Armenia, un viaggio memorabile nella terra di monasteri (Ilgiornale 07.05.24)
La piccola nazione caucasica è stata “culla del Cristianesimo”. Manoscritti millenari e chiese antiche, ma anche natura, musica e una produzione vinicola risalente a 6100 anni fa
Testo e foto di Anna Maria Catano
Sorprendente Armenia.
Altipiani infiniti, paesaggi e montagne a perdita d’occhio, monasteri antichissimi, albicocchi, ciliegi, melograni. E l’Ararat con le sue cime innevate che simboleggia la storia millenaria e tormentata di questa piccola Repubblica caucasica dal cuore europeo. Indipendente dal 1991, stretta tra Turchia, Georgia e Azerbaigian.
Al mattino l’augurio è “Buona luce”, l’accoglienza all’ospite un dovere.
Un viaggio in Armenia, nel Caucaso meridionale, è un’esperienza memorabile, alla scoperta in una terra ancora vergine nonostante la sua millenaria cultura. Ma anche una meta turistica sicura che garantisce ogni tipo di confort e divertimento.
L’Armenia, questa sconosciuta.
L’Armenia storica era il Regno dei Tre mari (circa centomila km quadrati), la Cilicia d’epoca medievale. Ridotta oggi a soli trentamila km quadrati e senza sbocco al mare.
Eppure l’Armenia è stata la culla della Cristianità, religione di Stato dal 301 d.C., ben dodici anni prima dell’editto di Costantino. La prima Chiesa Cristiana Apostolica.
Simbolo religioso e storico dell’Armenia è il monte Ararat, attualmente in territorio turco.
Fu Stalin nel 1921, in epoca di dominio sovietico, a cedere quel territorio alla Turchia. Ma la vista, lo spettacolare panorama delle due cime innevate – il Grande Ararat (5165 metri) e il Piccolo Ararat (3914 metri) – si gode prevalentemente dal versante armeno. Dal monastero di Khor Virab, in particolare, la montagna è visibile in tutta la sua maestosità e bellezza. A testimonianza del legame indissolubile con il luogo dove, secondo la Bibbia, approdò l’arca di Noè dopo il diluvio universale. Fu tra gli altri Marco Polo a sostenere che si fosse incagliata proprio sull’Ararat. In tempi moderni spedizioni archeologiche confermarono la tesi.
Monasteri millenari, Libri Sacri.
“Non c’è futuro senza memoria”. Per secoli la parola d’ordine degli armeni fu: “Salvate i bambini e i Libri Sacri. Anche a rischio della vita”. Dai tempi di san Gregorio, fondatore della Chiesa Apostolica Armena. Così, grazie all’astuzia dei monaci, molti monasteri, arroccati in luoghi impervi e privi d’immagini per non urtare la furia iconoclasta dei vicini musulmani, evitarono la distruzione. Trasformati in magazzini o depositi prima sotto la dominazione ottomana e poi a causa dei sovietici che rasero al suolo larga parte delle chiese esistenti nel Paese.
Alcuni di quei mirabili monasteri in pietra oggi sono patrimonio Unesco. Come i khatchkar, croci scolpite nella pietra, incredibilmente simili ai ricami delle donne, che si vedono un po’ ovunque. Nelle abitazioni private, nei cimiteri, nelle pubbliche piazze.
Il monastero di Geghard, fondato nel IV secolo è in parte scavato nella roccia: qui c’era una lancia, portata dall’apostolo Taddeo, che trafisse il costato di Cristo. E poi il complesso di Khor Virap. E il pozzo, a sei metri di profondità, in cui San Gregorio l’Illuminatore, San Gregorio Armeno per gli italiani, fu imprigionato.
Spettacolare anche il Tempio di Garni, di architettura ellenistica, vicino alla gola del fiume Azat come la “Sinfonia di pietre”, inconsuete, impressionanti formazioni rocciose a forma di canne d’organo.
Yerevan, la capitale, città rosa perché costruita con il tufo locale dalle mille sfumature, è oggi un cantiere a cielo aperto. Ma anche luogo d’incontri, di movida, di vita notturna nei caffè alla moda e nei ristoranti gourmet che circondano Piazza della Repubblica. Lo stile architettonico è retaggio sovietico, la pavimentazione della grande piazza ripropone gli intrecci dei tappeti tradizionali armeni. Mentre le fontane danzanti si muovono a ritmo di musica. Nel museo di Storia dell’Armenia è conservato un calzare in cuoio risalente a 5000 anni fa ma resterete a bocca aperta davanti agli straordinari manoscritti antichi – più di 20 mila – conservati nel Matenadaran, la Biblioteca, la più grande collezione di manoscritti in lingua armena al mondo. Opere iscritte nel Registro Internazionale della Memoria del Mondo dell’Unesco. Vangeli risalenti al V secolo, miniature preziose, codici antichissimi salvati a rischio della vita dalle incursioni ottomane. Testi in armeno, in greco, in ebraico, in persiano. Trattati di teologia, alchimia, astrologia, musica, geografia, medicina.
E poi salite alla Cascade, la monumentale scalinata in pietra bianca da cui s’ammira l’intera città. Nei giardini sottostanti sono esposte opere d’arte contemporanea. Il più grande spazio verde della capitale è però il Parco della Vittoria su cui troneggia Madre Armenia, un’enorme statua alta 22 metri con la spada in mano che guarda corrucciata verso il confine turco. Ospita un museo militare e la tomba del milite ignoto. E non perdetevi il Gum Market, il variopinto mercato coperto di frutta secca e spezie.
E qual suono vellutato e melanconico può esprimere meglio del piccolo duduk la nostalgia del popolo armeno? Il duduk, strumento a fiato simile all’oboe, costruito in legno di albicocco, è patrimonio Unesco. Karen Hakobyan, classe 1961, nato da una famiglia di musicisti, li costruisce e li suona. Il suo duduk è stato scelto per la colonna sonora di film famosi, Il Gladiatore e le Cronache di Narnia.
Karen narra anche la storia di un pianoforte abbandonato in strada, dall’inusuale colore rosso. Secondo una lettera ritrovata sembra appartenesse ai Romanoff, zar di Russia. E che fosse stato donato ai reali del Belgio prima di andar perduto. Così gli stessi sovrani, stupiti da questa vicenda, si sono recati in Armenia per rendere onore al pianoforte rosso e per sentirlo suonare assieme al duduk.
Tra Armenia e Italia l’amicizia è profonda. Antonio Montalto, siciliano, già console, da trent’anni vive a Gyumri, l’Alexandropoli amata dalla zarina, moglie di Nicola I. Ha creato ospedali e maternità in Armenia e nel Nagorno Karabakh (quest’ultima bombardata dagli azeri nella guerra del 2020). Ha organizzato scuole di formazione in vari settori, artigianato e turismo culturale, scambi tra ospedali armeni e italiani e con le università. Oggi, in particolare, ha fondato una scuola di ceramica. “L’artigianato armeno è tra i migliori al mondo”, sostiene. Ultima sua iniziativa, oltre al recupero di case e palazzi per salvaguardare la bellezza dell’architettura tradizionale, è “Un turista, un libro”. Ovvero una piccola biblioteca di libri italiani. “Credo nella felicità e nel Paradiso in terra”, conclude.
Artigianato ed enogastronomia. Da secoli in Armenia si produce il pane lavash, sottile come un lenzuolo, cotto senza lievito in focolari interrati e dell’ottimo vino locale. In una grotta archeologica Areni-1 si visita una cantina vinicola datata a 6100 anni fa. La prima dell’umanità.
“Mantenere la memoria”, sostiene Antonia Arslan, scrittrice, “è ciò che gli armeni chiedono”. E dunque un viaggio in questa terra straordinaria non può non concludersi sulla “collina delle rondini” al Memoriale del Genocidio armeno perpetrato dai Giovani Turchi nel 1915. Un periodo terribile, quello della prima pulizia etnica del Ventesimo secolo – non l’unico della storia armena che ha conosciuto dominazioni ottomane e sovietiche e recentemente la guerra con gli azeri – ma certamente il più drammatico. Per ricordare un milione e mezzo di persone mandate a morire nel deserto è stato costruito un Memoriale in pietra grigia. Dodici piastre inclinate su una fiamma perenne che il 24 aprile, Giornata del ricordo e festa nazionale, viene ricoperta da una montagna di fiori. Fino a scomparire alla vista. Accanto una grande stele alta 44 metri. Simbolo della rinascita e della forza del popolo armeno.
Per maggiori informazioni:
@Tourism Committee of Armenia