CAOS CAUCASICO (Difesaonline.it 20.07.20)
Nei giorni recenti si è registrato un inusuale risalto, sia da parte dei quotidiani che delle agenzie di stampa online, riguardo agli ultimi scontri che hanno opposto le forze armate della Repubblica d’Armenia a quelle della Repubblica dell’Azerbaigian. La novità interessante è che, questa volta, gli scontri sono avvenuti lungo il confine di stato internazionalmente riconosciuto e non lungo la “Linea di Contatto” che da 1994 separa le forze armate armene e nagornine da un lato e quelle azere dall’altro segnando inevitabilmente un innalzamento dello scontro ad un nuovo livello.
Per i neofiti, il conflitto tra Armeni e Azeri si trascina ormai da diversi secoli e ha cambiato i suoi connotati a seconda delle stagioni politiche e delle entità che si sono contese il controllo del Caucaso, spesse volte utilizzando la contesa armeno-azera, come pretesto e foglia di fico ad un tempo, per giustificare le proprie macchinazioni. Che si trattasse di Russi, Turchi o Persiani, il Caucaso faceva gola a tutti i contendenti e i conflitti locali dovevano necessariamente essere strumentalizzati ad uso e consumo dell’egemone di turno.
L’attuale fase “calda” del conflitto armeno-azero trova principale (ma non unica) giustificazione nel possesso del territorio del Nagorno-Karabakh (Artsakh), territorio in larga parte montuoso, e caratterizzato da paesaggi mozzafiato, situato sulle estreme propaggini meridionali del Caucaso e noto alle popolazioni turcofone con il nomignolo di “Giardino Nero” (a causa delle sue fitte foreste, così diverse dalle steppe sconfinate caratterizzanti le terre dell’Asia Centrale da dove arrivarono le orde genitrici dei Turchi moderni).
Il primo mito da sfatare quando si parla del Nagorno-Karabakh (Artsakh) è che il suddetto territorio sia stato invaso dagli Armeni e che sia attualmente “occupato” dalle forze militari della Repubblica d’Armenia. Tale versione, ufficialmente adottata dalle autorità di Baku, rappresenta la quintessenza della malafede degli Azeri e dei loro fiancheggiatori a livello internazionale (ahimé, la maggioranza).
La popolazione del Nagorno-Karabakh (Artsakh) è sempre stata costituita da Armeni per la sua assoluta maggioranza sin dall’origine della scrittura ed, anzi, questa regione rappresenta il cuore stesso del territorio d’origine del popolo e della cultura armena, assieme alla finitima provincia di Syunik (facente parte della Repubblica d’Armenia) e alla Repubblica Autonoma del Naxçivan (quest’ultima ancora parte dell’Azerbaigian e completamente “ripulita” in anni recenti dalle autorità di Baku sia della sua popolazione armena che dei monumenti da essa costruiti nel corso del tempo).
Nel 1988, sulla scia degli sconvolgimenti che interessarono l’Unione Sovietica nel periodo della Perestroika e che avrebbero di lì a poco portato alla disintegrazione stessa dell’impero, gli Armeni nagornini dichiararono la secessione dalla Repubblica Sovietica dell’Azerbaigian (dalla quale si erano sempre sentiti a ragione oppressi) e la riunificazione con la Repubblica Sovietica dell’Armenia. La successiva “Guerra del Nagorno-Karabakh” durò fino al 1994 risolvendosi nel collasso delle capacità militari dell’Azerbaigian (che attraversò inoltre un periodo di torbidi politici interni) e alla firma del “Protocollo di Bishkek” che, seppure non riconoscendo né l’indipendenza del Nagorno-Karabakh (Artsakh) né la sua riunificazione con la Repubblica d’Armenia, sancì altresì il controllo congiunto di Armeni ed Armeni nagornini su gran parte del Nagorno-Karabakh (Artsakh) e dei territori azeri confinanti collettivamente noti come “zone di sicurezza”.
Lungi dal tramutarsi in un trattato di pace onnicomprensivo, il “Protocollo di Bishkek” fu un semplice momento di passaggio tra la “guerra vera” e “l’intifada della guerra”. Tra il 1994 ed oggi, le provocazioni reciproche hanno continuato a mietere morti da entrambi i lati, dato che non è passato un singolo giorno senza che avvenissero incursioni di commandos, combattimenti d’artiglieria, azioni di cecchinaggio e attacchi di aerei o elicotteri mentre l’azione diplomatica si riduceva ad una situazione di effettivo stallo.
Dal 2008, le provocazioni hanno avuto un’evoluzione persino peggiorativa, mentre la retorica incendiaria utilizzata soprattutto dall’Azerbaigian sul fronte interno sta solamente facendo aumentare l’odio verso il nemico.
L’escalation peggiore è avuta nell’aprile 2016 quando il Nagorno-Karabakh (Artsakh) è stato teatro di una nuova guerra (la cosiddetta “Guerra dei Quattro Giorni”) che ha mietuto per lo meno diverse centinaia di morti (anche se il segreto militare e l’ampio ricorso alla disinformazione, soprattutto da parte azera, non permettono di apprezzare appieno la gravità dell’evento).
L’estate di quest’anno ha comportato l’ennesima recrudescenza negli scontri, questa volta però spostatisi a nord al confine della provincia armena di Tavush e di quelle azere di Tovuz, Qazakh e Gadabay. Tale sfortunato evento, di per sé tragico, è stato rapidamente strumentalizzato dalle alte sfere di Baku, tuttavia in questa situazione gli Azeri non sono riusciti a “vendere” a livello internazionale l’evento altrettanto bene rispetto a quando invece gli scontri avvengono nell’area del Nagorno-Karabakh (Artsakh). Nondimeno a livello internazionale si sono registrate una serie di durissime prese di posizione da parte di varie istituzioni nazionali ed internazionali.
Interessante la condanna, che potremmo definire “multipartisan”, da parte di diversi centri studio, in genere orbitanti attorno alla figura dell’ex-ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, le cui dichiarazioni finali, però, una volta letta, fa sorgere il legittimo sospetto che i nostri “esperti” siano quanto meno scarsamente avvezzi all’analisi degli equilibrismi caucasici quando non totalmente male informati riguardo alla situazione reale sul terreno, come quando richiedono “l’immediato ritiro delle forze armene dalla zona contesa”. Bisognerebbe avere la grazia di spiegare a costoro innanzitutto che l’attuale crisi ha come punto focale un’area lontana da quella del conflitto classico. Secondariamente, anche volendo parlare a tutti i costi di “area contesa”, è bene che essi sappiano che il Nagorno-Karabakh (Artsakh) non è un gigantesco “campo militare”, ma uno stato a tutti gli effetti abitato da 150.000-172.000 persone in larghissima parte “indigene” e discendenti di genti che hanno abitato quel territorio per migliaia di anni. L’autore della presente analisi trova francamente difficile che tutta questa gente accetti di andarsene “con il sorriso sulle labbra”, soprattutto dopo che, tra il 1988 ed il 1994, ha combattuto una sanguinosissima e vittoriosa guerra per la propria salvezza ed autodeterminazione (la quale, per altro, è riconosciuta sia dal “Protocollo di Bishkek” che dai successivi “Principi di Madrid”).
Un altro capitolo che merita di essere trattato è quello delle inevitabili vittime civili che segnano questo tipo di conflitti dato che anche in questa occasione pare che ce ne siano state dalla parte azera. Interrogate a tal proposito, le autorità armene non hanno negato l’accaduto ma allo stesso tempo hanno precisato che la responsabilità delle morti civili ricade sulla scellerata decisione di Baku di piazzare i propri pezzi d’artiglieria in mezzo alle zone abitate. Tale affermazione ci impone di prestare attenzione al diverso valore che i contendenti attribuiscono alla vita dei civili. Mentre infatti lungo tutto il versante armeno della linea del fronte sia le autorità di Yerevan che di Stepanakert (capitale nagornina) hanno imposto una fascia “militarizzata” nella quale, in virtù dello stato di guerra, i civili non hanno possibilità di stanziamento e residenza, dalla parte azera non si è mai provveduto a nulla di simile, anzi, spesso e volentieri trincee, nidi di mitragliatrici, posizioni d’artiglieria e bunker sono situati proprio attorno ai centri abitati in modo da utilizzarne gli abitanti come scudi umani.
Nonostante l’ampio utilizzo da parte delle forze armene di UAV, radar di rilevamento terrestre, sistemi di scoperta all’infrarosso e operatori delle forze speciali in funzione di ricognitori per rendere il fuoco di contro-batteria il più preciso possibile, i danni collaterali con conseguenti perdite civili sono inevitabili, come si è visto anche in questi giorni.
In genere gli scambi d’artiglieria tra le due parti si svolgono nel seguente modo: dopo aver colpito anche per intere giornate le posizioni armene mediante l’utilizzo di fucili e cannoni senza rinculo e mortai da 60 e 82 millimetri gli Azeri possono smettere oppure decidere di alzare la posta del gioco schierando i lanciarazzi campali multitubo TR-107 di produzione turca (a loro volta ampiamente ispirati ai PLA 107 di fabbricazione cinese). Ciò provoca poi l’immediato fuoco di contro-batteria armeno che si risolve nella distruzione delle posizioni di lancio ma che spesse volte porta anche alle perdite civili delle quali ci parla la cronaca. Tuttavia, ad un lettore attento, tali accadimenti suonano assolutamente famigliari. Nel corso della “Guerra dei Quattro Giorni” dell’aprile 2016, sia Armeni che Azeri lamentarono un certo numero di perdite civili. Da investigazioni fatte sul terreno da parte di Murad Gazdiev, corrispondente di RT, mentre i morti ed i feriti dell’Azerbaigian erano stati colpiti dal fuoco armeno quando nei loro centri abitati era stata segnalata una massiccia presenza di truppe, dall’altra parte, le perdite di civili armeni erano tutte incorse quando il fuoco azero aveva colpito le loro case situate a chilometri di distanza dalla linea del fronte e senza che vi fosse la benché minima presenza di forze ostili tale da giustificare un sostenuto fuoco d’artiglieria. Ogni ulteriore commento risulta superfluo.
Sul frangente bellico, non è facile trovare notizie certe relative alle reali perdite umane e materiali sofferte dai contendenti, tuttavia possiamo affermare che, mentre la relativa apertura e democratizzazione della società armena possono farci ipotizzare che le perdite ufficiali armene sostanzialmente corrispondano alla realtà, quelle ufficiali azere sono palesemente false.
L’esperienza empirica di tutti i conflitti umani, dall’introduzione della polvere da sparo ad oggi, dimostra che qualsiasi esercito attaccante è destinato a subire perdite dalle tre alle cinque volte maggiori rispetto all’esercito difensore, a patto che non sia dotato di una potenza di fuoco schiacciate e di soldati meglio addestrati ed equipaggiati. Nel caso specifico, l’Azerbaijan non può contare su alcuna delle due condizioni.
Sebbene negli ultimi vent’anni Baku abbia potuto spendere cifre enormi per ammodernare il proprio strumento militare, ciò non si è tradotto nel dispiegamento di una irresistibile potenza di fuoco. Essendo infatti un membro dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva e coltivando da sempre buone relazioni con la Russia, l’Armenia ha potuto rinforzare a sua volta le proprie forze armate potendo acquistare moderni armamenti dal suo imperiale protettore a prezzi scontati o addirittura gratuitamente, cosa preclusa al proprio avversario.
È difficile valutare appieno gli arsenali dei due contendenti, dato che la situazione di “guerra perenne” porta entrambi ad essere alquanto “abbottonati” riguardo a numeri ed organizzazione dei propri strumenti militari. Tuttavia, una rapida occhiata tanto ai bilanci alla difesa quanto alle indiscrezioni giornalistiche, che parlano di tanto in tanto di mega contratti stipulati dall’uno o dall’altro dei due contendenti, ci possono far intravedere un barlume di verità anche oltre la cortina fumogena del segreto militare e della disinformazione di guerra.
Alla luce di quanto detto precedentemente, possiamo affermare che, sulla carta, Baku sia in possesso di forze militari numericamente superiori e dotate di armamenti più numerosi anche se, lo scarto numerico (che, a seconda della tipologia di armamento, varia da 1:2 a 1:3) non è sufficiente ad ottenere quella superiore potenza di fuoco che sarebbe auspicabile per risolvere “manu militari” la contesa del Nagorno-Karabakh. Allo stesso tempo, le forze armate azere sono piagate da una serie di inveterate inefficienze (corruzione del corpo ufficiali, nonnismo, mancanza di addestramento e disciplina) che non gli permettono di stare sullo stesso piano qualitativo delle loro controparti armene e nagornine.
Tali problemi erano già emersi in maniera palese nel corso della “Guerra del Nagorno-Karabakh”, tra il 1988 ed il 1994. Anche allora le forze armate azere erano state sconfitte ed umiliate da un avversario assai meno numeroso e quantitativamente meno armato ma qualitativamente meglio addestrato e determinatissimo a combattere una guerra che la totalità della popolazione armena vedeva come una “guerra per la propria sopravvivenza esistenziale”. Dall’altra parte, invece, gli Azeri vedevano la guerra come niente più che una repressione di un momentaneo moto separatista. Infatti, mentre nel corso dei lunghi anni della guerra le autorità di Yerevan e Stepanakert si adoperavano alacremente per inviare al fronte quanti più uomini (e donne) possibile, dall’altra una buona percentuale dei maschi azeri in età militare non disdegnava di evadere la leva obbligatoria preferendo gli agi del lungomare di Baku al freddo ed alla fame dei monti e delle foreste del Nagorno-Karabakh. Una delle misure adottate dal governo per arginare l’emorragia di renitenze fu la coscrizione massiccia di personale proveniente dalle minoranze etniche del paese (soprattutto Russi, Lezgini, Avari e Talysh, ma non solo) demograficamente incapaci di ribellarsi ai diktat del potere centrale.
A titolo esemplificativo si può citare il fatto che il più importante e celebrato “Eroe Nazionale dell’Azerbaijan” della guerra del Nagorno-Karabakh, il defunto Albert Agarunovich Agarunov (foto) non fosse un “azero in senso stretto” bensì un cosiddetto “ebreo di montagna” (gli Ebrei di Montagna sono un’antichissima comunità ebraica del Caucaso da sempre famosi per le loro eccezionali capacità guerriere), e che prima di morire a bordo del suo carro armato nel corso della battaglia di Shusha nel 1992 pare si fosse lamentato più volte con i giornalisti che, per la maggior parte, fossero i soldati delle minoranze a doversi fare carico del fardello della guerra.
Un’altra, fu il diffuso utilizzo di volontari e mercenari stranieri tra cui migliaia di Turchi, Ceceni, e persino mujaheddin afghani. È interessante notare che tale pratica non sia disdegnata nemmeno oggi, dato che, dopo il confronto militare del 1-5 Aprile 2016, le autorità armene hanno diffuso la notizia di come, in diverse occasioni, le loro forze sul terreno avessero recuperato dai cadaveri dei nemici uccisi in battaglia documenti e valuta attestanti la provenienza straniera dei suddetti armati.
Come ciliegina sulla torta si possono poi citare i rapporti stilati congiuntamente dalle due agenzie di intelligence dell’Armenia, il Servizio di Sicurezza Nazionale ed il Dipartimento di Intelligence delle Forze Armate, nei quali si enunciava espressamente che elementi di al-Qaeda e combattenti dell’ISIS stessero combattendo a fianco delle forze di Baku. L’esistenza di tali rapporti confidenziali è stata pubblicamente svelata da Kaylar Michaelian, rappresentante permanente del Nagorno-Karabakh in Australia e successivamente rilanciata dalle agenzie di stampa siriane SANA e Al-Masdar News.
È doveroso menzionare il fatto che il presidente siriano Assad avesse espressamente citato l’Azerbaijan come uno dei paesi “fornitori di manodopera” per l’ISIS un mese prima degli attentati del Bataclan di Parigi e che poche settimane prima dello scoppio della guerra in Nagorno-Karabakh del 2016 gli stessi servizi segreti siriani, congiuntamente a quelli russi, avessero messo in guardia sul fatto che i servizi segreti turchi stessero favorendo l’esfiltrazione di una sessantina di terroristi dell’ISIS di nazionalità azera probabilmente per farli tornare verso la zona del Caucaso. L’opinione più diffusa sul momento era che tali operativi fossero diretti, congiuntamente ad altri elementi di etnia cecena o caucasica, a colpire obiettivi russi situati in Georgia, in Ossezia del Sud, in Abkhazia o addirittura nello stesso Caucaso russo, laddove le bandiere nere dell’ISIS hanno iniziato a sventolare in luogo della tradizionale resistenza cecena. Il fatto che siano invece stati dirottati all’ultimo momento in Azerbaijan dimostra tre cose fondamentali:
- il grado di fantasia strategica e di improvvisazione di cui sono dotati i servizi segreti turchi;
- l’elevato grado di collaborazione e “sinergia” ormai raggiunto tra Ankara e Baku;
- il fatto che, oltre ad essere un’organizzazione terroristica sviluppatasi in un autentica “organizzazione mafiosa”, l’ISIS (ora profondamente infiltrato ed etero-diretto dai servizi segreti di Turchia, Pakistan ed Arabia Saudita) sia diventato anche un’autentica “banda di mercenari” che può fornire all’uopo contingenti di combattenti più o meno numerosi e assolutamente spendibili a questa o quella potenza per un pronto impiego nei più disparati teatri della “Terza Guerra Mondiale a Pezzi” denunciata da Papa Francesco.
Ma Erdoğan, Aliyev e i loro sodali non si sono fermati qui. Il 18 di luglio, Sham FM, outlet radiofonico siriano, citando nuovamente i servizi segreti di Damasco ha annunciato che, dopo aver fatto capolino in Libia e Yemen, ora i jihadisti siriani appartenenti alle varie fazioni islamiste ingabbiate nella provincia di Idlib e nelle zone sotto occupazione turca starebbero ora venendo dispiegati anche per servire gli interessi turchi nel conflitto tra Armenia ed Azerbaigian. Sham FM ha fatto addirittura l’esempio di un’unità di 300 uomini reclutata tra i membri di Hay’at Tahrir al-Sham, l’ex-Jabhat al-Nusra, che avrebbero firmato i termini per trascorrere un “tour operativo” nell’area caucasica della durata di sei mesi ricevendo un salario di 2.500 dollari mensili.
Lo scenario complessivo che si delinea, perciò, non è quello dell’incidente ma della vera e propria premeditazione; ma da parte di chi? Accettando come assai probabile la “premeditazione” dell’invasione azera, resta da capire chi tra Erdoğan e Aliyev sia stato il vero motore ed artefice del “gambetto di re”.
Chiariamoci: Aliyev non si sarebbe mai lanciato in una simile avventura senza il pieno sostegno di Erdogan. A pensarci bene, c’erano (e ci sono) numerose ragioni di natura interna per spingere l’autocrate azero verso una riaccensione del conflitto (sviamento dell’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi interni, riduzione al silenzio dell’opposizione interna facendo leva sul sentimento patriottico, mascherare la catastrofica gestione della crisi del Covid-19, ecc…).
Un altro elemento da non sottovalutare è la perdurante crisi dei prezzi degli idrocarburi che incide molto negativamente sul bilancio di Baku e spinge il dittatore Ilham Aliyev ad usare il conflitto senza fine come una valvola di sfogo per dirigere il malcontento interno verso gli odiati Armeni. Tuttavia, anche considerando queste situazioni, è Erdogan quello che ha più da guadagnarci nell’appiccare il fuoco al Caucaso. Con questa mossa infatti il sultano ha ottenuto i seguenti risultati:
-ha contrattaccato il rafforzamento della presenza russa in Siria;
-ha dimostrato di essere in grado di creare una crisi potenzialmente pericolosa a ridosso dei confini della Russia;
-ha parzialmente screditato il prestigio della Russia nei confronti di tutti gli altri stati ex-sovietici;
-ha spinto ancora di più l’Azerbaijan tra le braccia della Turchia;
-ha dimostrato di perseguire una politica estera che può essere indipendente dai “desiderata” di Washington;
-ha internazionalizzato il conflitto armeno-azero e lo scontro aperto tra Turchia e Russia;
-ha fatto l’occhiolino a Kiev, sempre in cerca di alleati in chiave anti-russa;
-ha lanciato un messaggio ai suoi “alleati” sauditi e pakistani (seguitemi fino alla fine!);
-ha lanciato un altro messaggio ad Europei e Iraniani (sono un uomo pericoloso!);
-ha tentato di mettere all’angolo Yerevan, come ha già tentato di fare molte volte.
Non passerò ora ad analizzare in dettaglio ciascuno dei punti sopra annunciati né valuterò il loro impatto nel breve, medio e lungo termine. Mi limiterò a dire che, tra i dieci punti sopra enunciati uno di essi, l’ultimo, costituisce un madornale errore di valutazione.
Se dall’alto della sua potenza il sultano turco può pensare di aver stretto la piccola Armenia all’interno di un anello di fuco, lasciando gli abitanti di quel paese di fronte all’unica scelta di sottomettersi o perire, egli dimostra, in perfetto stile turco, di non aver minimamente compreso che per gli Armeni, non importa se dell’Armenia, del Nagorno-Karabakh o della diaspora, questa non costituisce una lotta per il potere ma una vera e propria lotta per la sopravvivenza.
In mancanza di un’aperta ammissione di colpevolezza e di avvenuto pentimento per quanto concerne la questione del Genocidio Armeno (foto), la Turchia verrà sempre percepita dagli Armeni di tutto il mondo come un’entità malvagia della quale non ci si può assolutamente fidare e la retorica infiammata sia di Erdogan che di Aliyev non aiuta certo alla comprensione reciproca.
Dall’altra parte, seppur più piccola, povera e caratterizzata dalle stesse contraddizioni presenti in tutte le società ex-sovietiche, l’Armenia ha incominciato già da anni un lento ma progressivo processo di trasformazione interna sull’esempio di quello attuato da Israele negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Inoltre, sebbene corruzione e nepotismo siano imperanti, la società armena è incomparabilmente più democratica di quella azera, le elezioni politiche sono combattute e partecipate, le minoranze etnoreligiose sono riconosciute e protette (e non sottoposte ad un’opera di progressiva assimilazione ed “estinzione” come avviene in Azerbaigian e, ancora peggio, in Turchia) ed il popolo in generale è attore comprimario e non mero “esecutore” degli ordini dell’élite, specialmente dopo gli accadimenti della cosiddetta “Rivoluzione di Velluto” del 2018 che ha portato al potere Nikol Pashinyan.
Da non sottovalutare poi il ruolo della potentissima Chiesa Armena e della Diaspora sia come “moltiplicatori di potenza” ed “agenti di influenza” sul fronte estero che come “elementi democratizzatori” e “vettori d’innovazione” sul fronte interno. Tenendo conto di tutto ciò, si può ben capire come, in un’ottica di lungo periodo, la “strategia difensiva” portata avanti da Yerevan e Stepanakert abbia maggiori possibilità di risultare vincente mentre il fallimento della “strategia offensiva” di Baku porterà inevitabilmente a galla le contraddizioni interne del regime proprio come avvenne al termine della prima “Guerra del Nagorno-Karabakh” (1988-1994). Prima che si giunga ad un tale esito, però, sarebbe vivamente consigliato che la comunità internazionale prendesse atto di come, ad ogni nuova provocazione ed a ogni nuova vittima lungo la “Linea di Contatto”, l’attuale status quo in Nagorno-Karabakh sia assolutamente insostenibile.
Le azioni sul campo del leader turco, da quando prese il potere nel 2003 fino ad oggi costituiscono una dimostrazione tangibile che quell’uomo è pericoloso per la pace mondiale e non si fermerà mai fino al completo raggiungimento dei suoi scopi: la restaurazione della Turchia a grande potenza planetaria sulle ceneri di Medio Oriente, Nord Africa ed Europa e sua “intronazione” personale a “turco più grande della Storia”.
In questo pericolosissimo gioco, la piccola ma risoluta Armenia rappresenta (proprio come la Siria di Assad, l’Iraq e la Libia) un ostacolo sia simbolico che fisico che il sultano vuole distruggere o sottomettere perché nel suo solipsismo nessuno può permettersi di dirgli di “no” e, per chi lo fa, ci possono essere solamente macerie e lutti.
Anziché siglare improbabili “intese umanitarie” o “partnerships strategiche”, i leader europei dovrebbero invece finalmente capire che le azioni della Turchia non contribuiscono né alla pace né alla stabilità mondiale e che, al contrario, nell’area caucasica sono proprio le istanze dell’Armenia e della Russia quelle che hanno maggiormente a cuore la stabilità e l’equilibrio.
I capi di stato e di governo in Europa e in tutto il mondo libero sono chiamati a riconoscere questa realtà altrimenti le provocazioni turche diventeranno via via più pericolose ed incontrollabili e, tra una ventina d’anni, i superstiti del Nuovo Genocidio Armeno e della “Terza Guerra Mondiale a Pezzi” vedranno la nascita di una “Nuova Era dell’Oro Ottomana”.
In conclusione, che la cosa possa piacere o meno, stiamo assistendo ad una recrudescenza del mai sopito conflitto per il dominio del Caucaso meridionale. Le avvisaglie di questa escalation avrebbero dovuto mobilitare la comunità internazionale già una quindicina di anni fa, ma la miopia dei decisori politici ed il disinteresse generale (quando non la cosciente spregiudicatezza) hanno fatto sì che la situazione continuasse a degenerare fino a quello che appare sempre più come un punto di non ritorno, soprattutto ora che nella partita caucasica ha deciso di entrare in veste di giocatore titolare il presidente-padrone turco Recep Tayyip Erdoğan, fermamente intenzionato a rivendicare anche in quelle lande uno spazio di espansione geopolitica per la Turchia.