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di Patrizia Orofino
Chahnourth Varinag Aznavourian, in arte Charles Aznavour è passato a miglior vita ieri, all’età di 94 anni. Nacque a Parigi nel 1924 da genitori armeni, la madre scampò al genocidio armeno del 1915, quel massacro che fu causa della, deportazione obbligata degli armeni, verso prigioni controllate dai turchi e la morte di 1.500.000 persone, uno sterminio degli inizi del novecento.
Un miracolo che i genitori di Aznavour riuscirono a salvarsi, per poi ritrovarsi da immigrati a vivere in Francia; il padre faceva il cuoco, la madre era figlia di commercianti armeni. Da ragazzino fu introdotto nel mondo teatrale e dello spettacolo proprio dai suoi genitori che, intravedevano in lui doti e talenti artistici da coltivare. Nel 1946 la meravigliosa Edit Piaf, lo nota e lo porta con lei per una tournèe in Francia e all’estero che, gli diede l’opportunità di farsi conoscere, ma anche di fare la sua prima vera esperienza di chansonnier della canzone francese.
Negli anni Cinquanta del Novecento, diviene una star. Numerose furono le sue esibizioni nei più famosi palcoscenici di tutta Parigi e della Francia, prediligendo tuttavia l’Olympia. Le sue interpretazioni, nel corso della sua lunghissima carriera lasciavano il segno negli spettatori che andavano a sentire i suoi concerti; mai banali i suoi spettacoli, la buona musica e gli eccellenti testi scritti proprio da lui, gli permisero di entrare nel cuore di milioni di persone in tutto il mondo.
Il suo talento andava oltre la canzone d’amore. Fu uno dei primi ad intrerpretare nel 1972 una canzone dedicata agli omosessuali: “Che si dice”, infatti, attacca i preconcetti omofobi molto pesanti e presenti, all’epoca nella vita di coloro i quali non erano liberi di amare ufficialmente persone dello stesso sesso.
Il suo immenso talento camaleontico gli consentì di cantare in sette lingue: inglese, francese, italiano, spagnolo, tedesco, russo e napoletano (quest’ultima considerata una vera e propria lingua unica ed inimitabile). Vendette oltre 300 milioni di dischi in tutto il globo, il suo repertorio evergreen ancora oggi è riproposto da tanti artisti di nuova generazione. Ha duettato con la crème dei cantanti di fama mondiale come: Liza Minnelli, Compay Segundo, Cèline Dion, e con artisti italiani del calibro di: Mia Martini, Iva Zanicchi e Laura Pausini. Altrettanti omaggi, resi ad Aznavour da cantautori italiani che, da Modugno a Battiato, da Enrico Ruggieri a Gino Paoli, Renato Zero, Mina, Milva e tanti altri, hanno cantato in italiano le sue opere.
Canzoni come: “Ed io tra di voi”, ” L’Istrione”, ” Com’è triste Venezia”, ” La Boheme”, sono solo alcuni esempi di come il cantautore gentiluomo, ha lasciato la sua arte ai posteri.
Ha conosciuto e vissuto la vita, ed i suoi valori più intimi, riportando tutto questo in poesia d’amore e di vita. In 94 anni di cose ne ha viste Aznavour, attraversando generazioni e tuttavia anticipandone spesso i suoi mutamenti sociali. La sua carriera ricca di percorsi, ci ha insegnato come l’arte arrivi all’animo più intimo e personale di un individuo; la sua vita personale, quella di un figlio di immigrati scampati ad un genocidio, ci riporta ai giorni nostri, a ciò che viviamo. Storie uguali di guerre, di dolore di violenza, cui gli immigrati cercano di sfuggire e che spesso, si ritrovano isolati perchè “diversi”.
La diversità il 22 Maggio del 1924 portò una ricchezza in più alla Francia ed al mondo, la nascita di Charles Aznavour, esempio di un’opportunità di vita migliore, in un paese straniero; quella della realizzazione di un sogno realizzato che, non poteva essere compiuto se quel paese straniero non avesse accolto i genitori di Aznavour.
Arrivederci e non addio maestro, perchè ogni qualvolta che, riascolteremo una tua chanson, tu sarai lì a farcela rivivere interamente come sempre. Grazie straordinario chansonnier per averci regalato un pezzo della tua anima.
Charles Aznavour viveva in Svizzera dal 1972. Una scelta che non era motivata solo dalla pressione del fisco francese. “La Svizzera è un’oasi di pace”, aveva dichiarato a swissinfo.ch il cantante, i cui genitori erano fuggiti dal genocidio armeno un secolo fa.
“La Svizzera è un’oasi di pace. Tutto è più calmo, più pudico, anche i semafori rossi diventano più lentamente verdi e viceversa. È un paese che rispetto e amo molto. Ho fatto naturalizzare i miei figli”, dichiarò nel 2011 Charles Aznavour a Bernard Léchot, all’epoca giornalista di swissinfo.ch e tuttora musicista.
E il poeta delle parole e delle melodie aggiunse: “Io ho rinunciato per una questione di fedeltà. La Francia ha dato ai miei genitori la possibilità di avere una vita normale e crescere i loro figli. Non potevo tradire questo. Ho lasciato la Francia molto adirato, perché mi ha ferito molto. Ho subito un vero e proprio linciaggio”.
È nel 1972 che si trasferisce in Svizzera con la famiglia. Dapprima nel Vallese. Il “blocco aznavouriano”, secondo le sue parole al quotidiano La Tribune de Genève, trasloca in seguito nel cantone di Ginevra, sulle rive del lago Lemano, dal quale non stacca gli occhi nel 2012 cambia di nuovo casa e si trasferisce a Saint-Sulpice nel cantone di Vaud.
Ambasciatore dell’Armenia in Svizzera
Lo scorso aprile ha fatto la sua ultima apparizione pubblica in Svizzera. A Ginevra, l’ambasciatore – in Svizzera e all’ONU – Charles Aznavour partecipa all’inaugurazione dei “Lampioni della memoria”, un memoriale dedicato agli armeni massacrati un secolo fa in Turchia e ai tanti svizzeri che si erano allora mobilitati in loro favore.
“L’ho trovata di una sublime bellezza. Più svizzera che armena, anche se è un giovane armeno che l’ha concepita. Non è un monumento ai morti, è un luogo formidabile: sembra una Rambla, dove ci si avventurerebbe per incontrare una futura sposa…”, aveva detto a swissinfo.ch nel 2011, in merito all’opera.
Un progetto che ha avuto grandi difficoltà a concretizzarsi, a causa delle pressioni del governo turco.
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Il genocidio armeno mette in luce la crisi attuale in Medio Oriente
Di Frédéric Burnand, Ginevra
I Lampioni della Memoria rendono omaggio agli armeni uccisi oltre un secolo fa in Turchia e agli svizzeri che si sono mobilitati in loro favore.
Qual è stato il suo legame tra le canzoni che ha scritto e la tragedia vissuta dagli armeni? “Ciò che mi ha avvicinato alle difficoltà delle persone è questo. Il dolore di vivere è lì. Troviamo tutto ciò negli armeni, ma anche negli spagnoli, negli ebrei, nei maghrebini, oggi, come ieri nei neri americani. Ho letto poesie di donne armene, anonime, sono molto vicine al mio modo di scrivere”, aveva risposto a Bernard Léchot.
Charles Aznavour è stato un cantautore popolare per eccellenza per la sua capacità di trovare le parole e le melodie per cantare la vita quotidiana, a volte drammatica, della gente comune.
Nell’intervista a swissinfo.ch del 2011, aveva dichiarato: “Ho appena scritto una canzone sulla Shoah. Ma è una canzone d’amore. Perché? Perché? Perché un giorno ho incontrato una persona che aveva incontrato sua moglie in un campo di concentramento. E che aveva dunque trovato l’amore nel campo di concentramento. La mia canzone è questo. L’amore è nato in un luogo che è un disastro, un orrore”.
Un’esaltazione della vita e un’empatia che ha coltivato con il suo amato pubblico: “Incontro regolarmente il mio pubblico al di fuori del palcoscenico: faccio la spesa da solo, non ho guardie del corpo, conduco una vita normale, in un’atmosfera amichevole. Siccome parlo diverse lingue, posso comunicare con persone provenienti da luoghi molto diversi. Incontrando questo pubblico tutti i giorni, si acquista una vicinanza che traspare quando si scrivono le canzoni anche per lui, il pubblico”.
di Frédéric Burnand –
“La Svizzera è un’oasi di pace. Tutto è più calmo, più pudico, anche i semafori rossi diventano più lentamente verdi e viceversa. È un paese che rispetto e amo molto. Ho fatto naturalizzare i miei figli”, dichiarò nel 2011 Charles Aznavour a Bernard Léchot, all’epoca giornalista di swissinfo.ch e tuttora musicista.
E il poeta delle parole e delle melodie aggiunse: “Io ho rinunciato per una questione di fedeltà. La Francia ha dato ai miei genitori la possibilità di avere una vita normale e crescere i loro figli. Non potevo tradire questo. Ho lasciato la Francia molto adirato, perché mi ha ferito molto. Ho subito un vero e proprio linciaggio per essermi espresso su politica e immigrazione”.
È nel 1972 che si trasferisce in Svizzera con la famiglia. Dapprima nel Vallese. Il “blocco aznavouriano”, secondo le sue parole al quotidiano La Tribune de Genève, trasloca in seguito nel cantone di Ginevra, sulle rive del lago Lemano, dal quale non stacca gli occhi nel 2012 cambia di nuovo casa e si trasferisce a Saint-Sulpice nel cantone di Vaud.
Ambasciatore dell’Armenia in Svizzera:
Lo scorso aprile ha fatto la sua ultima apparizione pubblica in Svizzera. A Ginevra, l’ambasciatore – in Svizzera e all’ONU – Charles Aznavour partecipa all’inaugurazione dei “Lampioni della memoria”, un memoriale dedicato agli armeni massacrati un secolo fa in Turchia e ai tanti svizzeri che si erano allora mobilitati in loro favore.
“L’ho trovata di una sublime bellezza. Più svizzera che armena, anche se è un giovane armeno che l’ha concepita. Non è un monumento ai morti, è un luogo formidabile: sembra una Rambla, dove ci si avventurerebbe per incontrare una futura sposa…”, aveva detto a swissinfo.ch nel 2011, in merito all’opera.
Un progetto che ha avuto grandi difficoltà a concretizzarsi, a causa delle pressioni del governo turco.
Qual è stato il suo legame tra le canzoni che ha scritto e la tragedia vissuta dagli armeni? “Ciò che mi ha avvicinato alle difficoltà delle persone è questo. Il dolore di vivere è lì. Troviamo tutto ciò negli armeni, ma anche negli spagnoli, negli ebrei, nei maghrebini, oggi, come ieri nei neri americani. Ho letto poesie di donne armene, anonime, sono molto vicine al mio modo di scrivere”, aveva risposto a Bernard Léchot.
Charles Aznavour è stato un cantautore popolare per eccellenza per la sua capacità di trovare le parole e le melodie per cantare la vita quotidiana, a volte drammatica, della gente comune.
Nell’intervista a swissinfo.ch del 2011, aveva dichiarato: “Ho appena scritto una canzone sulla Shoah. Ma è una canzone d’amore. Perché? Perché? Perché un giorno ho incontrato una persona che aveva incontrato sua moglie in un campo di concentramento. E che aveva dunque trovato l’amore nel campo di concentramento. La mia canzone è questo. L’amore è nato in un luogo che è un disastro, un orrore”.
Un’esaltazione della vita e un’empatia che ha coltivato con il suo amato pubblico: “Incontro regolarmente il mio pubblico al di fuori del palcoscenico: faccio la spesa da solo, non ho guardie del corpo, conduco una vita normale, in un’atmosfera amichevole. Siccome parlo diverse lingue, posso comunicare con persone provenienti da luoghi molto diversi. Incontrando questo pubblico tutti i giorni, si acquista una vicinanza che traspare quando si scrivono le canzoni anche per lui, il pubblico”.
(Traduzione dal francese – fonte: tvsvizzera.it)
«Io sono un istrione. E l’arte, l’arte sola è la vita per me. Se mi date un teatro e un ruolo adatto a me il genio si vedrà», cantava Shahnourh Varinag Aznavourian, per tutti Charles Aznavour, lo chansonnier francese di origine armena mancato ieri nel sonno all’età di 94 anni nella sua casa a Mouriès, in Provenza. La notizia della morte è stata data dal suo ufficio stampa. Aznavour era la Francia, quella dalla vocazione internazionale, quella dell’accoglienza che ne ha fatto un precursore della contaminazione musicale. «Mi sono interessato a tutti gli stili della musica – ebbe a dire a Le Monde – sono orgoglioso di essere stato in qualche modo il primo a farlo in Francia. Ecco perché ho avuto successo nei paesi del Maghreb, tra gli ebrei, i russi». In settant’anni di carriera “l’istrione”, probabilmente il cantante francese più famoso al mondo, scoperto da Edith Piaf, ha scritto oltre 1400 canzoni e ne ha incise più di 1200, in sette lingue (francese, inglese, italiano, spagnolo, tedesco e russo) e ha recitato in un’ottantina di film e telefilm. In Italia numerosi suoi pezzi, da “Come è triste Venezia” a “La Bohème” ne hanno fatto un’icona della musica. Un gigante nonostante arrivasse a fatica a un metro e sessantacinque d’altezza.
Aznavour ha partecipato a due edizioni di Sanremo, sempre fuori gara, nel 1981 con “Poi passa” e nel 1989 con “Momenti sì, momenti no”, ha duettato con grandi artiste italiane come Milva, Mia Martini e Laura Pausini, così come ha fatto con star internazionali come Nana Mouskouri, Liza Minnelli, Compay Segund e Céline Dion.
Molti interpreti della musica leggera italiana hanno inciso canzoni da lui scritte e cantate nei più grandi teatri del mondo, a cominciare dall’Olympia a Parigi dove era di casa: Domenico Modugno, Mina, Ornella Vanoni e Gino Paoli, solo per citarne alcuni. Nel 1971 lo chansonnier scomparso ieri vinse il Leone d’oro a Venezia per la canzone “Morire d’amore”, utilizzata come colonna sonora per l’edizione italiana dell’omonimo film diretto da André Cayatte. Nel 2009 la città di Firenze gli rese omaggio consegnandogli il Giglio d’argento «per la sua straordinaria carriera artistica tra cinema e musica, per l’impegno a sostegno del popolo armeno, della pace e della libertà». Memorabile il concerto del 23 luglio dello scorso anno all’Auditorium Parco della Musica di Roma per celebrare i 70 anni della sua straordinaria carriera. Sul palco a 90 anni passati, la classe di sempre e fu davvero un peccato, quest’estate, l’annullamento del concerto in programma a Palmanova, cancellato a causa di un infortunio.
Nato il 22 maggio 1924 a Parigi da genitori armeni immigrati dalla Turchia e dalla Georgia, sfuggiti al genocidio perpetrato all’Impero ottomano, Aznavour si è sempre battuto per la causa armena, con un’intensa attività diplomatica che nel 2009 lo portò anche a diventare l’ambasciatore del proprio Paese d’origine in Svizzera, dove negli anni Settanta siera trasferito per problemi con il fisco francese.
Per la stessa causa nel 1989 riunì a Milano una sessantina di artisti per registrare il brano da “Per te Armenia” in supporto del progetto “Fondazione Aznavour per l’Armenia” per aiutare i bambini orfani armeni.
La casa di Charles Aznavour a Erevan ha la vista sul Monte Ararat, quello che segnò la fine del Diluvio Universale sostenendo il peso dell’Arca di Noè. Luogo caro agli ebrei, segnati nella storia del secolo scorso dal più grande genocidio della storia, così come lo erano stati gli armeni qualche anno prima della Soluzione Finale. Uno sterminio voluto da un gruppo di ufficiali nazionalisti turchi, che fecero fare il lavoro sporco ai curdi per non avere troppi imbarazzi: tipico di ogni impero multietnico come lo era quello ottomano. Secondo alcune stime i morti furono un milione e mezzo, ma è impossibile dare cifre certe.
Due identità in una sola anima
La storia personale di Aznavour iniziava proprio con quella orribile strage, e la fuga dei superstiti in ogni angolo d’Europa e del mondo. Proprio come gli ebrei. Lui non era ancora nato, ma sua madre gli trasmise in quel di Parigi dove si era rifugiata con il padre, armeno anche lui, due cose. La prima il senso dell’identità, per cui si possono avere due patrie ed essere fedeli a entrambi; la seconda il senso di una presenza cupa di violenza e dolore che pervade le esistenze.
Forse è per questo che lui, Aznavour, una piega amara nell’espressione l’ha sempre mantenuta, anche se per sua stessa ammissione la parte piacevole della vita non gli era per nulla estranea. Francese e armeno, tutta la vita senza concessioni alle facili argomentazioni dei sovranisti per cui sei una cosa o dei un’altra: l’animo umano è troppo stretto per comprendere due continenti.
Quando è bene sapere
Ora, non è che Aznavour abbia fatto una bandiera della sua doppia identità culturale. Parlava francese (e altre quattro lingue) ed in francese cantava. Ma soprattutto dopo il 1989, quando il crollo dell’Urss fece scoprire agli occidentali l’altra metà del mondo scongelando antiche culture e vecchie rivalità, sentì la voce dell’altra metà dell’Io che lo chiamava suadente come se stesse cantando “Devi sapere”: “La dignità devi salvare / malgrado il male che senti … ”. Sarà stata anche una canzone d’amore del 1962, ma sembrano le sensazioni di qualcuno a cui la Storia torna addosso, tutta in una volta con il suo peso schiacciante.
Le vicende dell’Armenia da quel momento diventano quasi un’ossessione, come se lui, scampato al massacro, cercasse di farsi perdonare da chi non era riuscito a mettersi in salvo.
La riscoperta dell’antica masseria
In realtà l’impegno risale a poco tempo prima: era il 1988 – piena era gorbacioviana, quando nessuno nemmeno immaginava cosa sarebbe successo di lì a pochi mesi – e la Repubblica Sovietica d’Armenia venne sconvolta da un terremoto. Venticinquemila morti, forse il doppio, intere città distrutte e Gorbaciov in persona che si deve umiliare a chiedere aiuto all’America di Ronald Reagan. Lui canta (in francese) “Pour toi Armenie”, e la fa interpretare a 90 suoi colleghi di ogni cultura e lingua. I proventi serviranno alla ricostruzione. Lui ha ritrovato la sua prima casa. Parafrasando un libro che ha fatto conoscere anche all’Italia il massacro degli armeni, la sua prima masseria.
Un ponte aereo privato
Il salto di qualità, comunque, viene spiccato quando l’Urss già non esiste più: l’Armenia è indipendente da appena un anno e si scatena la guerra con il vicino Azerbaigian, a causa di un’enclave in territorio azero chiamata Nagorno Karabakh. Di nuovo, come settant’anni prima, l’incubo della pulizia etnica. Lui, senza dire niente a nessuno, paga il biglietto per fuggire in Occidente a migliaia di persone. Un ponte aereo privato.
A Erevan non se lo dimenticano: lo nominò rappresentante permanente presso l’Unesco, poi ambasciatore in Svizzera (lui vi vie per alcuni anni; si dice anche a causa di problemi con il fisco francese, ma l’uomo è essere molto complicato, alle volte), poi “eroe nazionale”. Gli intitolano una piazza: è l’immagine dell’Armenia nel mondo e al tempo stesso quella di una identità nazionale che non ha bisogno del nazionalismo per affermarsi. Anche se la lingua prediletta resta sempre quella, il francese.
Undici fuggiaschi in tre stanze
Una lingua, per l’appunto, imparata da piccolo, armeno errante, sulle strade di Parigi vivendo la condizione psicologica (ancora una volta la Masseria delle Allodole di Antonia Arslan) di chi cerca “il caldo nido di una volta: non estranea, non ospite, ma passeggera in attesa di un treno di cui non conosco l’orario”.
Forse è anche per questo che, quando nella Parigi occupata dai nazisti inizia la caccia all’ebreo, nelle tre stanze della casa degli Aznavourian (il vero nome della famiglia Aznavour) vivevano madre, padre, due figli e 11 uomini e donne in fuga dall’Olocausto. Due popoli, un unico dolore. Anche se lui, verso la fine della vita, annoterà con mestizia: “Mi duole molto che Israele non abbia riconosciuto il genocidio degli Armeni: fu quello il modello a cui i nazisti si rifecero per la Soluzione Finale degli Ebrei”.