[ REPORTAGE ] Lo spettacolare paesaggio della fortezza di Amberd, a 2.300 metri di quota: l’Armenia onirica che racconta suggestioni (Turismoitalianews 29.10.24)

La cornice è quella del monte Aragats, il massiccio vulcanico che con la sua cima a 4.090 metri è il punto più alto del Caucaso Minore e dell’Armenia. Il luogo è lo spettacolare paesaggio delle rovine della fortezza di Amberd, a 2.300 metri di quota, e della chiesa di Vahramashen, costruita per il principe Vahram Pahlavuni e completata quasi mille anni fa: era il 1026. Un insieme emblematico, che per quanti visitano l’Armenia rappresenta una meta imprescindibile, carica di suggestioni. Soprattutto se si decide di assistere ad una funzione religiosa nella chiesetta cruciforme. E tuttavia la fortezza è stata inclusa nella lista “7 Most Endangered 2024” di Europa Nostra. Ecco perché.

 

(TurismoItaliaNews) Scenografica, suggestiva, persino inquietante. Se non altro per le condizioni in cui versa. Tanto da valerle l’inserimento nell’elenco dei 7 monumenti e siti più a rischio di scomparsa da parte della Federazione paneuropea per il patrimonio culturale “Europa Nostra”. Insieme agli altri, potrebbe crollare a causa dell’età, dell’assenza di finanziamenti per il consolidamento delle strutture e per effetto di erosione e dei terremoti. Eppure quella il cui nome si traduce dall’armeno “fortezza tra le nuvole”, ha la sua ragion d’essere come luogo di grande attrazione. Di storia da queste parti se ne è scritta parecchia e l’intero paesaggio è di una bellezza sconvolgente, ancorché sassoso a perdita d’occhio. Ma se si vuol avere un’idea dell’infinito, Amberd è il posto giusto. Del resto è dal decimo secolo che veglia su questo territorio e la successiva realizzazione della chiesa di Vahramashen nell’undicesimo secolo ha reso l’insieme ancor più attrattivo.

Lo spettacolare paesaggio della fortezza di Amberd, a 2.300 metri di quota: l’Armenia onirica che racconta suggestioni

Lo spettacolare paesaggio della fortezza di Amberd, a 2.300 metri di quota: l’Armenia onirica che racconta suggestioni

Lo spettacolare paesaggio della fortezza di Amberd, a 2.300 metri di quota: l’Armenia onirica che racconta suggestioni

Lo spettacolare paesaggio della fortezza di Amberd, a 2.300 metri di quota: l’Armenia onirica che racconta suggestioni

Lo spettacolare paesaggio della fortezza di Amberd, a 2.300 metri di quota: l’Armenia onirica che racconta suggestioni

La fortezza, il cui primo insediamento risale addirittura all’età della pietra, ha trovato la sua evoluzione come fortezza durante l’età del bronzo e nel periodo urartiano, diventando secondo alcune fonti una residenza estiva per i re. Nel tempo è stata poi ampliata e consolidata con l’inserimento di nuove mura, sino a diventare nel settimo secolo un possedimento della nobile casa di Kamsarakan. E’ di quattro secoli più tardi il passaggio di mano alla casa di Pahlavuni, con la ricostruzione con muri in pietra più spessi e l’aggiunta di tre bastioni lungo la cresta del canyon da parte del principe Vahram Pahlavouni. Al quale si deve anche la chiesetta di Surp Astvatsatsin, l’altro nome con cui è nota la chiesa di Amberd, oltre che di Vahramashen.

Ma la sua storia tortuosa ha conosciuto ulteriori capitoli. Durante il XII e il XIII secolo, sotto il controllo di Zakarian è stata sottoposta ad ulteriori potenziamente strutturali, diventando con il nobile Vache I Vachutian – che ha acquistato Amberd nel 1215 – un sito difensivo chiave nella regione. Finché non sono arrivati i Mongoli, che una volta conquistata la fortezza nel 1236 l’hanno ridotta praticamente in un cumulo di rovine.

Lo spettacolare paesaggio della fortezza di Amberd, a 2.300 metri di quota: l’Armenia onirica che racconta suggestioni

Lo spettacolare paesaggio della fortezza di Amberd, a 2.300 metri di quota: l’Armenia onirica che racconta suggestioni

Lo spettacolare paesaggio della fortezza di Amberd, a 2.300 metri di quota: l’Armenia onirica che racconta suggestioni

Il sito è rimasto abbandonato fino al ventesimo secolo, quando sono iniziati gli scavi archeologici e una prima ricostruzione. Lo studio delle strutture ha permesso di rilevare l’utilizzo di blocchi di basalto grossolanamente squadrati e fissati con malta, la presenza di tre livelli con solai in legno, con cinque stanze al primo e al secondo piano, mentre al terzo livello spazi pensati per il ricevimento e i locali riservati ai suoi abitanti reali, secondo uno schema organizzativo interno rimasto comunque inalterato dal decimo secolo. Non solo: gli scavi archeologici hanno dimostrato che l’interno del castello e le stanze erano piuttosto sontuosi, con decorazioni elegantemente intagliate nelle stanze, lampade a olio, portaincenso e pareti decorate con sete e broccati e con ornamenti in bronzo, oro e argento.

Fin qui la possente struttura. Poi c’è la chiesa. La tipologia architettonica è di tipo cruciforme, con quattro locali a due piani negli angoli; un grande tamburo circolare a dodici facce si trova in cima alla chiesa, con coppie di sottili colonne decorative sul bordo di ogni faccetta. Una cupola conica a ombrello è collocata al di sopra. Esternamente è decorata con semplici bordi intorno al portale e alcune piccole finestre, cornici appena al di sopra delle sottili colonne sul tamburo e sulla cupola. L’insieme appare decisamente armonico, addirittura onirica se inquadra nel contesto del paesaggio e della vicina fortezza.

Lo spettacolare paesaggio della fortezza di Amberd, a 2.300 metri di quota: l’Armenia onirica che racconta suggestioni

Lo spettacolare paesaggio della fortezza di Amberd, a 2.300 metri di quota: l’Armenia onirica che racconta suggestioni

Ma al di là del modello artistico, le sensazioni più vive (e che restano scolpite nella memorie, un po’ come i disegni a croce in rilievo scolpiti sulle facciate) sono quelle che si vivono all’interno, durante la celebrazione del rito religioso. La coincidenza di trovarsi lì in quel momento è un segnale che vale la pena di cogliere, fermandosi ad ascoltare e a guardare. Anche se la lingua utilizzata non è comprensibile sono i gesti, i toni solenni o sommessi, i canti, il profumo dell’incenso a fare la differenza e a far capire il valore e il significato di quanto sta avvenendo. Immutabilmente da secoli.

7 Most Endangered 2024 di Europa Nostra. Oltre alla fortezza di Amberd in Armenia, l’elenco include il sito archeologico di Muret e Portës (Durazzo, Albania); Palais du Midi (Bruxelles, Belgio); alloggi della classe operaia (courées) (Roubaix-Tourcoing, Francia); isole Cicladi, in particolare Sifnos (Serifos e Folegandros, Grecia); chiesa di San Pietro in Gessate (Milano, Italia); sinagoga di Siena (Italia); palazzo di Sztynort (Masuria settentrionale, Polonia), sede dell’esercito popolare jugoslavo a Šabac (Serbia); chiesa greco-ortodossa di San Giorgio, Altınözü (Turchia); porta di ferro di Antiochia, Antakya (Turchia).

 

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Giovanni Bosi, giornalista, ha effettuato reportages da numerosi Paesi del mondo. Da Libia e Siria, a Cina e India, dai diversi Paesi del Sud America agli Stati Uniti, fino alle diverse nazioni europee e all’Africa nelle sue mille sfaccettature. Ama particolarmente il tema dell’archeologia e dei beni culturali. Dai suoi articoli emerge una lettura appassionata dei luoghi che visita, di cui racconta le esperienze lì vissute. Come testimone che non si limita a guardare e riferire: i moti del cuore sono sempre in prima linea. E’ autore di libri e pubblicazioni.
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CONFINI ARMENI: LA “MOSSA” RUSSA SULLO SCACCHIERE CAUCASICO (L’Opinione delle libertà 28.10.24)

Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991, i rapporti tra Russia e Armenia sono stati regolati sia dalla necessità di Mosca di mantenere i riferimenti politico strategici nell’area caucasica meridionale, che per l’Armenia di avere una sorta di tutela legata anche dalla stessa appartenenza religiosa, cristiana (non confessionale), in un contesto prevalentemente musulmano. Tali legami sono strutturati sulla “attenta osservazione” dell’area del Caucaso meridionale dove il peso delle dinamiche politiche e della religione, rendono la regione con “stabilità variabile”. Tuttavia il governo di Yerevan, capitale armena, ha accusato le forze di pace russe schierate anche nell’enclave contesa del Nagorno-Karabakh, di non essere intervenute, nel settembre 2023, per fermare l’offensiva dell’Azerbaigian, che ha permesso all’esercito azero di riconquistare quest’area.

Il Cremlino ha respinto tali accuse sostenendo che i militari russi non avevano il mandato di intervenire. Ma la questione vede anche un’altra lettura; infatti Mosca ritiene pericolosi gli sforzi del capo del governo armeno, Nikol Pashinyan, tesi a consolidare i legami dell’Armenia con l’Occidente, con il rischio concreto che Yerevan si possa staccare dalle alleanze controllate da Mosca. La Russia ha espresso un deciso disappunto anche quando l’Armenia ha scelto di aderire alla Corte penale internazionale, che a marzo del 2023 ha incriminato Vladimir Putin per crimini di guerra legati all’aggressione russa in Ucraina. Tuttavia questa scelta del Governo armeno è stata minimizzata da Mosca.

Comunque, il disimpegno russo verso la questione del Nagorno-Karabakh non ha precluso i rapporti tra i due Stati, ma soprattutto non ha diminuito l’influenza della Russia sull’Armenia. Così a valle della delusione del settembre 2023, a maggio, dopo due incontri dove Putin e Pashinyan hanno trattato “tematiche caucasiche”, avvenuti sia a Mosca nell’ambito del vertice dell’Unione economica eurasiatica, che riunisce i due Paesi, che a Yerevan, il presidente russo ha annunciato il ritiro dall’Armenia di alcune decine di suoi soldati e guardie di frontiera, non specificando il numero. L’accordo fu poi chiarito dal politico e docente universitario armeno Hayk Konjoryan, capo del partito di governo “Contratto civile” a cui appartiene anche Pashinyan. Comunque l’intesa riguarda le postazioni militari e di frontiera russi insediati in cinque regioni armene. Al momento il ritiro russo, non sembra riguardare la base di Gyumri, principale postazione militare russa nel Paese; qui stanziano almeno 3.000 soldati russi.

Così i militari russi che dal 1992 presidiano i confini armeni, dal primo gennaio 2025 dovrebbero – il condizionale necessita – cedere il parziale controllo delle postazioni alle forze militari armene. Un obiettivo dal peso politico notevole dato che i programmi del governo armeno mirano a una riduzione dell’influenza russa sul Paese. Magari gettando, come già sta facendo, le sue ambizioni verso l’Unione europea. L’Armenia, ex repubblica sovietica del Caucaso meridionale, fa ora un nuovo passo verso l’affrancamento dall’influenza di Mosca, prendendo il controllo in modo graduale dei suoi confini con l’Iran e la Turchia, che da più di trent’anni sono sorvegliati esclusivamente dalle truppe russe.

In pratica da gennaio del prossimo anno le guardie di frontiera russe lasceranno una postazione di frontiera con l’Iran ai militari armeni. Per ora è solo una postazione in quanto i soldati russi non lasceranno le altre basi sul confine iraniano; inoltre l’accordo di ottobre prevede che le truppe armene cooperino con i militari russi, già presenti in loco, nel controllo del confine con la Turchia. Per l’Armenia è una parziale riconquista della sovranità che riafferma la propria indipendenza ed è la prima volta dai tempi dell’Unione Sovietica. Questa presenza di Mosca sulle frontiere armene lungo l’asse perimetrale iraniano-turco, fu stabilita con un accordo bilaterale nel 1992, un anno dopo la caduta dell’Urss.

Ma l’accordo di ottobre prevede anche che Mosca parteciperà alla costruzione di strade e ferrovie che collegheranno l’Azerbaigian alla repubblica autonoma di Nakhichevan, un’enclave azera situata nel sud-ovest dell’Armenia alla quale Baku vuole un accesso via terra. A fine luglio i militari di frontiera russi, dopo lunga sollecitazione armena, si sono ritirati dall’aeroporto internazionale di Yerevan, Zvartnots, anche in questo caso dopo trentadue anni di presenza. Mosca ha ceduto su questo strategico controllo non convintamente, avvertendo il governo armeno del rischio di causare danni irreparabili alle loro già tese relazioni. Ma questo aspetto è stato per ora superato. In un quadro con criticità geopolitiche in evoluzione, prima dell’invasione dell’Ucraina, la Russia affermava il suo potere sull’Armenia con rigidità; ora con le numerose tensioni in atto lo fa attraverso un maggiore coinvolgimento logistico, attraverso i grandi lavori di interconnessione come collegamenti stradali e ferroviari, tanto per non lasciare il campo libero magari a scelte referendarie pro Europa: vedi Moldavia. Considerando che anche la Georgia è nel Caucaso meridionale, e che in queste ore sta vivendo elezioni politiche complesse con tensioni croniche con gli ostili secessionisti dell’Ossezia del sud Abkhazia, regioni supportate pesantemente dalla Russia.

Una concessione, quella della Russia all’Armenia, sicuramente dedicata a non stimolare le fibrillazioni del Caucaso meridionale, e a contenere la reciproca fascinazione tra Armenia e Occidente”.

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Sorsicorti, al festival di corti e vino vince un film armeno che racconta forza e resistenza delle donne “Sorsicorti, al festival di corti e vino vince un film armeno che racconta forza e resistenza delle donne” (Palermo Today 28.10.24)

Sorsicorti, al festival di corti e vino vince un film armeno che racconta forza e resistenza delle donne

Una storia che cattura la forza delle donne, il loro potere collettivo e la loro cura in tempi difficili, offrendo un messaggio di resistenza e perseveranza. Si chiama “Il faut tout un village…” ed è il film vincitore della diciottesima edizione di SorsiCorti, il festival internazionale di cortometraggi che quest’anno ha riempito il Rouge et Noir e il Cre.Zi. Plus ai Cantieri Culturali. La giuria di esperti, formata da Ingrid Chikhaoui, Fabrizio Lupo, Irene Muñoz Martín, Giuseppe Sangiorgi e Silvia Clo Di Gregorio ha scelto come miglior film quello armeno prodotto da Ophelia Harutyunyan.

La pellicola della regista francese Ophelia Harutyunyan in appena 23 minuti entra nell’universo delle donne. “Le interpretazioni sono autentiche e sentite – spiega la giuria – e mettono in luce le capacità delle attrici di trasmettere emozioni profonde e sottili. L’attenzione ai dettagli della fotografia crea un forte senso di intimità. ‘Il faut tout un village…’ serve a ricordare la lotta continua per l’emancipazione e il ruolo vitale della comunità nel promuovere la resilienza”.

Premio come miglior film d’animazione va invece a “In the shadow of the cypress” di Hossein Molayemi e Shirin Sohani. Un corto iraniano che racconta le relazioni. “Una pellicola che esplora i temi del legame, della perdita e del passare del tempo – precisano gli esperti – evocando risposte emotive profonde. L’animazione è sorprendente, con colori vibranti, disegni ipnotici e una storia accattivante che trasporta il pubblico in un mondo immaginario, creando un senso di meraviglia e introspezione”.

A vincere nella categoria migliore direzione artistica, invece, è stata la pellicola belga di Hippolyte Leibovici “Beyond the sea”. “Questo film ha una direzione artistica eccezionale – dice ancora la giuria – con trasformazioni impressionanti dei personaggi e una messa in scena straordinaria in un’ode al cinema classico. La direzione artistica rivela un forte desiderio di cinema da parte dell’intero team. Siamo rimasti colpiti da questo sforzo collettivo che riunisce costumi, trucco, capelli, decorazioni e coreografie”.

Migliore direzione alla fotografia va al film canadese di Edith Jorisch “Mothers & Monsters”. Nelle motivazioni si legge che “la direzione della fotografia non è solo estetica, ma è funzionale alla narrazione. Si riesce a far sì che la fotografia rifletta i temi principali del film, come l’idea di maternità, la vulnerabilità o il mostruoso, facendo sì che la fotografia diventi un vero e proprio strumento narrativo”.

Menzione speciale per la regia e montaggio va in Canada al corto “L’été des chaleurs” di Marie-Pier Dupuis che “è splendidamente diretto e con forti interpretazioni, in particolare dei bambini. Il regista riesce a bilanciare magistralmente tensione ed emozione, utilizzando un montaggio preciso e una fotografia d’atmosfera per catturare l’intensità dell’esperienza giovanile. Con una grafica lussureggiante e una narrazione ricca di sfumature, il film rende omaggio alla forza di una madre single e alla resilienza dei suoi figli, creando un’esplorazione contemplativa e risonante della crescita”.

Menzione speciale, infine, ad “An irish goodbye” di Tom Berkeley e Ross White a cui viene riconosciuta la qualità di attori e regia. In questo caso, spiega la giuria, il premio arriva per “l’ottima regia con un forte sviluppo dei personaggi e un umorismo arguto, in un’atmosfera ironica che trascina in un mondo di sentimenti profondi e umani”. Il premio del pubblico è andato invece a “Il mondo è nostro” di Marco Pinnavaia e Gabriele Aldo Lo Cascio.

 

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Armenia, Ughtasar un lago a quota 3300 metri (Sienapost 28.10.24)

Viaggio sconsigliato senza una guida, ma con arrivo in un luogo caro agli dei

Un’altra parte di avventura tra prati e montagne alla ricerca di luoghi magici e remoti. I precedenti racconti sull’Armenia riguardano il lago Sevan e la fortezza di Smbataberd.

Tsghuk;  “Petroglifi , Sciamani e Pellegrini”

Oggi, fuori, diluvia, e mi sento un po’ spiazzato. Con il mio amico decidiamo di cambiare programma, saltare l’impervia strada tra i monti e puntare direttamente verso Tatev.

Indossiamo le tute da pioggia e, con le orecchie basse, ci avviamo mestamente. Poi, una volta scesi di quota, uno squarcio di azzurro: lassù qualcuno ci ama, mi viene da gridare. Dopo dieci chilometri, riappare uno splendido sole. Bene, lo prendo come un segno e tento la sorte: proverò la salita alla montagna del pellegrinaggio, verso il lago Ughtasar, a quota 3300 metri sul Monte Tsghuk.

Attorno a un bacino di origine vulcanica, si trovano petroglifi risalenti a 12.000 anni fa: incisioni su lastre di nera lava, che narrano di tradizioni, miti e tribù, di vittorie e sconfitte.

Il posto è quasi inaccessibile. Ho letto nei resoconti di altri viaggiatori che è fortemente sconsigliato andare senza una guida e una robusta jeep. Io non ho né l’una né l’altra, solo un punto sul mio GPS.

Arrivato nel piccolo villaggio di Ishkhanasar, chiedo indicazioni a un contadino. Sembra conoscere bene quel luogo. Mi prende per un braccio, mi trascina al margine del paese e indica una montagna. Unisce le mani a coppa per rappresentare la piccola valle subito sotto la cima, poi, abbassando le mani, mi mostra i segni delle ruote di un carro sull’erba dei campi e spinge avanti la mano per segnare il cammino.

Guardo in alto: vento e nubi sembrano circondare la cima e non promettono nulla di buono, ma sono a circa venti chilometri dalla meta e decido di tentare la salita.

Imbocco il sentiero e cerco di orientarmi, ma altre tracce si incrociano e più volte devo tornare indietro, finendo nel nulla di un mare d’erba.

Unico aiuto è la distanza dal punto di arrivo, calcolata dal GPS: quando si accorcia, la via è presumibilmente quella giusta, quando si allontana, ho preso il sentiero sbagliato. Avvicinandomi alla montagna, non riesco più a vedere la meta.

In un’ora percorro dieci chilometri, come se fossimo a piedi e non su una moto.

Cerco di farmi coraggio e, per allentare la tensione, mi fermo a bere un po’ d’acqua. Come spesso accade, la fortuna aiuta gli audaci o gli incoscienti, decidete voi. In lontananza vedo un Land Rover arrancare su per la salita. Mi fermo a osservare la traccia che percorre sul fianco della montagna. Aspetto che si allontanino un po’ e li seguo con lo sguardo: è certamente una guida che porta qualche turista ai petroglifi. Ora ho il mio filo di Arianna, che mi porterà dritto alla meta.

Il tragitto negli ultimi chilometri ha una pendenza quasi impossibile. Devo superare un’infida sassicaia. Arranco, mi affido al fedele DR che, come un piccolo mulo ubbidiente, mi porta su per la china: sembra sappia dove mettere le ruote, dove fa meno male.

Devo di nuovo fermarmi, questa volta per riprendere fiato. Lo sforzo sulle braccia e sulle gambe si fa sentire, siamo già oltre tremila metri e ho un po’ di affanno.

Sotto la cresta trovo il Land Rover abbandonato: la strada è sbarrata da un ammasso di neve. Metto le ruote su un piccolo ciglio, fatto di rocce nere tenute insieme dal ghiaccio. Do un colpo di gas e, con l’abbrivio, supero questo ultimo ostacolo e raggiungo un tratto pianeggiante.

La valle è magnifica, coronata di cime innevate. Cammino sui prati, aggirando i grossi banchi di neve che ancora coprono l’erba. Scorgo tratti di un basso muro a secco: sono la traccia di un antico insediamento temporaneo. Questi luoghi si possono raggiungere solo nei mesi di luglio e agosto, poi una alta coltre di neve li ricopre.

Rimango fermo a guardare il magnifico paesaggio: i forti contrasti tra il verde dei prati, il bianco della neve e il lucido, nero specchio del lago.

Si capisce la sacralità del luogo: la maestosità dei picchi, la posizione elevata e isolata del sito, circondato da montagne e laghi glaciali, rafforza il suo significato spirituale. Anche a un uomo contemporaneo come me viene da pensare che questo non può essere altro che un punto di contatto tra il mondo terreno e quello di qualsiasi divinità in cui crediate.

E i petroglifi? Purtroppo, scovo solo una nera lastra piena di simboli. Cerco di scorgere le figure: ho letto che i disegni geometrici e cosmologici presenti suggeriscono una conoscenza dei movimenti celesti e una possibile connessione con l’adorazione degli elementi naturali, come il sole e la luna.

Sicuramente i pellegrini venivano in questi luoghi per compiere riti propiziatori, sciamanici per la caccia o per la fertilità.

Mi giro intorno, cerco gli occupanti della jeep, ma non vedo nessuno. Forse a piedi avranno seguito il crinale, per me impraticabile. Sicuramente ci sono altre pietre, ma la neve, le precarie istruzioni e la mia incapacità di leggere le tracce mi hanno impedito di trovarle. Non importa, ho il cuore leggero: anche io ho compiuto il mio pellegrinaggio, la mia ascensione in un luogo caro agli dei.

E ora è finita? No, inizia la discesa, più complessa della salita. Ma con la grazia ricevuta, rotolo a valle, ritrovo l’asfalto, metto alla frusta la moto e, come ultimo regalo, sul finire della sera mi godo lo splendido monastero di Tatev.

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Armenia, in piazza contro la chiusura del gruppo di Minsk, l’unica istituzione in possesso di un mandato internazionale per il conflitto con l’Azebaigian (La Repubblica 27.10.24)

EREVAN (Asianews) – Le ONG del Nagorno-Karabakh scendono in piazza contro la chiusura del Gruppo di Minsk, l’unica istituzione in possesso di un mandato internazionale per il conflitto con l’Azebaigian. A un anno dalla campagna militare di Baku, gli esuli armeni vivono tuttora in condizioni precarie a Erevan o in accampamenti e nelle zone vicine alla frontiera, nella speranza di tornare nella in patria.

Cos’è il Gruppo di Minsk. – E’ una struttura di lavoro creata nel 1992 dalla Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa, dal 1995 Organizzazione per la sicurezza e la Cooperazione in Europa, allo scopo di incoraggiare una soluzione pacifica e negoziata dopo la prima guerra del Nagorno Karabakh

Non vogliono sottostare alle pretese di Baku. Dunque, i rappresentanti delle ONG del Nagorno Karabakh riannesso all’Azerbaigian, hanno organizzato un’azione di protesta presso il palazzo del ministero degli esteri di Erevan (la capitale armena) chiedendo alle autorità di non sottostare alla pretesa di Baku (capitale dell’Azerbaigian) di sciogliere il Gruppo di Minsk dell’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Artur Grigoryan, uno dei rappresentanti delle associazioni, ispirate dal movimento “Tavowš in nome della patria” dell’arcivescovo Bagrat Galstanyan, ha comunicato di aver consegnato un appello al ministro degli esteri Ararat Mirzoyan, sottoscritto dai membri di oltre 50 gruppi che già a fine settembre avevano presentato analoga richiesta al presidente dell’Osce Ian Borg, il vice-premier di Malta. Nel documento il “popolo dell’Artsakh” (che è il nome in lingua armena del Nagorno Karabakh) ricorda gli impegni della repubblica dell’Armenia nella difesa del Nagorno Karabakh, in accordo con le norme del diritto sia nazionale, sia internazionale.

L’esodo biblico di oltre 115 mila persone. Il popolo degli armeni della regione occupata è stato costretto a un esodo biblico, di oltre 115 mila persone, recandosi nella patria storica, dove tuttora vivono in gran parte in condizioni precarie, senza mai rinunciare a difendere i propri diritti, ritenendo illegittima l’annessione dell’Artsakh all’Azerbaigian. Il governo di Erevan ha realizzato una serie di programmi per assistere i gruppi dei profughi per le necessità più urgenti e per la loro integrazione in Armenia, con una sezione speciale del ministero delle politiche sociali. Molti profughi hanno trovato una sistemazione pur provvisoria nella capitale e in altre città, ma un numero considerevole vive ancora in accampamenti e nelle zone vicine alla frontiera con l’Azerbaigian, nella speranza di tornare.

* Vladimir Rozanskij – Asianews

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Shushan Avagyan, storia di vite armene rimosse (Il Manifesto 27.10.24)

Pur avendo trascorso un lungo periodo della sua vita negli Stati uniti, Shushan Avagyan è rimasta fedele alla lingua delle sue origini, il dialetto armeno orientale. La casa editrice Utopia annuncia la pubblicazione di alcune delle sue opere in italiano, e comincia da Libro senza nome (pp. 160, € 18,00), romanzo-saggio del 2006, uscito originariamente in forma di samizdat e tradotto da Minas Lourian, direttore del Centro studi e documentazione della cultura armena a Venezia, mentre la prefazione del volume, dall’inglese, è firmata da Deanna Cachoian-Schanz.

Fra queste pagine, una dattilografa-scrittrice (in cui forse si identifica il profilo dell’autrice) discute con una amica del progetto che la appassiona, in un caffè della capitale: ricostruire la vita di due autrici armene, ostacolate dalla storia e dalla tradizione del loro paese. Comincia così il racconto della vita di Shushanik Kurghinian, di cui Avagyan ha tradotto le liriche in inglese, poeta che ai diritti delle donne in una società arretrata ha dedicato gran parte della sua opera.

Ricercata dalla polizia zarista, fu costretta alla fuga dall’Armenia con i figli, e tornò nel 1921 su invito del presidente della repubblica socialista. Le sue poesie irritarono anche il mondo comunista, che valorizzò, in epoca sovietica, solo il nucleo dei testi dedicati alla classe operaia.

L’altra donna raccontata in Libro senza nome è Zabel Yesayan, narratrice in prosa, traduttrice e insegnante a Istanbul, città da cui dovette fuggire al momento della persecuzione degli armeni. Ebbe una vita non meno avventurosa di Kurghinian: fu a lungo a Parigi, fino al ritorno nel 1933 nel suo paese, dove fu arrestata per nazionalismo nel 1937 e deportata. La sua morte è collocata nel 1943, ma la data non è certa.

La suggestione attorno alla quale ruota il romanzo prevede un incontro delle due scrittrici nella capitale armena nel 1926. L’andamento narrativo si alterna a passaggi di interrogazione sulla forma e sulla struttura del racconto. Nel capitolo undicesimo, dal titolo «È lei, dicono, la poeta», trova spazio una riflessione che non sta nel flusso della storia, ma che prelude a tutta la ricerca: «nell’ideologia socialista si annientavano tutte le differenze, anche quelle di genere. Di conseguenza, tutte le discussioni sulle peculiarità dell’esperienza femminile furono criticate e ridotte al silenzio». Libro senza nome dà voce a figure a lungo rimosse, assecondando la propensione a illuminare un paesaggio culturale complesso, stretto fra l’Armenia del passato e quella del presente.

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Il peso della parola secondo Mikayel Ohanjanyan in mostra all’ex stamperia GEA di Milano. (AgendaOnline 27.10.24)

Un nuovo capitolo del lavoro condotto sulla natura dei legami dall’artista Mikayel Ohanjanyan (Yerevan, 1976) è in mostra fino all’8 novembre 2024 negli spazi di Assab One di Milano.

Ohanjanyan è stato uno dei partecipanti alla mostra del padiglione nazionale dell’Armenia, premiato con il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 2015. Ha inoltre ricevuto il Premio Fondazione Henraux per la Scultura in marmo nel 2014 e il Premio Internazionale dell’Arte Contemporanea “Enrico Marinelli” per il Museo dell’Opera del Duomo di Firenze nel 2018.

La mostra è curata da Mazdak Faiznia, direttore artistico della Fondazione Famiglia Faiznia e di NOMAD Contemporary Heritage.

E… se non ci fosse la scrittura?” apre infinite possibilità di ricostruire la genesi della parola attraverso l’individuazione di una serie di fattori che appartengono alla cultura e alla lingua madre di ciascun individuo posto in relazione con la società del suo tempo.

La parola restituisce una versione inesatta e parziale del pensiero, un elenco di opinioni che gravitano intorno alla verità, toccando in maniera tangente tutte le scienze della natura e dell’uomo, dall’astronomia alla geologia, la filosofia e la scultura.

Tagliare le sovrastrutture del pensiero per giungere a coglierne l’essenza è un procedimento delicato, un andirivieni tra immagine e parola che tende a chiarificare le motivazioni.

Il passaggio dal linguaggio verbale, orale e scritto, al linguaggio non verbale, come quello visivo, registra un ulteriore affinamento del pensiero che, se da un lato dilata le distanze spazio temporali tra gli interlocutori, dall’altro svela l’interconnessione che li rende parte di un sistema più grande.

Il progetto consiste in un gruppo scultoreo di cinque forme in basalto installate all’interno dello spazio a luce naturale che una volta ospitava le Grafiche Editoriali Ambrosiane, dal 2002 sede di Assab One su iniziativa dell’editrice e giornalista pubblicista Elena Quarestani.

I corpi in basalto e i piccoli frammenti satelliti, ottenuti mediante la riproduzione in piombo delle schegge originali, naturalmente ancorate a terra vengono trattenuti da cavi in acciaio come a rafforzarne simbolicamente il legame altrimenti impercettibile. Sono come dei grandi asteroidi, piccoli pianeti da cui spesso si distaccano i meteoriti.

In un’intervista esclusiva, l’artista Mikayel Ohanjanyan confida le motivazioni che hanno accompagnato la sua indagine sul valore della parola e sulle relazioni che intercorrono tra il singolo individuo e la società, e tra le singole particelle e l’universo.

Le rime petrose di Dante descrivono la reticenza e la difficoltà di seduzione della donna-petra. Il poeta russo Osip Mandel’stam distilla in concentrato il destino di un popolo segnato dalle tribolazioni come l’Armenia definendolo “paese delle pietre urlanti”.

A partire dagli studi completati tra l’Accademia di Belle Arti di Yerevan e quella di Firenze, quali sono i riferimenti letterari che riverberano nella tua pratica artistica?

MO: Sono stato sempre attratto dalle mitologie di tutte le civiltà antiche, dalla letteratura mistica, come quella di Georges Gurdjieff, dagli studi scientifici e sociologici. Non potrei non leggere i grandi classici del passato e del contemporaneo, sia della letteratura armena che quella mondiale.

Mi incuriosisce qualsiasi cosa che possa aiutarmi a riflettere e a capire qualcosa in più dell’essere umano, la nostra esistenza e la nostra essenza.

Mi piace molto “leggere” le persone. Trovo molto interessante osservarle mentre attraverso la strada o mentre sono in compagnia. Ognuno è una letteratura unica e universale. I classici mi aiutano molto in questo senso, a interpretare i traumi, le tragedie, le gioie e i sogni delle persone. Sono queste le esperienze che riverberano nella mia pratica artistica.

Nel corso della tua carriera sei passato dall’utilizzo del marmo di Carrara a quello del basalto dimostrando una scrupolosa manualità scultorea sia dinanzi a un materiale pregiato che a un materiale certo più ottuso, entrambi riscontrabili in natura. Il basalto in particolare è associato a un luogo sacro, la “Sinfonia delle pietre” di Garni, a 30 km da Yerevan, un monumento naturale con colonne di forma esagonale e pentagonale alte fino a 50 metri.

MO: Oltre al marmo e al basalto, ho utilizzato anche con altri tipi di materiali lapidei, poi il bronzo e il legno, il ferro e alcuni materiali sintetici. Credo che ogni materiale abbia dentro di sé una sacralità nascosa, all’artista spetta il compito di ricavarne qualcosa di speciale, una propria poesia. Il basalto è una pietra vulcanica che indubbiamente caratterizza l’altopiano armeno. Lo trovo in realtà un materiale nobile, il suo aspetto aspro contiene una delicatezza infinita.

Mi domando se Mandel’stam non fosse incantato proprio da questo connubio di estremi. Il basalto inoltre è la pietra che deriva dalla rigenerazione della crosta terrestre, dal grembo della nostra terra, custodisce un racconto remotissimo, la storia dell’essere umano, la natura, la terra stessa e l’universo. Non direi che trovandomi in Italia guardo con occhi diversi i luoghi a me cari, ma vivendo in Italia ho scoperto l’importanza della mia cultura d’origine.

Da quanto tempo manchi in Armenia? C’è stato un momento in cui dall’Italia hai rivisto con occhi diversi i luoghi a te cari?

MO: Attraversare “i confini” consente se non altro di scoprire l’importanza e l’unicità delle altre culture, compreso quella italiana. In Armenia cerco di tornare spesso, l’ultima volta è stato a aprile quest’anno.

Scolpire la pietra e scolpire le parole nella pietra appartengono a due visioni e procedimenti diversi. Quando l’intervento dello scultore si sofferma sulla forma e quando avverte invece la necessità di fissare un messaggio verbale oltre a quello visivo?

MO: Credo che la pratica di combinare la forma alla scrittura derivi inconsciamente dalla mia cultura d’origine. Mi tornano in mente i blocchi di basalto presenti nelle catene montuose delle regioni di Ghegharkunik o Syunik in Armenia, i Vishapakar (“pietre dei draghi”), una sorta di menhir su cui sono scolpite teste di draghi, pesci o arieti. Rivedo le antichissime scritture cuneiformi urartiani incise sulle pareti rocciose, o i testi sacri, le preghiere e le annotazioni su pareti intere all’interno delle chiese medievali armene. Credo che forma e verbo siano congiuntamente due modi di sintetizzare un’emozione e di cristallizzare un’energia vibrante attraverso la scultura e la scrittura. Il risultato finale deriva da un lungo processo interiore e dal tentativo di unire in modo equilibrato la musica interiore, lo spazio, il tempo e la materia.

 In quale lingua ti senti più a tuo agio quando devi esprimere un concetto più articolato?

MO: Sicuramente in armeno e in italiano, a seguire in russo e poi in inglese.

Mikayel Ohanjanyan è presente con la mostra “Naturalis Historia” con testo critico di Laura Cherubini dal 10 settembre al 12 ottobre 2024 da Building Gallery in Via Monte di Pietà 23, e con la mostra “Fellings” a cura di Roberto Lacarbonara dal 21 settembre al 3 novembre 2024 tra i comuni di Mornico al Serio e Torre Pallavicina, in provincia di Bergamo.

Mikayel Ohanjanyan
E… se non ci fosse la scrittura? 
a cura di Mazdak Faiznia
27 settembre – 8 novembre 2024
Dal mercoledì al venerdì dalle 15:00 alle 19:00 Sabato su appuntamento
ASSAB ONE, via Privata Assab 1, 20132 Milano (MM2 Cimiano) * Ingresso libero con tessera Assab One 2024 (€10) Per informazioni: info@assab-one.org +39 02 2828546

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Nell’antica capitale del regno d’Armenia i resti di una delle chiese più antiche al mondo (Asianews 26.10.24)

Il luogo di culto, del IV secolo, rinvenuto ad Artaxata. Una scoperta frutto del lavoro congiunto di archeologi dell’università di Münster e dell’Accademia nazionale delle scienze dell’Armenia. Per gli esperti è un evento “significativo” anche perché il regno è stato il primo nella storia “ad adottare il cristianesimo come religione ufficiale”.

Erevan (AsiaNews) – Nei giorni in cui papa Francesco nomina nuovo membro del dicastero per le Chiese orientali il patriarca di Cilicia degli Armeni Raphaël Bedros XXI Minassian, un gruppo di studiosi annuncia la scoperta dei resti di una chiesa del quarto secolo ad Artaxata, l’antica capitale del regno d’Armenia. Per gli esperti l’edificio rappresenta uno dei più antichi luoghi di culto rinvenuti al mondo e la più antica dell’area in cui sorgeva il regno che è anche il primo nella storia ad aver abbracciato il cristianesimo come religione ufficiale.

I resti della chiesa, dalla forma ottagonale, sono stati riportati alla luce ad Artaxata, l’antica capitale del regno di Armenia, da una squadra congiunta di archeologi dell’università di Münster e dell’Accademia nazionale delle scienze dell’Armenia, che hanno lavorato sul sito da settembre. La scoperta “consiste in una struttura con estensioni cruciformi” che “corrisponde a edifici commemorativi paleocristiani” come spiega l’ateneo tedesco in una nota. La costruzione era caratterizzata da “un diametro di circa 30 metri” e aveva “un semplice pavimento in malta e piastrelle di terracotta”.

I ricercatori hanno anche trovato frammenti di marmo che indicano quanto fosse “riccamente decorata” con materiali di pregio da importazione. “Nelle estensioni a forma di croce, i ricercatori hanno scoperto i resti di piattaforme di legno che sono state datate al radiocarbonio” e risalirebbero “alla metà del IV secolo d.C.” prosegue la dichiarazione. Questa datazione ha permesso ai ricercatori di stabilire che la struttura “è la più antica chiesa archeologicamente documentata del Paese e una prova sensazionale del primo cristianesimo in Armenia” come evidenzia Achim Lichtenberger, docente dell’università di Münster.

La città di Artaxata, ora in rovina, situata su una collina nel sud del Paese lungo il confine con la Turchia, è stata fondata nel 176 a.C. e si è sviluppata nel tempo sino a diventare “una importante metropoli”, in particolare durante il periodo ellenistico. Una crescita consistente, spiegano i ricercatori, tanto da farla diventare la “capitale del regno d’Armenia per quasi sei secoli”. La stessa collina, che vanta una vista spettacolare sul monte Ararat, appena al di là del confine turco, ospita Khor Virap, un antico monastero ancora attivo che è anche un luogo di pellegrinaggio.

Interpellata dal Times of Israel l’archeologa classica, biblista e storica delle religioni Jodi Magness, docente all’università di Chapel Hill nella Carolina del Nord (Stati Uniti), parla anche lei di “scoperta significativa”. “La scoperta di questa chiesa – aggiunge – ha senso dal momento che il regno armeno è stato il primo Stato ad adottare il cristianesimo come religione ufficiale all’inizio del IV secolo”. E nello stesso periodo, conclude, gli armeni hanno stabilito “una presenza a Gerusalemme, che hanno mantenuto attuale sino ad oggi”. Il regno, all’epoca uno Stato-satellite legato all’impero romano, diventa formalmente cristiano nel 301, quando, “secondo la leggenda, san Gregorio Illuminatore converte al cristianesimo il re armeno Tiridate III ad Artaxata”.

Eventi che occorrono ben prima del Concilio di Nicea del 325, che codifica e razionalizza i diversi dogmi del cristianesimo ma, soprattutto, prima dell’Editto di Milano del 313 col quale l’imperatore romano Costantino mette al bando la persecuzione dei cristiani e ne autorizza il culto. Per questo motivo l’Armenia è considerata il primo regno cristiano e la Chiesa ortodossa armena è una delle più antiche confessioni cristiane, oltre alla presenza di un numero significativo di armeni cattolici, che hanno tradizioni distinte sono fedeli al papa e alla Chiesa di Roma.

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BRICS 2024, verso la pace tra Armenia e Azerbaigian. (Sardegnagol 25.10.24)

Mentre nei tavoli americani ed europei si ottiene ben poco per la risoluzione di conflitti geopolitici, come ricordano i casi dell’Ucraina e del Medio Oriente, nel corso dell’ultimo vertice dei 36 Paesi BRICS, in corso a Kazan, i leader dell’Armenia e dell’Azerbaigian, rispettivamente Nikol Pashinyan e Ilham Aliyev, hanno discusso sull’avanzamento dell’agenda di pace bilaterale, comprendente l’accordo per la delimitazione dei confini e questioni di reciproco interesse.

Meeting che hanno registrato l’attribuzione dell’incarico ai rispettivi ministri degli esteri per la finalizzazione del trattato di pace. Altro che diplomazia occidentale…

“I ministri degli Esteri hanno ricevuto l’ordine di proseguire i negoziati bilaterali sull’accordo di pace e delle relazioni interstatali per finalizzarlo e concluderlo il prima possibile”, si legge nella dichiarazione del governo armeno.

Dai grandi classici alla tradizione Irlandese e Armena al Teatro Alighieri (Piu Notizie 24.10.24)

Domenica 27 ottobre arriva sul palco della Sala Corelli del Teatro Alighieri il trio formato dal mezzosoprano Victoria Massey, dal clarinettista Claudio Tassinari e dal pianista Pádhraic Ó Cuinneagáin, ospiti della rassegna “Concerti della Domenica” curata dall’Associazione Mariani e realizzata con il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna.

Victoria Massey

Concertista internazionale nata a Dublino, Victoria Massey ha cantato come solista in numerosi ruoli operistici come Marcellina in ‘Le Nozze di Figaro’ di Mozart, Dryad in ‘Ariadne auf Naxos’ di Strauss, Dritte Dame in ‘Die Zauberflöte’ di Mozart, Gertrude in ‘Roméo et Juliette’ di Gounod. La sua l’attività solistica in ambito concertistico l’ha vista esibirsi in composizioni importanti come il Requiem di Verdi e di Mozart, Messa in si minore e Magnificat di Bach, Petite Messe Solenelle e Stabat Mater di Rossini, Stabat Mater di Pergolesi, Gloria di Vivaldi, il Messia di Händel e altre opere.

Claudio Tassinari

Claudio Tassinari, nato a Ravenna e diplomato in clarinetto al Conservatorio di Parma, ha ottenuto per due anni consecutivi (88/89) il “Premier Prix” al Conservatorio di Musica di Nizza. Nell’ambito cameristico di particolare rilievo è la collaborazione con l’Accademia Bizantina. Come primo clarinetto dell’Ensemble Italiano di Fiati ha effettuato concerti in Italia, Europa e Sudamerica. E’ stato docente di clarinetto presso il Conservatorio di Bologna e fino al 2022 ha ricoperto il ruolo di clarinetto e clarinetto piccolo nell’orchestra del Teatro la Fenice di Venezia.

Pádhraic Ó Cuinneagáin

Pádhraic Ó Cuinneagáin, originario di Dublino, ha ricevuto la sua educazione musicale presso la Royal Irish Academy of Music e la Schola Cantorum al St. Finian’s College. Attualmente docente di pianoforte alla TU Dublin Conservatory a Mulligar, si è esibito in Irlanda e all’estero come solista e accompagnatore in musica da camera collaborando con importanti cantanti e strumentisti. Ha eseguito in anteprima opere di compositori irlandesi e si è esibito con l’ensemble di musica contemporanea irlandese ‘Concorde’.

Gli artisti, particolarmente sensibili alla tradizione musicale irlandese e armena, presenteranno un programma che accanto a composizioni di autori celebri come Brahms, Pergolesi, Durante, Fauré, Weil, Schubert e Britten, prevede brani meno conosciuti come quelli degli armeni Ganatchian, Aprikian e Abate Mechitar, degli spagnoli Granados e Valverde, dell’irlandese Hughes. Saranno proposte inoltre canzoni della tradizione irlandese.

Alle ore 10 verrà offerta la colazione nel bar del teatro grazie alla collaborazione tra Associazione Mariani e Mercato coperto.

Ore 11 inizio concerto.

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