Patrimonio dell’Umanità UNESCO, quest’anno piovono le critiche. È un sistema da cambiare? (finestresullarte 04.08.19)
Lo scorso 9 luglio usciva su Hyperallergic un lungo articolo, firmato dal ricercatore in scienze politiche Simon Maghakyan, che definiva la riunione annuale del World Heritage Committee dell’UNESCO (il comitato che decide sui siti che fanno parte, o entreranno a far parte, del Patrimonio Mondiale dell’Umanità) come un “insulto al Patrimonio Mondiale”. La durissima posizione di Maghakyan nei confronti dell’UNESCO è motivata da ragioni politiche e culturali: com’è noto, la sessione annuale del comitato si è tenuta a Baku, in Azerbaigian, il cui governo viene da più parti indicato come responsabile di quello che Maghakyan stesso già da tempo ritiene “il più grave genocidio culturale del ventunesimo secolo”. Stando a quanto riporta il ricercatore, negli ultimi trent’anni l’Azerbaigian ha cancellato nel paese gran parte del patrimonio culturale degli armeni: un’operazione di distruzione massiva che, per estensione, supererebbe anche quella compiuta dall’Isis in Siria e in Iraq. Simbolo di questa campagna è l’antica città di Julfa, che fino a non molto tempo fa ospitava un cimitero medievale con la più vasta raccolta esistente di khachkar (la stele funeraria tipica degli armeni, di solito fittamente decorata con elaboratissimi motivi ornamentali e con al centro una croce: dal 2010 i khachkar fanno parte del Patrimonio Intangibile dell’Unesco). Tra il 1998 e il 2006, il sito è stato deliberatamente distrutto (“il cimitero, antico di mille e cinquecento anni”, sottolineava l’Icomos nel 2006, “è stato completamente raso al suolo”), e ci sono fotografie e video che possono fornire testimonianze della devastazione. Stando al governo azero, non ci sarebbe stata alcuna distruzione: semplicemente, i monumenti dei quali molti lamentano la scomparsa, non sarebbero mai esistiti.
Maghakyan ha puntato il dito contro l’UNESCO affermando che non soltanto l’organizzazione mondiale preposta alla tutela della cultura non ha aperto bocca per condannare pubblicamente le distruzioni del patrimonio armeno in Azerbaigian (paese nel quale, occorre specificare, è forte e persistente il sentimento antiarmeno, e gli armeni sono, secondo una relazione della Commissione Europea contro il razzismo e l’intolleranza, “il gruppo più vulnerabile in Azerbaigian in fatto di razzismo e discriminazione razziale”), ma che si è anche spinta a definire l’Azerbaigian come una “terra della tolleranza”. Alla base della collaborazione tra UNESCO e Azerbaigian, denuncia Maghakyan, ci sarebbero motivazioni economiche, tra cui una donazione di cinque milioni di dollari che nel 2013 l’Azerbaigian ha garantito all’UNESCO. Ma se è vero che l’UNESCO non riceve adeguati finanziamenti, è altrettanto vero che non dovrebbe legarsi troppo ai suoi donatori: “si potrebbe discutere sul fatto che sia giusto o meno che l’UNESCO recida ogni legame con un paese che ha fondato la propria ricchezza sul petrolio e che ha distrutto 28mila monumenti”, concludeva Maghakyan, “ma aver ospitato la principale riunione mondiale sulla conservazione del patrimonio è una sorta di punto di non ritorno: e la crudele ironia dell’UNESCO nell’ospitare la sessione annuale del World Heritage Committee è nient’altro che un insulto a tutto il patrimonio mondiale”.
Il cimitero di Julfa in una foto del 1915 |
Ma non c’è solo il problema dell’Azerbaigian a tener banco. Meno gravi, ma comunque pressanti, sono le questioni che riguardano nello specifico il nostro paese. L’UNESCO non ha fatto granché per salvare Venezia dai problemi del turismo di massa: avrebbe potuto iscrivere la città lagunare nei siti a rischio (sono notizie delle ultime settimane i danni, e i potenziali danni, causati dalle navi da crociera in transito per il canale della Giudecca e non solo), ottenendo nello stesso tempo due buoni risultati, ovvero ufficializzare la situazione di rischio che corre la città, e aprire una discussione su quali siano le armi di cui l’UNESCO dispone per affrontare problemi nuovi, nati negli ultimi anni, come quelli derivanti dal fenomeno dell’overtourism. La giornalista Anna Somers Cocks, fondatrice di The Art Newspaper e in passato presidente, per dodici anni, dell’associzione Venice in Peril, si è domandata nei giorni scorsi “che cosa può fare l’UNESCO”, se “è diventato così pavido e privo di speranze nel difendere i suoi siti, e se non riesce a riconoscere l’ovvio fatto che Venezia è in pericolo”.
E ancora, feroci polemiche sono sorte attorno alla nomina del cinquantacinquesimo sito italiano del Patrimonio dell’Umanità, le Colline del Prosecco: i colli attorno a Conegliano e Valdobbiadene famosi in tutto il mondo per la loro produzione vinicola sono oggetto, stando a uno studio dell’Università di Padova, di un forte rischio di erosione, legato alle arature intensive, alla compattazione del terreno, ai diserbanti utilizzati nelle coltivazioni, al fatto che vengano coltivati anche versanti fragili delle colline. E la situazione peggiora di anno in anno, perché le colture intesive delle viti le cui uve si trasformeranno in prosecco si estendono a scapito di altri tipi di coltivazioni, fagocitando boschi e prati. Ciò che in questo caso servirebbe, secondo Massimo De Marchi, esperto di politiche territoriali e ambientali e docente di Metodi di Valutazione Ambientale presso l’ateneo patavino, è una riflessione “sul modello di agricoltura che stiamo proponendo”: manca in Italia un piano agroecologico e il nostro paese è in ritardo rispetto all’Europa nel ragionare su “cosa significhi pensare a una produzione che alimenti centinaia di milioni di cittadini europei solo con un modello agroecologico”.Già lo scorso marzo le associazioni ambientaliste avevano lanciato una marcia di protesta contro la candidatura UNESCO delle Colline del Prosecco, evidenziando come i vitigni per la produzione industriale del prosecco abbiano totalmente stravolto le colline (con sbancamenti e disboscamenti), modificando in maniera massiccia un paesaggio che oggi appare del tutto diverso rispetto a come si presentava anche soltanto dieci anni fa, come la monocoltura del prosecco abbia portato alla scomparsa di circa la metà delle specie di uccelli del territorio, come dalle coltivazioni derivino i pericoli idrogeologici che i continui sbancamenti creano agli abitanti, come il largo utilizzo di pesticidi favorisca l’inquinamento. È peraltro notizia di pochi giorni fa la protesta di un gruppo di cittadini di Miane, vicino Treviso, contro il disboscamento di una collina che dovrà accogliere un nuovo vigneto (gli abitanti paventano, come appena ricordato, rischi per la stabilità idrogeologica del luogo e per la salute di quanti vivono nell’area). L’UNESCO, in sostanza, sembra aver inserito nel suo patrimonio un sito che forse andrebbe già iscritto nell’elenco di quelli in pericolo.
Quando un sito viene inserito nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità, è quasi naturale associare il riconoscimento ai benefici che potrebbe portare per il turismo, oppure considerarlo, come verrebbe da pensare scorrendo le dichiarazioni dei politici riguardo le Colline del Prosecco, una sorta di certificato all’eccellenza: eppure il Patrimonio Mondiale non nasce come bollino turistico, ma come elenco di siti da tutelare e preservare con la massima cura per farli arrivare alle generazioni future così come li abbiamo ereditati. “Il patrimonio culturale e naturale”, si legge nelle linee guida ufficiale dell’organizzazione, “è una risorsa senza prezzo e insostituibile non solo per le singole nazioni, ma per tutta l’umanità. La perdita, attraverso il deterioramento o la sparizione, di qualsiasi di queste preziose risorse, costituisce un impoverimento del patrimonio di tutti i popoli del mondo. Parti di questo patrimonio, a causa delle loro eccezionali qualità, possono essere considerate di ‘straordinario valore universale”, e sono pertanto degne di una protezione speciale contro i pericoli che sempre più le minacciano”.
L’UNESCO è ancora in grado di tener fede a queste linee guida? La risposta, ovviamente, non può che essere affermativa, ma forse è ora che l’organizzazione cominci a riconsiderare se stessa e a cambiare i suoi sistemi di lavoro: rivedere certi legami politici (il caso dell’Azerbaigian è emblematico), alleggerire la sua burocratizzazione, riconsiderare i criterî di assegnazione del riconoscimento se è vero che ci sono troppi siti e se è vero che al contrario molti monumenti degni di nota sono ancora esclusi (il 16 luglio scorso, il giornalista Oliver Smith, in un articolo sul Telegraph, faceva ironicamente notare che nel Patrimonio Mondiale sono inclusi anche “uno stabilimento di confezionamento della carne in Uruguay, una fabbrica di scarpe in Germania e un ascensore idraulico in Belgio”), assumere impegni più stringenti nel valutare i siti in pericolo, esercitare pressioni più forti sui paesi nei quali si trovano tali siti potrebbero essere azioni da intraprendere in futuro. In un fervido articolo pubblicato lo scorso 10 luglio su The Art Newspaper e dedicato al fallimento, da parte dell’UNESCO, nel proteggere Venezia alla riunione di Baku, Francesco Bandarin, già direttore del World Heritage Centre dell’UNESCO, si chiedeva se “si può fare qualcosa per fare in modo che il World Heritage Committee smetta di essere un mercato di scambio di favori tra nazioni e torni a essere ciò che era quando fu firmata la convenzione sul patrimonio mondiale del 1972”. È quello che sempre più osservatori cominciano a domandarsi.