Atom Egoyan, Salomé allo specchio (Il Manifesto 03.01.25)

Il suo ultimo film, Seven Veils, presentato a Toronto nel 2023, e più di recente a Matera, uscirà nel 2025 direttamente su piattaforma. Cortocircuito tra teatro, cinema e dispositivi digitali, tra desiderio, trauma e memoria, tra ossessione e liberazione, attraverso la rimessa in scena della Salomé di Strauss che lo stesso Atom Egoyan ha realizzato a teatro.

L’idea del film, la sua scrittura, è nata mentre stavi realizzando lo spettacolo teatrale o dopo?

Ho realizzato la regia dello spettacolo teatrale nel 1996, e ha avuto molte repliche. Quando mi hanno detto che l’avrebbero rimontato nel 2023 ho iniziato a pensare di farci un film, perché pensavo a come nel frattempo sono cambiate le mie idee. Ho ripensato a questo personaggio che si fa carico dei temi dello spettacolo ai giorni nostri; quindi è un tentativo di fare una sorta di rivalutazione della mia interpretazione attraverso il personaggio di Janine (interpretata da Amanda Seyfried, con cui avevo già lavorato in Chloe, nel 2009). È diventata un personaggio molto vivo; non è me, è un personaggio a sé stante e in questo film è sola, non ha il sostegno di nessuno intorno a lei. Ha questi uomini diversi con cui confrontarsi: suo marito, il suo ex amante, il fantasma di suo padre, l’amante di oggi, il fantasma di Oscar Wilde, Richard Strauss, l’amministratore dell’Opera, tutti sembrano non sostenerla, e lei deve trovare il modo di sostenersi da sola, attraverso la sua immaginazione e la sua creatività.

C’è una battuta che ritorna un paio di volte, quando il padre dice «senza uno dei sensi hai la possibilità di sentire di più dagli altri sensi». Ricordo ad esempio in «The Adjuster» o in «Calendar», ma anche in «Exotica», c’è sempre qualcosa che manca e che non conosciamo, e questa mancanza di informazioni in qualche modo aiuta l’attenzione a focalizzarsi sul procedere del film.

Penso che questa sia un’osservazione molto bella e penso che ciò che è sconosciuto qui è che lui pensa che lei capisca il suo trauma, che abbia parlato del padre a Charles, che ne abbia parlato al podcaster, che sappia cosa le è successo. Ma il mistero è perché, rimontando questo pezzo, lei stia creando questo nuovo trauma, che lui non si aspettava. Ed è il trauma che è la limitazione della sua immaginazione, la sua (in)capacità di presentare qualcosa che la soddisfi, mentre naturalmente è in balia di tutte le altre forze che non la sostengono o forse del suo stesso talento.

Cosa succede quando hai bisogno di creare ma non hai la capacità di esprimere esattamente i tuoi sentimenti, quando è così importante per te? Lei dovrebbe essere lì? Dovrebbe accettare questa situazione? È un regalo che Charles le sta facendo (dandole la possibilità di riprendersi tutta la storia)? O era una maledizione? Queste sono le domande.
In questa prospettiva usi all’interno della tessitura del film tutti i dispositivi, cellulari, tablet, come una volta usavi la tv. Ricordo, per esempio, «Calendar» che per me era molto forte in questo senso. La tendenza alla dialettica tra le immagini video e le immagini filmate in pellicola, qui funziona come uno specchio, come un riflesso che però non restituisce la stessa immagine.

Era un buon modo per esaminare questi temi del desiderio e di cosa succede quando hai questa forte sensazione, qualcosa di cui senti di aver bisogno ma che non puoi avere. Così Salomé è l’immagine di Giovanna Battista, ma penso che per Janine questa idea di perfezione artistica è minata da così tante cose intorno a lei che la compromettono e la stanno facendo impazzire… e forse l’unica cosa che può fare è quello che fa, come dicevi, con il tablet, come se fosse allo specchio, quando ordina all’amante del marito di togliere il volto del padre dal dipinto, perché è l’unica azione che è realmente perfetta, per lei in quel momento, visto che altrove non ci riesce.

Quando sei sul set hai bisogno di controllare tutto o lasci la finestra aperta, come diceva Renoir.

Beh, dipende. Le cose possono accadere, ma devi avere un piano e per me l’esempio più chiaro è quello di Calendar. Più il film è piccolo e più puoi essere aperto all’imprevisto. Ma quando hai un film con un budget elevato come questo, e nello stesso tempo un programma di riprese così stretto (solo 19 giorni di riprese), tutto deve essere pianificato con molta attenzione, anche perché i cantanti devono esibirsi di notte e quindi il programma è stato molto serrato. Ma i miei momenti preferiti in questo film sono stati improvvisati, cioè cose che sono successe sul set, ma questo può accadere solo quando hai la sicurezza di una struttura solida.

Vorrei tornare sulla questione dei dispositivi, perché mi ricordo che nei tuoi vecchi film c’erano spesso le immagini della televisione che in qualche modo funzionavano come ora qui il cellulare o il tablet. Mi chiedo se questi dispositivi che sembrano degli specchi, immediatamente diventano qualcosa che assume i tratti di un abuso per noi stessi.

Beh, hai ragione perché quando vediamo Amanda sul dispositivo vediamo il suo volto come uno specchio, ma questo è un effetto digitale perché non è reale, l’abbiamo creato digitalmente per farlo diventare uno specchio, quindi questo è stato un effetto creato in post per migliorare la qualità speculare di questo dispositivo. Uno specchio di se stessa ma anche di queste relazioni… La differenza rispetto agli anni ’80, quando usavo la televisione, è che allora si trattava di sistemi chiusi, ma ora ovviamente tutti hanno accesso a tutto e non c’è più la stessa struttura di classe, come quando si guarda un film. Ad esempio in Speaking Parts (1988), sembra che i due amanti siano su Zoom, ma non è così: era un collegamento satellitare, molto costoso, bisognava prenotarlo, quindi non era spontaneo, mentre ora è diverso. Ora è diventato parte della nostra identità! Negli anni ’80 era ancora qualcosa di nuovo, mentre ora è ovunque, è diventato naturale.

A questo proposito, tu hai girato in pellicola e ora in digitale, mi chiedo se il tuo modo di lavorare sia cambiato utilizzando strumenti diversi.

Cerco di mantenere la mia sensibilità cinematografica, che è così radicata in me. Da giovane avevo dei budget così bassi e mi preoccupavo così tanto di quello che stavo girando. Non posso essere come i registi di adesso, che tengono la videocamera sempre in funzione, non chiamano il «taglio» (perché col digitale non hai problemi di lunghezza limitata dei rulli).
Dal mio primo film lavoro sempre con lo stesso direttore della fotografia, Paul Sarossy, abbiamo questo approccio, pensiamo alla pellicola ed è l’unico modo in cui posso lavorare.

Decidi tu le inquadrature?

Tutto ciò che riguarda i movimenti di camera e la composizione lo decido io, la luce la decide Paul, perché mi fido del suo senso della luce. In questo caso è stato interessante perché ha lavorato anche con la luce teatrale, quindi doveva modificare la luce teatrale per farla funzionare per il cinema.

Sembra che in alcuni punti le riprese siano state fatte durante lo spettacolo teatrale…

No, abbiamo girato il film mentre lo spettacolo era in scena. Ma gli attori del film recitavano di notte, a spettacolo finito. E nel frattempo abbiamo scelto quali parti riprendere rendendole più cinematografiche. Non è stata solo registrata la performance teatrale, ho anche chiesto agli attori-cantanti dell’opera di poter fare con loro scene diverse.

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Atom Egoyan apolide armeno canadese (nato a Il Cairo nel 1960). Ha iniziato negli anni ’80 a fare film in cui i temi della memoria e dell’identità sono inscindibili da una dimensione traumatica del loro sviluppo, quasi a costituirne l’essenza. Al centro del suo cinema agisce costantemente una riflessione sulla natura delle immagini e l’atto del guardare (soggetto-ombra di praticamente tutti i suoi film). Autore atipico ed eccentrico, unico nel suo genere e difficilmente classificabile (non poche sono le incursioni nel mondo dell’arte e del teatro). Ha diretto per la tv episodi di «Ai confini della realtà» e «Alfred Hitchcock presenta». Nel 1994 il suo «Exotica», ambientato nel mondo dei peep-show, vince a Cannes il Premio della critica. Tre anni dopo, sempre a Cannes, vince il Premio speciale della giuria con «Il dolce domani». Nel 1997 allestisce per la Biennale Arte di Venezia il padiglione armeno con l’opera «America America». Nel 2002 con Ararat torna, dopo Calendar nel 1993, sulle tracce del genocidio armeno attraverso le testimonianze di diverse generazioni di esuli. Tra i suoi ultimi film vanno ricordati «Devil’s Knot» (2013), «The Captive» (2014), «Remember» (2015), «Guest f Honour» (2019). (d.f.)

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