Cari adoratori del grande Kapuściński, rileggetevi cosa scriveva sul Nagorno-Karabakh (Korazym 21.01.24)
Il giornalista e scrittore polacco Ryszard Kapuściński ( (Pińsk, Polonia orientale, oggi Bielorussia, 4 marzo 1932 – Varsavia, 23 gennaio 2007) è ostinatamente “quasi censurato”. Si vedano i suoi giudizi sui Fratelli musulmani. O la vicenda di Gallina Vasilevna Starovojtova (Chelyabinsk, 17 maggio 1946 – San Pietroburgo, 20 novembre 1998 [QUI]), deputata sovietica ed etnografa russa nota per il suo lavoro nella protezione delle minoranze etniche e nella promozione delle riforme democratiche in Russia, uccisa a colpi di arma da fuoco nel suo condominio, che rese possibile a Kapuściński di raccontare dell’Artsakh.
[Korazym.org/Blog dell’Editore, 21.01.2024 – Renato Farina] – Gallina Vasilevna Starovojtova! Mi ero dimenticato di questa donna. Mi era apparsa, presenza secondaria e fugace, in un libro di Ryszard Kapuściński del 1995, dove si parlava del Nagorno-Karabakh (in lingua materna, Artsakh). Molto più importante di Galina mi apparve subito l’autore del testo intitolato “La trappola”. Un racconto bellissimo. Giornalismo puro, e sporco di vita, così gonfio di realtà che invece di studiare i personaggi veri che transitavano per quelle pagine, mi ero innamorato dell’inviato speciale arrivato a Stepanakert e che aveva messo in bottiglia e gettato nell’oceano dell’umanità la strepitosa memoria di quel piccolo popolo, “destinato all’annientamento”.
Annientamento? Aveva scritto proprio così Kapuściński: “Gli abitanti del Nagorno lo sono”. Tutto già allora congiurava contro questi Armeni del Bosco Oscuro. “Uno dei posti più belli del mondo, qualcosa come le Alpi, i Pirenei, il Rodope, Andorra, San Marino e Cortina d’Ampezzo messi insieme. Un cobalto fondo e trasparente. Lo smeraldo intenso. Un’aria cristallina”. Una bellezza pronta per essere sgozzata.
Non sto allontanandomi dal dolore attuale dei centomila Armeni cacciati via dalla propria terra per gettarmi nella letteratura. Ma non ho la forza di disperdere inchiostro nelle effimere cronache di avvicinamenti e allontanamenti diplomatici tra i governi di Armenia e Azerbajgian. Non ho cuore di trafiggervi con interviste spaventose per cinismo di ministri italiani che si rallegrano perché giustizia è fatta, e con l’occupazione il diritto internazionale ha trionfato sui deboli e i vinti.
Condividerle con voi mi parrebbe parte della congiura del silenzio, un analgesico omeopatico per lasciar scivolare la tragedia nell’ovatta delle cose secondarie e sentirsi a posto.
Ma sì. Genocidiuccio di un popoluccio, che sarà mai? Mi faccio schifo da solo a usare queste parole infami. Ma è il modo con cui infilo una spina sotto la mia unghia, e magari la vostra, per saltare su. Galina Starovojtova dove sei? Torna a Stepanakert per favore. Ma non può, l’hanno uccisa!
Leggere Kapuściński oltre a celebrarlo
Seduto sulla riva del lago di Sevan, aspettando l’invasione turca, che arriverà, oh se arriverà, pesco in fondo all’oblio perle del Nagorno-Karabakh. Disseppellendole ho la speranza di suscitare il desiderio di preservare per l’umanità queste genti, cambiando un poco la storia dei miei fratelli e, chissà, dei loro figli e nipoti resistenti in questo Caucaso meridionale che l’inerzia occidentale ha assegna ai Turchi e al loro rinascente impero ottomano, che dal Mediterraneo si dispiegherà presto fino all’Afghanistan e oltre.
Penso: magari rileggendo le opere e i reportage sanguinanti del maggior giornalista d’inchiesta degli ultimi 50 anni, le giovani generazioni di cronisti avranno il coraggio non solo di portarne la statua sulle spalle ai festival per onorarlo, agitando il turibolo e convocando le penne mainstream tutte dello stesso giro.
È lui, l’ho già citato, è Ryszard Kapuścińsk. Cari adoratori di lui – tra cui ci sto anch’io – invece di cullarci nella sua tecnica narrativa, nella prosa che scalda l’immaginazione, proviamo a verificare se i suoi racconti e i suoi giudizi degli eventi fossero veritiere, e durevoli, traendone le conseguenze. Ho scoperto infatti che il viaggiatore polacco è ostinatamente “quasi” censurato. Non tutto, qua e là, che è il modo perfetto per falsificare una persona e la sua opera. La vera fake news non è la panzana sesquipedale, ma la “quasi verità”.
Ad esempio, nella sua ultima opera, In viaggio con Erodoto, aveva scritto testualmente: «Fratelli musulmani, un’organizzazione clandestina di fondamentalisti e terroristi islamici» (pag. 109, Feltrinelli). Questo giudizio, non maturato orecchiando qua e là qualche talk show o ricavandolo da qualche ritaglio di quotidiano, ma sperimentato in corpore vili, constatato toccando il plasma rossiccio e i corpi neri per la morte, non si trova in nessuna citazione a lui riferita. Servirebbe, eccome, per giudicare Hamas e comprenderne la natura non pro-palestinese, ma islamo- terroristica; e così per capire chi sia Erdoğan e la sua politica interna ed estera, e la stoltezza di appoggiarci in Libia a chi aveva ed ha in mano Tripoli, cioè proprio loro: i Fratelli terroristi musulmani (Kapuściński dixit). Non c’è, nelle recensioni, forse per evitare querele, o a causa della cultura woke, è stata abrasa questa frasetta.
Germogli del KGB
Nei mesi scorsi avevo ricordato quanto nel suo volume Imperium (Feltrinelli1995), reportage sul disfacimento dell’Unione Sovietica – vissuto da Kapuściński a pelle e palle, con cuore e testa, mani e piedi -, aveva scritto sull’Azerbajgian e sulla dinastia degli Aliyev che dominava quello Stato quand’era sovietico, e ne ha conservato il controllo totalitario con l’avvento della Repubblica islamica nazionalista turco-caucasica. Aveva raccontato come questa famiglia, da cui ancor oggi compriamo gas a caro prezzo, fosse un germoglio asiatico del KGB.
Ecco ne “La trappola”, il capitolo di Imperium (Feltrinelli 2013 [QUI]) c’è Galina Storovojtova, deputata sovietica innamorata del Nagorno e della sua gente, che rischiò la vita per consentire a Kapuściński quel racconto meraviglioso. Lui scrisse solo cinque anni dopo i fatti per “non esporre a rappresaglia” chi l’aveva aiutato (pag. 195) e così salvarle la vita. Be’, l’hanno uccisa nel 1998. E chi? Il KGB. Vedi il prossimo Molokano, se non ammazzano anche me prima.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero di gennaio 2024 di Tempi in formato cartaceo.