umani non si sa se per vendere più armi al regime di Aliyev o con la improbabile scusa di salvaguardare le forniture di gas.

Ovviamente c’era anche la scelta diplomatica di astenersi, però con il voto espresso risulterebbe palese che Fratelli d’Italia preferisce stare dalla parte di un regime che è considerato tra i dieci peggiori e oppressivi al mondo, alla faccia dei diritti umani e del rispetto della dignità di ogni essere umano..

Finché c’è guerra c’è speranza, recitava il titolo di un vecchio film con Alberto Sordi.

I moderni mercanti preferiscono che gli oppositori politici e i prigionieri di guerra pacifici rimangano in galera, pur di non scontentare il cliente dittatore.

C’è solo da indignarsi di fronte a tale scenario.

Consiglio per la Comunità Armena di Roma

www.comunitaarmena.it

 

PER COMPLETEZZA DELL’INFORMAZIONE QUESTA E’ LA LISTA DEI DEPUTATI ITALIANI CHE HANNO VOTATO CONTRO IL RISPETTO DEI DIRITTI UMANI

Berlato, Ciccioli, Crosetto, Donazzan, Fidanza, Fiocchi, Gambino, Gemma, Inselvini, Magoni, Mantovani, Nesci, Picaro, Polato, Razza, Squarta, Torselli, Ventola, Vivaldini

Testi approvati – La continua repressione della società civile e dei media indipendenti in Azerbaigian e i casi di Gubad Ibadoghlu, Anar Mammadli, Kamran Mammadli, Rufat Safarov e Meydan TV – Giovedì 19 dicembre 2024

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“Lo Schiaccianoci”: la magia armena del Balletto di Tchaikovsky al Carlo Felice. La recensione (Goamagazine 22.12.24)

GENOVA – Quando Hoffmann pubblicò nel 1816 il racconto  “Lo schiaccianoci e il re dei topi” (“Nussknacker und Mausekönig”) non avrebbe mai saputo che la storia del soldatino che schiaccia le noci con la bocca e di Marie/Clara/Masha sarebbe divenuto uno dei balletti più iconici e amati di sempre:una fiaba che ha conquistato il pubblico mondiale, in particolare durante le festività natalizie. Il soldatino nasce in un paesino della Germania al confine con la repubblica Ceca come forma di protesta pacifica contro le tasse che venivano imposte dai militari; l’idea funzionò e da allora è un giocattolo tradizionale, una sorta di nume tutelare della casa, magicamente la custodisce e la protegge. Nel 1892,Ciajkovskij compose la musica per “Lo Schiaccianoci” su libretto di Marius Petipa e Lev Ivanov, adattato da Alexandre Dumas padre, un balletto commissionato dal Teatro Mariinskij di San Pietroburgo in cui andò in scena il 18 Dicembre del medesimo anno. La rappresentazione a cura dell’Armenian National Ballet (direttore Karen Durgaryan) andata in scena ieri al Carlo Felice riprende la coreografia (Georgy Kovtun)voluta da Petipa ma in chiave più dinamica con tratti ironici (basti pensare al grande topo telecomandato che percorre la scena) che per concetto controintuitivo sottolineano la capacità di Tchaikovsky di trasmettere emozioni profonde attraverso la musica, tra cui la melanconia di cui è permeato “Lo Schiaccinoci”, differenziandosi dagli altri coevi compositori connazionali, come Mussorgsky, Rimsky-Korsakov e Borodin, che si concentravano sullo sviluppo della tradizione popolare russa, e di avvicinarsi ad un linguaggio musicale più universale, che univa il retaggio ruteno alla musica tedesca e francese (vedi l’introduzione della Celesta, o l’intuizione di usare sonagli e trombette simboli dell’infanzia) dando vita a opere che, pur mantenendo una forte identità nazionale, erano apprezzate a livello internazionale. La musica di Ciaikovskiè emotivamente complessa, meno interessata alla ricerca del puro stile: e’ focalizzata sull’espressione di sentimenti personali, rendendolo più vicino al linguaggio sinfonico del romanticismo europeo, ma con una “firma” unica. Nell’edizione dell’Armenian il fil rouge della storia è tenuto da Drosselmeyer (scoppiettante esecuzione di Grigor Grigoryan) che nel sogno di Marie veste come l’apprendista stregone di Fantasia e ci porta, prima nell’ intimità casalinga di una festa di natale, con giochi, bambini, danze e regali, poi nel mondo di fiaba dove tutto è ignoto e magico. La prima rappresentazione de “Lo Schiaccianoci” non ebbe successo, la sua popolarità crebbe negli anni, diventando un ever green natalizio e non solo; presente dei cartelloni annuali di tutti i teatri mondiali grazie anche alla duttilità degli stili di danza (dalla classica a alla moderna,a quella di popolare), ha mantenuto intatta la sua capacità di emozionare e di affascinare. Molte delle grandi compagnie di balletto internazionali, tra cui il Balletto Bolshoi, il Royal Ballet e il New York City Ballet, lo includono regolarmente nel loro repertorio sia per la possibilità di utilizzare diversi stili che per la tipica combinazione di narrazione e danza che ne acuiscono la spettacolarità:in un’atmosfera onirica i ballerini raccontano una storia di magia (il soldatino, il bravissimo Vahe Babajanyan che diventa un principe, l’appaluditissimo Yura Martirosian), mutazione (Il pas de deux tra Clara, appaludita calorosamente, Anahit Vasilyan e lo Schiaccianoci che rappresenta la trasformazione della protagonista da bambina ad adulta) e trionfo del bene sul male (la lotta contro i soldatini di Fritz, il prepotente, e il duello tra Lo schiaccianoci e il re dei topi, il frizzante Armen Zakaryan). “Lo Schiaccianoci” è molto più di un semplice balletto, è diventato un vero e proprio evento culturale globale superando i confini temporali e nazionali, entrando a far parte della cultura collettiva mondiale: l’Atto II del balletto, che si svolge nel “Regno dei Dolci” (bellissime scenografie di Vjaceslav Okunev, dove il regno di Fata confetto è una sorta di palazzo d’inverno con uova di Fabergè ricolme appunto di confetti) presenta una serie di danze tipiche di diverse nazioni, come la “Danza Spagnola o del cioccolato”, la “Danza Cinese o del tè”, la “Danza Araba o del caffè”, la danza russa” (basata sul teprak russo e ucraino) e “la danza degli agnelli e del pastore”, al carattere pedagogico della fiaba si unisce così l’intento ecumenico il tutto sulle ali di quella fantasia, che fa volteggiare nell’omonimo film di Walt Disney cardi, funghi, carpe, fiori, motore imperituro della mente umana.

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Armenia – Il Natale arriva con i Magi (Assadakah 20.12.24)

Letizia Leonardi (Assadakah News) – Il Natale, nella piccola Repubblica d’Armenia, viene chiamato Poqr Zatig, la piccola festa.

La commemorazione della Natività di Gesù, che la chiesa cattolica ha fissato al 25 dicembre, è stata scelta dopo il III secolo per unire questa festa cristiana con le celebrazioni del solstizio d’inverno e quelle dei Saturnali romani, dal 17 al 23 dicembre. A differenza delle Chiese cattoliche e ortodosse, che celebrano il Natale rispettivamente il 25 dicembre e il 7 gennaio, la Chiesa Apostolica Armena lo celebra il 6 gennaio. Il Natale armeno ha un carattere fortemente religioso e non è una festa pomposa e consumistica come in molti Paesi occidentali. Sulle tavole si trovano ricette a base di pesce e uova, ma il piatto tradizionale è l’harissa con pollo e frumento.

La sera del 5 gennaio in tutte le Chiese Apostoliche Armene si celebra la Santa Liturgia della Candelora. Il nome “candelora” deriva dall’espressione “accendere una candela o una lampada”. Ecco perché quella sera la gente porta dalla chiesa candele accese, che simboleggiano la luce divina, la benedizione di Dio, la luce della stella di Betlemme, che ha aiutato i magi a trovare la strada verso il bambino Gesù.

La mattina del 6 gennaio, dopo la Santa Liturgia, viene eseguita la Benedizione dell’Acqua in ricordo del Battesimo di Gesù.

I credenti, secondo la tradizione, portano a casa un po’ di quest’acqua come mezzo per curare i malati. Si ritiene che abbia particolari proprietà benefiche. L’acqua consacrata, secondo la tradizione cristiana, dovrebbe essere conservata con cura e trattata come sacra. Il clero trasmette la notizia della nascita di Cristo anche visitando le persone e benedicendo le loro case.

Il 6 mattina vanno tutti a messa e se, nell’anno passato, si è avuto un lutto in famiglia, diventa d’obbligo anche una visita al cimitero, presso la tomba del familiare venuto a mancare. Anche quest’anno è stata organizzata la Fiera del Natale che è iniziata il 14 dicembre e proseguirà fino al 6 gennaio. Si possono trovare cibo, dolci, souvenir, ecc. Una parte separata della fiera è riservata alle persone sfollate con la forza dal Nagorno Karabakh.

Ma qual è il vero giorno della nascita di Cristo? Quello che si celebra il 25 dicembre o il 6 gennaio?  Fino al IV secolo la Natività veniva festeggiata da tutte le chiese il 6 gennaio, poi la data è stata spostata al 25 dicembre. In primo luogo perché la Chiesa voleva imporsi sulla festa pagana dedicata alla nascita del dio Sole e, dato che la gente era già abituata a festeggiare il giorno 25, sarebbe stato più semplice far dimenticare la festività pagana sovrapponendosi a essa. La Chiesa armena però non ha applicato alcun cambiamento di data, in quanto il Cristianesimo era la religione ufficiale già a partire dal 301 d.C. sotto il Regno del re Tiridate III e le feste politeiste non rappresentavano alcun pericolo. Nel 551, in disaccordo con alcuni dogmi, dopo il Concilio di Dwin, la Chiesa Armena si separò dalla Chiesa di Roma. Nacque, dunque, la Chiesa Apostolica Armena con sede nella città di Etchmiadzin, a pochi chilometri da Yerevan, che ancora porta avanti questa grande tradizione spirituale. A capo di tale Chiesa c’è il Catholicos, erede di Gregorio Illuminatore. Le Chiese orientali antiche, fra cui quella armena, hanno dunque mantenuto l’uso di commemorare il Natale il 6 gennaio, data che coincide con la festa dedicata alla dea Iside. E insieme alla nascita di Gesù si celebra anche il suo battesimo e quindi la benedizione delle acque. In Terra Santa, invece, dove si trova un’importante e antica presenza del popolo armeno, il Natale viene celebrato da questa comunità, in base al calendario giuliano, il 18 gennaio. In questo giorno, a Betlemme, gli armeni danno vita a un cerimoniale molto ricco e a una processione che giunge fino alla Chiesa della Natività.

Grazie anche all’integrazione in Occidente delle varie comunità di armeni della diaspora, le tradizioni natalizie sono diventate simili a quelle occidentali, come il pranzo di Natale e lo scambio dei doni. Nel giorno della vigilia arriva Dzmer pap, il Babbo Natale armeno, che porta regali ai bimbi, mentre nel giorno di Natale, il 6 gennaio, s’imbandiscono le tavole per ospitare, come nelle migliori tradizioni, amici e parenti, mangiando di tutto, come a Capodanno, con una carrellata di prelibatezze. In particolare si preparano: sudjuk (salsicce speziate), pasterma (fette di carne molto fini rivestite di pasta speziata), tolma (foglie di vite al riso), tourchi (verdure all’aceto), beurég (simile a un calzone al formaggio), sardine all’olio, insalata di fagioli bianchi, formaggio bianco (féta). Il piatto forte è anche il keuftés (polpettine di carne fritte) con verdure (bamia) e boulghour (un cereale originario della Turchia che si mangia come il couscous) e ornate con capelli d’angelo. Al posto delle polpette fritte può esserci anche una faraona o un tacchino. Le verdure ripassate in padella non mancano mai. Può esserci cicoria o verdure che si trovano nei campi. A fine pasto i tradizionali dolci: il gatnabour, un dolce di riso al latte spolverato di cannella, e il famoso pakhlava o baklava.

Come la Turchia perseguita i cristiani (InformazioneCattolica 20.12.24)

Come la Turchia perseguita i cristiani

A cura di Aid to the Church in Need U.K.

IL CASO TURCHIA DAL “PERSECUTED AND FORGETTEN? 2024”, UN RAPPORTO SUI CRISTIANI PERSEGUITATI PER LA LORO FEDE

 

L’annuncio dell’agosto 2020 secondo cui i musei di Hagia Sophia e Chora di Istanbul – costruiti originariamente come chiese cristiane – sarebbero stati formalmente riconvertiti in moschee ha suscitato molte polemiche. Mentre i piani per Hagia Sophia sono stati portati avanti, il progetto per Chora si è arenato dopo che il Comitato del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO ha espresso preoccupazioni. Tuttavia, nel maggio 2024, la preghiera islamica è ripresa nell’ex Chiesa di Chora.

Le attuali interpretazioni legali del Trattato di Losanna del 1923 riconoscono lo status di minoranza legale solo ai cristiani armeni apostolici ortodossi, ai cristiani greco-ortodossi e agli ebrei. Nonostante il loro status speciale, non hanno un’identità legale e non possono acquistare o possedere proprietà a titolo collettivo né intraprendere azioni legali. Lo stesso vale per altri gruppi minoritari, inclusi cattolici e protestanti, che attualmente possono possedere proprietà solo tramite fondazioni separate.

Nonostante queste restrizioni, nell’ottobre 2023 la Chiesa Siriaco-Ortodossa di Sant’Efrem, la prima nuova chiesa costruita con l’approvazione del governo dalla fondazione della Turchia moderna, è stata ufficialmente inaugurata alla presenza del Presidente Recep Tayyip Erdoğan. Fonti della Chiesa nel paese hanno riferito che ci sono segnali che il governo emetterà permessi di costruzione per altre nuove chiese.

Le comunità cristiane continuano a incontrare restrizioni nella formazione del clero. Le comunità protestanti non possono formare clero nel paese e fanno affidamento principalmente su ministri stranieri. Il Seminario di Halki della Chiesa greco-ortodossa è chiuso da oltre mezzo secolo e, come la Chiesa ortodossa armena, invia i candidati al sacerdozio all’estero per gli studi.

L’eliminazione delle difficoltà burocratiche che impedivano il ritorno dei cristiani emigrati dalla Turchia è stata lodata da Padre Gabriel Akyuz della Chiesa Siriaco-Ortodossa dei 40 Martiri di Mardin. Egli ha reso omaggio al Presidente Erdoğan e al governo del Partito AK, sottolineando che “le massime autorità dello Stato [hanno dato] assicurazioni agli assiri che possono tornare nel loro paese in sicurezza”. Tuttavia, le paure sono riaffiorate quando, nel novembre 2023, la 91enne Gevriye Akgüç, cristiana siriaco-ortodossa ritornata in patria, è stata uccisa ad Anhil, Mardin.

A proposito di gravi eventi accaduti, nel mese di Gennaio 2024 due uomini armati hanno ucciso un uomo durante la messa domenicale nella Chiesa di Santa Maria a Istanbul. Lo zio della vittima ha dichiarato che l’uomo era un catecumeno di 52 anni. Lo Stato Islamico (ISIS) ha rivendicato l’omicidio. Nel mese di Febbraio 2024 sono state inviate domande scritte al Ministro dell’Istruzione Yusuf Tekin riguardo a un manuale inviato a tutte le scuole, in cui si affermava che era vietato celebrare festività cristiane. Ad Aprile 2024 i cristiani sono rimasti indignati quando la storica Chiesa di Santa Maria nel villaggio di Goydun, nella provincia di Sivas, è stata messa in vendita per 16 milioni di lire turche (circa 500.000 dollari). La chiesa del XIX secolo è stata venduta da Hatice Akay, una residente locale la cui famiglia l’aveva acquisita dopo il genocidio armeno. Essendo registrata come bene culturale protetto, la vendita dovrebbe essere illegale.

Nel mese di Maggio 2024 le preghiere islamiche sono ricominciate nella storica Chiesa di Chora. Il Presidente Erdoğan ha presieduto la cerimonia di inaugurazione tramite collegamento video. La chiesa del IV secolo divenne moschea nel 1511, dopo la caduta di Costantinopoli, e fu trasformata in museo nel 1945 per via dei suoi mosaici e affreschi significativi del tardo periodo bizantino. Chora è un sito del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO. Nel mese di Giugno 2024 un processo ha rivelato che l’agenzia di intelligence Milli İstihbarat Teşkilatı monitorava segretamente i membri delle comunità protestanti da diversi anni, contrassegnando i dossier dei chierici stranieri con il codice N-82. Questo identificava i religiosi come minacce alla sicurezza nazionale, rendendo di fatto estremamente difficile il rientro nel paese.

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Trilaterale India-Iran-Armenia (FarodiRoma 20.12.24)

Il secondo giro di consultazioni trilaterali India-Iran-Armenia si è tenuto il 12 dicembre 2024 a Nuova Delhi. Shri J.P Singh, segretario congiunto della Divisione PAI, ha guidato le discussioni per la parte indiana. Le delegazioni di Iran e Armenia erano guidate rispettivamente da S.E. Mr. Hashem Ashja’ Zadeh, direttore generale della Divisione Asia meridionale, Ministero degli Affari esteri della Repubblica islamica dell’Iran e S.E. Ms. Anahit Karapetyan, capo del Dipartimento Asia-Pacifico, Ministero degli Affari esteri della Repubblica di Armenia.

Sulla base dei risultati delle precedenti consultazioni trilaterali tenutesi a Yerevan nell’aprile 2023, le tre parti hanno discusso in agenda le iniziative nel campo della connettività, l’impegno in forum multilaterali e ulteriori sviluppi di carattere regionale, esplorando anche modalità per promuovere il commercio, il turismo e gli scambi culturali attraverso il rafforzamento dei legami interpersonali. Durante le consultazioni, le delegazioni hanno sottolineato la necessità di promuovere una stretta cooperazione nell’ambito dell’INSTC (International North–South Transport Corridor) e hanno evidenziato a tale proposito il ruolo del porto di Chabahar. La parte armena ha informato i partecipanti sulla sua iniziativa di connettività “The Crossroads of Peace”. Le tre parti hanno ribadito, infine, il proprio impegno a continuare la cooperazione secondo il formato attuale ed è stato concordato che il prossimo round di consultazioni trilaterali si terrà in Iran in una data e un orario reciprocamente convenienti.

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Armenia: vicepremier Grigoryan, progetto Crocevia della pace fondamentale per gestire rischi (AgenziaNOva 18.12.24)

Erevan, 18 dic 16:50 – (Agenzia Nova) – Il progetto Crocevia della pace dell’Armenia rappresenta un elemento cruciale per neutralizzare i rischi energetici, rafforzare le relazioni economiche e commerciali e creare nuove opportunità per la fornitura di beni. Lo ha dichiarato il vice primo ministro armeno, Mher Grigoryan, durante il forum “Challenges and Opportunities: Towards 2025” a Erevan. Grigoryan ha sottolineato che i rischi globali sono interconnessi e richiedono un’analisi approfondita per evitare conseguenze impreviste. “Non si tratta solo del costo o della disponibilità di risorse energetiche, ma anche delle capacità logistiche di fornitura, spesso fisicamente limitate”, ha affermato il vicepremier. Grigoryan ha evidenziato che le infrastrutture regionali per il gas e le soluzioni logistiche dovrebbero garantire una gestione sostenibile dei rischi energetici e ha inoltre ribadito l’importanza di produrre beni competitivi di alta qualità, in grado di superare le sfide del mercato globale. Il progetto Crocevia della pace si inserisce nella strategia di diversificazione dell’Armenia, mirata a consolidare la resilienza economica e a promuovere lo sviluppo sostenibile nel contesto regionale.

La Turchia ha davvero commesso un genocidio contro gli armeni? Ecco cosa è avvenuto tra il 1915 e 1923 continua (Geopop 17.12.24)

Il 24 aprile di ogni anno gli armeni di tutto il mondo si raccolgono nelle commemorazioni del Genocidio che il loro popolo soffrì per mano dei turchi durante e dopo la Prima Guerra Mondiale. L’evento è negato da Ankara, ma viene riconosciuto da vari Stati e organizzazioni, comprese l’Italia e l’Unione Europea.

Con l’espressione “Genocidio Armeno” (“Մեծ եղեռն/Medz Yeghern” – “Il Grande Male/Il Grande Genocidio”, in lingua armena) si intende la sistematica distruzione fisica del popolo armeno e della sua identità culturale portata a compimento nel periodo compreso tra il 1915 ed il 1923 dai turchi (con la fattiva collaborazione di numerose tribù curde) che ebbe come esito finale la completa eliminazione dell’elemento armeno dal panorama etno-culturale dell’Anatolia (la penisola sulla quale si distende la Turchia), provocando tra 600.000 e 2 milioni di morti. Parliamo di un evento la cui eco continua a produrre i suoi effetti ancora oggi, negato da Ankara, ma riconosciuto da una trentina di Stati e da organizzazioni internazionali, tra cui l’Italia e l’Unione Europea. L’evento è commemorato dagli armeni ogni 24 aprile.

Gli armeni e l’Impero Ottomano: una storia travagliata

Gli armeni, popolo indoeuropeo di antichissima origine, hanno tradizionalmente abitato per millenni una vasta area montuosa situata a cavallo tra la penisola anatolica, il Caucaso, l’altopiano iranico e il Medio Oriente che, proprio grazie a loro, è nota nella maggior parte del mondo col nome di “Altopiano Armeno” oppure “Tauro Armeno”. In quest’area si sviluppò nel corso dei secoli la loro civiltà, la quale visse costantemente a contatto con le altre popolazioni limitrofe (per esempio, gli assiri) nonché con i grandi imperi che, ad un tempo, hanno dominato l’area (per esempio l’Impero Persiano e l’Impero Romano).

Gli armeni entrarono in contatto con le genti turche a partire dalla seconda metà del XI secolo d.C. quando, dopo la sconfitta subita dall’Impero Romano d’Oriente nel corso della battaglia di Manzicerta (26 agosto del 1071 d.C.), l’area di loro tradizionale stanziamento cadde stabilmente nelle mani dei turchi Selgiuchidi. A questi ultimi succedettero nel 1299 gli Ottomani, il cui potere sarebbe durato per 623 anni, sino al 1922, poco dopo la fine della Prima Guerra Mondiale.

Per gran parte della parabola storica dell’Impero Ottomano, gli armeni, pur confinati giuridicamente in una posizione di “inferiori” in base al sistema dei “millet” che separava i sudditi della “Sublime Porta” in base all’appartenenza religiosa, riuscirono comunque a ritagliarsi una posizione di estrema rilevanza a livello politico, economico e culturale all’interno del grande stato multinazionale e multiconfessionale.

A partire dal 1700 però, con l’inizio della lunga decadenza ottomana, la loro condizione sociale (come quella delle altre minoranze) andò via via peggiorando tanto che, quando il movimento rivoluzionario/riformatore dei cosiddetti “Giovani Turchi” (formalmente: Comitato Unione e Progresso) organizzò, nel 1908, una rivoluzione per abolire la monarchia assoluta e riformare e modernizzare l’Impero, gli armeni (così come le altre minoranze etno-religiose) la appoggiarono entusiasicamente sperando che questo avrebbe significato l’inizio di una nuova era.

Il Genocidio Armeno
La fiducia con la quale gli armeni salutarono l’instaurazione del governo dei “Giovani Turchi” si dimostrò assolutamente mal riposta. Essi infatti istituirono una spietata dittatura militare con a capo il triumvirato composto dai ministri İsmail Enver Pasha, Mehmed Talât Pasha e Ahmed Cemâl Pasha che nel 1914 spinsero l’Impero Ottomano a entrare in guerra dalla parte degli Imperi Centrali (Germania, Austria-Ungheria e Bulgaria) contro le potenze dell’Intesa, in particolare la Russia.

La guerra però andò malissimo per i turchi, tanto che il triumvirato al potere decise, specialmente dopo la sconfitta sofferta tra il 22 dicembre del 1914 ed il 17 gennaio 1915 nella battaglia di Sarikhamis contro la Russia, di accusare gli armeni e le altre etnie cristiane all’interno dell’Impero di preparare una sollevazione filorussa e di voler pugnalare i musulmani alle spalle.

I volti di alcuni tra le centinaia di intellettuali armeni arrestati e deportati nella notte tra il 23 ed il 24 aprile 1915. Credit: Soviet Armenian Encyclopedia, Settimo Volume
Nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915, centinaia di membri dell’intellighenzia dell’influente comunità armena di Costantinopoli vennero arrestati e deportati verso le aree interne dell’Impero. Nelle settimane e nei mesi successivi gli ordini di deportazione vennero estesi a tutto il territorio dell’Anatolia coinvolgendo la totalità della popolazione armena locale. Milioni di armeni di ogni età ed estrazione sociale vennero deportati a piedi in condizioni terrificanti fino alle zone desertiche attorno alla città siriana di Deir ez-Zor che divennero una sorta di enorme “campo di concentramento a cielo aperto” per i poveri malcapitati.

Peraltro, gli armeni non furono le uniche vittime delle politiche del governo dei “Giovani Turchi” dato che, parallelamente, essi ordinarono la deportazione e lo stermino anche dei greci e degli assiri e solo il deterioramento della situazione al fronte nell’ultimo periodo della guerra impedì che anche i cristiani maroniti libanesi e gli ebrei di Palestina subissero sorte analoga.

Non si deve credere però che l’odissea degli armeni e delle altre popolazioni cristiane dell’Anatolia si sia conclusa con la fine della Prima Guerra Mondiale, dato che negli anni successivi, nel corso di quella che è passata alla storia come “Guerra d’Indipendenza Turca” (1919-1923), il generale Mustafa Kemal Atatürk a tutti gli effetti portò a compimento quanto era stato lasciato in sospeso dai “Giovani Turchi” completandone l’opera di pulizia etnica ai danni delle comunità non musulmane, base dell’istituzione su base etnonazionale della moderna Repubblica di Turchia.

Una memoria negata e un futuro incerto
E’ molto difficile dire con certezza quale sia stato il prezzo finale in termini di vite umane che il genocidio armeno ha inflitto al suo popolo. La maggior parte delle fonti parlano di un numero di vittime che va dai 600.000 a 1.500.000 (quest’ultima è la cifra più ricorrente nei libri di storia) ma è qui necessario specificare che le stesse fonti limitano l’arco temporale dell’indagine al periodo compreso tra il 1915 ed il 1918.

Se venissero contati anche gli eccidi della “Guerra d’Indipendenza Turca”, allora il totale potrebbe toccare i 2.000.000, su una popolazione totale di armeni, dentro e fuori dall’Impero Ottomano, che non superava i 3.500.000. Il risultato pratico di questo violento processo di eradicazione fu che, dopo il 1923, la plurimillenaria presenza del popolo armeno nelle sue terre d’origine ha completamente cessato di esistere.

Oggi, nella moderna Turchia, vivono non più di 40-50.000 armeni, per la quasi totalità concentrati nella città di Istanbul mentre tutto ciò che è rimasto di loro nei territori interni dell’Anatolia sono le rovine di un glorioso passato. Centinaia di migliaia di superstiti si sparsero in giro per il mondo gettando le basi per quella che oggi è la fiorente diaspora armena (“Spyurk”) che conta milioni di individui, soprattutto in Russia e nei paesi occidentali. Sorte analoga è toccata ai greci e agli assiri, anch’essi a tutti gli effetti scomparsi dal territorio anatolico.

Per decenni i sopravvissuti e i loro discendenti hanno lottato per ottenere giustizia, ma tale circostanza non si è mai verificata. Ancora oggi, infatti, sebbene 34 Paesi abbiano riconosciuto il genocidio armeno come “genocidio” in piena regola (l’Italia è tra questi), e benchè vi sia stato un pronunciamento quasi unanime a riguardo da parte della comunità internazionale degli storici, esso non ha ancora ottenuto quel riconoscimento internazionale complessivo e totale che ha invece ottenuto la Shoah ebraica avvenuta durante la Seconda Guerra Mondiale.

Vi sono inoltre tre Paesi (il Pakistan, l’Azerbaigian e la Turchia) che negano in maniera esplicita che vi sia mai stato un genocidio. La questione del negazionismo turco relativamente al genocidio armeno è importante non solamente per ciò che attiene alla riconciliazione tra armeni e turchi e al dialogo tra l’Unione Europea e la Repubblica di Turchia, ma anche per valutare le realistiche possibilità di permanenza della Turchia nel campo del cosiddetto “Occidente allargato”.

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La comunità armena di Trieste: «Qui siamo rimasti in dieci famiglie. Le nostre radici vanno tutelate» (Il Piccolo 15.12.24)

La storia della comunità armena disegna un itinerario di inestimabile valore nel centro di Trieste. La chiesa di via Giustinelli è solo la testimonianza più vistosa: dal colle di San Vito, primo e più importante insediamento, fino a corso Italia e via Muratti, di esempi ce ne sono tantissimi e ciascuno di essi è collegato a suo modo al passato della città.

A Trieste la chiesa degli armeni ancora in stallo: «Servono 5 milioni per il suo restauro»
L’esterno della chiesa degli armeni di via Giustinelli, con il campanile e il crocifisso Fotoservizio Massimo Silvano

Il comitato Ararats, fondato nel 2016 proprio per valorizzare la storia peculiare degli armeni-triestini rispetto al resto della Penisola, organizza ciclicamente questo piccolo tour tra le vie del centro città, collaborando con altri enti e associazioni locali. «Oggi la comunità armena è formata da una decina di famiglie», racconta la vicepresidente del comitato Adriana Hovhannessian. Dopo la pandemia, il lavoro di chi collabora con Hovhannessian si è fatto più complicato: «I membri attivi sono pochi e non abbiamo una sede. Però, per essere così pochi, il lavoro fatto è più che soddisfacente».

Seguiamo il percorso che Ararats ha ideato per illustrare il passato della comunità armena a Trieste. «Si parte da San Giusto – continua Hovhannessian – dove si trova una lapide che attesta la presenza di un vescovo armeno in città nel Settecento». Da qui il pretesto con cui ripercorrere le origini della comunità nel territorio giuliano, che alla fine del Settecento contava 550 persone. Sono due le spinte che hanno portato molte famiglie a cercare fortuna a Trieste: da un lato c’entra il fattore religioso, legato ai movimenti dei padri mechitaristi, dall’altro quello commerciale, vista la nota attrazione del porto franco.

Da San Giusto si scende in direzione di via Ciamician, uno dei più illustri rappresentanti della storia armena triestina. L’itinerario si perde così tra le strade del colle di San Vito, molte delle quali recano cognomi armeni: dai più noti come Ananian ai meno scontati come Hermet. Si passa davanti ai più celebri palazzi, si respira più in generale un’atmosfera comune, le cui tracce sono recate dall’architettura e da un medesimo “tocco” artistico-culturale.

Una delle ultime tappe è corso Italia, davanti al palazzo ora sede dell’hotel Modernist che rientra nell’enorme eredità immobiliare di Gregorio Ananian. Il giro si conclude al laboratorio di ottica Zingirian in via Muratti, all’interno del quale è ancora presente un quadro che riporta il Padre nostro in lingua armena.

Alla luce di uno spaccato così ricco di suggestioni, non possono che sorgere alcune domande. Benché così prolifica per la storia di Trieste, la comunità armena appare oggi ancora poco conosciuta, come fosse rimasta in secondo piano rispetto ad altre minoranze. Certo un ruolo l’hanno giocato i numeri esigui delle famiglie rimaste di cui si diceva all’inizio. Eppure i numeri non danno una risposta esaustiva. «Rispetto ad altre culture come quella ebraica – riflette Hovhannessian – gli armeni hanno una facilità di integrazione maggiore con la comunità d’arrivo». Il che ha anche riflessi concreti, dato ad esempio dal fatto che essi non sono tenuti al rispetto dell’endogamia. Se la «facilità di integrazione» ha fatto la fortuna di molti cittadini armeni, al contempo ha acuito il rischio di dispersione delle radici nazionali. «A Trieste – confessa Hovhannessian – sono l’unica che sa ancora parlare la lingua armena». —

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A Trieste la chiesa degli armeni ancora in stallo: «Servono 5 milioni per il suo restauro» (Il Piccolo)

Armeni in fuga: la “nuova” Siria targata Turchia ricorda troppo il passato (InsiderOver 15.12.24)

Il regime siriano di Bashar al-Assad è crollato e in soli dieci giorni la fine del Governo che da oltre cinquant’anni dominava a Damasco ha portato i militanti d’opposizione a conquistare la parte del Paese in mano agli ex lealisti e ha stravolto la mappa del Paese levantino. Ora che il governo di transizione di Mohammad al-Bashir, vicino al gruppo militante Hay’at Tahrir al-Sham, si è insediato a Damasco, il Paese guarda con attenzione al futuro, e in particolare vi guardano le minoranze che a lungo hanno contribuito a costituire una Siria plurale. Cosa resterà di questo Paese dopo tredici anni di guerra civile? A chiederselo sono i curdi e le vaste minoranze cristiane, tra cui gli armeni.

La storia degli armeni in Siria è di lungo corso e legata ai grandi drammi dell’ultimo secolo. “Per poter capire la situazione degli armeni in Siria bisogna guardare alla storia”, dice a InsideOver il professor Baykar Sivazliyan, a lungo docente di Lingua e cultura armena presso l’Università degli Studi di Milano e oggi presidente dell’Unione degli Armeni d’Italia. “Mezzo secolo fa gli armeni in Siria erano oltre 200mila”, nota Sivazliyan, “e c’era grande gratitudine per il fatto che l’insediamento più consistente fosse stato favorito dall’aiuto dato dagli arabi del Paese ai sopravvissuti del genocidio del 1915”.

Gli armeni e la Siria, una lunga storia di convivenza

I massacri di armeni nell’Impero Ottomano e la politica genocidiaria condotta dal governo di Istanbul durante la Grande Guerra generarono una “geografia del dolore” per questo popolo perseguitato che si sovrappose, drammaticamente, con luoghi della Siria tornati a far parlare di sé negli anni cupi della guerra civile. Tra il 1915 e il 1916, centinaia di migliaia di armeni furono costretti a vere e proprie marce della morte dall’Anatolia al deserto siriano, diretti a Deir ez-Zor. Gli anni bui del genocidio videro gli arabi di Siria prodigarsi, in diversi casi, a favore dei deportati: la memoria armena ricorda, ad esempio, il contributo dato dal sindaco di Deir ez-Zor, Haj Fadel Al-Aboud, per alleviare le condizioni drammatiche dei deportati.

Baykar Sivazliyan

Quello fu l’inizio di un rapporto che, nota Sivazliyan, “è durato per decenni. La guerra civile”, dice il presidente della comunità armena in Italia, ha creato grandi sconvolgimenti: “già dieci anni fa questo numero si era dimezzato”, a poco tempo dallo scoppio del conflitto del 2011. Europa e Usa sono stati i principali luoghi di destinazione della comunità armena in fuga dalla Siria. L’avanzata dei militanti filo-turchi che ha travolto il regime di Assad ha portato con sé un aumento delle fughe di armeni dalle aree investite dall’offensiva: “Pensiamo ad Aleppo. Prima della guerra vi vivevano almeno 80mila armeni, ad oggi stando alle informazioni più recenti in nostro possesso non ne restano più di 15mila, e in totale in tutta la Siria saremo attorno ai 40mila“.

“A prescindere dal giudizio politico sul regime di Assad, che non è il centro della questione”, nota il docente, “sottolineiamo l’emersione di una profonda sfiducia da parte di molti armeni di fronte all’avanzata di forze legate a una potenza ingombrante come la Turchia, che al nostro popolo evoca tempi bui della storia, e la cui ingerenza in Siria si è fatta sempre più palese”. Del resto, Sivazliyan nota che “l’attenzione mediatica si è spostata sulla Siria nei giorni dell’offensiva, ma era mesi che il Paese si era surriscaldato e le forze turche e i loro alleati avevano iniziato una crescente pressione su comunità come quella dei curdi, e questo genera un sentimento di sfiducia”.

Un destino incerto

Insomma, “il destino degli armeni è incerto”, e lo è ad Aleppo, a Damasco o in località dove questa comunità è molto radicata, come l’area di Chessab vicino Latakia. Ad ora non si registrano vessazioni da parte dell’ex opposizione ora al governo. “I rappresentanti dei rivoltosi hanno avuto numerosi contatti con la comunità e la Chiesa armena dando ampissime rassicurazioni che non succederà nulla”, segnala Sivazliyan, ma l’attenzione è alta: “Se inizieranno ad imporre l’ideologia islamista, a segregare i ragazzi e le ragazze nelle scuole o a trattare gli armeni come cittadini di serie B, sarà un problema. Però capisco i miei connazionali che appena hanno visto la situazione, malgrado le garanzie date in questi giorni, sono andati via”, nota il presidente. Due anni fa Chessab è stata attaccata da gruppi filo-turchi che hanno colpito il patriarcato armeno, divelto diverse tombe nei cimiteri e “richiamato alla mente scene che pensavamo dimenticate”, nota l’accademico armeno.

L’ipotesi di trovarsi in una Siria filo-turca e legata alle volontà politiche di Recep Tayyip Erdogan ha spinto molti armeni a non sentire più il Paese come casa propria. E fresco è ancora, nota Sivazliyan, “il ricordo dell’esodo degli armeni dal Nagorno-Karabakh, che ha portato il nostro Paese, di meno di 3 milioni di abitanti, ad accogliere 120mila profughi scacciati dagli azeri, dopo le recenti guerre e la conseguente pulizia etnica, strategie avallate dalla Turchia di Erdogan, dalla regione che rappresenta una delle culle della nostra storia”, il tutto “nel silenzio del mondo e ignorate dalla stragrande maggioranza dei media occidentali”. Impossibile cancellare i traumi della storia, recente e remota, su un popolo: la sensazione che gli armeni possano non sentire più la Siria come casa propria emerge, ed è una delle problematiche a cui la nuova leadership dovrà dare risposta. Ammesso che abbia intenzione di farlo.