Armenia, un progetto Ue finanzia azioni contro i cambiamenti climatici: sono stata a vedere come va (Ilfattoquotidiano 08.12.22)
di Alessandra Merlo
L’Armenia è salita agli onori della cronaca la scorsa settimana in quanto sede del summit della Collective Security Treaty Organization (Csto). Per pura coincidenza sono partita dall’Armenia proprio nel momento in cui i rappresentanti dei Paesi membri, tra cui il presidente russo Putin, vi erano appena atterrati.
Ero lì per monitorare un progetto europeo che finanzia azioni di contrasto ai cambiamenti climatici e supporta l’impegno dell’Armenia a raddoppiare la superficie forestale entro il 2050 come “contributo determinato a livello nazionale” agli impegni sottoscritti alla Cop21 di Parigi nel 2015. Ho avuto modo di visitare diverse comunità in tre regioni nel Nord del Paese che hanno ottenuto sussidi per ospitare vivai negli appezzamenti di terreno degli abitanti (le cosiddette “backyard nurseries”, i vivai dietro casa).
Le famiglie ricevono un sussidio dal progetto europeo per acquistare i semi e gli attrezzi. Piantano, accudiscono le piantine e dopo un anno o più, a seconda della varietà seminata, l’organizzazione capofila del progetto, che ha come missione piantare alberi, acquista le piantine e le trapianta nel loro sito definitivo (foreste o aree verdi urbane). Ciò consente alle famiglie non solo di contribuire al processo di riforestazione del loro Paese, ma di ottenere un’entrata che, in alcuni casi, costituisce l’unica fonte di reddito.
Ho avuto modo di intervistare i componenti di cinque comunità: sono stata accolta nelle sedi modeste ma decorose dei piccoli comuni rurali, intorno a tavoli improvvisati oppure nella sala consiliare, se esistente. Tra queste comunità ho visitato quella di Aghavnavank, un comune incastonato tra le montagne, a cui si giunge dopo vari chilometri di strade tortuose, dove si scorgono monasteri millenari in lontananza e si incontrano greggi di pecore che attraversano la strada. Mi siedo, aspetto qualche minuto che arrivino tutti: una quindicina di persone, soprattutto donne, e inizia il giro di tavolo. Scopro che questa comunità è formata quasi esclusivamente da rifugiati dall’Azerbaijan, giunti in quel luogo isolato all’inizio degli anni ‘90. Ciascuno racconta la propria esperienza con le “backyard nurseries”.
Tutti soddisfatti della partecipazione al progetto, soprattutto perché la coltivazione dei vivai è una sicura fonte di reddito. C’è anche chi si spinge a esprimere la propria visione “spirituale”: “lavorare con gli alberi è come lavorare con i bambini” oppure “noi e gli alberi facciamo parte della natura e facendoli crescere ritroviamo la nostra vera identità”. Mi colpisce una signora, che sembra desiderosa di parlare, ma indugia; la incoraggio: “io abitavo nel centro di Baku; sono dovuta scappare con i miei tre figli e ora sono qui e per vivere devo piantare alberi. Nel mondo non si conosce la nostra situazione; tutti parlano di Ucraina, ma anche in Armenia c’è una guerra in corso”.
Torno dall’Armenia e sulla stampa italiana e internazionale si parla di Armenia – fatto abbastanza inconsueto, considerando che l’invasione dei confini armeni da parte dell’Azerbaijan nel settembre scorso, che ha causato diversi morti, è passata quasi inosservata. Sarà che ci faccio caso perché ci sono appena stata oppure ora è opportuno parlare di Armenia perché il suo governo ha dato un segnale di disaccordo con la Russia durante il summit di Yerevan il 23 novembre?