ksor! Gridavano le donne. Questa parola – deportazione – suscitò in mia madre un urlo di disperazione. Lei sapeva. Era il luglio del 1915 e a ricordare è Varvar, che allora aveva 6 anni e che in seguito raccontò alla figlia, giornalista e scrittrice, la sua storia di sopravvissuta al genocidio degli armeni. Una tragedia e un crimine contro l’umanità che fino al 1973 il mondo ha finto di ignorare. Solamente allora, infatti, la Commissione dell’Onu per i diritti umani ha riconosciuto ufficialmente lo sterminio di circa 1 milione e mezzo di armeni – da parte dell’Impero ottomano – come il primo genocidio del XX secolo.
CAPRI ESPIATORI. Il Metz Yeghern (grande male), come lo chiamano gli armeni della diaspora, iniziò il 24 aprile 1915 con l’arresto di 2.345 persone nella sola Istanbul, poi giustiziate o deportate.
Impantanato nella Prima guerra mondiale, il plurisecolare Impero ottomano era al tramonto. Minacciata dalla Russia, Istanbul temeva l’alleanza dei circa 2 milioni di sudditi armeni (cristiani) con gli slavi ortodossi: al governo, i Giovani Turchi del Comitato di unione e progresso gettavano benzina sul fuoco del nazionalismo.
«La premessa del genocidio fu lo smembramento dell’Impero ottomano, che tra il 1878 e il 1918 perse l’85% del suo territorio e il 75% della popolazione», spiega lo storico e dissidente turco Taner Akçam – il primo studioso del suo Paese a parlare apertamente di genocidio. Per questo, nel 1976, è stato condannato a 10 anni di carcere: rifugiato prima in Germania, oggi insegna all’Università del Minnesota (Usa).
Armenia: il memoriale del genocidio. | PAVEL L PHOTO AND VIDEO / SHUTTERSTOCK
Akçam, attraverso lunghe ricerche d’archivio, ha ricostruito come la Repubblica Turca, fondata nel 1923 sulle ceneri dell’impero da Mustafa Kemal “Atatürk” (cioè “Padre dei Turchi”), sia figlia anche della pulizia etnica. «Per costruire la nuova nazione, Kemal Atatürk si servì proprio degli organizzatori dello sterminio e di chi si era arricchito depredando gli armeni», spiega Akçam.
Era la fine della tolleranza ottomana, che, pur tra molte discriminazioni, aveva permesso per secoli la convivenza dei popoli più diversi, armeni compresi. Questi ultimi, però, erano “colpevoli” di rappresentare un’élite culturale ed economica, pur essendo una minoranza linguistica e religiosa. Il ritratto perfetto del capro espiatorio.
Orfani armeni destinati alla deportazione (foto del 1920). | EVERETT HISTORICAL / SHUTTERSTOCK
INNOCENTI OGGI? COLPEVOLI DOMANI! Così, quel fatidico 24 aprile (commemorato ogni anno dagli armeni di tutto il mondo), dal ministero dell’Interno partì l’ordine: arrestare i notabili e gli intellettuali armeni. L’accusa era di alto tradimento: Ristabilimento dell’ordine nella zona di guerra con misure militari, rese necessarie dalla connivenza con il nemico, il tradimento e il concorso armato della popolazione, così la burocrazia militare turca giustificò i massacri.
Quando l’ambasciatore americano Henry Morgenthau inviò una supplica in difesa degli armeni, questa fu la risposta del ministro dell’Interno ottomano, Ahmed Pascià Tal’at (poi assassinato da un “vendicatore armeno” nel 1921): «Ci è stato rimproverato di non fare alcuna distinzione tra gli armeni innocenti e quelli colpevoli; ma ciò non è possibile, per il fatto che coloro che oggi sono innocenti, potranno essere colpevoli domani». Per i nazionalisti si trattava di una “difesa preventiva”: gli armeni erano solo “microbi tubercolotici” da debellare, arricchitisi – dicevano i Giovani Turchi – sulle spalle dei “turchi onesti”.
Immagini dallo sterminio degli armeni (foto del 1919). | EVERETT HISTORICAL / SHUTTERSTOCK
TRAGICA EFFICIENZA. Per ripulire più rapidamente il sacro suolo turco, per la prima volta nella Storia fu applicata la deportazione sistematica, fredda, scientifica, ordinata da un’apposita “legge di deportazione”. Un sistema affidato alla cosiddetta Organizzazione speciale, formata per lo più da criminali ed ex detenuti. La tragica efficienza dell’Organizzazione, secondo diversi studiosi, ispirò ai nazisti i metodi della “soluzione finale” contro gli ebrei. «Per la prima volta si fece ampio uso dei moderni sistemi di trasmissione delle informazioni (telegrafo) e di trasporto (ferrovia)», spiega lo storico francese Bernard Bruneteau nel suo libro Il secolo dei genocidi (il Mulino, 2006).
Gli armeni arruolati nell’esercito furono sommariamente passati per le armi. «In alcuni vilayet – le province armene – non si procedette nemmeno alla deportazione, bensì all’uccisione sul posto. Le vittime venivano legate e gettate nei fiumi due a due. Così, per intere settimane, l’Eufrate ne trascinò i cadaveri, che si accumulavano sui banchi di sabbia per finire poi in pasto ai cani e agli avvoltoi», racconta ancora Bruneteau.
Chi non veniva ucciso sul luogo moriva nelle marce forzate, per le privazioni e le malattie. Un esempio fra tanti: dei 18.000 partiti dalla cittadina di Sivas, solo 500 superstiti giunsero, stremati, ad Aleppo (oggi in Siria), dove convergevano i convogli dall’Anatolia, dalla Tracia, dall’Asia Minore e dalla Cilicia (Turchia meridionale); e appena 213 dei 5.000 armeni di Harput arrivarono a destinazione. «Alla fine dell’estate del 1915 in Anatolia non c’erano più armeni», afferma Bruneteau. Circa 300.000 di loro si erano rifugiati in Russia, dove nel 1920 nacque l’Armenia sovietica e nel 1991 l’attuale Repubblica Armena. Almeno un milione morirono nelle “marce della morte” e in seguito alle privazioni.
Immagini dallo sterminio degli armeni (foto del 1919). | EVERETT HISTORICAL / SHUTTERSTOCK
SELEZIONE NATURALE. Aleppo divenne il teatro della seconda fase del genocidio: i campi di concentramento. Ancora oggi, gli archivi turchi della Direzione generale dei deportati sono inaccessibili: per fare luce su ciò che accadde in quei campi bisogna affidarsi alle testimonianze dei sopravvissuti, dei diplomatici e dei tecnici stranieri (soprattutto tedeschi) che lavoravano alla costruzione delle ferrovie dell’Impero ottomano. Emerge così il vero scopo dei campi: non quello di trasferire gli armeni fuori dal “sacro suolo” turco, bensì quello di affrettarne l’eliminazione.
«In tutto c’erano 870.000 persone distribuite in parecchie decine di campi improvvisati lungo il corso dell’Eufrate, per circa 200 chilometri», scrive Bruneteau. «La strategia adottata dai turchi consisteva innanzi tutto nel lasciare marcire per settimane i deportati nei campi di transito alla periferia di Aleppo, per poi spostarli da un campo di concentramento all’altro lungo l’Eufrate, fino alla fine di un processo di selezione naturale». Ammassati all’aperto, senza cibo né cure, morivano a migliaia. «Nel solo campo di Islayhié si calcola che fino alla primavera del 1916 siano morti di fame o di malattia in sessantamila.»
Rifugiati armeni in un campo profughi (foto del 1920). | EVERETT HISTORICAL / SHUTTERSTOCK
Le donne, come la madre della piccola Varvar, furono quelle che soffrirono di più: “Le più belle sono vittime della lubricità dei loro carcerieri, mentre quelle brutte soccombono alle sevizie, alla fame, alla sete, poiché, stese vicino alle fonti d’acqua, non hanno il permesso di dissetarsi. Agli europei è vietato distribuire pane agli affamati”, si legge in una lettera inviata da quattro professori della scuola tedesca di Aleppo.
LA SOLITA INDIFFERENZA. Come in Cambogia negli Anni ’70, in Ruanda negli Anni ’90, in Sudan fino a tutt’oggi, e ancora con i Turchi all’assalto dell’enclave curda in Siria, il mondo stava a guardare.
«Una particolarità del genocidio del 1915», afferma Bruneteau, «è di essere stato perpetrato sotto gli occhi dei rappresentanti della comunità internazionale: osservatori neutrali (svizzeri, americani, danesi e svedesi) e funzionari civili e militari tedeschi e austriaci».
Anche se i rapporti e le testimonianze di questi osservatori permettevano di ricostruire, sostiene Bruneteau «l’intenzione omicida del governo», nessuno fermò la macchina dello sterminio.
L’unica cosa che poterono fare, soprattutto volontari americani ed esercito francese, fu, alla fine della guerra, raccogliere i profughi e accompagnarli con le navi in Grecia, in Libano, in Francia e anche in Italia. Era l’inizio della diaspora armena.
Nel 1923, con la nascita della Repubblica Turca, furono bloccati i processi chiesti dalla comunità internazionale; dopo la Seconda guerra mondiale la Turchia divenne un alleato strategico per l’Occidente, e il primo genocidio dell’età moderna entrò nell’oblio. Per ironia della Storia, il governo turco firmò persino la Convenzione sul genocidio dell’Onu del 1948, in base alla quale la Turchia fu poi condannata, nel 1984, dal Tribunale permanente dei popoli – una istituzione che non ha però alcun potere reale.
DISSIDENZA PERICOLOSA. Ancora oggi, in Turchia, l’argomento è tabù. Ufficialmente, quella armena fu una “rivolta” e le vittime non superarono le 300.000. Pochi turchi osano parlare apertamente di genocidio, anche perché l’articolo 301 del codice penale turco (introdotto nel 2005) punisce col carcere il reato di “offesa all’identità turca”.
Lo hanno fatto il premio Nobel per la letteratura Orhan Pamuk, incriminato e oggi costretto a vivere sotto protezione, la scrittrice Elif Shafak (poi prosciolta), Taner Akçam; ma anche il giornalista Hrant Dink, assassinato nel 2007. «La Turchia non ammette il genocidio perché quel crimine fu commesso dai “padri della patria”», spiega Akçam. «Molti membri del Comitato di unione e progresso ricoprirono posizioni importanti nella neonata Repubblica Turca. Riconoscere le loro responsabilità significa mettere in discussione l’ideologia nazionale turca e l’identità stessa della nazione», conclude lo storico dissidente. Ancora oggi, non sembra che la Turchia voglia fare i conti con il suo passato.
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Pillole – Oggi nel mondo gli armeni sono tra i 9 e i 10 milioni. Solo 3,5 milioni di loro vivono nella Repubblica Armena (nel Caucaso), nata dal crollo dell’Urss e indipendente dal 1991. Gli altri si trovano in Russia (oltre 1 milione e mezzo), in Francia, Stati Uniti, Grecia, Libano e altri Paesi, Italia compresa. Tra le comunità nate nel nostro Paese in seguito alla persecuzione turca, la più importante fu quella di Nor Arax (Nuova Armenia), alla periferia di Bari, dove negli Anni ’20 approdarono centinaia di profughi. Oggi la più numerosa è invece quella di Milano (oltre un migliaio di persone), dove nel 1958 fu costituita l’unica parrocchia italiana della Chiesa Armena. Gli armeni in Italia c’erano però anche prima del 1915: in Calabria furono deportati dai Bizantini fra il V e il X secolo; nel 1717, invece, la Serenissima donò l’isola di San Lazzaro, nella laguna di Venezia, all’abate cattolico armeno Pietro Mechitar, in fuga dal Peloponneso.
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Pillole – Circa 3.500 anni fa gli antenati degli armeni, le tribù Hayasa-Azzi, abitavano le alture dell’Anatolia, ma la lingua armena (e il popolo che la parlava), secondo alcuni studiosi, si sarebbe infatti differenziata dall’indoeuropeo oltre 8.000 anni fa. Il primo grande regno degli antichi armeni (che chiamavano loro stessi Hay) fu quello di Urartu, fondato intorno all’835 a.C. dal re Sarduri I. Fino al 585 a.C. dominò la regione del monte Ararat e del lago Van, nel cuore dell’attuale Turchia asiatica. I re della dinastia degli Orontidi, nel V secolo a.C., si allearono con i persiani, di cui diventarono potenti satrapi (governatori delle province, chiamate satrapie). Passata la dominazione romana, l’Armenia fu tra i primi regni a convertirsi al cristianesimo e il primo in assoluto ad adottare il nuovo credo come religione di Stato, nel 301.
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