Armenia: vivere da disabili (balcanicaucaso.org 21.08.17)
In Armenia, troppo spesso, le persone diversamente abili vengono stigmatizzate ed emarginate. C’è però chi, a questo stato di cose, si oppone. La storia di Vardine
(Pubblicato originariamente su Daphne il 28 aprile 2017)
A dieci anni, dopo aver perso sua madre, Vadine è stata obbligata a lottare tutta sola per i suoi diritti e per convincere la società di aver diritto a vivere la stessa vita di tutti gli altri. Guardando indietro alla sua infanzia Vardine si rende conto di avercela fatta e di aver raggiunto gli obiettivi più ambiziosi che aveva da piccola.
‘Mia madre ha deciso di tenermi’
‘Vi era molta negatività attorno a me durante la mia infanzia. In Armenia, l’atteggiamento rispetto a chi ha disabilità è sbagliato. Ai bambini non viene insegnato a comportarsi rispetto a persone diversamente abili e tutto questo deriva da atteggiamenti ben radicati tra gli adulti stessi”, racconta Vardine Grigoryan, 32.
Vardine è nata e cresciuta a Vanadzor, città nell’Armenia settentrionale. Nella sua prima infanzia le è stata diagnosticata la sindrome di Marfan, malformazione genetica ereditata dalla madre.
La sindrome di Marfan colpisce i tessuti connettivi e può manifestarsi in numerosi modi. La madre di Vardine non aveva alcun sintomo visibile ed è per questo che la sua malattia, e la conseguente eccessiva dilatazione dell’aorta, è stata identificata troppo tardi.
“Mia madre desiderava molto avere dei bambini e quindi, all’età di 34 anni, si è sposata per poi divorziare 3-4 mesi dopo. Quando sono nata, i miei genitori erano già separati. La mia nascita è stata preceduta da grande scandalo nella famiglia che accusava mia madre di appesantire loro la vita con la nascita di un bambino, e tutto si è accentuato quando si è scoperto che avevo problemi di salute. Ma nonostante tutto mia madre ha tirato dritto e ha deciso di tenermi”.
La madre di Vardine, Seda, è morta 22 anni fa ma in sua figlia rimane vivo il ricordo dell’amore incondizionato della madre nei suoi confronti. Da allora, Vardine ha vissuto con la nonna Varduhi.
‘La mia nonna si vergogna di me’
“Mi ricordo come mi sedevo in braccio a mia madre anche quando avevo già 10 anni! Mi amava e si preoccupava per me moltissimo. Mi ha dato un nome unico, Vardine, e diceva che ero l’unica Vardine nel mondo intero. Diversamente da mia madre, mia nonna invece non mi incoraggiava in nulla. Il suo approccio in genere era molto stereotipato e mi guardava attraverso il prisma della società. Si vergognava di com’ero. Ricordo che quando camminavamo per strada lei camminava molto veloce in modo che io rimanessi indietro. Aveva paura che la gente le chiedesse se ero sua nipote”, ricorda Vardine. “Allo stesso tempo non permetteva a nessuno di offendermi. Aveva un istinto protettivo del tutto particolare: voleva proteggermi dal mondo intero ma non riusciva a farlo in un modo che io non percepissi come pressione o tentativo di nascondermi”.
‘I bambini del vicinato mi tiravano i sassi’
Diversamente da quanto accade alla maggior parte dei bambini disabili Vardine è riuscita a frequentare un normale percorso di studi. Tuttavia, ricorda ancora il terribile abuso psicologico che doveva affrontare, tutti i giorni, per andare a scuola.
“Il percorso quotidiano verso la scuola era terribile perché i bambini che vivevano in una via limitrofa alla mia ridevano di me e mi tiravano dei sassi… Ne è nata una vera e propria fobia che mi porta, ancor oggi, a provare timore quando passo da quel quartiere. Mi rendo conto che appartiene tutto al passato ma certo si è trattato di una delle esperienze più traumatiche di tutta la mia vita”.
Vardine ha molti dei sintomi della sindrome di Marfan. All’età di 13 anni le è stata diagnosticata una curvatura spinale. “Ho dovuto fare tre interventi chirurgici presso l’Ospedale ortopedico Masi e il periodo che ne è seguito è stato molto doloroso. Spesso dovevo stare in piedi, a scuola, durante le lezioni. Quando il dolore era forte, era impossibile starsene seduti. Mi dovevo alzare o dovevo camminare”, racconta Vardine, che da allora ha dovuto affrontare in totale sei interventi chirurgici.
‘Non mi sono potuta permettere la mediocrità’
Nonostante il modo di pesare stereotipato della società, le percezioni negative o le discriminazioni dirette, Vardine è riuscita a trovare la chiave per andare avanti: essere più d’aiuto possibile.
“Pensavo che se non fossi riuscita anche solo un giorno, a trovare qualcosa in cui potevo essere utile, la mia esistenza non aveva senso. E la gente se ne sarebbe accorta e mi avrebbe accusata di rubare il posto a qualcuno. Pensavo di dover giustificare la mia esistenza”.
L’amore di Vardine per lo studio l’ha aiutata a superare le difficoltà che ha incontrato nella sua vita e, a scuola, si è fatta buoni amici. “L’amore e l’atteggiamento positivo nei miei confronti non era un atto di pietà ma era piuttosto basato sul rispetto. In generale a scuola si pensava io fossi particolarmente intelligente e quindi, in quell’ambiente, tutti erano gentili nei miei confronti. Ho iniziato la scuola quando avevo solo 5 anni e dicono chiedessi a mia madre di portarmi a scuola anche prima. Ogni mattina mi alzavo presto e mi mettevo a leggere i miei libri di fiabe e mi raccontano sapessi leggere ancora prima di andare a scuola. Volevo essere la studentessa migliore e volevo sempre lavorare di più e meglio. Non potevo permettermi di essere mediocre”, ricorda con un sorriso.
Dopo aver finito al scuola Vardine, preparando gli esami d’ammissione da sola non potendo permettersi lezioni private, è riuscita ad entrare nel dipartimento lingue straniere dell’Istituto pedagogico statale di Vanadzor.
Il suo duro lavoro e la sua sete di conoscenza l’hanno aiutata a realizzare il suo sogno di viaggiare negli Stati Uniti, in un programma di scambio di studenti. Nel 2005 è entrata nel Williams College del Massachusetts dove ha studiato per un anno presso il dipartimento di sociologia.
“Mia nonna, ovviamente, si opponeva a tutti i miei piani riguardanti lo studio. E’ stata cresciuta in una società dove i bambini con disabilità venivano o abbandonati o nascosti. Non ha mai pensato di abbandonarmi ma non ha mai creduto che l’atteggiamento della società verso di me sarebbe potuto essere benevolo. Pensava che studiare fosse una perdita di tempo perché nessuno, poi, mi avrebbe dato un lavoro. Aveva un atteggiamento così sorprendente: nessuno che conoscevo, attorno a noi, aveva raggiunto tanti obiettivi quanti ne avevo raggiunti io. Ma nonostante tutto questo voleva che rimanessi a casa, a far niente, per evitare che qualcuno potesse offendermi. Un anno fa ero a casa con una coppia di amici. Una volta usciti lei mi ha detto che non li voleva più vedere a casa nostra. Le ho chiesto il perché e lei mi ha detto che non voleva che io soffrissi guardando loro e pensando che non avrei mai potuto avere qualcuno da amare in tutta la mia vita”, racconta Vardine.
‘Il periodo più sereno della mia vita’
Ma lei riteneva fosse importante realizzarsi e ottenere un’ottima formazione. Grazie al duro lavoro, alla sua perseveranza e grande forza di volontà Vardine è riuscita a terminare i suoi studi negli Stati Uniti e poi, per un anno, è rientrata a lavorare in Armenia per l’Ong “Capacity and Development for Civil Society”.
“Il tempo trascorso negli Stati Uniti è stato il più sereno di tutta la mia vita. Anche solo camminando per strada, avevo l’impressione che la mia colonna vertebrale fosse più diritta. Ho dimenticato i miei problemi di salute. La percezione sociale e l’approccio in genere della gente ti fa sentire un essere umano come tutti gli altri. Qui invece la gente presta molta attenzione all’apparenza fisica e costantemente ti ricorda le tue disabilità e che non rientri negli schemi definiti dalla società”, racconta Vardine.
Nel 2009 ha fatto domanda per un programma di dottorato ed è stata due anni negli Stati Uniti per studiare Pubblica amministrazione presso l’Università dell’Ohio. “Ho vissuto una vita studentesca molto interessante e intensa nell’Ohio. Rientrata in Armenia ho iniziato a lavorare alla Helsinki Citizens’ Assembly, per un breve periodo come traduttrice”. “Poi sono diventata office manager e lavoravo su programmi istituzionali di sviluppo e infine sono diventata coordinatrice della sezione monitoraggio e report sugli standard democratici. E’ da sei anni che lavoro qui ormai”, racconta Vardine sorridendo allegramente.
A Vardine piace il proprio lavoro ma ammette che la sua felicità sarebbe incompleta senza i suoi cari amici.
‘Vivi mentre sei vivo’
Le persone disabili in Armenia spesso percepiscono la propria posizione come una sorta di punizione meritata. Ma Vardine invece ha deciso che, se qualcosa non va bene, occorre cambiarla, o almeno provarci. Ha deciso di sostituire sogni e preghiere per una miracolosa guarigione della sua scogliosi con azioni molto pratiche.
Due anni fa Vardine ha incontrato Karapet Momjyan, capo dei servizi spinali dell’ospedale Erebuni, ed è riuscita a convincerlo che sarebbe stata in grado, ormai trentenne, di sopravvivere ad un’operazione molto delicata. In poche settimane Vardine è riuscita a farsi prestare i soldi necessari. L’operazione è andata meglio del previsto e ne è seguita una seconda.
La sua curvatura spinale e altri problemi di salute non sono ora completamente scomparsi ma Vardine è convinta che quest’esperienza le ha riportato la voglia di combattere. In due anni Vardine è stata in grado di restituire tutti i soldi che aveva chiesto in prestito ed ha dato i soldi che le erano stati donati a chi riteneva avesse più bisogno di lei.
Lara Aharonian, direttrice del Women’s Resource Centre, descrive Vardine come una persona dalla forte personalità e del suo essere stata da esempio per molti. Sottolinea inoltre il gran senso dell’umorismo di Vardine, che non la abbandona neppure nei momenti più bui.
“Vardine è una pensatrice positiva ed è sempre piena di speranza. Sono sempre rimasta stupita di questa ragazza di così ampie vedute e così resiliente, che è stata così coraggiosa nell’affrontare tutte quelle difficoltà e nel continuare a lavorare su se stessa per raggiungere ciò a cui aspirava, nonostante gli ostacoli incontrati al lavoro e nella vita”, afferma Lara Aharonian.
Vardine, dal canto suo, sottolinea che qualsiasi cosa lei faccia nella vita segue sempre come esempio la propria madre. “Non lo so se è avvenuto nel subconscio o coscientemente ma è accaduto che la mia vita si sia sviluppata nel realizzare ciò che lei desiderava ma non è riuscita a fare per la sua morte prematura. Il più grande complimento che ricevo è quando, per errore, qualcuno mi chiama Seda. Quelli sono i momenti in cui mi rendo conto che tutto è a posto”.
Vardine è convinta che ciascuno alla fine decide da solo come vivere la propria vita, a prescindere dai consigli che riceve dagli altri: “L’importante è non assumere il ruolo della vittima, e di vivere finché siamo in vita”.
Quest’articolo è frutto della collaborazione tra OC Media e il progetto Daphne, dedicato a donne che, in Armenia, hanno superato momenti bui e duri nella vita e grazie alla loro forza di volontà sono riuscite ad andare avanti