ARMENIA, UN ANNO DALL’OCCUPAZIONE DEL NAGORNO-KARABAKH (L’Opinione delle libertà 27.09.24)

Dopo oltre tre decenni di conflitti, e passato un anno da quel 19 settembre 2023, quando l’Azerbaigian rovesciò militarmente l’autoproclamata autorità della ex regione autonoma del Nagorno-Karabakh, o Repubblica dell’Artsakh, il popolo armeno vive ancora sotto la minaccia dello scomodo, ma sempre più solido militarmente, vicino. Allora l’esercito di Baku in circa venti ore ha praticamente assunto il controllo del territorio popolato principalmente da armeni. Pochi giorni dopo furono avviati, mestamente per i rappresentanti armeni del Nagorno, i colloqui con gli azeri, che strumentalmente definiscono “separatisti” gli abitanti dell’area contesa; ma su questa descrizione non si può essere né sintetici, né superficiali, né generalisti. In quella operazione militare rimasero vittime oltre duecento armeni. Il territorio del Nagorno-Karabakh era già stato amputato dei suoi confini storici a seguito della prima vittoria azera, nell’autunno del 2020.

Poi l’Azerbaigian a dicembre 2022, con volontà unilaterale, chiuse il corridoio di Lachin, e così fu interrotto il legame terrestre tra gli artisakhioti, o karabakhi, che in pratica furono rinchiusi all’interno dei residui confini del Nagorno-Karabakh, e l’Armenia. Una operazione che apre tutt’oggi profonde riflessioni sui bilanciamenti geopolitici dell’area caucasica, in quanto la recisione del cordone tra l’Armenia e il Nagorno-Karabakh avvenne con il nulla osta, e la complicità della Russia di Vladimir Putin, che comunque è uno dei garanti dell’Armenia, e coordinatore degli accordi siglati tra i belligeranti. Ma gli effetti dell’isolamento portarono risultati quasi immediati; infatti fu spezzata la resistenza degli artisakhioti, anche perché i circa centoventimila abitanti piombarono in una carestia assoluta essendo interrotte le comunicazioni con l’Armenia, infatti già nell’estate del 2023 si iniziarono a contare i primi decessi per penuria dei generi necessari.

Un trauma che si aggiunge a un trauma: la perdita di un territorio con le sue tradizioni cristiane e la sua cultura, con la perdita del minimo per la sopravvivenza. Dalla “fame” scaturì terrore. Questo spiega la motivazione perché nessuno accettò di rimanere in patria dopo il 19 settembre 2023, quando la tirannia di Baku accompagnata dall’esercito azerbaigiano, invasero l’autoproclamata repubblica del Nagorno-Karabakh, ormai totalmente inerme e fragilissima. Le modalità offensive dell’autocrate presidente azero Ilham Aliyev richiamano ataviche tattiche militari. In realtà, fu posto un assedio in una regione che fu privata di tutto, una distruzione di massa raggiunta tramite il terrore assoluto. La complessità dell’operazione di Baku sfuma nella memoria e richiama l’epoca genocida. Probabilmente proprio la memoria indelebile del genocidio del popolo armeno del 1915, con i preamboli del 1894-96, ha martoriato la resistenza dei pochi abitanti del Nagorno-Karabakh; una palese pulizia etnica dell’autoproclamata repubblica e l’ennesimo spregio del diritto internazionale e dei diritti dell’umanità. Un anno fa la perseguitata popolazione artisakhiota, a rischio concreto di sopravvivenza, si rifugiò in Armenia. Così il Nagorno-Karabakh armeno, per ora, si è estinto demograficamente, umanamente e culturalmente. Resta una regione geografica controllata da Baku e inserita in un profondo programma di ripopolamento con popolazione azera-musulmana.

Gli azeri occupanti come da prassi, hanno annichilito velocemente ogni traccia di civiltà cristiana: chiese, cimiteri, monumenti storici, ma anche la toponomastica di ogni entità geografica, vie, piazze, quartieri, come le simbologie rappresentanti la politica. La narrazione della “cultura” dell’Azerbaigian afferma che gli armeni non sarebbero mai esistiti nel Nagorno-Karabakh. Molti capi artisakhioti sono scomparsi nelle profonde prigioni azere, tra questi anche Ruben Vardanjan, ex ministro, pare consegnato dai russi ai carcerieri azeri. Ricordo che l’enclave del Nagorno-Karabakh ottenne l’indipendenza nel 1991. Nel periodo 1992-94 l’esercito armeno sconfisse quello azero dimostrando una netta superiorità militare. Nella penultima guerra nel Nagorno, quella del novembre 2020, le forze armene furono sconfitte non dall’esercito azero ma da quello mercenario turco, composto soprattutto da jihadisti dell’ex Stato islamico, e dai droni di AnkaraLi vacillò quel sistema disequilibrato, che comunque ancora dava prospettive e speranze agli armeni della regione del Nagorno-Karabakh.

Inoltre il Ministero degli Esteri armeno il 21 giugno 2024 ha annunciato il riconoscimento dello Stato di Palestina, sottolineando la condivisione assoluta dei principi del diritto internazionale, quindi la sovranità (sensibilità diretta), l’uguaglianza e la convivenza pacifica dei popoli. Tuttavia ciò ha sollevato critiche reazioni da parte di Israele. Ma i rapporti tra lo Stato ebraico e l’Armenia si erano già deteriorati nel 2020, quando Yerevan ha accusato Gerusalemme-Tel Aviv di avere venduto all’Azerbaigian grandi quantità di armi che hanno permesso l’offensiva lampo nel settembre 2023 contro il Nagorno-Karabakh. Va anche rammentato che Israele fornisce all’Azerbaigian strategici sistemi di controllo informatico, anche invasivo, e apparecchiature elettroniche di intercettazione aerea; inoltre l’Intelligence israeliana può fare conto su queste relazioni per controllare il confinante Iran. Va sottolineato che nel contesto storico attuale dove operazioni militari tendono a modificare i confini geografici di alcuni Stati, occorre collocare la “questione armena” sullo scacchiere geopolitico valutando le criticità caucasiche; in quanto svincolare questa area di crisi da quella ucraina e georgiana, come da quella iraniana, potrebbe condurre a una visione limitata di un sistema geostrategico articolato ma legato ai medesimi ancoraggi. Ad oggi possiamo definire la questione del Nagorno-Karabakh come la classica dissoluzione metafisica; ma potremmo anche riflettere su due popoli, quello armeno e quello ebreo, che anche se accomunati dal medesimo dramma del genocidio, pare non siano in posizioni “politiche” complanari.

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