Azerbaijan: eravamo vicini di casa (Osservatorio Balcani e Caucaso 06.12.18)
Era una fredda notte d’inverno il 28 febbraio del 1988 quando qualcuno ha bussato alla porta di Gular, a Sumgayit, grande città industriale a nord della capitale dell’Azerbaijan, Baku. La donna era a casa da sola, con i suoi figli. Quando ha aperto la porta si è trovata davanti i suoi vicini armeni, le loro facce pallide, le mani tremolanti.
“Anya, Sveta, Aida e i loro bambini. Mi chiesero ‘Possiamo stare qui questa notte? Solo una notte, partiremo domattina presto’. Ero spaventata anch’io. Ho chiesto cosa stesse accadendo ma non sapevano esattamente neppure loro. Solo che ‘stanno cercando le famiglie armene’”.
Il 28 e il 29 febbraio del 1988 in un’ondata di violenza a Sumgayit vennero uccise 26 persone appartenenti alla comunità armena e 6 azerbaigiani, come riportarono i media internazionali. Il massacro avvenne nel contesto della crescente tensione tra Armenia e Azerbaijan, allora entrambe repubbliche sovietiche, in merito al Nagorno Karabakh, una regione dell’Azerbaijan la cui popolazione armena aveva chiesto l’annessione da parte della vicina Repubblica socialista sovietica dell’Armenia.
Gli scontri a Sumgayit hanno portato alla fuga di quasi tutti gli appartenenti alla comunità armena della città, circa 14.000 persone e a migliaia d’altri nel resto dell’Azerbaijan. Lo riporta nel suo libro “Black Garden: Armenia and Azerbaijan through Peace and War” Thomas de Waal, esperto di Caucaso presso il think tank Carnegie Europe, con sede a Londra. Nonostante le opinioni su cosa abbia causato effettivamente la violenza variano, quei giorni resero evidente che la coesistenza pacifica tra questi due popoli in Azerbaijan era terminata.
Al tempo, comunque, quanto stava avvenendo era difficile da comprendere per molti. Vi furono molti a Sumgayit che aiutarono a proteggere dalle violenze i loro vicini, i loro amici, i loro conoscenti. Gular, oggi settantenne, è una di loro.
“Erano nostri vicini”, afferma riferendosi a tre donne armene ed ai loro bambini a cui diede rifugio quella notte del 1988. “Avevamo cresciuto i nostri figli insieme, abbiamo riso e pianto insieme, ma soprattutto questa gente non ci aveva mai fatto nulla di male”.
Mentre ci si inoltrava nella notte, nessuna di loro dormiva, continua Gular (il cui cognome non è stato inserito per garantirne la sicurezza).
“Anya mi diceva della folla per strada e si preoccupava per i propri figli. Sveta provava a capire da suo marito dove potessero andare. Ed io ero tanto spaventata quanto i miei vicini. È stato così stressante!”.
“È così che trascorremmo quella notte. Tutti in silenzio, in una piccola stanza. Ce ne stavamo seduti per terra, abbracciando le nostre ginocchia, così fino al mattino. Dissi loro che potevano stare quanto volevano ma mi risposero che prima o poi dovevano andarsene”.
Circa alle 5 del mattino “ci siamo abbracciati, abbiamo pianto e se ne sono andati”.
E, semplicemente, scomparvero. Da allora Gular non ha più saputo niente dei suoi vicini armeni. Suo figlio li ha anche cercati on-line, tramite Facebook, ma senza alcun risultato.
Ricordi dei suoi vicini rimangono tra i suoi oggetti personali. Conserva ancora un vaso in cristallo, dono di Aida. E vestiti che Aida, sarta, confezionò gratuitamente per lei, per suo figlio e per altri scolari del quartiere.
“Non ha mai voluto che la pagassimo. E noi le portavano regali dalla nostra regione [Nagorno Karabakh]. Non ho mai buttato nessun vestito che Aida ha cucito per me. È come se fossero stati confezionati ieri….”.
In quei giorni, aggiunge: “Non potevamo immaginare che si sarebbe scatenato un conflitto così duro”.
Kamo, figlio di Aida, era appassionato di fotografia e Gular conserva ancora foto scattate da lui che raffigurano momenti di vita insieme, prima della guerra.
“Ha immortalato i nostri giorni migliori, le vacanze, le feste di compleanno. Ai tempi non era facile avere una macchina fotografica. Come possiamo dimenticarci di questi momenti? Li abbiamo vissuti assieme”.
Le relazioni tra la famiglia di Gular e i loro vicini armeni riflettono il melting pot del loro quartiere, sino ai tardi anni ’80. Allora le differenze tra russi, ebrei, ucraini, azerbaigiani e armeni non contavano, afferma Gular.
“Era raro chiedere a qualcuno ‘Di dove sei?’. Ricordo che nel nostro stesso edificio abitavano altre tre famiglie armene e molte altre russe. Non sapevamo le differenze, eravamo tutti vicini”.
I suoi bambini spesso andavano nell’appartamento di Aida e del marito Artush per guardare l’unica televisione a colori dell’intero vicinato. “Nessuno ha mai detto loro ‘Non sedere qui’. Ai giorni nostri è raro trovare una pazienza come quella nei confronti dei figli degli altri”.
Durante la festa azera per celebrare la primavera, il Novruz, i suoi bambini e i loro amici armeni “coloravano e cuocevano assieme le uova, mentre chiacchieravano tra loro”, continua.
“I dolci di Sveta erano fantastici; era bravissima nel cucinarli. Sono stati ospiti al nostro matrimonio ed eravamo fianco a fianco, in mutuo sostegno, ai funerali”.
Gular cerca ancora di trovare un senso per la scomparsa di quella comunità. Ritiene che il conflitto aveva ragioni politiche e non fu responsabilità dei cittadini ordinari di Armenia e Azerbaijan.
“Dico sempre che Dio ha maledetto i responsabili di questa guerra! Ciò che abbiamo perso sono i nostri vicini e la nostra gioventù. Abbiamo perso il senso di comunità e l’amicizia”, continua.
La stessa Gular si è poi trasferita in un altro quartiere di Sumgayit. A volte però torna nel suo vecchio quartiere, dove vivevano insieme ai loro vicini armeni.
“Vado e guardo alle finestre ed ai poggioli. Sono altre persone a guardar fuori da quelle finestre che in passato erano le mie, quelle di Aida, di Sveta, di Anya. Sono solo pochi i vecchi vicini che rimangono qui da visitare”.
“Tutto è accaduto così rapidamente che non abbiamo nemmeno saputo chi è entrato al posto loro nell’appartamento. Lo hanno scambiato o venduto? O è stato occupato da altri? Non lo so…”
Dopo aver chiacchierato per un po’ Gular si è improvvisamente azzittita.
“Viviamo in tempi in cui io ho paura anche solo a dire che avevamo dei buoni vicini. La situazione è molto dura da accettare”.
La guerra ha bloccato tutti quegli scambi tra persone e luoghi che prima si davano per scontati.
Gular, il cui fratello è stato ucciso nei combattimenti, non può più recarsi in visita nel luogo dove è nata, Jabrayil, in Karabakh che ora si trova oltre il fronte armato con l’Armenia.
Nonostante gli orrori del conflitto Gular però continua ad essere convinta che in quella notte di febbraio del 1988 ha fatto la cosa giusta. Nella guerra, sottolinea, la maggior parte delle persone ordinarie sono innocenti.
“A volte mi dicono ‘gli armeni hanno occupato la tua regione di nascita, come fai ad avere nostalgia dei tuoi vicini armeni’?”. Gular scuote al testa. La sua risposta è semplice ma profonda: “Non è colpa loro”.