Breve storia del genocidio armeno (Lincontronews 20.04.21)
Premessa
Il genocidio degli armeni che vivevano in Turchia, nel 1915-1916, è stato il primo genocidio di massa del XX secolo, ma è poco conosciuto nel mondo occidentale. Ancora oggi le dimensioni del genocidio non si conoscono. Gli storici parlano di almeno 1 milione 500mila vittime (trucidate in un periodo relativamente breve, dall’aprile 1915 al luglio 1916), che rappresentano i due terzi degli armeni, che erano nel 1914 oltre due milioni, circa il 20% della popolazione turca.
Gli armeni, ricordano il genocidio come il Grande Male (Medz Yeghern), con cerimonie che si tengono il 24 aprile di ogni anno, in tutti i paesi in cui ci sono comunità armene. In ricordo del genocidio, sono state poste, in molti paesi, tra i quali l’Italia, migliaia di Khatchkar (croci di pietra, che sono il simbolo della religiosità degli armeni).
Il memoriale più importante, che ricorda il genocidio, è la cosiddetta Fortezza delle rondini (Tzitzernakaberd), realizzata su una collina, nella capitale della Repubblica Armena, Erevan.
Del genocidio degli armeni si è parlato molto, nell’aprile 2015, pochi giorni prima del centenario della ricorrenza del genocidio, dato che papa Francesco ha parlato apertamente del massacro degli armeni, come del “primo genocidio del XX secolo”, riprendendo la dichiarazione comune fatta nel 2001 dal papa Giovanni Paolo II e dal patriarca armeno Karekin II, scatenando l’ira del governo turco.
Un po’ di storia dell’Armenia
Gli armeni si convertono al Cristianesimo a partire dalla metà del I secolo grazie alla predicazione degli apostoli Giuda e Bartolomeo. La conversione in massa della popolazione, nella seconda metà del III secolo, è però opera di S. Gregorio, detto l’Illuminato. Nel 301, il Cristianesimo è riconosciuto, per la prima volta in uno stato, come “religione di stato”. Quindi l’Armenia è la prima nazione cristiana.
In seguito allo scisma della chiesa cristiana, la chiesa apostolica armena aderisce alla chiesa orientale ortodossa, conservando i propri rituali (rito armeno). Nel 1071 l’Armenia Orientale (chiamata Armenia Maggiore secondo la ripartizione fatta nel 215 a.C. dal sovrano seleucide Antioco III) è occupata dai turchi selgiuchidi, dopo che hanno sconfitto i Bizantini nella battaglia di Manzikert. Nel 1080 si costituisce il regno armeno di Cilicia, collegato ai regni crociati, che è l’ultimo regno armeno ed è occupato nel 1375 dai mamelucchi dell’Egitto.
Nel XVI secolo, l’Armenia Occidentale (chiamata anche Armenia Minore) è occupata dai turchi ottomani, che impongono agli infedeli (cristiani ed ebrei) il pagamento di tributi straordinari, da cui sono esentati in parte gli armeni della capitale Costantinopoli.
I pogrom contro gli Armeni della fine dell’Ottocento
Nel XVIII secolo, esplodono i nazionalismi e tutte le minoranze etniche (soprattutto quelle all’interno dell’impero asburgico e di quello ottomano) chiedono l’indipendenza. Anche i popoli del Caucaso, compresi gli armeni, si ribellano ai turchi. Ne approfitta la Russia zarista che dopo una breve guerra occupa parte dell’Armenia Orientale.
Intanto, nell’Armenia Occidentale nasce un forte movimento indipendentista, sostenuto dall’impero zarista. Pertanto, il Sultano Abdul Hamid II, salito al potere nel 1876, temendo che gli armeni, aiutati non solo dai Russi, ma anche dalla Francia e dalla Gran Bretagna, possano ottenere l’indipendenza, come è accaduto con la Grecia con il Trattato di Londra del 1830, attua una politica discriminatoria nei loro confronti, per cui molti lasciano il loro paese.
Nell’estate 1894, gli armeni, esasperati, si ribellano. Il governo ottomano fa intervenire l’esercito, che attua una feroce repressione, bruciando molti villaggi e massacrando migliaia di persone. Nel 1895 e nel 1896 esplodono vari pogrom antiarmeni, che causano la morte di almeno 50mila persone (secondo alcuni studiosi oltre 200mila), anche da parte di milizie paramilitari curde, denominate Hamidiès.
Questo è il primo genocidio armeno, documentato dal missionario protestante e storico tedesco Johannes Lepsius nel libro Armeni e Europa (Armenien und Europa), pubblicato nel 1897 a Berlino. Ciononostante, le potenze europee, in primo luogo la Francia, la Gran Bretagna e la Russia, tradizionalmente sostenitori della “causa armena”, non intervengono nei confronti della Turchia.
In seguito al primo genocidio, c’è una forte emigrazione di Armeni, verso i paesi europei (soprattutto la Francia) e l’America del Nord.
La politica nazionalista dei Giovani Turchi
All’inizio del Novecento si diffonde in Turchia il partito nazionalista Ittihad ve Terakki (Unione e Progresso), che propugna idee liberali e laiche. Per questo motivo, gli armeni lo appoggiano.
Quando il partito Unione e Progresso prende il potere, nel 1908, destituendo con un colpo di stato il sultano, sono costituite nell’Armenia Occidentale sei regioni autonome. Però, ben presto la situazione degli armeni peggiora. Infatti, prende il potere l’ala ultra nazionalista del partito, rappresentata dai Giovani Turchi, che sono sostenitori del Panturchismo (l’unione nella Grande Turchia dei popoli di lingua turca, che vivono nell’Asia Centrale: Tartari, Usbeki, Kazaki…) e del Turanismo (l’unione dei popoli turanici di lingua turca, abitanti nell’altopiano turanico, nell’Asia Centrale).
Per il raggiungimento del Panturchismo ci sono due ostacoli: il primo è rappresentato dai curdi, che però sono musulmani e non hanno una forte cultura nazionale per cui si possono facilmente assimilare. Il secondo, e più importante, ostacolo è rappresentato dagli armeni, che non solo seguono una religione diversa dai turchi, in quanto sono cristiani, ma hanno anche una cultura millenaria, con proprie tradizioni, ed inoltre hanno una propria lingua. Quindi non si possono assimilare e pertanto devono essere “eliminati” nel paese.
I nazionalisti turchi, rifiutando la secolare tradizione ottomana di tolleranza, che aveva garantito un’ampia autonomia alle minoranze etniche e religiose, come gli armeni, gli ebrei ed i cristiani ortodossi, e rigettando anche i principi della loro ideologia laica, considerano nemici tutti i “diversi” per cultura e religione.
In particolare, la teoria dell’uguaglianza è portata all’eccesso per cui per essere “uguali” si deve essere turchi e musulmani. Inoltre, ritengono che la prospettiva di uno stato armeno autonomo sia una grave minaccia per la realizzazione dell’obiettivo politico della Grande Turchia. Per questo motivo decidono e pianificano l’eliminazione della popolazione armena.
Nell’aprile 1909 nella zona di Adanà c’è un nuovo violento pogrom contro gli armeni, che il governo tacitamente sostiene. In pochi giorni vengono uccisi circa 30mila Armeni.
Nel 1913, si costituisce la dittatura militare retta da un triumvirato composto da Diemel Pascià (ministro della Marina), Enver Pascià (ministro della Guerra) e Mehmed Talaat Pascià (ministro dell’Interno).
Le fasi del genocidio
Nel febbraio 1915, il governo turco decide la eliminazione degli Armeni, attraverso la costituzione di una struttura paramilitare, denominata Organizzazione Speciale (Techkilat Mashsudè), che dipende dal Ministero della Guerra e dal Ministero dell’Interno,formatada Battaglioni speciali irregolari, detti tchètè, formati in gran parte da circa 30mila criminali liberati dalle carceri, diretta da Nazim e Behaeddine Chakir.
Il genocidio è realizzato in quattro fasi, pianificate dal governo turco.
La prima fase inizia la notte tra il venerdì 23 ed il sabato 24 aprile 1915 a Costantinopoli, quando vengono arrestate circa 2.500 persone, che rappresentano l’élite culturale e religiosa armena (politici, professionisti, giornalisti, avvocati, medici, scrittori, sacerdoti). Gli arrestati vengono deportati nelle zone interne della Turchia ed eliminati perché rappresentano una minaccia per lo stato turco in quanto sono la guida politica, civile e religiosa della comunità armena.
La seconda fase del genocidio comporta la eliminazione dei militari armeni che prestano servizio nelle forze armate, i quali sono disarmati ed inseriti in reparti del genio e sono mandati a lavorare nelle regioni di confine, dove vengono progressivamente eliminati. Si procede inoltre ad una vera e propria pulizia etnica in tutti i settori della pubblica amministrazione.
La terza fase del genocidio inizia poco dopo, con l’approvazione di una legge che stabilisce il trasferimento nelle regioni meridionali dell’impero ottomano, per motivi di sicurezza nazionale, della popolazione armena, che risiede vicino al confine russo, dato che è sospettata di tradimento, a favore della Russia. L’obiettivo è però quello di eliminare la popolazione armena mediante la deportazione nei deserti della Siria e della Mesopotamia.
Così, il 20 maggio 1915, il ministro dell’Interno, Mehmed Talaat, emana un decreto provvisorio per il “trasferimento” degli Armeni delle Provincie Orientali di Erzerum, Bitlis, Diyarbakir, Kharput, Sivas, Trebisonda e Van. Benché il decreto stabilisca che il trasferimento deve avvenire nelle “migliori condizioni possibili”, e non prima di 5 giorni dall’avviso mediante bando, di fatto è una vera e propria deportazione forzata, che avviene a piedi ed in condizioni molto estenuanti fisicamente, a causa delle condizioni climatiche, della fame e della sete. Pertanto, la maggior parte dei deportati muore durante i trasferimenti ai centri di raccolta e ai campi di internamento, creati nelle zone desertiche della Siria e della Mesopotamia.
Con un altro decreto provvisorio del giugno 1915, i beni immobili degli armeni (case e terreni) sono dichiarati “beni abbandonati” e quindi sono confiscati e venduti dal governo, con la giustificazione che i proventi servono per il loro “reinsediamento” in Siria e Mesopotamia. Molti notabili e comandanti militari locali turchi e curdi si arricchiscono con la vendita dei beni confiscati.
Nello stesso periodo, sono eliminati nei villaggi i notabili armeni e tutti gli uomini in età di prestare il servizio militare. Coloro che scampano ai massacri, organizzano la resistenza sulle montagne. I decreti provvisori per il “trasferimento” degli armeni e per la confisca dei loro beni immobili non sono mai stati ratificati dal Parlamento turco.
Le disposizioni del governo relative al genocidio degli armeni sono tenute segrete. Infatti, si inviano ai governatori locali e ai comandanti della gendarmeria locale dei messaggi nei quali si chiede di proteggere gli armeni durante i trasferimenti. Contemporaneamente, però, si inviano alle autorità locali messaggi cifrati nei quali si ordina di uccidere gli armeni. Naturalmente, questi ultimi messaggi devono essere distrutti dopo essere stati letti, ma alcuni governatori e comandanti della gendarmeria non li distruggono, pensando di poterli esibire, in caso di necessità (come in effetti avvenne nel 1919, nel corso del processo ai responsabili del genocidio, celebrati a Costantinopoli ed in altre città), per dimostrare che avevano ubbidito agli “ordini superiori”.
La deportazione della popolazione armena avviene sotto il controllo dell’esercito turco, che però delega alcune funzioni a milizie di curdi e di ceceni, i quali, nutrono un particolare risentimento nei confronti degli armeni, che pertanto sono sottoposti ad angherie, ad oltraggi ed a violenze, in particolare le donne.
Inoltre, gli armeni devono subire, durante il trasferimento, pesanti vessazioni da parte delle popolazioni arabe delle zone attraversate, quali lo stupro delle donne ed il saccheggio delle misere cose che sono riusciti a portare con loro. Per questi motivi, migliaia di persone (soprattutto donne) si suicidano, gettandosi nei dirupi o nei fiumi.
La quarta fase del genocidio riguarda gli armeni (circa 870mila) trasferiti in Siria e Mesopotamia, dove sono allestiti decine di campi di internamento, soprattutto lungo il fiume Eufrate, in luoghi isolati. Vi sono anche vari campi di raccolta, quasi tutti lungo il confine con la Siria. Questi campi non sono vere e proprie prigioni. Non ci sono, infatti, né recinzioni né sorveglianza armata. La loro funzione è unicamente quella di causare la morte per fame, per sete e per malattia delle persone che sono continuamente trasferite da un campo all’altro, proprio allo scopo di causarne la morte. Alla fine i pochi sopravvissuti vengono eliminati con metodi brutali e cruenti (ad esempio, infilzandoli con le baionette o annegandoli nel fiume Eufrate). Inoltre, le autorità dei campi non fanno nulla per assicurare la sopravvivenza dei deportati, che devono procurarsi direttamente il cibo per poter sopravvivere, comprandolo a caro prezzo dalle popolazioni arabe locali. Pertanto, in questa tragica vicenda, chi è ricco ha più probabilità di sopravvivere rispetto a chi è povero.
Solo pochissimi deportati riescono a fuggire dai campi, sia perché quasi tutti vi giungono in condizioni fisiche estremamente precarie, sia perché è necessario corrompere i vigilanti, che spesso sono scelti tra gli stessi deportati con la promessa di poter rimanere nei campi e di non dover quindi partecipare ai continui trasferimenti, che avrebbero comportato una morte sicura.
Nel gennaio 1916, è ordinato il trasferimento verso la Mesopotamia di tutti gli armeni che si trovano nei campi nel Nord del paese e nella regione di Aleppo, dove molti sono riusciti a rifugiarsi, corrompendo le autorità locali. A questo provvedimento tentano di opporsi proprio le popolazioni locali, che hanno negli armeni la loro fonte principale di guadagno. Così, nei mesi di febbraio-maggio 1916, con numerose carovane, ciascuna di migliaia di persone, si procede al trasferimento di questi armeni verso icampidella Mesopotamia. Si calcola che dalla sola Regione di Aleppo partono almeno 21 carovane. Solo 7mila armeni di questa regione riescono a salvarsi.
La maggior parte dei deportati muore in queste marce forzate, a causa degli stenti. Inoltre, molti sono trucidati, durante il trasferimento, dalle milizie turche, curde e cecene e dai beduini locali. Si ritiene che nel solo distretto siriano di Deir al-Zor muoiono circa 190mila persone.
Molto spesso, i cadaveri sono lasciati insepolti. Al riguardo, nel 1917, il medico militare tedesco Stoffels, riferisce al console austriaco di aver visto, nel 1915, durante un viaggio verso Mosul (attualmente in Iraq) chiese e case di armeni distrutte e bruciate, con i resti decomposti di corpi, soprattutto donne e bambini. Le donne armene, per salvarsi, hanno una sola possibilità: convertirsi all’Islam, sposare un turco ed affidare i propri figli a famiglie turche. In questo modo, circa 100mila bambini armeni, in tenera età, sono affidati a famiglie turche e curde che li allevano nella religione mussulmana e nella lingua e cultura turca.
Nel 1918, il genocidio prosegue nelle regioni dell’impero zarista occupate dai turchi dopo il disfacimento dell’esercito russo in seguito alla rivoluzione bolscevica del novembre 1917. Al riguardo, dopo aver occupato la città-fortezza di Kars, vengono eliminati, in una imponente caccia all’uomo, circa 20mila armeni. Molte migliaia di altri sono massacrati, in pogrom attuati dalla popolazione mussulmana nelle regioni caucasiche della Georgia e di Baku (dove sono eliminate oltre 30mila persone).
Lo storico e missionario protestante tedesco Johannes Lepsius, che nel 1897 aveva documentato in un libro il primo genocidio, si reca in Turchia per documentare il secondo genocidio ed raccoglie moltissime prove, grazie alla collaborazione del Patriarcato armeno di Costantinopoli, dell’Ambasciata Usa, dei missionari americani, svizzeri e tedeschi. Redige un rapporto segreto di oltre 300 pagine, pubblicato nel 1919 in forma di libro con il titolo Germania e Armenia (Deutschland und Armenien), che invia ai membri del Parlamento tedesco ed a molte autorità civili e religiose allo scopo di fare pressioni sul governo di Berlino. Però, in seguito alla protesta dell’ambasciatore turco, le copie del libro in circolazione vengono confiscate.
Un altro importante testimone oculare del genocidio è l’infermiere militare tedesco Armin T. Wegner, che si trova nei luoghi delle deportazioni, essendo aggregato al reparto militare tedesco, dislocato lungo la ferrovia per Baghdad, tra la Siria e la Mesopotamia. Per il suo comportamento, è arrestato dai tedeschi su richiesta dei comando turco ed inviato in Germania.
Nel 1919 scrive una lettera aperta, pubblicata dal Berliner Tageblatt, al presidente statunitense Woodrow Wilson alla Conferenza di pace, che crea un movimento di opinione favorevole alla creazione di uno stato armeno indipendente.
Nel 1919, pubblica Der Weg ohne Heimkehr (La strada del non ritorno), una raccolta di lettere che aveva scritto nel 1915-1916 per documentare quello che considera il “martirio” degli armeni in Turchia.
Nel 1933, il genocidio degli armeni sale alla ribalta mondiale, con la pubblicazione del romanzo I quaranta giorni del Mussa Dagh, scritto dall’ebreo tedesco Franz Werfel.
Il genocidio culturale degli armeni
Il genocidio degli armeni è stato anche un genocidio culturale perché il governo turco ha “turchizzato” le regioni orientali, abitate fino al 1915 prevalentemente da armeni e da altre minoranze cristiane, cercando di cancellare ogni traccia della presenza e della cultura armena, fino a negare addirittura l’esistenza in quelle regioni degli armeni. Al riguardo, non è considerata armena l’antica città di Ani, chiamata la “Città delle 1001 chiese”, con oltre 200mila abitanti, capitale dell’antico regno di Armenia, retto dai Bagratidi dal 880 al 1045, quando è conquistato dai Bizantini.
A molte località armene è “turchizzato” il nome. Al riguardo, il Monte Ararat (dove si è fermata l’Arca di Noè, dopo il Diluvio Universale) si chiama Agri Dagi.
Anche il patrimonio culturale armeno è stato in gran parte distrutto. Infatti, nel 1915 c’erano oltre 3.500 monumenti armeni (monasteri, chiese, scuole, biblioteche…), di cui nel 1916 ne rimanevano appena 500 (molti peraltro gravemente danneggiati).
La furia distruttiva della cultura armena si è estesa anche ai paesi vicini alla Turchia ed è continuata fino ai nostri giorni. Infatti, nella Regione del Nakichevan, nell’attuale Azerbaigian, un tempo abitata dagli Armeni, nel 2005 è stato distrutto il cimitero dell’antica città di Julfa, dichiarato dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità, dove c’erano circa 10mila Katchkar (croci di pietra).
Nel distretto siriano di Deir al-Zor, dove sono state uccise circa 190mila persone, era stato costruito un mausoleo, che è stato distrutto, nell’autunno 2014, dalle milizie dell’Isis.
I processi
Dopo la resa della Turchia, nell’ottobre 1918, e la fine della Grande Guerra, i dirigenti del movimento dei Giovani Turchie del partito Unione e Progresso vengono arrestati dagli inglesi ed internati a Malta.
Nel 1919, su pressione soprattutto degli inglesi, si celebra a Costantinopoli, davanti ad un tribunale militare turco, presieduto da Damad Ferid Pascià, il processo ai responsabili del genocidio, molti dei quali, però, dopo la guerra, hanno lasciato la Turchia, rifugiandosi in altri paesi, soprattutto in Germania.
Nel corso del processo, vengono raccolte moltissime testimonianze (di diplomatici stranieri, di missionari, di sopravvissuti) che consentono di documentare in modo preciso le fasi e le modalità del genocidio.
Il processo si conclude con molte condanne a morte, tra le quali, in contumacia, quelle del ministro della Guerra Enver Pascià e di Nazim Chakir, uno dei capi dell’Organizzazione Speciale.Le condanne però non sono eseguite perché il governo turco non presenta la richiesta di estradizione ai Paesi in cui si trovano i responsabili del genocidio. In particolare, Enver Pascià si è rifugiato nella regione russa di etnia turca di Bukhara, dove organizza una rivolta per ottenere l’indipendenza, ma il 4 luglio 1922 rimane ucciso in uno scontro armato con i soldati russi.
Altri processi vengono celebrati in altre città, per punire i responsabili di fatti specifici, che in genere sono i governatori locali, alcuni dei quali si difendono dichiarando di aver “eseguito gli ordini superiori”.
Poiché le sentenze di condanna non sono eseguite e molte vengono addirittura annullate, il Partito rivoluzionario armeno Dasnag costituisce una formazione di “giustizieri”, con l’incarico di eliminare i principali responsabili del genocidio. Così vengono uccisi Djemal Pascià (uno dei triumviri dei Giovani Turchi), Behaeddine Chakir ed il ministro dell’Interno Mehmed Talaat (ucciso a Berlino il 15.3.1921), il cui assassino, il giovane studente Solomon Tehlirian, viene assolto perché nel processo viene ampiamente accertata la responsabilità nel genocidio dell’ex ministro.
Il negazionismo del genocidio da parte della Turchia
Il governo turco rifiuta ancora oggi di ammettere l’esistenza del genocidio ericonosce l’esistenza di appena 300mila vittime, per “cause naturali”, in seguito alle epidemie ed alle carestie verificatesi in conseguenza della Prima Guerra Mondiale.
Fino al 2008, in Turchia era in vigore l’art. 301 del codice penale, che puniva con la reclusione da sei mesi e tre anni (aumentata di un terzo se il reato era commesso tramite la stampa o da un turco che viveva in un altro paese), l’attentato alla “identità turca” dello Stato. Se il reato era commesso tramite internet, si applicava la legge antiterrorismo, con il rischio della condanna all’ergastolo. Questo articolo è stato usato per perseguire penalmente tutti coloro (giornalisti, scrittori, intellettuali) che in qualche modo sostenevano l’esistenza del genocidio degli armeni.
Nel 2008, l’art. 301 è stato modificato, su richiesta dell’Unione Europea, per cui attualmente sono punibili solo coloro che offendono gli organi costituzionali dello Stato. Inoltre, la pena massima è ridotta a due anni e la decisione di incriminazione non è lasciata al singolo magistrato, ma è affidata al ministro della Giustizia.
La deriva autoritaria dell’attuale presidente Erdogan ha di nuovo inasprito le pene anche per questo reato oltre che per i dissidenti politici, limitando enormemente le libertà civili e facendo tornare indietro il paese di molti anni.
Giorgio Giannini
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