Biennale di Venezia. Il padiglione dell’Armenia spiegato da Adelina Cüberyan von Fürstenberg. Atribune.com

http://www.artribune.com/2015/02/biennale-di-venezia-il-padiglione-dellarmenia-spiegato-da-adelina-von-furstenberg/

 

Il curatore e commissario Adelina Cüberyan von Fürstenberg rivela in anteprima la scelta del percorso d’arte contemporanea che si potrà osservare alla Biennale di Venezia 2015. Anno, fra l’altro, della commemorazione del centenario del Genocidio. Un gesto di ricongiungimento fra l’Armenia e la sua diaspora.

 

Arménité riunisce artisti di diverse generazioni: affermati (Yervant Gianikian, Sarkis e Anna Boghiguian), artisti mid-career (Aikaterini Gegisian e Nigol Bezjian) e artisti emergenti (Haig Aivazian, Hera Büyüktasçıyan) coprendo l’arco di quarant’anni. L’incontro collettivo fra i diversi tessuti narrativi e formali presuppone non solo una condizione spaziale, ma anche una sensibilità comparabile che permette agli artisti armeni di ri-conoscere la propria terra come un lascito familiare immateriale, da sempre compreso. Inoltre l’estetica legata alla diaspora armena oltrepassa necessariamente il pensiero binario di argini contingenti e di categorie, collocando la propria cultura visuale in determinate terres du milieu, rilevando emergenze interstiziali nelle quali re-interpretare il presente.
Nel 2015, nell’anno del centenario del Genocidio, il Ministero della Cultura armeno ha ufficialmente incaricato un curatore della diaspora non tanto di selezionare artisti contemporanei dell’Armenia, ma di offrire la parola ad artisti della diaspora stessa, dimensione altrettanto armena nei confronti della Nazione in sé e per sé. Promuovendo, quindi, un significativo gesto politico di riunione.
Nel 2015, a Venezia, durante la 56. Biennale d’Arte, come si evolve il rapporto tra l’Armenia e la sua diaspora? In quale misura l’Italia partecipa, emancipando lo statuto fisico di Arménity e trasformandosi in terreno testimone di corrispondenze? Chi sono i custodi contemporanei, portatori di segni e semi della diaspora armena e di quale sostanza compongono la loro Arménité? Inoltre, in quale misura la storia delle origini rappresenta isole, comunità di individui nel mondo, all’interno delle quali sopravvive un sentimento intersoggettivo e condiviso di appartenenza armena? Artribune si è rivolto a Adelina Cüberyan von Fürstenberg, curatore e commissario del Padiglione Armenia.

 

Alle origini di queste ipotesi, nasce l’accezione assunta dal titolo del percorso e dalla parola Armenity, nei confronti delle commemorazioni del Centenario del Genocidio e della celebrazione della Diaspora.“Il neologismo‘Armenity’ fa riferimento a un titolo che non esiste in realtà. Un significato traslitterato in francese, mentre in inglese, come parola in sé e per sé, non ha definizione. ‘Arménité’ rappresenta l’impronta di una presenza armena che trascende la sua armenitudine, un’attitudine altrettanto armena di affrontare le difficoltà. Manifestandosi come un habitus, un ethos, un modo di essere nel mondo. ‘Armenity’, dalla parola francese ‘arménité’, potrebbe essere considerata una specificità dei nipoti dei sopravvissuti del genocidio armeno, un senso moderno e spesso soggettivo dell’esser-ci heideggeriano, in un flusso continuo, con una grande diversità in ogni singola auto-definizione. Nella dimensione un altrove sconosciuto, una collettività – e non un solo singolo individuo come avviene nel fenomeno della resilienza-, attraverso la negatività imprescindibile provata nel domare un trauma, fa nascere un superamento e dunque un ribaltamento verso la propria vittoria. Ma l’Arménité”, prosegue la curatrice,“non è solamente memoria di sofferenze o sete di giustizia, quanto piuttosto un lascito, un’eredità in continua crescita all’interno della quale una nuova generazione d’origine armena può fiorire. L’Arménité è una storia d’amore, una fierezza che la gioventù vuole far vivere, condividere e trasmettere”.
Gli artisti selezionati per corrispondere e interpretare l’Arménité fanno ricorso al loro contesto culturale di riferimento e a vissuti puntuali, derivanti anche dai numerosi trasferimenti agiti durante l’esistenza. Il fine è trascendere limitazioni ideologiche e geografiche, universalizzando concetti come oppressione, nazionalismo, mitologia, storia, identità, memoria e misticismo. Ogni singolo lavoro presentato rimarca l’invisibilità di una linea esistente tra costruzione e decostruzione, così come determinate problematiche contemporanee, attraverso un’individuale poetica di sopra-vivenza. Lo spazio dei loro interventi ridisegna un territorio ulteriore, un regno ritrovato all’interno del quale ciascuno diventa parte di un ritorno al presente. Piano temporale che mette a punto una cultura della contemporaneità, delineando fondamenti umani totali.

 

“È da circa due millenni che il popolo armeno è in lotta per preservare il territorio, trovandosi nell’Asia Minore, area di passaggio e di conquiste. La positività del popolo armeno nel ricostruirsi, nell’affrontare la negatività, oggi, si integra profondamente con l’Arménité degli artisti che la configurano. In Laguna, sebbene a Venezia siano presenti Padiglioni che esistono da più di cento anni, San Lazzaro, nel quale si sviluppa il percorso espositivo, è presente da oltre trecento anni”, racconta il commissario. “Con la sua storia e i tesori culturali in esso preservati, oggi, il Monastero riflette esattamente le caratteristiche del discorso su Arménité  – una regione condivisa del pensiero che deve essere riprodotta e trasmessa – legittimando, in una certa misura, la trasformazione dell’isola in un Padiglione. Rinnovato luogo d’arte, esposizione e visita”.
Ma quale significato trasmette la ricorrenza del Genocidio all’interno di una delle rassegne più globali dedicate all’arte contemporanea? “L’Istituzione Biennale è da sempre uno specchio del proprio tempo e la 56. cade esattamente nel 2015, anno coincidente con il centenario della commemorazione del Genocidio e della celebrazione della Diaspora, ricorrenze che acquistano un significato più intenso, profondo perché onorate all’interno delle mura del Monastero di San Lazzaro. Gli artisti armeni della Diaspora”, prosegue Adelina von Fürstenberg,“attualmente viventi, attivi e chiamati a rappresentare l’Armenia in un contesto internazionale, hanno oggi molteplici nazionalità ed esperienze acquisite, perché discendenti dei sopravvissuti, antenati che hanno riscattato l’antica fuga con una vita esemplare. Per loro l’appartenenza si trasforma in un legame a un ‘paradiso perduto’, territorio che non collima mai con quello in cui risiedono e vivono. Questo scarto fa sì che gli artisti possano rappresentare la loro propria conoscenza e coscienza, da sempre considerabili come domini interiori, attraverso nozioni assolute; valori che creano analogie e sentimenti simili, condivisi all’interno di una medesima comunità. Anche questo significa appartenere a un gruppo, a una nazione, da qualche parte. Ogni artista della diaspora, che interpreta il proprio vissuto e i propri ‘sentiti dire’, sublima il mondo contemporaneo in cui vive, anche attraverso il sapere della cultura appartenente alla nazione di residenza. Creando, dunque, tra i due territori di riferimento, una dicotomia risolta. Un’unione delle due ricollocazioni”

Arménité, infatti, si presenta come un luogo che, nel sovrapporsi alle regioni geografico-fisiche, automaticamente si identifica con il racconto puntuale ed esperienziale di un altrove. Terra universale delle proprie origini.
Tra de-territorializzazione e ri-territorializzazione, se intere entità sociali, nei prossimi secoli, devono ricominciare a convivere all’interno di un contesto costruttivo, diventa imperativo che si inizi a comprendere, anche attraverso Arménité, come questi cambiamenti stiano modificando le molteplici cartografie culturali e le diverse produzioni artistiche, per evitare lettura superficiale di ogni presenza nel mondo. Ma come, all’interno della statuto dell’arte, gli artisti armeni della diaspora operano con la memoria e rappresentano la loro appartenenza? Quali tipologie di identità, ibride e in conflitto, vengono riconciliate attraverso le loro pratiche? Come leggere un’assenza apertamente politica nella genetica di alcuni lavori? Questa assenza è dovuta a un differimento oppure a una sorta di superamento di determinati preconcetti? È possibile che queste ambiguità, portando in se stesse nuovi linguaggi, richiedano l’analisi di nuove traduzioni? Quali racconti, dunque, le loro opere trasmettono, relativamente al momento transnazionale corrente? E a partire da quale luogo possono essere formulate alcune risposte? Risposte che in parte troveremo a partire da maggio al Monastero sull’Isola di San Lazzaro.

Ginevra Bria

http://artfortheworld.net/