Azerbaijan-Armenia: la guerra e le mascolinità queer (Osservatorio Balcani e Caucaso 04.01.21)
Un antropologo, che si occupa tra l’altro di mascolinità queer nel Caucaso, ha studiato attraverso i social media l’impatto della propaganda sulle comunità pacifiste di entrambe le parti in conflitto durante la guerra in Nagorno Karabakh
(Pubblicato originariamente da Chai Khana il 26 novembre 2020)
Sembra che l’ultima fase della guerra del Karabakh si sia in effetti per ora conclusa: si sono dislocate le forze di pace russe; l’Azerbaijan ha annunciato piani di ricostruzione e sviluppo per i territori che ora controlla.
Temo però che una fase molto pericolosa della battaglia sia ancora in corso.
In qualità di espatriato e antropologo azero, ho vissuto e osservato da lontano la dinamica di questa guerra il che mi ha garantito lo spazio per coltivare un punto di vista diverso. Dalla mia prospettiva, i combattimenti hanno acceso un tragico mix di propaganda tossica e nazionalismo sui social media, inquinando sia i cittadini armeni che azeri e mettendo a repentaglio tutti gli sforzi di costruzione della pace e di costruzione di relazioni transfrontaliere che esistevano prima della guerra di settembre.
Ho lasciato l’Azerbaijan diversi anni fa e il mio paese di nascita normalmente gioca un ruolo marginale nella mia vita quotidiana. Così sono rimasto scioccato quando, il 27 settembre, la mia pagina Facebook – in quella che sembrava una normale e pigra domenica mattina a Praga – apriva con titoli di guerra.
La mia prima reazione è stata quella di chiamare mia madre, ma non sono riuscito a collegarmi: il governo azero aveva sospeso Internet. Tuttavia notizie e informazioni fluivano attraverso i social media: la guerra aveva già riempito il mio feed di notizie ed era penetrata nella mia cerchia sociale. Mi fu subito chiaro che il pericolo e la violenza non erano limitati solo al campo di battaglia.
Mentre i combattimenti continuavano, l’intensità delle battaglie online e in prima linea ha iniziato a penetrare nella mia vita in Repubblica Ceca. Ero costantemente preoccupato per la famiglia (ci sono voluti quattro giorni per mettermi in contatto con mia madre) ed ero sempre più preoccupato per l’impatto che l’intensa guerra di propaganda stava avendo sui miei amici e conoscenti.
Le fiamme del nazionalismo si sono propagate veloci come proiettili e i membri delle comunità progressiste di entrambi i paesi soccombevano all’incitamento all’odio e alla disinformazione. Per me, sia professionalmente che personalmente, la svolta è arrivata a metà ottobre, quando è diventato chiaro che anche i gruppi vulnerabili, come la comunità LGBTQI +, erano stati inghiottiti dal crescente sentimento nazionalista.
Le comunità LGBTQI + armena e azera, non certo ben accolte in nessuno dei due paesi prima dei combattimenti, avevano iniziato negli anni a sviluppare legami tra loro. Ma a metà ottobre, ho notato un netto aumento della retorica nazionalista – e dell’incitamento all’odio – usati online dai miei compagni queer azerbaijani e armeni, dai costruttori di pace e dalle attiviste di mia conoscenza.
Da antropologo mi sono già occupato di questioni di genere; sapevo dal mio lavoro di analisi che la cultura maschilista in entrambi i paesi ha messo da parte le donne e resa più ardua una pace sostenibile. Tuttavia, è stata la mia attuale area di interesse, le mascolinità queer nel Caucaso, che ha fornito i migliori spunti per comprendere il reale impatto della propaganda sulle comunità pacifiste di entrambe le parti in conflitto.
Ho iniziato a monitorare i commenti postati sui social media dei membri delle comunità queer dell’Armenia e dell’Azerbaijan mentre reagivano ai combattimenti. Cercavo di osservare quanto accadeva standone fuori ma sono stato rapidamente sopraffatto dalle critiche e dal bullismo online di entrambe le parti.
I miei conoscenti queer armeni mi hanno attaccato e accusato di sostenere il leader dell’Azerbaijan Ilham Aliyev. I queer azeri mi hanno accusato di essere un “traditore” per non aver sostenuto la guerra e l’esercito azerbaijano. Tutti questi attivisti hanno iniziato a togliermi l’amicizia sui social poiché ognuno percepiva i miei commenti come un sostegno al “nemico”.
Una delle nuove tendenze che ho trovato più preoccupanti è stata proprio la progressiva radicalizzazione dei gruppi nella comunità LGBTQI +. Un esempio è stato il trattamento riservato a due queer azeri che si sono arruolati volontariamente nell’esercito e sono morti in guerra. Vi è stata un’onda di sostegno per le loro famiglie da parte di queer azeri, un’onda che sembrava da interpretarsi come sostegno al loro martirio, in netta rottura con un’accettazione universale dell’umanità e dei valori queer.
Quanto accaduto evidenzia l’impatto che la propaganda ha avuto anche sugli individui più progressisti della comunità LGBTQI + in Armenia e Azerbaijan. A lungo termine, questo porterà conseguenze nefaste e divisioni tra gli attivisti queer in questi paesi, minando i risultati raggiunti da attivisti queer, accademici e difensori dei diritti umani del Caucaso.
Gli effetti negativi di questa guerra non si limitano ai social media: i queer che erano contro la guerra ora dovranno affrontare una doppia discriminazione a causa della loro diversa identità di genere e del cosiddetto sentimento “antinazionalista”.
Anche molti noti costruttori di pace e mediatori hanno – durante al guerra – iniziato ad utilizzare una retorica più nazionalista. Invece di promuovere la pace, questi pseudo costruttori di pace hanno iniziato a soffiare sulla fiamma del nazionalismo. Persone che una volta erano state modelli per milioni di comuni cittadini di Armenia e Azerbaijan nel nome della pace, sono invece diventate fari per forti sentimenti anti-armeni e anti-azerbaijani.
Questi atteggiamenti, espressi con tanto fervore online, non hanno cambiato nulla sul campo di battaglia. Ma in patria hanno ulteriormente eroso la fiducia tra questi due stati e alla fine metteranno in pericolo vite nelle comunità su entrambi i lati del conflitto.
L’accordo di pace russo è arrivato per quanto mi riguarda tanto inaspettato quanto lo era stato lo scoppio della guerra. Come generazione di guerra, io, come molti miei coetanei, consideravo questa guerra come una delle “maledizioni” della nostra vita.
Ma una cosa i combattimenti sia online che in prima linea l’hanno resa chiara: finché gli azeri e gli armeni non discuteranno in modo propositivo i loro problemi e le sfide che hanno di fronte, il conflitto continuerà.
Considerando il ruolo giocato dell’imperialismo russo e dal dominio maschile, questo conflitto non può essere considerato risolto. Senza dare più potere a vari gruppi che compongono la nostra società, il dominio maschile non può portare ad una soluzione duratura del conflitto nella regione.
È quantomai vitale un approccio intersezionale alla costruzione della pace è vitale: le donne sfollate e operaie – come del resto i costruttori di pace LGBT/queer e le minoranze etniche dell’Armenia e dell’Azerbaijan – sono ancora costantemente escluse dai processi di costruzione della pace.
Dobbiamo superare tutte queste sfide. Dobbiamo preparare queste comunità a vivere insieme e riconoscere le nostre debolezze e punti di forza, accettandoci così come siamo. Soprattutto, dobbiamo lottare contro l’armenofobia e l’azerbaijanofobia in queste società. Altrimenti, non ci sarà futuro o prosperità per le prossime generazioni.
Alla fine, come espatriato, vorrei tornare nella mia regione natale e vivere lì senza confini. Vorrei che le persone non si etichettassero come “azerbaijani” o “armeni” o “musulmani” o “cristiani” o “ebrei”. Credo che dobbiamo lottare contro tutte le ideologie oppressive che dividono gli esseri umani in diversi gruppi.
Questo conflitto è stato un ottimo esempio di come piccoli malintesi possano causare una guerra tra due piccoli stati. Credo che le generazioni future riusciranno a cambiare il Caucaso. Ma siamo responsabili della crescita della prossima generazione, il che significa che dobbiamo cambiare noi stessi e diventare costruttori di pace per un futuro migliore a casa e in tutto il mondo. La pace non dovrebbe rimanere una teoria; dovrebbe essere manifestata e dovremmo praticare questo ideale ogni giorno.