La presidenza dell’Azerbaigian: “Se l’Armenia vuole la pace, rinunci al Karabakh, cambi la Costituzione e smilitarizzi” (Repubblica 27.09.24)

Parla Hikmat Hajiyev, braccio destro del presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev, che pone le condizioni all’Armenia per porre fine al conflitto tra i due paesi: referendum che sancisca la rinuncia al Nagorno Karabakh e nessun posizionamento di missili a lunga gittata lungo i confini

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Dario Rupen Timurian Console Onorario d’Armenia in Bari (Affari Italiani 27.09.24)

Sabato 28 settembre 2024 alle ore 19,00 avrà luogo l’inaugurazione del Consolato Onorario della Repubblica d’Armenia in Bari (Circoscrizione: Puglia) presso gli uffici siti in Corso Vittorio Emanuele 30 a Bari. L’edificio che ospita il Consolato ha sede in uno dei palazzi storici del pieno centro della città, a pochi passi dai principali delle istituzioni politiche, culturali e religiose della regione pugliese.

Il taglio del nastro sarà presieduto da S.E. Tsovinar Hambardzumyan, Ambasciatore Straordinario e Plenipotenziario della Repubblica d’Armenia in Italia, e dal Console Onorario Dario Rupen Timurian. Vi prenderanno parte, insieme ai componenti del Corpo Consolare di Puglia, Basilicata e Molise, le autorità, civili e religiose locali.

Il Consolato Onorario della Repubblica di Armenia in Bari sarà il luogo di riferimento per la tutela dei cittadini della Repubblica d’Armenia in Puglia e per le iniziative volte a promuovere e rafforzare la cooperazione scientifica e culturale, educativa, economica e commerciale tra Armenia e Regione Puglia.

Il Console Onorario Dario Rupen Timurian, classe 1974, laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Bari, è un imprenditore. La sua famiglia giunse a Bari dopo il Genocidio Armeno del 1915 e si inserì sin da subito nel tessuto sociale e imprenditoriale regionale e nazionale.

(gelormini@gmail.com)

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Passi avanti su trattato di pace Armenia-Azerbaigian (Ansa 27.09.24)

BRUXELLES, 27 SET – I negoziati tra Armenia e Azerbaigian per un trattato di pace fanno passi avanti dopo l’incontro di ieri tra i due ministri degli esteri a New York, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Sul contenuto dell’accordo di pace in 16 punti al momento in discussione tra le due cancellerie 13 punti sarebbero ora concordati lasciando fuori solo 3 soli paragrafi su cui serve ancora un’intesa.

Lo spiegano all’ANSA fonti qualificate del governo armeno a Bruxelles.
Tra i punti in sospeso la presenza della missione civile dell’Ue sul confine tra le due nazioni o le presenza di qualsiasi meccanismo internazionale, civile o militare, fortemente osteggiata da Baku.
Preoccupa poi il ruolo di Mosca. Il Cremlino infatti avrebbe interesse a ritardare la firma in quanto il raggiungimento di un trattato di pace definitivo comporterebbe una forte riduzione dell’influenza russa nella regione. Per quel che riguarda le forniture militari, ad esempio, l’esercito armeno è passato in 4 anni dal 96% di forniture militari russe al 10%, sostituendo i vecchi contratti con nuovi accordi siglati con India e Francia.
Ridotto, rispetto ad un anno fa, il rischio di escalation militare grazie anche ai lavori della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, la Cop 29, che sarà ospitata a novembre dall’Azerbaigian portando il Paese caucasico sotto i riflettori del mondo intero.
Alte le aspettative di Yerevan sul passaggio di testimone alla guida del Servizio europeo per l’azione esterna dell’Ue con l’arrivo dell’estone Kaja Kallas, che il governo armeno vede molto positivamente. Yerevan infatti ha fatto sapere di sperare in una visita della nuova Alto Rappresentante Ue in tempi brevi, visita venuta a mancare durante la gestione dell’attuale capo della diplomazia Ue, lo spagnolo Josep Borrell.

ARMENIA, UN ANNO DALL’OCCUPAZIONE DEL NAGORNO-KARABAKH (L’Opinione delle libertà 27.09.24)

Dopo oltre tre decenni di conflitti, e passato un anno da quel 19 settembre 2023, quando l’Azerbaigian rovesciò militarmente l’autoproclamata autorità della ex regione autonoma del Nagorno-Karabakh, o Repubblica dell’Artsakh, il popolo armeno vive ancora sotto la minaccia dello scomodo, ma sempre più solido militarmente, vicino. Allora l’esercito di Baku in circa venti ore ha praticamente assunto il controllo del territorio popolato principalmente da armeni. Pochi giorni dopo furono avviati, mestamente per i rappresentanti armeni del Nagorno, i colloqui con gli azeri, che strumentalmente definiscono “separatisti” gli abitanti dell’area contesa; ma su questa descrizione non si può essere né sintetici, né superficiali, né generalisti. In quella operazione militare rimasero vittime oltre duecento armeni. Il territorio del Nagorno-Karabakh era già stato amputato dei suoi confini storici a seguito della prima vittoria azera, nell’autunno del 2020.

Poi l’Azerbaigian a dicembre 2022, con volontà unilaterale, chiuse il corridoio di Lachin, e così fu interrotto il legame terrestre tra gli artisakhioti, o karabakhi, che in pratica furono rinchiusi all’interno dei residui confini del Nagorno-Karabakh, e l’Armenia. Una operazione che apre tutt’oggi profonde riflessioni sui bilanciamenti geopolitici dell’area caucasica, in quanto la recisione del cordone tra l’Armenia e il Nagorno-Karabakh avvenne con il nulla osta, e la complicità della Russia di Vladimir Putin, che comunque è uno dei garanti dell’Armenia, e coordinatore degli accordi siglati tra i belligeranti. Ma gli effetti dell’isolamento portarono risultati quasi immediati; infatti fu spezzata la resistenza degli artisakhioti, anche perché i circa centoventimila abitanti piombarono in una carestia assoluta essendo interrotte le comunicazioni con l’Armenia, infatti già nell’estate del 2023 si iniziarono a contare i primi decessi per penuria dei generi necessari.

Un trauma che si aggiunge a un trauma: la perdita di un territorio con le sue tradizioni cristiane e la sua cultura, con la perdita del minimo per la sopravvivenza. Dalla “fame” scaturì terrore. Questo spiega la motivazione perché nessuno accettò di rimanere in patria dopo il 19 settembre 2023, quando la tirannia di Baku accompagnata dall’esercito azerbaigiano, invasero l’autoproclamata repubblica del Nagorno-Karabakh, ormai totalmente inerme e fragilissima. Le modalità offensive dell’autocrate presidente azero Ilham Aliyev richiamano ataviche tattiche militari. In realtà, fu posto un assedio in una regione che fu privata di tutto, una distruzione di massa raggiunta tramite il terrore assoluto. La complessità dell’operazione di Baku sfuma nella memoria e richiama l’epoca genocida. Probabilmente proprio la memoria indelebile del genocidio del popolo armeno del 1915, con i preamboli del 1894-96, ha martoriato la resistenza dei pochi abitanti del Nagorno-Karabakh; una palese pulizia etnica dell’autoproclamata repubblica e l’ennesimo spregio del diritto internazionale e dei diritti dell’umanità. Un anno fa la perseguitata popolazione artisakhiota, a rischio concreto di sopravvivenza, si rifugiò in Armenia. Così il Nagorno-Karabakh armeno, per ora, si è estinto demograficamente, umanamente e culturalmente. Resta una regione geografica controllata da Baku e inserita in un profondo programma di ripopolamento con popolazione azera-musulmana.

Gli azeri occupanti come da prassi, hanno annichilito velocemente ogni traccia di civiltà cristiana: chiese, cimiteri, monumenti storici, ma anche la toponomastica di ogni entità geografica, vie, piazze, quartieri, come le simbologie rappresentanti la politica. La narrazione della “cultura” dell’Azerbaigian afferma che gli armeni non sarebbero mai esistiti nel Nagorno-Karabakh. Molti capi artisakhioti sono scomparsi nelle profonde prigioni azere, tra questi anche Ruben Vardanjan, ex ministro, pare consegnato dai russi ai carcerieri azeri. Ricordo che l’enclave del Nagorno-Karabakh ottenne l’indipendenza nel 1991. Nel periodo 1992-94 l’esercito armeno sconfisse quello azero dimostrando una netta superiorità militare. Nella penultima guerra nel Nagorno, quella del novembre 2020, le forze armene furono sconfitte non dall’esercito azero ma da quello mercenario turco, composto soprattutto da jihadisti dell’ex Stato islamico, e dai droni di AnkaraLi vacillò quel sistema disequilibrato, che comunque ancora dava prospettive e speranze agli armeni della regione del Nagorno-Karabakh.

Inoltre il Ministero degli Esteri armeno il 21 giugno 2024 ha annunciato il riconoscimento dello Stato di Palestina, sottolineando la condivisione assoluta dei principi del diritto internazionale, quindi la sovranità (sensibilità diretta), l’uguaglianza e la convivenza pacifica dei popoli. Tuttavia ciò ha sollevato critiche reazioni da parte di Israele. Ma i rapporti tra lo Stato ebraico e l’Armenia si erano già deteriorati nel 2020, quando Yerevan ha accusato Gerusalemme-Tel Aviv di avere venduto all’Azerbaigian grandi quantità di armi che hanno permesso l’offensiva lampo nel settembre 2023 contro il Nagorno-Karabakh. Va anche rammentato che Israele fornisce all’Azerbaigian strategici sistemi di controllo informatico, anche invasivo, e apparecchiature elettroniche di intercettazione aerea; inoltre l’Intelligence israeliana può fare conto su queste relazioni per controllare il confinante Iran. Va sottolineato che nel contesto storico attuale dove operazioni militari tendono a modificare i confini geografici di alcuni Stati, occorre collocare la “questione armena” sullo scacchiere geopolitico valutando le criticità caucasiche; in quanto svincolare questa area di crisi da quella ucraina e georgiana, come da quella iraniana, potrebbe condurre a una visione limitata di un sistema geostrategico articolato ma legato ai medesimi ancoraggi. Ad oggi possiamo definire la questione del Nagorno-Karabakh come la classica dissoluzione metafisica; ma potremmo anche riflettere su due popoli, quello armeno e quello ebreo, che anche se accomunati dal medesimo dramma del genocidio, pare non siano in posizioni “politiche” complanari.

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Omaggio all’artista armeno Yervand Kochar (Oggi Roma 26.09.24)

Martedì, 1 ottobre, ore 18:30, l’Institut Français Centre Saint Louis di Roma ospiterà una serata speciale dedicata a Yervand Kochar, uno dei maggiori artisti armeni del XX secolo, che ha saputo fondere tradizioni nazionali e innovazioni europee in un dialogo artistico unico.

Yervand Kochar ha lasciato un segno indelebile nel panorama delle avanguardie artistiche del XX secolo, soprattutto negli anni del suo soggiorno a Parigi (1923-1936), dove fu protagonista della creazione di un nuovo linguaggio plastico, la “Pittura nello Spazio” (Peinture dans L’Espace).

Saranno proiettati due film, in lingua armena con sottotitoli in italiano, che mettono in luce la versatilità artistica di Kochar:

• “La pittura nello spazio di Yervand Kochar”, un documentario di 15 minuti dedicato alla sua produzione artistica;
• “Cagliostro”, 41 minuti, un film tratto dalla pièce di Yervand Kochar, diretto dal regista Ruben Kochar, figlio dell’artista e presidente della “Kochar Cultural Foundation”, che sarà presente alla serata.

A introdurre le proiezioni è il professor Francesco Gallo Mazzeo, critico e storico dell’arte.

Quest’evento, s’inserisce nell’ambito del Focus «Spécial Francophonie» all’Institut Français Centre Saint Louis di Roma.
Ingresso gratuito fino ad esaurimento posti.

Dove e quando

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Turchia-Armenia: la pace tra le rovine (Arte.tv 26.09.24)

Le rovine di Ani, antica capitale dell’Armenia nel Medioevo, si trovano oggi in territorio turco. Per gli armeni, i cui rapporti con la Turchia restano tesissimi fin dal genocidio del 1915, è una ferita aperta; e lo è ancor di più dopo l’estate del 2024, quando il governo di Ankara ha avviato una nuova campagna di scavi archeologici nel sito. Sebbene la Turchia non metta in discussione l’identità originaria della città medievale, costruita da Cristiani, l’esecutivo di Erdoğan ha aggiunto una connotazione religiosa sviluppando una Moschea tra le rovine, la prima in Anatolia.

Il tentato golpe in Armenia è un’imbarazzante sconfitta per Putin (L’Inkiesta 26.09.24)

Mercoledì scorso, tre uomini vengono arrestati a Erevan. Sono cittadini armeni e insieme ad altri connazionali fanno parte di una banda che da inizio anno viene finanziata e addestrata dal Cremlino con l’obiettivo di «preparare la presa di potere, usando la violenza e la minaccia della violenza per impossessarsi dei poteri del governo».

In poche parole, un golpe. Sebbene le autorità non abbiano ancora diffuso l’identità dei cospiratori, i primi dettagli dell’operazione sono stati resi pubblici: non si tratta di utili idioti o mitomani con il pallino del colpo di stato, ma di una formazione che fino alla sua cattura ha ricevuto uno stipendio mensile di duecentomila rubli (poco più di duemila euro) e un addestramento di tre mesi presso la base militare di Arbat, a Rostov sul Don.

In Russia, il gruppo si è esercitato all’utilizzo delle armi da fuoco, in particolare fucili d’assalto e altro equipaggiamento militare, oltre a prestarsi a improbabili test con la macchina della verità in modo da garantire, di fronte all’esercito putiniano, la propria fedeltà a Mosca.

Per quanto grottesco possa risultare questo dettaglio, è emblematico della paranoia che si respira dalle parti della Federazione russa (sulla quale torneremo a breve). La relazione stilata dal Comitato investigativo della Repubblica di Armenia afferma che i membri riconosciuti di questo commando sono sette, due dei quali provenienti dalla regione del Nagorno-Karabakh, epicentro del conflitto tra Armenia ed Azerbaijan.

Non è chiaro come questi avrebbero potuto concretamente rovesciare il governo e conquistare la Repubblica, se dietro di loro ci siano altri agenti dormienti, degli effettivi sostenitori o, più realisticamente, se con il loro atto di forza Mosca speravano in una strategia volta a destabilizzare il Paese, scatenando una reazione a catena che avrebbe offerto ai russi la giustificazione perfetta per un’invasione militare.

Questo scenario, del resto, è supportato dai numerosi esempi della storia recente. Ma a rendere il caso ancora più degno di interesse è il bersaglio: l’Armenia di Nikol Pashinyan. Russia e Armenia vantavano un’alleanza che risale ai tempi dell’Urss, un’unione politica e militare secondo molti indissolubile. Questo spiega l’imbarazzo da ambo le parti; il ministero degli Esteri russo si rifiuta di commentare la notizia, chiudendosi in un silenzio più che esplicativo, e anche i vertici armeni evitano accuse dirette.

Dopo la rivelazione dei procuratori, Pashinyan ha tenuto una conferenza stampa piena di attacchi sibillini all’ex alleato, parlando di inadempienze dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Otsc) – la cosiddetta “Nato russa” – piuttosto che confermare il ruolo attivo degli uomini di Vladimir Putin nella trama.

«Abbiamo congelato la nostra adesione alla Otsc non solo perché la Otsc non sta adempiendo ai suoi obblighi di garantire la sicurezza dell’Armenia, ma anche perché sta creando minacce alla sicurezza, all’esistenza e alla statualità dell’Armenia», ha dichiarato il primo ministro nell’incontro con i giornalisti e non servono particolari interpretazioni per capire che la sigla e il suo attentato alla “statualità” del Paese siano un modo per affermare quanto sospettato dall’opinione pubblica: la Russia non perdona l’indipendenza di Erevan e non si farà scrupoli per fermare il processo di emancipazione.

È proprio per questo che Pashinyan rincara la dose: «Se vedremo una possibilità più o meno realistica di diventare un membro a pieno titolo dell’Unione Europea non perderemo quel momento». Il tentato golpe doveva essere un modo per allontanare l’Armenia dall’Europa, e invece ha avuto l’effetto contrario. Era prevedibile.

Quello di mercoledì scorso è solo l’ultimo episodio della crisi tra Mosca ed Erevan che ha raggiunto il suo culmine poco prima dell’estate, quando il governo di Pashinyan ha deciso di “congelare” la sua adesione alla Otsc; la Russia perdeva non solo la sua presenza territoriale nella regione, ma uno dei partner più importanti dell’alleanza che secondo la propaganda putiniana rappresentava il braccio armato del tanto vagheggiato “ordine multipolare” a trazione moscovita.

È proprio su questo terreno che la paranoia russa diventa palese perché quello che secondo i media putiniani è riducibile a un “tradimento” da parte di Erevan, in realtà nasconde una serie di fallimenti del Cremlino che lo hanno colpito nel suo ruolo di arbitro internazionale. Il contingente russo, ai tempi, non ha difeso l’Armenia dagli azeri causando un progressivo, e inarrestabile, avvicinamento di questa ai Paesi occidentali; per cercare di correre ai ripari, la Russia è passata dall’altra parte del campo schierandosi in maniera sempre più esplicita con l’Azerbaijan.

Un mese prima della scoperta del complotto, i media russi hanno riportato con entusiasmo l’incontro a Baku tra Vladimir Putin e il presidente Ilham Aliyev nel quale si è discusso di collaborazione politica ed economica per rafforzare il ruolo di entrambi nella regione. A margine del bilaterale, Aliyev ha annunciato trionfalmente l’accordo stipulato con il Cremlino per il trasporto di merci dal valore di oltre centoventi milioni di dollari, un primo passo verso un’alleanza organica tra i due Paesi.

Il risultato di questa operazione non si è fatto attendere: l’ingresso della Russia nelle tratte commerciali azere ha fatto infuriare l’Iran perché avrebbe minato gli scambi diretti tra la Repubblica islamica e l’Armenia (la questione del corridoio di Zangezur, parte decisiva dei tentati accordi di pace nel conflitto del Nagorno-Karabakh).

Mosca ha tentato di fare la voce grossa ma l’Iran è un partner essenziale non solo per motivi ideologici, è tra i Paesi che contribuisce di più ai rifornimenti per sostenere l’invasione dell’Ucraina. È per questo che la grande strategia russa si è risolta con un ritorno sui propri passi condito da un’umiliante riappacificazione con il regime islamico.

Nel mentre, il protagonismo di Putin subisce un’ulteriore ferita con la recente chiamata tra Aliyev e il segretario di Stato americano Antony Blinken. Gli Stati Uniti stanno operando per raggiungere un accordo di pace nel Nagorno-Karabakh e l’evento è particolarmente amaro per il Cremlino: Putin non è più il solo arbitro al di sopra delle parti.

Questo insieme di sconfitte diplomatiche, tra un’Armenia dichiaratamente vicina all’Europa e un neo alleato che dialoga con il nemico numero uno, rappresenta una ferita fatale al sistema russo. Ma l’animale ferito è sempre più pericoloso ed è facile immaginare che il tentato golpe sia solo l’inizio.

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L’Armenia valuta l’uscita definitiva dal CSTO (Osservatorio Balcani e Caucaso 26.09.24)

Dopo l’esito disastroso della guerra per il Nagorno Karabakh e il mancato intervento di Mosca, Yerevan ha congelato la sua partecipazione all’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (CSTO) e pensa all’uscita dall’alleanza militare a guida russa

26/09/2024 –  Marilisa Lorusso

È dal 2020 che l’Armenia è frustrata dal mancato intervento dell’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (CSTO) nel quadro del suo sistema di sicurezza.

Per Yerevan i conflitti transfrontalieri, gli scambi a fuoco e le accuse verso Baku di aver occupato parte del territorio armeno non hanno mai trovato la risposta che l’Armenia si aspettava dal CSTO. Anzi, l’organizzazione stessa ha dichiarato di non poter intervenire in scambi e tensioni transfrontaliere là dove il confine non è delimitato.

Per il governo armeno questo è però solo un pretesto per scaricare le responsabilità di tutela dell’integrità territoriale di un paese membro che l’organizzazione avrebbe dovuto proteggere e pertanto ora Yerevan sta valutando se rimanerne o meno stato membro.

Il 2024 è stato l’anno durante il quale i rapporti fra Armenia e CSTO sono diventati particolarmente difficili e Yerevan è passata dalle parole – molte – ai fatti.

All’inizio dell’anno una serie di dichiarazioni hanno provato che da parte del CSTO e Armenia c’erano percezioni molto diverse riguardo allo status del paese all’interno dell’organizzazione.

L’Armenia aveva già sospeso da parecchio tempo la collaborazione attiva con l’organizzazione e la partecipazione agli eventi e alle esercitazioni si è fatta sempre più sporadica.

L’ambasciatore Russo al CSTO Viktor Vasiliev  a gennaio ha dichiarato che questo sporadica collaborazione dell’Armenia dipendeva largamente dall’interferenza dell’Occidente e ha sottolineato che la sicurezza armena dipende dal CSTO e l’uscita del paese dall’organizzazione non era un argomento all’ordine del giorno.

Piuttosto differente la lettura data da Yerevan del quadro della propria partecipazione. Durante un’intervista a febbraio il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha dichiarato  che la partecipazione dell’Armenia all’organizzazione era di fatto congelata.

E questa è la definizione che Yerevan ha portato avanti da allora, un congelamento della partecipazione.

Queste parole hanno trovato però smentita da parte di Mosca: il portavoce del Cremlino Dmitri Pescov ha dichiarato che la condizione di congelamento della partecipazione all’organizzazione non ha uno statuto riconosciuto e quindi che Mosca avrebbe chiesto chiarimenti su che cosa intendesse il primo ministro armeno con questa definizione eterodossa.

Finanziamento ed esternazioni

Che cosa intendesse il primo ministro è risultato abbastanza evidente con l’inizio della primavera, quando l’Armenia ha dichiarato che non avrebbe più partecipato ai finanziamenti del CSTO.

L’organizzazione stessa ha cercato però nuovamente di sminuire l’importanza di questa scelta, sostenendo che era già successo che alcuni membri sospendessero il finanziamento, e che l’importante era che la coesione all’interno dell’organizzazione non venisse intaccata.

A intaccare la coesione sarebbe intervenuto un terzo giocatore  cioè il presidente della Bielorussia Alexander Lukashenka.

Durante un viaggio in Azerbaijan Lukashenka si è abbandonato alle sue tipiche esternazioni, facendole cadere come cose scontate, anche nella piena consapevolezza della gravità di quanto stava dicendo.

Il dittatore bielorusso ha sostenuto di aver discusso con il presidente Ilham Aliyev gli esiti della guerra ben prima che venisse combattuta, dimostrando così che la Bielorussia era assolutamente a conoscenza dei piani di Baku.

Ulteriori leaks  hanno dimostrato che Minsk ha anche contribuito ad armare l’Azerbaijan, che a differenza dell’Armenia non fa parte di nessuna alleanza militare con la Bielorussia.

Questo quadro ha scatenato le ire di Yerevan, con il primo ministro Nikol Pashinyan che ha dato piena voce ai dubbi che coltivava da parecchio tempo.

Secondo Pashinyan  alcuni paesi membri del CSTO non solo avrebbero aiutato l’Azerbaijan, armandolo e mancando dell’obbligo di informare l’alleato armeno del pericolo imminente, ma avrebbero agito per causare la sconfitta armena e comprometterne l’indipendenza.

Yerevan quindi dimostra una profonda sfiducia nella reale volontà degli alleati dell’Armenia, e ritiene di essere stata deliberatamente danneggiata invece che aiutata da quelli che sarebbero dovuti esseri i suoi partner militari.

A questo punto da parte armena si è cominciato a parlare esplicitamente dell’ipotesi di abbandonare il CSTO. Durante un “question time” in parlamento Pahinyan ha definito il CSTO  un’organizzazione bluff.

A causa delle dichiarazioni di Lukashenka anche i rapporti armeno-bielorussi sono significativamente peggiorati e la leadership armena ha dichiarato che nessun uomo politico o delle istituzioni armeno si recherà più in Bielorussia finché ci sarà come presidente Lukashenka.

Questo peraltro implica che l’Armenia non parteciperà agli incontri ufficiali delle organizzazioni di cui fa parte che si terranno in Belorussia, e può diventare un ottimo alibi per scansare ulteriori eventi CSTO.

E adesso?

Yerevan sta sicuramente considerando le conseguenze possibili di abbandonare il CSTO, un processo più facile da dichiarare a parole che da raggiungere nei fatti, soprattutto in modo indolore. Ancora lo scorso marzo il capo di stato maggiore del paese ha dichiarato   che le conseguenze sono in via di analisi, ma sono coperte da segreto di stato.

I termini della discussione si sono fatti sempre più accesi con il vice ministro degli Esteri russo Mikhail Galuzin che ha criticato apertamente la leadership armena e ha più volte mosso  aperte minacce al paese, invitando la sua classe dirigente a considerare gli effettivi rischi di un abbandono del CSTO.

Galuzin ha dichiarato  che la collaborazione armena con l’occidente avrebbe come conseguenza destabilizzazione a catena nella sicurezza nel Caucaso del Sud, a scapito della sicurezza e dell’integrità territoriale del paese, e ha ammonito il primo ministro e la leadership armena a non commettere errori di valutazione che potrebbero avere conseguenze molto gravi per la sovranità, la stabilità e lo sviluppo economico del paese.

Il 18 settembre Pashinyan è tornato sul tema  durante il Second Global Armenian Summit a Yerevan e ha dichiarato: “Abbiamo congelato la nostra adesione alla CSTO non solo perché la CSTO non garantisce i suoi obblighi di sicurezza nei confronti dell’Armenia, ma anche perché a nostro avviso la CSTO crea minacce per la sicurezza dell’Armenia e per la sua futura esistenza, sovranità e statualità. […] Esiste un’espressione chiamata ‘il punto di non ritorno’; non l’abbiamo ancora attraversato, ma c’è una grande probabilità che lo faremo. E nessuno avrà alcuna legittima occasione o motivo per biasimarci per questo”.

Il giorno dopo l’Armenia ha commemorato  mestamente il primo anniversario dalla caduta del Karabakh. Un anno fa, dopo nemmeno 24 ore di battaglia, il regime secessionista capitolava e iniziava l’esodo degli armeni dalla regione contesa.

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ARMENIA, MATTEO SALVINI AL 33MO ANNIVERSARIO DELL’INDIPENDENZA (Agenparl 26.09.24)

Logo (AGENPARL) – Roma, 26 Settembre 2024

Il vicepremier e ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini ha partecipato in qualità di ospite d’onore alla Festa per il 33mo Anniversario dell’Indipendenza dell’Armenia organizzato dall’Ambasciata armena a Roma, nella serata di ieri.
Salvini ha voluto rinnovare, durante la cerimonia, i sentimenti di profonda amicizia di tutto il Governo italiano al popolo ed al Governo armeno.

 

ARMENIA, UN ANNO DALL’OCCUPAZIONE DEL NAGORNO-KARABAKH (Opinione delle Libertà 26.09.24)

Dopo oltre tre decenni di conflitti, e passato un anno da quel 19 settembre 2023, quando l’Azerbaigian rovesciò militarmente l’autoproclamata autorità della ex regione autonoma del Nagorno-Karabakh, o Repubblica dell’Artsakh, il popolo armeno vive ancora sotto la minaccia dello scomodo, ma sempre più solido militarmente, vicino. Allora l’esercito di Baku in circa venti ore ha praticamente assunto il controllo del territorio popolato principalmente da armeni. Pochi giorni dopo furono avviati, mestamente per i rappresentanti armeni del Nagorno, i colloqui con gli azeri, che strumentalmente definiscono “separatisti” gli abitanti dell’area contesa; ma su questa descrizione non si può essere né sintetici, né superficiali, né generalisti. In quella operazione militare rimasero vittime oltre duecento armeni. Il territorio del Nagorno-Karabakh era già stato amputato dei suoi confini storici a seguito della prima vittoria azera, nell’autunno del 2020.

Poi l’Azerbaigian a dicembre 2022, con volontà unilaterale, chiuse il corridoio di Lachin, e così fu interrotto il legame terrestre tra gli artisakhioti, o karabakhi, che in pratica furono rinchiusi all’interno dei residui confini del Nagorno-Karabakh, e l’Armenia. Una operazione che apre tutt’oggi profonde riflessioni sui bilanciamenti geopolitici dell’area caucasica, in quanto la recisione del cordone tra l’Armenia e il Nagorno-Karabakh avvenne con il nulla osta, e la complicità della Russia di Vladimir Putin, che comunque è uno dei garanti dell’Armenia, e coordinatore degli accordi siglati tra i belligeranti. Ma gli effetti dell’isolamento portarono risultati quasi immediati; infatti fu spezzata la resistenza degli artisakhioti, anche perché i circa centoventimila abitanti piombarono in una carestia assoluta essendo interrotte le comunicazioni con l’Armenia, infatti già nell’estate del 2023 si iniziarono a contare i primi decessi per penuria dei generi necessari.

Un trauma che si aggiunge a un trauma: la perdita di un territorio con le sue tradizioni cristiane e la sua cultura, con la perdita del minimo per la sopravvivenza. Dalla “fame” scaturì terrore. Questo spiega la motivazione perché nessuno accettò di rimanere in patria dopo il 19 settembre 2023, quando la tirannia di Baku accompagnata dall’esercito azerbaigiano, invasero l’autoproclamata repubblica del Nagorno-Karabakh, ormai totalmente inerme e fragilissima. Le modalità offensive dell’autocrate presidente azero Ilham Aliyev richiamano ataviche tattiche militari. In realtà, fu posto un assedio in una regione che fu privata di tutto, una distruzione di massa raggiunta tramite il terrore assoluto. La complessità dell’operazione di Baku sfuma nella memoria e richiama l’epoca genocida. Probabilmente proprio la memoria indelebile del genocidio del popolo armeno del 1915, con i preamboli del 1894-96, ha martoriato la resistenza dei pochi abitanti del Nagorno-Karabakh; una palese pulizia etnica dell’autoproclamata repubblica e l’ennesimo spregio del diritto internazionale e dei diritti dell’umanità. Un anno fa la perseguitata popolazione artisakhiota, a rischio concreto di sopravvivenza, si rifugiò in Armenia. Così il Nagorno-Karabakh armeno, per ora, si è estinto demograficamente, umanamente e culturalmente. Resta una regione geografica controllata da Baku e inserita in un profondo programma di ripopolamento con popolazione azera-musulmana.

Gli azeri occupanti come da prassi, hanno annichilito velocemente ogni traccia di civiltà cristiana: chiese, cimiteri, monumenti storici, ma anche la toponomastica di ogni entità geografica, vie, piazze, quartieri, come le simbologie rappresentanti la politica. La narrazione della “cultura” dell’Azerbaigian afferma che gli armeni non sarebbero mai esistiti nel Nagorno-Karabakh. Molti capi artisakhioti sono scomparsi nelle profonde prigioni azere, tra questi anche Ruben Vardanjan, ex ministro, pare consegnato dai russi ai carcerieri azeri. Ricordo che l’enclave del Nagorno-Karabakh ottenne l’indipendenza nel 1991. Nel periodo 1992-94 l’esercito armeno sconfisse quello azero dimostrando una netta superiorità militare. Nella penultima guerra nel Nagorno, quella del novembre 2020, le forze armene furono sconfitte non dall’esercito azero ma da quello mercenario turco, composto soprattutto da jihadisti dell’ex Stato islamico, e dai droni di AnkaraLi vacillò quel sistema disequilibrato, che comunque ancora dava prospettive e speranze agli armeni della regione del Nagorno-Karabakh.

Inoltre il Ministero degli Esteri armeno il 21 giugno 2024 ha annunciato il riconoscimento dello Stato di Palestina, sottolineando la condivisione assoluta dei principi del diritto internazionale, quindi la sovranità (sensibilità diretta), l’uguaglianza e la convivenza pacifica dei popoli. Tuttavia ciò ha sollevato critiche reazioni da parte di Israele. Ma i rapporti tra lo Stato ebraico e l’Armenia si erano già deteriorati nel 2020, quando Yerevan ha accusato Gerusalemme-Tel Aviv di avere venduto all’Azerbaigian grandi quantità di armi che hanno permesso l’offensiva lampo nel settembre 2023 contro il Nagorno-Karabakh. Va anche rammentato che Israele fornisce all’Azerbaigian strategici sistemi di controllo informatico, anche invasivo, e apparecchiature elettroniche di intercettazione aerea; inoltre l’Intelligence israeliana può fare conto su queste relazioni per controllare il confinante Iran. Va sottolineato che nel contesto storico attuale dove operazioni militari tendono a modificare i confini geografici di alcuni Stati, occorre collocare la “questione armena” sullo scacchiere geopolitico valutando le criticità caucasiche; in quanto svincolare questa area di crisi da quella ucraina e georgiana, come da quella iraniana, potrebbe condurre a una visione limitata di un sistema geostrategico articolato ma legato ai medesimi ancoraggi. Ad oggi possiamo definire la questione del Nagorno-Karabakh come la classica dissoluzione metafisica; ma potremmo anche riflettere su due popoli, quello armeno e quello ebreo, che anche se accomunati dal medesimo dramma del genocidio, pare non siano in posizioni “politiche” complanari.

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